2. La piccola tratta

 

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Gli uomini si sono seduti nella radura, disponendosi in cerchio. Sono tutti nudi, come richiede il rituale: è una cerimonia di purificazione riservata ai maschi. Al centro hanno lasciato un ampio spazio per l’hûngun che officerà e a settentrione uno spazio perché l’officiante possa entrare. La pioggia scende intensa e tutti sono fradici, ma non se ne preoccupano: a ottobre le temperature sono ancora molto alte e l’acqua che scende porta un po’ di frescura. La sera sta calando e prima che sia notte probabilmente smetterà di piovere, come succede di solito.

Gli uomini aspettano l’hûngun. Sanno che verrà solo a notte, ma sono giunti tutti per tempo: nessuno può arrivare dopo l’hûngun. Lentamente la luce svanisce e anche la pioggia rallenta, fino a fermarsi del tutto. I suonatori incominciano a battere sui tamburi. Non è ancora il ritmo veloce della cerimonia, ma un richiamo per gli spiriti divini e un monito per chi si trovasse a passare nelle vicinanze.

Henri e Cristophe sono seduti vicini. I loro corpi si sfiorano. In entrambi questa vicinanza accende il desiderio, ma, come tutti, tengono le ginocchia sollevate e le gambe unite e i loro membri, non ancora rigidi, rimangono nascosti tra le cosce.

Ora l’oscurità li avvolge. Due uomini accendono quattro torce e le dispongono ai quattro punti cardinali. Il ritmo della musica diventa più intenso. Ora che non piove più, si possono sentire i rumori della foresta. Una brezza leggera porta loro l’odore intenso di erba e terreno bagnati.

L’hûngun compare a settentrione. Tutti guardano nella sua direzione.

In quel momento si sente un rumore di passi. Non di un uomo solo. L’hûngun viene a volte con un aiutante, ma mai con molti altri. Gli uomini che sbucano dalla radura sono una trentina, in maggioranza bianchi, e puntano le armi su di loro. Tutti li guardano spaventati. Sanno benissimo di chi si tratta: sono banditi che periodicamente attaccano i villaggi di Haiti per catturare gli abitanti e farne schiavi da vendere negli Stati Uniti. Nell’isola la schiavitù è stata abolita da tempo e la flotta britannica blocca le navi negriere che cercano di portare schiavi neri dall’Africa in America, ma ci sono ancora negrieri che sfidano il pericolo. E alcuni hanno scoperto questo nuovo modo di procurarsi schiavi: ai piantatori statunitensi poco importa se gli schiavi neri sono stati catturati in Africa o a Haiti.

Proprio vicino a Christophe si è piazzato il capo dei banditi, che nell’isola viene soprannominato La Mort, perché ovunque vada porta la morte: molti vengono uccisi durante la cattura e gli altri scompaiono per sempre. Nessuno dei neri lo ha mai visto, ma tutti lo conoscono di fama, come conoscono il suo aiutante, un grande nero che viene chiamato il Toro.

Christophe vede che Henri si tende. Intuisce che il suo amico vuole saltare addosso a La Mort e gli afferra il braccio con la mano: sa benissimo che il bandito sta in guardia e non si lascerà sorprendere. La Mort non esisterebbe a sparare e Henri verrebbe ucciso. A volte la schiavitù è peggio della morte, Christophe lo sa, ma non può accettare di veder morire Henri. Avere la meglio su questi assassini ora non è possibile: sono tutti armati, mentre loro, anche se più numerosi, non hanno nulla che possano usare per attaccare.

I banditi sanno come muoversi: hanno già fatto diverse incursioni e catturato molti uomini. Rapidamente sei di loro legano le mani a tutti i neri catturati, mentre gli altri li tengono sotto tiro. Poi passano una seconda corda intorno al collo dei prigionieri. In pochi minuti una cinquantina di neri sono legati e avviati lungo il sentiero che porta alla costa.

L’unico a non essere legato è l’hûngun, che li guarda sorridendo. Quel figlio di puttana li ha venduti. La cerimonia era una trappola per catturarli nudi e disarmati, ma nessuno di loro potrà andare in giro a raccontarlo. Quando passa davanti all’hûngun Henri sputa a terra.

Ormai è completamente buio, ma le torce illuminano la strada. Christophe scende dietro a Henri. Una delle torce è portata da un uomo che cammina poco dietro di loro e Christophe può vedere la schiena del suo amico. Verranno portati negli Stati Uniti, venduti come schiavi. Probabilmente non si vedranno mai più.

I banditi raggiungono la riva. I neri sono fatti salire a gruppi di otto sulle scialuppe e condotti alla nave che aspetta nella rada. Uno dopo l’altro vengono fatti salire. Non è facile arrampicarsi sulla scaletta con le mani legate: devono tenersi alla corda laterale mentre appoggiano i piedi sui listelli che costituiscono i gradini. I negrieri li battono con i bastoni per incitarli a muoversi più in fretta. Man mano che arrivano, vengono condotti nella stiva, forzati a distendersi e legati gli uni agli altri e alle travi, in modo che siano costretti a rimanere distesi, senza possibilità di muoversi. Così viaggeranno fino alla costa degli Stati Uniti. Ogni tanto durante la traversata li porteranno sul ponte, per fargli respirare un po’ d’aria pura, costringerli a fare un po’ d’esercizio e intanto lavare la stiva: i negrieri vogliono evitare che si ammalino, perché costituirebbero merce avariata e perciò priva di valore.

