Il Giusto

 

15

 

Gli uomini delle tribù del Nord si fermano pochi giorni nella capitale, poi ritornano alle loro terre, dopo aver stabilito un patto di alleanza con il regno. I guerrieri che si erano rifugiati oltre i confini per sfuggire a Lazan scelgono in maggioranza di rimanere a Sjevredrava: solo qualcuno, come Iskhrab, preferisce continuare a vivere nelle terre selvagge del Nord.

Niedzj parla a lungo con Kraris, il re della tribù delle Linci. Ritiene necessario che Ljerisa si stabilisca nella capitale con i due figli, poiché Drugivolk è il nuovo re, ma non intende forzarla. Kraris è d’accordo con Niedzj. Essendo morto Wilk, nella tribù dei Lupi i due gemelli non possono godere di una posizione particolare, perché il titolo di re non è ereditario. A Sjevredava uno sarà re e l’altro principe.

Niedzj parla con gli uomini della tribù degli Orsi, che l’hanno accompagnato alla conquista della capitale. Non può ritornare presso la tribù, perché i due gemelli hanno bisogno di qualcuno che vegli su di loro e li guidi. La madre non conosce il regno e non è in grado di svolgere questo compito. Intende perciò rinunciare al titolo regale: i guerrieri sceglieranno un altro re.

A parlare a nome di tutti è uno dei guerrieri più anziani:

- Ciò che tu chiedi non è possibile. Il re smette di essere tale solo alla sua morte. Questo è il motivo per cui il re deve essere ucciso quando non è più in grado di regnare. Tu rimarrai il nostro re, ma nominerai un uomo che ci guiderà in tuo nome. Quando poi raggiungerai l’età in cui il re dev’essere sostituito…

Niedzj lo interrompe:

- Non la raggiungerò. Vi dissi una notte che la vita di Wilk e la mia sarebbero state brevi.

Il guerriero china la testa. Niedzy è molto amato dagli uomini dell’Orso e il pensiero che non tornerà da loro e morirà presto turba questi guerrieri.

 

Ljerisa arriva dopo un mese. Sa che può contare sul cognato e Niedzj non la delude. Il Reggente desidera solo la morte, ma deve proteggere i figli di Wilk, che sono anche i suoi. Riesce a essere per loro un padre presente e amoroso, il padre che lui e Wilk non hanno mai avuto.

I gemelli crescono in fretta, come Wilk e Niedzj, e come loro si rivelano forti e intelligenti, curiosi del mondo e capaci di imparare.

Niedzj li osserva con attenzione. Per molti aspetti gli sembra di rivedere se stesso e Wilk quando erano bambini. Una sola differenza è evidente ai suoi occhi: per quanto molto affezionati l’uno all’altro, il loro legame non è così stretto com’era quello tra i loro padri. Drugivolk è più affezionato alla madre, Drunjed a colui che considera uno zio, ma è il suo vero padre. I due passano molto tempo insieme, ma non hanno problemi a rimanere separati.

Gli anni passano. Il regno prospera e i cittadini sono felici che il tempo dell’oppressione sia finito. Il Reggente, che molti chiamano l’Orso, è rispettato e amato da tutti.

 

I gemelli a sette anni incominciano a prendere lezioni nell’uso delle armi. Niedzj stesso insegna loro come maneggiare la spada e l’ascia, facendogli usare modelli meno pesanti. L’affetto profondo che lo lega ai gemelli è la sua unica ragione di vivere, ma la sua sofferenza non si placa. Capisce perché Vukmedje gli ha detto che la sua parte di sofferenza sarebbe stata molto maggiore di quella di Wilk.

Niedzj trascorre molto tempo con i gemelli ed è un punto di riferimento costante per loro come per tutti i cittadini. Il Reggente è disponibile ad ascoltare chi lo chiede. Due giorni alla settimana tiene udienza e chiunque può presentarsi a lui e portare le sue lagnanze. Nessuna protesta, nessuna richiesta sensata viene ignorata. I gemelli assistono a tutte le udienze e quando si sono concluse, Niedzj si confronta con loro.

 

Niedzj esce spesso la notte. Si mette una benda che gli copre un occhio, come se l’avesse perso, e porta un cappuccio che gli nasconde la fronte, perché nella capitale la gente conosce la sua faccia.

Inizialmente, a spingerlo è il desiderio di rivedere i luoghi in cui ha condiviso gli anni felici della sua vita con Wilk. Nelle taverne, ascoltando le chiacchiere della gente, si rende conto che può venire a conoscenza di problemi, ingiustizie, casi di corruzione, che come Reggente può affrontare. Ora che ognuno può esprimersi, senza il timore di finire in prigione o sulla forca, la gente parla liberamente e molte magagne emergono.

Niedzj raccoglie informazioni e il giorno dopo manda qualcuno a indagare, per poter intervenire. La gente è stupita di scoprire quanto il reggente sia bene informato e attento al benessere del popolo. Chiuso nella sua sofferenza, Niedzj tarda a rendersi conto di quanto sia popolare.