Jacques Lapierre, soprannominato Jacques La Mort, è soddisfatto: non c’è stata nessuna resistenza e hanno potuto catturare tutti. La spedizione precedente è stata fallimentare: quei fottuti negri si sono ribellati e alcuni erano armati. C’è stata una vera carneficina, Jacques ha perso sei dei suoi uomini e hanno catturato solo una dozzina di quei bastardi. L’idea della cerimonia è stata ottima. Tutti giovani maschi, nudi e senz’armi, in uno spazio ben limitato, nessun rompicoglioni intorno. Le condizioni ideali. L’accordo con l’hûngun si è rivelato la carta vincente. Adesso bisogna pagare: l’uomo servirà ancora. 

Jacques fa segno a due uomini, che raccolgono una cassa e un sacco lasciati in una scialuppa e se li caricano sulla schiena. Alla luce delle torce raggiungono la macchia di alberi dove li attende l’hûngun. Jacques gli indica con un cenno del capo i due contenitori che gli uomini depositano ai suoi piedi: sono la sua ricompensa. Se l’è meritata.

 

Nella stiva sono tutti stretti uno all’altro. Christophe è di fianco a Henri, ma questa volta il contatto con il corpo del suo uomo non suscita nessun desiderio. Christophe è troppo angosciato, come tutti i suoi compagni. Parlano piano. Qualcuno recita una preghiera, altri maledicono i negrieri. Qualcuno dei più giovani singhiozza, cercando di non farsi sentire.

Christophe sussurra, in modo che solo i suoi vicini lo possano sentire:

- Dobbiamo cercare di attaccarli, quando ci faranno uscire per prendere aria. Se riescono a portarci negli Stati Uniti, non rivedremo mai le nostre case.

Henri chiede:

- Credi che si lascino sorprendere?

- Dobbiamo provare.

Sentono che l’ancora viene sollevata e che la nave si mette in movimento: i negrieri vogliono uscire dalla rada mentre è ancora buio. In tutti la partenza genera angoscia. C’è un momento in cui nella stiva regna il silenzio. Si sentono soltanto i singhiozzi che qualcuno non riesce a soffocare.

La nave viaggia per un’ora o due, poi si ferma. Il mare è calmo, c’è appena un leggero rollio.

Christophe e gli altri hanno ripreso a parlare. Il gruppo intorno a Christophe discute, poi le proposte vengono trasmesse agli altri, sussurrando. Due uomini si assumono l’incarico di pregare ad alta voce, perché le loro parole coprano quelle degli altri: non si può escludere che qualcuno dei negrieri comprenda il creolo haitiano e che se ne stia in ascolto, con l’orecchio contro la botola della stiva, per capire le reazioni dei prigionieri.

Decidono che la prima volta che saranno condotti sul ponte non faranno nulla, ma osserveranno con cura la situazione: poi nella stiva stabiliranno un piano d’azione. Ci sono poche possibilità di farcela, lo sanno tutti, ma è meglio morire combattendo che rimanere schiavi per tutta la vita. Sanno che dovranno lasciare in vita il timoniere e qualche marinaio, perché nessuno di loro è in grado di condurre una nave.

Dopo essersi parlati, decidono di riposare, ma il sonno viene per pochi: stesi sul legno e legati, sono in una posizione molto scomoda per dormire e a tenerli svegli contribuisce l’angoscia di cui sono tutti preda. Anche chi riesce ad addormentarsi, si sveglia più volte.

Infine un po’ di luce filtra nella stiva. Il giorno sta nascendo. Il loro primo giorno da schiavi. Nella stiva c’è un odore greve, di sudore, piscio e merda.

Di colpo c’è agitazione sul ponte. Qualcuno grida, si sentono passi di corsa. Poi la botola che dà accesso alla stiva si apre. La Mort sta dando ordini.

Solo uno dei prigionieri capisce le parole pronunciate dal comandante dei negrieri: l’uomo è stato schiavo a Grenada e parla inglese. Grida ai compagni:

- Vogliono buttarci in mare.

C’è un momento di panico. Quattro uomini sono scesi e stanno tagliando le corde che legano i piedi dei prigionieri. Ne prendono due e li spingono verso la scala, ma i neri, consci di andare alla morte, oppongono resistenza.

In quel momento si sente di nuovo la voce di La Mort, che urla di lasciar perdere e risalire.

I quattro negrieri obbediscono e salgono la scala, senza più occuparsi dei prigionieri. Richiudono la botola, senza neppure bloccarla.

L’uomo che conosce l’inglese dice:

- Qualcuno li sta attaccando. Volevano buttarci tutti in mare, perché non ci trovassero, ma ormai è troppo tardi.

Tutti chiedono, ma l’uomo non sa altro.

- Ma chi può attaccarli? Perché?

Una voce risponde:

- Ad attaccarli è la marina inglese, di sicuro. Cerca di bloccare il traffico di schiavi.

Un altro chiede:

- Ma perché volevano gettarci in mare?

- Lo fanno sempre quei bastardi dei mercanti di schiavi. Adesso che la tratta è proibita, se vedono una nave della marina inglese, gettano in acqua tutti, perché affoghino. Così non rimane prova che stavano trasportando schiavi.