Una sera sente un uomo lamentarsi di un sopruso che ha subito da parte di un funzionario. Un altro gli dice:

- Bisogna farlo sapere al Giusto.

Niedzj si chiede chi sia questo Giusto.

L’uomo che ha parlato prosegue:

- Va’ da lui alla prima udienza.

- Ma le guardie non mi faranno nemmeno entrare.

- Il Giusto ha dato ordine di lasciar passare tutti. E ascolta tutti.

Niedzj si rende conto che stanno parlando di lui.

È la prima volta che si sente chiamare così, ma scopre presto che il soprannome è diffuso in tutto il regno: per tutti non è solo il Reggente o l’Orso, ma anche il Giusto. Niedzj pensa che se dovesse attribuirsi un soprannome, sceglierebbe il Sofferente. La morte di Wilk è una ferita che non si rimargina e ogni giorno riprende a sanguinare, non appena Niedzj si alza.

L’educazione dei gemelli e il governo del regno occupano la sua mente e le sue giornate, tenendo a freno il dolore.

 

In estate Niedzj, Ljerisa e i gemelli trascorrono sempre un periodo tra Nocigranica e le tribù del Nord: soggiornano presso la tribù dei Lupi, di cui Wilk era re, presso quella degli Orsi, che considera sempre Niedzj il suo sovrano, e presso quella delle Linci, dove i gemelli stanno con i due zii materni.

A Nocigranica Niedzj e i gemelli assistono ai tornei.

Al momento della premiazione, il vincitore della gara con l’ascia si inchina davanti a Niedzj e gli dice:

- So che nessun uomo nei Sette Regni maneggia l’ascia come Niedzj il Giusto. È un onore ricevere il premio da te…

L’uomo sorride e aggiunge:

- … e per me è una fortuna che tu non gareggi.

Niedzj sorride.

Con grande stupore di molti uomini di corte, Niedzj assiste anche alle gare di lotta e a quelle con il bastone. Gli uomini del popolo sono contenti. Sentono il Reggente molto vicino a loro e alcuni vorrebbero che fosse lui il re.

All’inizio dell’autunno la famiglia reale ritorna nella capitale.

I gemelli sono ormai giovani uomini, anche se hanno solo da dodici anni.

Una sera Niedzj passa nella camera di Drugivolk per comunicargli che l’indomani dovrà incontrare un messaggero del re di Usredkral, giunto a tarda sera, ma il giovane re non c’è. Anche Drunjed non è nella sua camera.

Niedzj indaga e scopre che i gemelli hanno lasciato il palazzo. Non è la prima volta. Di solito stanno via qualche ora e poi rientrano dalla stessa porta da cui sono usciti.

Le sere seguenti Niedzj si apposta fuori dal palazzo, vicino alla porta che usano i gemelli, e quando li vede uscire li segue. Vuole capire dove vanno, perché teme che possano correre rischi. Scopre che i gemelli escono la sera e girano per le taverne, come facevano lui e Wilk. Il ricordo è doloroso, come tutto ciò che ridesta la memoria di Wilk, ma è una sofferenza che nutre la sua anima e gli impedisce di inaridirsi.

Niedzj non dice nulla. I gemelli sono bravi guerrieri e sanno difendersi. A ogni buon conto ogni tanto li segue o fa un giro tra le varie taverne che i due frequentano e si ferma più a lungo in quella dove li trova. Una volta interviene per fermare un ubriaco che minacciava di attaccarli, ma non si fa riconoscere.

 

I gemelli stanno esplorando il mondo. A differenza dei loro padri, non hanno segreti da scoprire: conoscono la storia della loro famiglia, a eccezione di alcuni dettagli che nessuno sa, a parte Niedzj e Vukmedje; sanno che per qualunque dubbio possono chiedere allo zio, ottenendo una risposta franca. Ma sono curiosi, come lo erano Niedzj e Wilk, e vogliono conoscere meglio la gente.

Niedzj non li vede mai frequentare uno dei bordelli della città, né quelli femminili, più numerosi, né quello maschile, la Casa del lillà. Non sembrano neppure interessarsi alle prostitute.

Da tempo Niedzj non prova desiderio: la morte di Wilk sembra averlo spento completamente, per quanto possa sembrare strano in un uomo forte come l’Orso. Se ne stupisce anche lui, ma gli va bene: nella sua vita non c’è posto per altri uomini. Uno solo ha contato per lui.

 

Quando i gemelli compiono quattordici anni, Niedzj si rende conto che ormai Drugivolk, pienamente adulto, può regnare senza bisogno di assistenza da parte sua. Ed è bene che sia così, perché la sua vita si avvia alla fine.

Niedzj sta per compiere trent’anni, ma sembra un uomo di cinquanta. Non ha perso nulla del suo vigore, ma ci sono diversi fili grigi nei suoi capelli e alcune rughe sul suo viso. La gente dice che a invecchiarlo sono state le preoccupazioni per il popolo, di cui si è sempre preso cura, ma Niedzj sa bene che i motivi sono altri.

Pensa che finalmente potrà morire e il dolore che lo ha accompagnato per metà della sua vita si spegnerà. Altro non chiede. Avrebbe voluto rivedere ancora Vukmedje, suo padre, ma anche lui lo ha abbandonato

Gli spiace lasciare i gemelli, ma ormai il suo tempo è finito, poiché morirà prima di compiere i trent’anni.

Niedzj annuncia la sua intenzione:

- Mi recherò a Nocigranica per i tornei e di lì andrò nelle terre del Nord. Conto di fermarmi presso la tribù degli Orsi.

Non dice che lo attende la morte. Aggiunge:

- Qui non ho più nulla da fare. Ormai tu, Drugivolk, sei in grado di svolgere i tuoi compiti di re da solo e anche tu, Drunjed, non hai bisogno di una guida.

- Non intendi tornare, mai più?

- No. Mi stabilirò presso la tribù. Sono anch’io un re, Drugivolk, anche se solo di una tribù con un piccolo territorio.

Drunjed non ha detto niente. Le parole dello zio lo hanno turbato, profondamente, e per un momento non è riuscito a parlare.

- Verrò con te, zio.

Niedzj non vuole che il figlio lo accompagni, perché sa di andare a morire.

- No, Drunjed. La tua vita è qui.

- Verrò con te. Qui c’è Drugivolk e non hanno bisogno di me.

Drunjed è inamovibile e Niedzj non vuole forzarlo a fare ciò che non desidera.

 

Niedzj e Drunjed raggiungono Nocigranica, dove come ogni anno si tengono i tornei. Drugivolk non è venuto: vuole fare un giro nelle altre città del Regno, dove si è recato più di rado.

Drunjed e Niedzj si separano: mentre l’Orso rimane in città, il giovane principe raggiunge la tribù delle Linci, su cui regna il nonno. Tornerà alla fine dei tornei, per accompagnare Niedzj nel suo ultimo viaggio.

 

Niedzj assiste ai tornei: gli fa piacere e sa che la sua presenza è sempre molto gradita al popolo. In assenza del re, tocca a lui premiare i vincitori, come ha sempre fatto quando era Reggente.

Il torneo di lotta è stato vinto da Vebor, detto il Nero, un uomo della scuola di Glasno, che Niedzj ha avuto modo di conoscere. Questi si inchina e dice:

- Niedzj il Giusto, grazie per l’onore che hai fatto a tutti noi lottatori assistendo anche quest’anno al torneo. So che sei fortissimo e che hai battuto persino il maestro: sei l’unico che sia mai riuscito in una simile impresa. Se tu non fossi il principe, ti chiederei di misurarti con me, ma non sono così impudente. Ti prego di perdonare le mie parole e di accettare il mio ringraziamento.

Niedzj sorride:

- Ti ringrazio per l’elogio. Non mi sopravvalutare. Sei fortissimo e se ci affrontassimo, non credo che riuscirei a vincerti.

L’uomo scuote la testa. Dopo aver ricevuto il premio, dice a Niedzj:

- Il maestro sarebbe felice di rivederti. Vuoi venire questa sera alla scuola?

A Niedzj fa piacere incontrare il maestro e alcuni degli altri lottatori, che ha avuto modo di conoscere ai tornei. Negli anni in cui è venuto come Reggente, non si è mai recato alla scuola, anche se ai tornei ha avuto modo di incrociare sia Glasno, sia alcuni degli altri lottatori, e di scambiare alcune parole con loro. Adesso che non ha più nessuna carica ufficiale nel regno, può muoversi con maggiore libertà e con l’avvicinarsi della morte, gli pesa meno rivedere i luoghi dove è stato felice con Wilk.

- Vengo molto volentieri.

In serata Niedzj si dirige alla scuola. Con Glasno ci sono dieci lottatori, che lo accolgono con grande calore.

Parlando con loro, Niedzj scopre che Glasno e gli altri vivono tutti insieme. La scuola è ancora aperta, per alcune ore ogni giorno, agli allievi che provengono da Nocigranica e da altre città e in qualche caso anche dalle terre oltre il confine settentrionale o da altri regni, ma nel resto della giornata solo i lottatori che vivono con Glasno si esercitano nella palestra.

Dopo che hanno parlato un buon momento, Glasno gli dice:

- Vebor vorrebbe misurarsi con te. Gli ho detto che ha pochissime speranze, per non dire nessuna, ma so che gli piacerebbe. Sei disposto ad affrontarlo?

- Va bene.

Niedzj e Vebor si spogliano, tenendo solo la fascia che copre i fianchi, poi si affrontano. Vebor è un lottatore molto forte, come Niedzj ha avuto modo di vedere al torneo. L’Orso però ha visto le sue tattiche e i suoi punti deboli, mentre lo sfidante non ha mai visto combattere il suo avversario. La disparità di forze appare presto, ma la lotta dura a lungo. Niedzj, rendendosi conto di essere superiore, non vuole umiliare Vebor.

Il lungo scontro ha su Niedzj un effetto inatteso: la lotta accende il suo desiderio, che credeva definitivamente spento. Per la prima volta, dopo molti anni, sente il sangue affluire al cazzo, che si irrigidisce. È turbato, molto.