- Maledetti assassini!

- Ma se c’è una nave della marina, ci libereranno!

- Sempre che non affondino la nave.

Christophe interviene:

- Toussaint, Laval, cercate di liberarvi delle corde, sfregatele contro il legno. Dovete liberare anche noi.

Toussaint e Laval sono i due uomini che stavano per essere portati sul ponte. Non sono più bloccati, come tutti loro: hanno solo le mani legate. Incominciano a sfregare le corde contro uno dei pali, fino a che riescono a spezzarle. Poi sciolgono le corde dei compagni.

 

Jacques La Mort osserva la fregata della Royal Navy avvicinarsi. Quella fottuta nave è molto più veloce della loro, perché ha il vento a favore. Ormai dalla fregata possono vedere gli uomini sul ponte. Inutile buttare a mare il carico: li vedrebbero. Quei bastardi erano nascosti dietro l’isolotto e sono apparsi non appena loro hanno doppiato il promontorio. Di sicuro sapevano o almeno sospettavano che la Sirius sarebbe passata di lì oggi: qualcuno ha raccontato della spedizione. Un traditore o magari anche solo un ubriaco che non ha saputo tenere a freno la lingua. Merda! Se li beccano, finiranno impiccati come pirati.

Jacques ha dato ordine di girare la nave in modo da avere il vento a favore, ma sa che è del tutto inutile. Jacques valuta la distanza che li separa dall’isolotto: non è così grande che un buon nuotatore non possa arrivarci. Jacques si getterà in acqua, anche se il rischio di essere attaccato da uno squalo è forte: ce ne sono sempre parecchi che seguono le navi. E in ogni caso gli inglesi potrebbero cercarlo anche sull’isola. Ma è l’unica soluzione possibile: Jacques non ha nessuna voglia di finire a danzare appeso a una corda per il divertimento di quei fottuti marinai inglesi.

La fregata li sta raggiungendo. Il capitano intima la resa, ma Jacques risponde ordinando di fare fuoco. I negrieri sparano, anche se sanno di non avere nessuna possibilità di cavarsela: sono assai meno numerosi e a differenza degli inglesi non hanno artiglieria pesante. La distanza tra le due navi e il loro continuo movimento manda a vuoto tutti i colpi.

Dalla fregata non fanno fuoco con i cannoni, ma i soldati inglesi sparano e danno prova di possedere una mira migliore: due negrieri vengono colpiti a morte, un terzo viene ferito.

Il capitano della fregata ordina di nuovo di arrendersi. Ormai la nave inglese sta per affiancarli. Jacques dà ordine di prepararsi a sparare di nuovo: quando la fregata sarà di fianco alla nave, i negrieri faranno fuoco e questa volta i colpi non andranno a vuoto.

Tutti gli uomini sono sulla fiancata, pronti a sparare, e nessuno si accorge che la botola della stiva si sta sollevando e i neri stanno uscendo.

Christophe valuta la situazione e fa segno ai suoi compagni di avvicinarsi in silenzio. Il timoniere vede gli uomini e grida, ma è troppo tardi: i neri balzano addosso ai negrieri. I neri sono nudi e disarmati, ma i negrieri sono presi di sorpresa e sono meno numerosi.

Due uomini si sono lanciati su Jacques, ma il suo aiutante, il Toro, è riuscito a liberarsi dei suoi aggressori e si lancia sui neri che hanno bloccato il comandante. Il Toro è un colosso e i suoi pugni mandano a terra gli assalitori. Altri neri gli saltano addosso e lo bloccano. Jacques però è riuscito a liberarsi e corre verso la fiancata della nave. Fa per lanciarsi in acqua, ma in quel momento risuona uno sparo. Jacques sente un dolore violento alla schiena: uno dei soldati inglesi si è accorto del suo tentativo di fuga e gli ha sparato. La pallottola gli ha trapassato un polmone. Jacques cade a terra. Mormora:

- Merda!

Cerca di sollevarsi. Riesce a mettersi a quattro zampe, ma non ha più la forza di alzarsi. Dalla bocca cola del sangue. Jacques guarda la chiazza rossa che si allarga sotto il suo viso, poi ricade disteso e tutto svanisce.

Gli inglesi prendono possesso della nave. Quattro negrieri che ancora cercano di resistere vengono uccisi. Il capitano Swan è soddisfatto: non hanno dovuto usare i cannoni, per cui la nave catturata è in condizioni perfette e questo gli frutterà parecchie sterline. L’unico elemento negativo è la morte del comandante, che non potrà più fornire informazioni su chi finanzia la tratta: catturarlo vivo era uno degli obiettivi della spedizione. In ogni caso, meglio averlo ucciso piuttosto che averlo lasciato scappare.

I negrieri vengono legati.

Swan chiede ai neri se qualcuno di loro parla inglese. Si fa avanti l’uomo che è stato schiavo a Grenada. Swan chiede come sono stati catturati e il nero racconta della cerimonia e del tradimento dell’hûngun.

Swan gli dice di informare i suoi compagni che ora sono liberi.

Su richiesta di Christophe, l’uomo che fa da interprete domanda:

- Comandante, ci lascerete a Haiti, vero?

- Sì, certamente.

Portare tutti questi uomini alla Giamaica e poi farli ricondurre a Haiti da una nave mercantile sarebbe assurdo e creerebbe solo problemi.

Il capitano prosegue:

- Non possiamo riportarvi dove vi hanno catturato, ma vi lasceremo all’approdo più vicino.

Dovranno tornare a piedi ai loro villaggi, ma non è certo un problema. L’idea di essere tutti liberi e di poter tornare alle loro case è un tale sollievo, che nessuno si preoccupa dei disagi del viaggio di ritorno.

I neri parlano ancora un momento, poi l’interprete dice:

- Non abbiamo niente per coprirci. Non potete darci qualche cosa?

Swan si guarda intorno, chiedendosi come vestire questi uomini. Poi vede i negrieri, che i suoi uomini hanno legato e ammassato sul ponte, e osserva:

- Potete usare i vestiti dei pirati. Tanto a loro non servono più.

Il comandante si rivolge ai suoi uomini.

- Spogliate questi qui e date i vestiti ai negri.

I marinai ridono. Afferrano i prigionieri, che hanno tutti le mani legate dietro la schiena, e incominciano a togliere loro i pantaloni. Non ce ne sono per tutti i neri e allora, dopo aver spogliato anche i negrieri morti nello scontro, i marinai tolgono le mutande a quelli che ne hanno un paio. Qualche straccio permette di vestire anche gli ultimi. I marinai si divertono a vedere i neri con addosso le mutande o uno straccio e i prigionieri nudi o con solo una camicia: si scambiano battute e sfottono i negrieri.

Ma è tempo di pensare a scaricare gli ospiti.

La nave si avvicina alla riva, in una caletta deserta. Vengono calate le scialuppe e i prigionieri liberati vengono ricondotti a riva. Dovranno camminare due giorni per ritornare alle loro case, ma nessuno di loro si lamenta: sono scampati alla schiavitù e potranno saldare i conti con l’hûngun.

 

La nave riprende il largo e si dirige verso Kingston.

È ora di provvedere ai negrieri. Sono considerati pirati catturati in azione e pertanto non c’è bisogno di un processo: verranno impiccati. In questo modo non sarà necessario sorvegliarli e nutrirli durante il viaggio.

L’unico a essere risparmiato è il Toro: quest’uomo poderoso era l’aiutante del comandante e potrebbe avere qualche informazione importante per arrivare a scoprire il capo dell’organizzazione.

Swan dà gli ordini. I cappi vengono preparati e passati al collo dei diversi negrieri, poi i marinai li issano, uno per volta, fissando le corde agli alberi. Per l’equipaggio è uno spettacolo divertente vedere i condannati scalciare e spesso contorcersi a lungo. Il fatto che gli impiccati siano senza pantaloni e senza mutande rende il tutto ancora più piacevole: a diversi si drizza pure il cazzo e più d’uno viene anche, tra i lazzi osceni dei marinai. Parecchi dei negrieri si pisciano addosso e qualcuno si sporca pure di merda, provocando altre risate. Davvero di che sganasciarsi.

Swan non condivide l’entusiasmo dei suoi uomini: poco gli importa di quella trentina di fottuti pirati che ora penzolano, alcuni agitandosi ancora, altri ormai mossi soltanto dal rollio della nave, il collo allungato in modo grottesco, il viso congestionato, la bocca spalancata con la lingua che sporge e la saliva che cola.

Quando lo spettacolo si è concluso, Swan fa portare il Toro sulla fregata, facendolo legare bene: il pirata sarà impiccato a Kingston, ma prima dovrà raccontare tutto ciò che sa. Il cadavere di Jacques La Mort viene appeso a fianco di quello dei compagni; gli altri negrieri morti nello scontro vengono invece gettati in mare, nudi come sono: anche gli squali hanno diritto alla loro parte. Una parte dell’equipaggio rimane sulla Sirius e le due navi fanno rotta verso la Giamaica.

 

La notizia dell’arrivo della fregata Duke of Kent e della nave negriera che è stata catturata fa rapidamente il giro di Kingston. Molti sfaccendati si dirigono al porto, per vedere i pirati che penzolano sulla Sirius. I cadaveri sono ormai in decomposizione, ma Swan ha deciso di lasciarli appesi, per offrire ai cittadini uno spettacolo. Il colonnello Fitzroy, a capo della guarnigione di Kingston, dà però ordine di toglierli immediatamente: non è proprio il caso che le signore vedano questi corpi nudi, il cazzo ben visibile. Swan pensa che molte signore sarebbero ben contente dello spettacolo e in ogni caso, se non hanno voglia di guardare, hanno solo da non venire al porto, dove non hanno niente da fare. Ma sa che è più saggio non esprimere ciò che pensa e fa eseguire l’ordine senza discutere.

Tra coloro che sono accorsi al porto vi è Gerald Doane, l’inviato di uno dei maggiori giornali degli Stati Uniti, The Morning. Il quotidiano è stato fondato dal padre di Gerald, uno degli uomini più ricchi di New York, e rivaleggia con il più recente Sun per conquistare il pubblico avido di storie sensazionali. Gerald si è fatto mandare alla Giamaica per scrivere una serie di articoli sulla situazione dell’isola dopo la rivolta di due anni fa e sulla cosiddetta piccola tratta: il commercio di neri catturati a Haiti da negrieri giamaicani e rivenduti a New Orleans, nonostante la proibizione inglese della tratta.