Blocca infine Vebor a terra, schiacciandolo al suolo e impedendogli di sollevarsi.

Vebor riconosce la propria sconfitta.  

- Niedzj, ciò che dicevano di te corrisponde a verità. Non ne dubitavo. Mai ho incontrato un avversario così forte. Onore a te, che sei il vero campione.

Mentre si alza, liberando Vebor, Niedzj gli risponde:

- Sei un grande lottatore anche tu.

Vebor scuote la testa. Si scioglie la fascia e si inginocchia davanti a lui.

- Com’è d’uso tra noi, il mio culo ti appartiene. Il tuo seme mi darà forza.

Niedzj è disorientato. Non si aspettava che Vebor si offrisse, per di più davanti a tutti gli altri. Non vuole avere rapporti, vuole conservare la sua assoluta fedeltà a Wilk, ma le mani di Vebor sciolgono la fascia, liberando il grosso cazzo, teso verso l’alto.

- Quello che dicono di te è vero.

Niedzj non chiede che cosa dicono, non vuole sapere. Vebor si mette a quattro zampe. Niedzj sparge un po’ di saliva sulla cappella e poi sull’apertura e spinge a fondo il suo cazzo in culo a Vebor. Questi impallidisce e si morde il labbro, ma non dice nulla.

Niedzj fotte a lungo, finché viene. Nella sua testa c’è un grande vuoto. Il suo seme riempie le viscere di Vebor e quando l’Orso si ritira, un po’ cola fuori. Niedzj è intontito.

Un altro guerriero si fa avanti.

- Niedzj, detto il Giusto, ti chiedo anch’io di affrontarmi.

Niedzj annuisce. L’incontro dura di meno: per quanto il nuovo avversario sia forte, l’Orso lo batte con minore fatica. E quando il guerriero è bloccato a terra, anche lui si offre.

Uno dopo l’altro tutti i lottatori sfidano Niedzj, che non appare mai stanco. Vince ogni incontro e poi possiede l’avversario che ha battuto. Il suo seme non sembra esaurirsi mai, tanto che ne cola sempre dall’apertura dilatata di tutti i maschi che possiede.

Infine rimane solo Glasno. Anche lui sfida Niedzj. Dopo dieci incontri riuscire a vincere il maestro appare un’impresa impossibile, ma l’Orso la compie e poi possiede anche Glasno.

Niedzj ha l’impressione di vivere in un sogno. Tutto gli sembra irreale: ha vinto undici incontri, ha posseduto undici maschi vigorosi.

La notte è ormai alla fine e l’alba non è più lontana. Niedzj sente la stanchezza che non ha avvertito nella lotta. Si stende su uno dei tappeti. Vebor si mette accanto a lui e gli appoggia la testa sul petto. Uno dopo l’altro, tutti i lottatori si coricano vicino, cercando di mantenere un contatto con il suo corpo.

Il sonno cala su tutti loro.

Dormono a lungo, fino a mezzogiorno, quando Glasno si desta. Attraverso la porta che dà sul cortile interno il sole illumina la stanza in cui hanno dormito.

Badando a non destare gli altri, Glasno si alza. Guarda i corpi dei dieci lottatori della scuola, stesi sulle stuoie intorno a Niedzj, l’Orso. Dormono ancora tutti. I loro petti si sollevano e si abbassano al ritmo del loro respiro.

Guarda il corpo possente di Niedzy, coperto da una peluria scura, al centro della sala. Vincendoli tutti e possedendoli, Orso ha trasmesso loro un po’ della sua forza e li ha messi in grado di affrontare la missione che dovranno compiere, quella in cui troveranno la morte.

Lo sguardo di Glasno scorre sui corpi dei suoi compagni. Un sorriso appare sul suo volto: li conosce bene, come solo si conosce un corpo che si è posseduto e a cui ci si è offerti. Di ognuno di loro saprebbe dire cosa desidera e cosa teme, come lotta e come fotte.

Uno dopo l’altro i lottatori si destano. Niedzj si rende conto di aver dormito stretto tra i corpi che ha posseduto. È frastornato. Si chiede se non ha sognato, ma sa che non è così.

Si alzano.

Glasno gli sorride e gli dice:

- Sapevo che questo sarebbe successo. Noi abbiamo una missione da compiere e il tuo seme ci ha dato la forza necessaria.

- Non ne sapevo nulla.

- L’Orso-Lupo ci ha annunciato che saresti giunto e avresti accettato la sfida, versando poi il tuo seme dentro di noi. Così è stato.

Niedzj pensa a Vukmedje, che non ha mai rivisto. Anche lui l’ha abbandonato.

Glasno prosegue:

- Ora siamo tutti tuoi fratelli.

Il pensiero di Niedzj va a Wilk, suo fratello di sangue e d’elezione.

- Un’ultima cosa ti chiedo, Niedezj il Giusto.

- Dimmi.

- L’Orso-Lupo ci ha consegnato la spada di Kralj. Essa servirà all’ultimo portatore di due stelle. Ma quella spada sarebbe dovuta passare a te dopo la morte di Wilk e poi alla tua morte a Drunjed. L’Orso-Lupo ci ha detto di chiedere a te se possiamo tenerla per consegnarla a colui a cui è destinata.