Gerald sapeva che gli inglesi stavano cercando di catturare i negrieri e adesso, con il ritorno della nave, avrà nuovo materiale per i suoi articoli.

Gerald ha una grande disponibilità di denaro e non ha fatto fatica a inserirsi nell’alta società dell’isola, costituita essenzialmente dai grandi piantatori, dai principali funzionari dell’amministrazione e dagli alti gradi dell’esercito.

La sera stessa dell’arrivo della Duke of Kent, Gerald è a cena dal governatore a Spanish Town, il capoluogo, che si trova a sole tredici miglia dal porto di Kingston. È stato invitato anche il capitano Swan, che ha fatto rapporto al governatore e al comandante della guarnigione della città, il colonnello Brown.

A tavola Gerald ha modo di ascoltare il resoconto che Swan fa dell’impresa: tutti vogliono sapere e il comandante è al centro dell’attenzione. Uomini e donne gli pongono molte domande e Swan racconta volentieri. Gerald non si perde una parola: gli servirà per i suoi articoli. Trascura persino di fare la corte alla bella Edith Crawford, che da tempo copre di attenzioni, con l’obiettivo di portarsela a letto. Edith è una gran bella donna, con un corpo slanciato e lineamenti aristocratici. Gerald è sicuro di piacerle, ma questa sera anche lei è tutta presa dal racconto di Swan.

Quando, dopo il pasto, gli uomini si appartano, il governatore e gli ufficiali degli alti comandi chiacchierano tra di loro. Gerald si rivolge a Swan e chiede diversi dettagli. In assenza delle donne, la conversazione diventa più libera e Swan, che ha bevuto alquanto, racconta ridendo:

- Sì, allora mi sono chiesto: “Come cazzo li vesto, questi fottuti negri?” Non potevo mica mandarli in giro nudi come li avevo trovati. Capaci di andare a dire che la marina inglese si era tenuta i loro abiti.

Swan ride, una risata sguaiata. Poi prosegue:

- Intanto i pirati erano lì che aspettavano di scalciare con il cappio al collo. E allora mi sono risposto: “Ecco come cazzo li vesto.” Quei fottuti negrieri non avevano più bisogno dei pantaloni. I negri sì. Per loro i cenci dei negrieri andavano benissimo: pidocchiosi gli uni, pidocchiosi gli altri. Li diamo a quei fottuti negri, così non vanno in giro con l’uccello che penzola. E che uccelli! Certi ce l’avevano davvero da cavallo.

Con le mani Swan indica le misure. Esagera un po’, contento di vedere i suoi ascoltatori ridere. Parla con voce sempre più alta, ma il colonnello Brown gli si avvicina e gli mormora qualche cosa. Swan diventa improvvisamente serio.

- Sì, signor colonnello. Scusi, signor colonnello.

Rapidamente Swan si congeda dal governatore e si allontana. Gerald decide di seguirlo. Lo raggiunge sulle scale.

- Come mai se ne va?

- Il colonnello… mi ha ordinato... Ha ragione. Ho alzato un po’ troppo il gomito. Ma dopo tutti questi giorni…

Gerald gli dà corda:

- Insomma, lei è l’eroe del giorno. Criticarla perché ha festeggiato dopo aver condotto a termine un’impresa pericolosa…

- Già, a noi i pericoli, ma loro… buoni solo a rompere i coglioni, quelli. Noi rischiamo la pelle, portiamo a termine la missione e non possiamo neanche bere un bicchiere. Merda! Allontanato dalla festa come se fossi un cane rognoso.

Swan si interrompe. Gerald lo stuzzica ancora, mentre camminano per le strade della città in direzione degli alloggiamenti militari. Gerlad vuole scoprire se Swan sa chi sia il misterioso organizzatore della tratta, ma Swan non ha idea di chi possa essere. L’unico che lo conosceva era il comandante della Sirius, il famigerato La Mort, che è stato ucciso nello scontro. Tutti gli elementi portano a pensare che l’organizzatore sia un piantatore della Giamaica, ma la sua identità rimane un mistero. Swan aggiunge:

- Forse ce lo saprà dire il prigioniero.

- Il prigioniero? Di questo non ha detto nulla alla cena.

Swan si ferma. Si volta verso Gerald e si morde il labbro. Poi dice:

- Non mi ficchi nei guai, signor Doane. Non avrei dovuto dire niente.

Gerald ride.

- Ma ormai l’ha detto, per cui…

Swan non è contento di essersi lasciato scappare questa informazione che aveva ordine di tenere segreta. Riprende a camminare.

- Niente, niente.

- Su, capitano, non si faccia pregare.

Swan esita un momento, poi racconta:

- Abbiamo catturato un negro, che era l’aiutante del comandante. Uno che chiamano il Toro. È a Kingston. Non sappiamo se conosca l’identità del capo, ma vedremo di fargli ricordare anche quello che non sa. Preferiamo che non si sappia in giro, per poter beccare di sorpresa l’altro bastardo.

Swan ride di nuovo, poi ritorna serio e aggiunge:

- Ma è un segreto, non ne parli con nessuno, Doane. Finisco nella merda, se lo fa.

Gerald ottiene qualche altro dettaglio da inserire nei suoi articoli: nulla di particolarmente interessante, ma di che rendere più saporito il piatto da presentare ai lettori.