Nuovamente Niedzj è amareggiato. Perché Vukmedje non gli ha parlato direttamente? Che senso ha che si sia rivolto a Glasno? Gli sembra di essere un appestato da evitare. Risponde:

- Va bene, Glasno. Se la spada deve servire all’ultimo portatore di stelle e per questo è bene che la teniate voi, di certo non sarò io a oppormi.

Niedzj non sa se l’ultimo portatore delle due stelle è Djed o un altro. Spera che sia meno infelice di lui.

- Grazie, fratello. So che non ci rivedremo, per cui ti dico addio.

Nuovamente Niedzj si sente a disagio a essere chiamato fratello da Glasno. È affezionato a lui, profondamente. Ma solo un altro uomo si è rivolto a lui con questo termine e quell’uomo è morto da quindici anni.

- Addio.

Esce dalla scuola turbato, confuso. Non si aspettava ciò che è successo. Non lo desiderava, ma è avvenuto. Si sente preda di forze che lo usano per i loro fini. Ma presto troverà la morte e la pace.

 

Il giorno seguente Drunjed torna a Nocigranica, come hanno concordato. Lui e Niedzj si dirigono verso le terre della tribù dell’Orso.

Durante il viaggio, Niedzj parla con il figlio: sa che deve prepararlo alla sua morte.

- Drunjed, tu hai voluto accompagnarmi. Avrei preferito che non lo facessi.

Drunjed china il capo.

- Lo so, ma… dovevo venire.

- Perché dovevi?

- Me lo disse l’indovino.

Niedzj aggrotta la fronte.

- Quale indovino?

- Un indovino che trovammo in una taverna e che lesse il nostro futuro.

- Che cosa vi disse?

- Lui sapeva che eravamo i principi. Non so come lo sapesse. Disse a Drugivolk che sarebbe diventato re e a me che avrei dovuto accompagnarti quando tu avessi deciso di tornare alla tribù dei Lupi per…

Drunjed si interrompe. Guarda il padre, con le lacrime negli occhi.

- Per…?

- Per morire. È vero che vai a morire?

- Sì, la mia vita è giunta al termine. Non ho scelto io la sua durata, ma se avessi potuto scegliere… no, non ha importanza…

Drunjed sta piangendo. Niedzj lo abbraccia e lo tiene stretto.

Quando il pianto del giovane si è calmato, Niedzj chiede:

- Com’era l’indovino?

- Un uomo molto alto, barba e capelli rossicci, occhi scuri.

- Vi disse il suo nome?

- No, disse, che… non so esattamente che cosa. Sembrava che ti considerasse come un figlio.

Niedzj chiude gli occhi. È sicuro che si tratti di Vukmedje. È stato da Glasno, dai gemelli, ma non da lui. Come altri della sua stirpe prima di lui, si sente abbandonato.

Drunjed esita un momento, poi dice:

- L’indovino disse anche un’altra cosa.

- Dimmi.

- Che tu… sei il mio vero padre.

Niedzj annuisce.

- Sì, figlio. Il mio seme e quello di mio fratello si sono mescolati, ma so che in te prevale il mio e in tuo fratello quello di Wilk.

- Posso chiamarti padre?

Niedzj sorride.

- Certo, figlio.

Drunjed lo abbraccia.

 

La tribù è lieta di rivedere il re, molto amato e stimato.

Niedzj parla sinceramente:

- Sono venuto perché i miei giorni giungono al termine. Ve l’avevamo detto, quando ci risvegliammo dalla nostra seconda morte. Sono venuto qui a raccogliere la sfida di un forte guerriero, che diventerà re, e a ricevere da lui la morte.

Il gran sacerdote annuisce.

- Sapevamo che saresti venuto. L’Orso-Lupo ci ha annunciato il tuo arrivo. E ci ha anche indicato quale guerriero deve sfidarti.

- Dimmi.

- L’Orso-Lupo ci ha detto che il giovane che ti accompagna è forte ed è un guerriero valoroso. Sappiamo che sarà lui a regnare su di noi.

Niedzj ha l’impressione di aver ricevuto un colpo, violento, che gli toglie il respiro. Sa che Drunjed è legato a lui da un affetto profondo e che soffrirebbe moltissimo a ucciderlo. Ma sa anche che entrambi non possono sottrarsi al destino che altri hanno tracciato per loro. Niedzj vorrebbe gridare la sua disperazione. Più che la propria sofferenza, è quella di Drunjed che non riesce a reggere.

 

Drunjed rifiuta di sfidare il padre. Capisce che quello è il motivo per cui l’indovino gli ha detto di accompagnarlo, ma non può accettare l’idea di dargli la morte.

È giunta la notte. Nell’abitazione del re Niedzj e Drunjed sono seduti uno di fronte all’altro. L’Orso racconta ciò che ha taciuto fino a ora: l’amore che lo ha unito a Wilk e il destino che lui e Wilk hanno accettato. Gli sembra che il giovane abbia il diritto di sapere tutta la verità.