Dopo aver salutato Swan, Gerald rientra nella residenza del governatore e trascorre la serata come di consueto. Le donne sono un po’ stupite nello scoprire che l’eroe del giorno se n’è già andato, ma il colonnello spiega che dopo una missione lunga e pericolosa, il comandante Swan aveva bisogno di riposarsi un po’.

Si parla ancora a lungo della cattura della nave negriera: da tempo non capitava un evento così importante.

 

Gerald ha concluso gli articoli per il giornale The Morning. Ha raccontato la cattura della nave dei negrieri, la liberazione dei neri e l’impiccagione dell’equipaggio come se avesse partecipato attivamente all’intera operazione. In questo modo la narrazione è molto più vivida e a Gerald non spiace apparire come un giornalista eroico, che sfida il pericolo. Ha anche inventato qualche dettaglio, per rendere più drammatico l’arrembaggio alla nave dei negrieri. Nell’ultimo articolo Gerald fa qualche allusione a nuovi elementi che potrebbero portare alla scoperta dell’organizzatore della tratta. Tra le righe si capisce che il giornalista sa molto di più di quello che scrive, ma non vuole rivelarlo per non intralciare le indagini.

Del Toro, Gerald non ha scritto nulla: i sei articoli che ha scritto appariranno uno dopo l’altro sul The Morning, non appena la prima nave diretta a New York raggiungerà la città. Ce n’è di che intrattenere a lungo la curiosità del pubblico. Gerald preferisce tenersi il nero come una carta da giocare successivamente.

 

A Kingston l’interrogatorio del prigioniero non porta a grandi risultati. L’uomo dice di chiamarsi Elijah e di essere uno schiavo di Jacques Lapierre, il comandante che veniva chiamato La Mort. Elijah però nega di sapere per chi lavorasse La Mort.

A occuparsi degli interrogatori è il tenente Greg Pyle, un uomo vigoroso, con un viso squadrato, radi capelli biondi e occhi grigi. Pyle non è convinto che il nero dica la verità, perciò decide di passare a misure più forti: finora Elijah si è preso solo qualche pugno e schiaffo, ma adesso Pyle intende andare sul pesante.

Elijah viene condotto nei sotterranei della fortezza e gli viene tolta la camicia. Pyle non può non ammirare la forza di questo magnifico maschio.

Il carceriere lega le mani di Elijah a un gancio fissato in alto sul muro. Poi, a un cenno di Pyle, prende la frusta e incomincia ad abbatterla sulla schiena del prigioniero. Elijah stringe i denti, ma non dice nulla. Pyle osserva i segni rossi che la frusta lascia sulla pelle nera. Si avvicina, afferra il mento di Elijah con una mano, costringendo l’uomo a guardarlo in faccia.

- Parla, bastardo. Chi è il capo?

Elijah ansima.

- Non lo so… Lo giuro: non lo so.

Pyle fa cenno al carceriere, che riprende a fustigare Elijah. La pelle si spacca e il sangue sgorga dalle lacerazioni. A Pyle piace guardare Elijah, che a ogni colpo si contorce. Questo fottuto negro resiste, ma prima o poi cederà.

Ora a ogni frustata Elijah emette un grido, prima soffocato, poi, man mano che i colpi si susseguono, sempre più forte. Le sue urla trasmettono un brivido di piacere a Pyle. È bello sentire questo fottuto negro urlare, è bello guardargli la schiena su cui il sangue scorre abbondante. Pyle si rende conto che gli sta venendo duro.

- Abbassagli i pantaloni.

Il carceriere obbedisce. Pyle guarda il culo del negro, vigoroso e possente come tutto il corpo. La sua eccitazione cresce.

- Sul culo.

Il carceriere incomincia a fustigare Elijah sulle natiche. Pyle guarda i segni che la frusta lascia sul culo. Ormai ha il cazzo tanto duro da fargli male. Pyle si rende conto che non ha più nemmeno interrogato il prigioniero: si sta limitando a godersi la fustigazione.

Pyle fa un cenno al carceriere, che si ferma, e passa di nuovo di lato a Elijah. Il suo sguardo scivola al cazzo del prigioniero. Un cazzo da toro, davvero.

Pyle ha la sensazione di essere ubriaco, anche se non ha bevuto nulla.

- Allora, pezzo di merda, chi è il capo? Da chi andava quel figlio di puttana del tuo padrone, qui alla Giamaica?

- Non lo so, non lo so.

Pyle sente la rabbia montare dentro. Non è solo rabbia: è desiderio, un desiderio feroce. Fa un cenno con la testa al carceriere. L’uomo riprende a fustigare il prigioniero.

Elijah si lamenta ancora, poi reclina il capo e si lascia andare: dev’essere svenuto e solo la corda che lo tiene legato al gancio gli impedisce di cadere.

- Basta così, adesso vai.

Pyle si rende conto che la voce gli è uscita roca, quasi a fatica. Il carceriere fa un cenno con il capo ed esce. Pyle raggiunge la porta. La chiude: vuole essere sicuro che nessuno entri. Si avvicina al prigioniero, inerte. Guarda la schiena e il culo, grondanti sangue.

Pyle si spoglia, per evitare di sporcarsi la divisa. Ha il cazzo duro come una lama e teso verso l’alto. Se lo accarezza, sorridendo.

Afferra le natiche del nero e le divarica. Osserva l’apertura. Si inumidisce la cappella, poi si abbassa un po’ e infilza il culo di Elijah, affondando il cazzo fino in fondo. È una sensazione fortissima, che lo stordisce. L’uomo emette appena un gemito: non è cosciente, ma ha avvertito l’ingresso.

Pyle incomincia a fottere il nero, muovendo ritmicamente il culo. Ogni volta che affonda il cazzo, sente un’ondata di piacere. Pyle spinge in avanti, poi si ritrae e riprende il movimento. Intanto passa una mano davanti e stringe il cazzo del nero. Ha un bel cazzo, questo negro di merda. La mano scende ai coglioni e li stringe, con forza. Il nero geme nuovamente, più forte. La stretta di Pyle diventa più decisa. Vorrebbe spaccarglieli. Pyle porta anche l’altra mano e aumenta la pressione, senza arrestare il movimento. Ma il piacere cresce ancora e lo travolge, mentre il suo sborro riempie il culo del nero.

Pyle si affloscia sul corpo del nero.

Dopo un momento si rialza. Mormora, quasi rabbioso:

- La prossima volta i coglioni te li spacco, puoi giurarci, fottuto bastardo.

Pyle ha il torace e il ventre sporchi di sangue. Si pulisce con la camicia del prigioniero. Poi si riveste e lascia la cella. Elijah è ancora incosciente.

Greg Pyle raggiunge l’ufficio del colonnello. Saluta.

- Allora, tenente Pyle?

- Niente, signor colonnello. O davvero non sa o è deciso a resistere. Lo abbiamo fustigato fino a farlo svenire, ma continua a sostenere di ignorare il nome del capo.

Il colonnello annuisce. È probabile che Elijah non menta: l’unico sulla nave a sapere chi sia l’organizzatore della tratta forse era davvero Jacques La Mort. Questo però significa che la tratta riprenderà, con un altro capitano e un’altra nave. La Royal Navy ha vinto una battaglia, ma non la guerra.

- Continuerete a cercare di farlo parlare. Magari a forza di frustate gli tornerà la memoria.

- Signorsì, signor colonnello.

 

Nei giorni seguenti Elijah viene più volte fustigato, fino a fargli perdere i sensi, ma il nero continua a negare di conoscere l’organizzatore della tratta. Dice che era Jacques La Mort a tenere i contatti con il proprietario della nave e con i vari commercianti che fornivano l’occorrente per le spedizioni.

La schiena e il culo di Elijah sono coperti di piaghe. È evidente che da quest’uomo non si ricaverà nulla: probabilmente non sa davvero niente di utile e se invece è a conoscenza di qualche cosa, è deciso a non rivelarlo.

Elijah verrà impiccato. L’esecuzione sarà pubblica e avverrà tra qualche giorno. Per il momento nessuno al di fuori dei militari è a conoscenza della prigionia di Elijah.

Il tenente Greg Pyle entra nella cella. Elijah è appoggiato contro la parete. Appare incosciente, ma non può stendersi perché ha le mani incatenate in alto.

Prima che lo impicchino, Greg vuole gustare ancora una volta il suo culo. Gli piace inculare un uomo forte, come questo fottuto negro di merda. Greg si spoglia, perché dalle piaghe aperte dalle frustate escono sangue e pus. Poi afferra Elijah e cerca di voltarlo, ma con le catene non gli riesce di metterlo nella posizione voluta: questo figlio di puttana è pesante, la catena gli tiene le braccia alzate e per poterlo inculare Greg dovrebbe sollevarlo e sostenerlo. Greg bestemmia. Vuole fotterlo, ce l’ha già duro. Greg decide di liberarlo dalle catene, in modo da poterlo prendere comodamente: tanto il bastardo è svenuto.

Greg distende Elijah a terra, poi gli allarga un po’ le gambe. Con le mani divarica le natiche e guarda l’apertura. Si inumidisce la cappella con la saliva e poi infilza il culo del nero con una spinta. Cazzo! Che meraviglia! Fottere questo culo vigoroso è bellissimo. Greg spinge con forza: vorrebbe far sanguinare il culo di questo negro di merda.

Elijah geme. Si muove. Poi di colpo si solleva. Si è svegliato o forse fingeva soltanto di essere svenuto. Greg è colto di sorpresa. Scivola a terra. Si alza in fretta, ma un pugno lo prende al ventre. Il colpo è una mazzata. Greg si piega in due e il secondo pugno lo sbatte contro la parete. Greg urta il muro con la testa e il mondo svanisce in una fitta di dolore.

Elijah si infila i pantaloni e la camicia sporca di sangue. Con cautela si affaccia alla porta della cella. Sa benissimo che le sue possibilità di uscire dalla prigione senza essere fermato sono minime, ma è notte e tutt’intorno c’è silenzio. Elijah vede una sentinella di guardia all’ingresso dell’edificio in cui si trova. Prenderla di sorpresa è difficile e se il soldato desse l’allarme, Elijah non avrebbe nessuna possibilità di riuscire a fuggire. Elijah si infila in una stanza. Con cautela apre la finestra e guarda fuori. La finestra si affaccia su un passaggio tra il muro di cinta esterno e l’edificio in cui ci sono le celle. Elijah scavalca la finestra e raggiunge il muro. Cerca un punto in cui issarsi. Ci sono due alberi e Elijah riesce a salire e arrivare alla sommità del muro. Ogni movimento gli provoca fitte alla schiena, ma Elijah ignora il dolore. A cavalcioni sul muro controlla che non ci sia nessuno e salta in strada. Si allontana in fretta. Sa dove andare. Ora che è libero, si pente di non aver ucciso quel figlio di puttana dell’ufficiale, ma con lui provvederà a regolare i conti.