Parlano a lungo, ma Niedzj non riesce a convincere Drunjed a sfidarlo. Mentre discutono, la pelle che funge da porta si muove, come se qualcuno stesse entrando, ma non si vede nessuno.

L’aria però sembra divenire più spessa. Una figura prende forma e consistenza. Niedzj la riconosce prima che abbia la concretezza di un uomo: è Vukmedje.

- Padre, sei venuto a prendermi?

- No, anche se ormai manca pochissimo. La sofferenza che hai scelto si spegnerà.

Niedzj lo guarda:

- Che ho scelto?

- Nel nostro primo incontro ti dissi che tra te e Wilk, uno avrebbe sofferto molto di più e ti permisi di scegliere chi sarebbe stato. E tu hai scelto.

Niedzj china il capo.

- È vero.

- Non sono venuto per te, anche se ci rivedremo presto. Sono venuto per Drunjed.

Niedzj si tende. Nelle sue parole c’è un grido di dolore:

- Non abbiamo sofferto a sufficienza, Wilk e io? Quale colpa ha la nostra stirpe, perché debba essere condannata a soffrire tanto?

- Molti della vostra stirpe hanno avuto in dono ciò che è negato ai mortali, ma il prezzo da pagare è il dolore. Drunjed però non soffrirà come hai sofferto tu. La prova che l’attende è la più difficile della sua vita, ma dopo che l’avrà superata, potrà vivere serenamente fino a che verrà il suo ultimo giorno.

Drunjed scuote la testa, ma Vukmedje gli si rivolge:  

- Drunjed, il tuo destino è di diventare re di questa tribù. Puoi sottrarti e andartene, ma questo non salverà Niedzj. Se non lo sfiderai tu, lo farà un altro dei guerrieri e lo ucciderà. Dopodomani egli morrà.

Drunjed ha le lacrime agli occhi.

- Non posso ucciderlo. Non posso.

- Niedzj ha fatto molte cose che non avrebbe voluto fare e ha preso su di sé la sofferenza che comportavano. Anche tu farai la tua parte. Io ti sarò vicino. Tuo padre desidera la morte, che spegnerà il dolore che si porta dentro. E in ogni caso i suoi giorni sono giunti al termine. Tra tre giorni compirebbe trent’anni, ma questo non può avvenire.

Drunjed china la testa e non dice nulla.

 

L’indomani si svolgono i riti preparatori. Drunjed sfida il re e si sottopone alle cerimonie di purificazione.

La sera Niedzj si corica nella reggia e Drunjed nella capanna riservata allo sfidante, ma nessuno dei due dorme. Niedzj pensa alla sofferenza del figlio e il dolore che prova è tanto forte, che a un certo punto non riesce più a reggere. Esce dalla reggia. Vorrebbe raggiungere Drunjed, ma sa che non può farlo. Si allontana dal villaggio e gira per il bosco. Alla sofferenza si unisce la rabbia: ha accettato di soffrire, ha portato il suo carico fino in fondo. Perché ora tocca a Drunjed? Vukmedje ha detto che poi la vita di Drunjed sarà serena, ma Niedzj non ha più fiducia.

Solo quando il cielo incomincia a schiarirsi, Niedzj ritorna al villaggio.

 

Poco dopo l’alba ha luogo il duello. Il rito è lo stesso a cui Niedzj ha partecipato quando è diventato re. Al momento di scegliere l’arma con cui si affronteranno, Niedzj opta per la spada. Drunjed è bravissimo nell’usare l’ascia, ma è un’arma con cui nessuno può battere l’Orso.

Il sacerdote porta le due spade. Il re ha scelto l’arma, allo sfidante tocca scegliere quale delle due lame prendere. Drunjed non guarda neppure le due armi. Ne afferra una a caso.

Niedzj guarda l’arma nella mano del figlio. Pensa che quella lama lo ucciderà. Non desidera altro: solo la morte può spegnere il suo dolore e la sua rabbia.

Il duello ha inizio. Drunjed combatte, ma non lo fa con la determinazione necessaria. Niedzj lo sprona, invano. Alcuni dei guerrieri mormorano, perplessi, ma a un certo punto Drunjed prende a combattere con maggiore vigore: i suoi assalti diventano più incisivi, mettendo in seria difficoltà Niedzj.

Drunjed si rende conto di essere dominato da una forza, che guida i suoi gesti. Si abbandona a questa forza. Niedzj vede Vukmedje che sembra sostenere Drunjed. È poco più di un’ombra, che di certo nessun altro può scorgere.

Niedzj combatte con vigore: i guerrieri della tribù non devono pensare che voglia lasciar vincere il figlio. Il combattimento diventa accanito e i guerrieri incoraggiano i due contendenti.

Drunjed para un attacco di Niedzj e a sua volta avanza. Niedzj non si sottrae, anche se potrebbe farlo. Sente la lama penetrargli nel ventre e, mentre il dolore della carne squarciata gli fa stringere i denti, pensa che finalmente le sue sofferenze hanno fine. Non riposerà accanto a Wilk, perché il suo corpo sarà lasciato agli orsi e la sua testa infissa su un palo, ma sarà morto come lui.

Cade in ginocchio. Drunjed gli cala la spada sul collo e trancia la testa di netto.

La testa viene infilata su un palo e il corpo portato in una radura perché gli orsi se ne cibino.

La sera stessa il cadavere è scomparso. Tutti pensano che sia stato divorato dagli orsi, come deve avvenire: è un onore per il morto. Ma anche la testa è scomparsa e nessuno è in grado di dare una spiegazione.

Drunjed assume il comando, ma non mostra gioia. Dentro di lui c’è una tristezza infinita.

 

Vukmedje entra nella grande caverna che si apre nel fianco della montagna. Raggiunge una sala interna. Alla luce della torcia guarda il corpo di Kralj, che giace disteso sulla pietra.

- Ho svolto il mio compito, fratello: ho vegliato sui nostri figli. Ora infine posso trovare la morte che ci riunirà.

Vukmedje passa poi in un’altra sala, dove giace il corpo di Wilk.

- Tuo fratello è morto e questa stessa notte porterò il suo corpo qui. Potrai infine risvegliarti e consolare Niedzj di tutta la sofferenza che ha preso su di sé, per risparmiarti.

Vukmedje lascia la grotta. Vi ritorna alcune ore dopo, per deporre la testa e il corpo di Niedzj accanto a quello di Wilk. Poi esce nuovamente.

 

Tezhrab della tribù del Cinghiale torna al villaggio. È un uomo di statura superiore alla media, con un corpo molto robusto. Sulla fronte ha fin dalla nascita un segno: una striscia verticale gialla. Si sa che suo padre è Vodjanoj il Terribile, Signore del Fiume dei Ghiacci. È considerato il più forte tra tutti i guerrieri delle tribù del Nord e molti vorrebbero che diventasse re, ma un’antica profezia lo impedisce. D’altronde Tezhrab non è interessato al potere e preferisce la libera vita del guerriero a quella del sovrano di una tribù. Spesso lo chiamano il Cinghiale, dal nome della sua tribù.

È quasi l’alba. Tezhrab ha trascorso la notte con uno degli uomini che gli si offrono, uno di quelli che sono in grado di reggere la sua arma formidabile: dal padre Tezhrab ha ereditato anche la virilità.

Sta attraversando il bosco quando un orso gigantesco gli si para innanzi e si getta su di lui. Per quanto Tezhrab sia molto più alto degli altri uomini, l’orso lo sovrasta. Il guerriero colpisce l’animale con la spada, immergendogliela del petto. L’orso barcolla, ma non crolla a terra e una zampata colpisce Tezhrab al petto, lacerando la carne. Il dolore è violento. Tezhrab colpisce altre due volte e infine l’orso cade.

Davanti agli occhi del guerriero, l’orso si trasforma in un lupo, che si scaglia su di lui. Tezhrab si difende con la spada, trafiggendo l’animale, ma il lupo lo morde al petto. La spada si immerge altre due volte nel corpo dell’animale, che infine cade. Tezhrab cerca di riprendere fiato, quando il corpo del lupo diventa un uomo, molto alto, più dello stesso Tezhrab. L’uomo gli salta addosso e gli stringe le mani intorno al collo. Il guerriero gli immerge la spada nel ventre, con tanto forza che la lama esce dalla schiena. La stretta però non si allenta. Tezhrab colpisce una seconda e poi una terza volta, ma l’uomo stringe sempre di più. Tezhrab ha un fuoco nei polmoni, la gola brucia, il dolore al collo è intollerabile. Tezhrab colpisce ancora, altre tre volte. L’uomo allenta un po’ la presa e barcolla. Tezhrab gli trafigge il petto. L’assalitore crolla a terra. Tezhrab lo guarda e poi cade anche lui, esanime.

Lo ritrovano qualche ora dopo e lo portano al villaggio. Sul petto ha a destra la ferita provocata dall’orso e a sinistra quella del lupo. Intorno al collo i segni dello strangolamento.

Riprende coscienza solo nel pomeriggio. Per i cinque anni che gli restano da vivere porterà le cicatrici sul petto e i segni sul collo.

 

Niedzj si sveglia. Si mette a sedere. È buio e non può vedere dove si trova. Sa di essere morto, ma non nota nessun cambiamento nel suo corpo rispetto a quando era ancora vivo. Non ha ferite.

Pensa a quanto gli ha detto il padre un giorno: che la morte avrebbe riunito lui e Wilk. Ha sempre inteso quella frase come un modo per dire che sarebbero stati entrambi morti, ma ora una folle speranza si desta in lui. Si alza di scatto. Si guarda intorno. Gli sembra di scorgere una luce lontana. Si dirige da quella parte. Avvicinandosi alla luce, Niedzj riesce a scorgere ciò che gli sta intorno e si rende conto di essere in una caverna. Raggiunge la sala da cui proviene la luce. Quando vi entra, gli sfugge un grido. In mezzo alla sala c’è Wilk, che si guarda intorno.

Si abbracciano e Niedzj incomincia a piangere.

 

Rimangono stretti in un abbraccio. Wilk non sa perché Niedzj continua a piangere: non conosce l’immenso dolore che lo accompagnato per metà della sua vita. Lo abbraccia, lo bacia, lo accarezza, cercando di consolarlo.

A scuoterli è la voce di Vukmedje:

- Salute a voi, Niedzj e Wilk.

I gemelli si voltano. Di fianco a Vukmedje c’è un uomo che non conoscono.

- Questo è Kralj, l’altro vostro padre. Anche lui si è destato ora.

I gemelli sciolgono il loro abbraccio e ricevono quello di Vukmedje e di Kralj. Poi chiedono spiegazioni.

Vukmedje non ha molto da offrire:

- Kralj è rimasto oltre la prima soglia, tra le braccia della morte, tutti questi anni, perché era scritto che si sarebbe risvegliato solo dopo che io fossi stato ucciso tre volte. Io però dovevo vegliare su di voi e assicurare che tutto si svolgesse come doveva e se fossi morto tre volte, non avrei potuto tornare liberamente tra voi. Dopo la tua morte, Niedzj, mi sono fatto uccidere tre volte.

- Se non fossimo qui riuniti, se non vedessi accanto a me Wilk, non riuscirei a credere alle tue parole. Strano è il destino. Tu ci avevi detto che avevamo tre vite, ma sembra che ne abbiamo quattro.

- Tre vite tra gli altri uomini. Tutti coloro che portano la stella sono destinati a ritornare in vita, talvolta in forme diverse, talvolta nello stesso corpo, talvolta subito, talvolta dopo molto tempo. Nessuno di noi però può tornare a vivere tra i mortali: vivremo in altre terre, fino a che il Grande Cacciatore non ci ucciderà. Non so che cosa succederà dopo, non so se ci sarà un dopo.

Altro Vukmedje non è in grado di dire.

Niedzj chiede:

- Allora non possiamo avere contatti con coloro che sono vivi?

- Talvolta è possibile, se una forza non ce lo impedisce. Io non potevo avvicinarmi a te, Niedzj, fino a che non l’ora della tua morte non fosse stata vicina.

- Vorrei andare da Drunjed, se è possibile.

Vukmedje sorride.

- Hai sofferto troppo per tollerare che anche lui soffra. Ti guiderò, Niedzj, domani notte. Se nessuna forza ci bloccherà, lo rivedrai. E poi lasceremo queste terre.

Kralj e Wilk pongono molte domande: non sanno nulla di ciò che è accaduto dopo la loro morte. Wilk e Niedzj sono curiosi di conoscere anche molti avvenimenti del passato, del periodo prima della loro nascita. Vukmedje racconta e ognuno degli altre tre narra ciò che ha vissuto.

Poi Niedzj chiede:

- E ora? Che cosa faremo ora?

- Andremo nelle regioni del Grande Nord, oltre la Terra degli Otto Laghi, dove vivono gli altri portatori delle due stelle.

Kralj chiede:

- Troveremo tutti gli altri? Mio zio Vareni e mio cugino Jebesin?

- No, non possiamo avere contatti gli uni con gli altri, in questa vita oltre la morte. Anche noi ci separeremo. Solo se ritorneremo ancora una volta in vita dopo la nostra prossima morte, allora ci ritroveremo tutti insieme.

Rivolto a Niedzj, Vukmedje aggiunge:

- Drunjed invece ti raggiungerà, quando sarà giunta la sua ora, insieme a colui che è destinato a essere il suo compagno, colui che mi ha ucciso tre volte, permettendomi di riunirmi a voi. Voi quattro potrete rimanere insieme.

 

La notte seguente Drunjed è steso nella reggia. Non riesce a dormire. Un peso l’opprime, un dolore senza fine scava in lui.

Avverte che qualcuno è entrato nella stanza. Si mette a sedere, ma nel buio non può vedere.

- Sono io, Drunjed.

- Padre! Non sei morto!?

- Sì, sono morto, perché questo era il mio destino, ma sono nuovamente vivo. Non mi chiedere come questo sia possibile: non lo so. Ma non volevo che tu continuassi a pensare che mi hai ucciso. La morte mi ha liberato di una vita che era sofferenza e mi ha ridato a una vita di gioia.

Drunjed allunga la mano e sente il calore del corpo del padre. Si rende conto di essere sul punto di piangere.

Niedzj lo abbraccia. Lo stringe forte. Il dolore di entrambi si scioglie nelle lacrime. Rimangono a lungo abbracciati, poi Niedzj si stacca.

- Drunjed, tu porti le due stelle, segno della nostra stirpe. Morirai e ritornerai in vita. So che ci ritroveremo, forse per un breve tempo, forse per un periodo più lungo, perciò questo non è un addio. Ma finché vivrai la tua vita mortale, ricordati che io vivo e la mia non è più una vita di sofferenza. Per me ogni giorno dopo la morte di Wilk, l’altro tuo padre, è stata una sofferenza. Solo tu e tuo fratello mi avete dato la forza di continuare a vivere. Ora ho ritrovato Wilk e ogni dolore è svanito.

 

 

 

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