 

Gerald è a Kingston. Vuole avere informazioni sull’interrogatorio del nero che è stato catturato. Decide di contattare il capitano Swan. Conoscendo le abitudini della guarnigione, lo cerca nelle due taverne che frequentano gli ufficiali. Lo trova senza difficoltà.

- Buongiorno, capitano. Mi fa molto piacere vederla. Come sta?

- Buongiorno a lei, signor Doane. Io sto bene, grazie. E lei?

- Anch’io. Mi permette di offrirle un bicchiere?

- Grazie, signor Doane. Lei è molto gentile.

Gerald chiacchiera del più e del meno: vuole far passare del tempo, in modo che il capitano abbia modo di bere parecchio. Non appena Swan ha vuotato il bicchiere, Gerald glielo riempie di nuovo. 

Quando Swan ha ormai bevuto una buona quantità di rhum, Gerald ritiene che sia giunto il momento di affrontare l’argomento che gli sta a cuore. Chiede:

- Allora, capitano Swan, quel fottuto negro che avete catturato, il Toro, ha fornito qualche informazione utile?

Swan si guarda intorno, per controllare che nessuno li stia ascoltando.

- Signor Doane, si dimentichi quella faccenda. Non avrei dovuto parlargliene.

- Capitano, è il mio lavoro. Ho mantenuto la promessa che le ho fatto e non ne ho parlato con nessuno. Adesso però il tempo per interrogare il prigioniero lo avete avuto.

- Il prigioniero non ha confessato. Forse non sapeva davvero il nome del trafficante. O forse era soltanto uno tosto.

- Avete rinunciato a ricavarne qualche cosa?

- Per forza.

- Allora adesso lo impiccherete. Ma perché continuate a tenere segreta la sua prigionia?

Swan è chiaramente a disagio. Gerald è sicuro che il capitano gli nasconda qualche cosa. Si versa ancora un po’ di rhum, anche se il suo bicchiere è mezzo pieno, e poi ne versa a Swan, che beve. A Gerald viene da sorridere. Il capitano è un coglione, ma va bene così: Gerald è sicuro che riuscirà a ottenere le informazioni che gli servono. Insiste:

- Allora, capitano?

- Il prigioniero non… oh, merda!, Doane, lasci perdere.

Gerald non ha nessuna intenzione di demordere.

- Ma su, mi racconti.

- Non molla mai, lei, eh?

Gerald sorride.

- Certo che no. Fa parte del mio lavoro.

Swan scuote la testa, poi sbotta:

- Merda, Doane! Il prigioniero è fuggito, due giorni fa. Quello stronzo di Pyle…

- Fuggito!? Ma come è possibile?

- Il tenente Pyle si è lasciato sorprendere durante… un interrogatorio. Ieri il prigioniero lo ha tramortito ed è scappato.

- Questa, poi! Non era legato, incatenato? E poi, di giorno… riuscire a uscire senza che nessuno se ne accorgesse.

- Non era giorno, è successo nel cuore della notte. E quello stronzo di Pyle lo aveva sciolto.

- Nel cuore della notte? Lo interrogavate nel cuore della notte? E perché poi lo aveva sciolto?

Gerald è perplesso. A volte i prigionieri vengono privati del sonno per indebolirli, ma gli sembra strano che gli interrogatori avvengano la notte.

- Quel coglione di Pyle… Si è meritato i pugni che si è preso. L’abbiamo trovato svenuto… lasciamo perdere… è meglio che non le racconti… no, non posso proprio…

Gerald versa ancora da bere al capitano.

- Una faccenda alquanto strana. Non capisco.

- Non capisce, eh?

Swan prende il bicchiere e guarda il liquore. Sorride e beve. Poi si appoggia contro il muro. Guarda Gerald, ride e dice:

- Glielo spiego io. Sì, glielo spiego.

Ride ancora, ma non prosegue.

È evidente che il capitano ormai è ubriaco. Gerald è sicuro di ottenere ciò che vuole e non lo forza. Sorride e risponde.

- L’ascolto.

Swan guarda Gerald e scuote la testa. Rutta, si porta la mano alla bocca e nuovamente ridacchia.

- L’abbiamo trovato svenuto, quello stronzo di Pyle, svenuto. Con i pantaloni abbassati. E il cazzo fuori, ancora sporco. Che coglione!

Gerald annuisce: ha capito che cosa è successo. Sogghigna.

- Questa poi! Si è lasciato sorprendere.

- Già, talmente infoiato da non rendersi conto che liberando il prigioniero rischiava di farsi ammazzare. Gli è andata bene che il negro l’ha solo colpito. Poteva strangolarlo.

- Sarà in punizione, ora.

- Può dirlo. Per aver lasciato scappare un prigioniero. Ma l ‘altra faccenda è stata messa a tacere, per il buon nome dell’esercito, anche se quel coglione di Pyle meriterebbe di essere impiccato. Diciamo che quella dei pantaloni abbassati è uno sfregio del prigioniero, per umiliare il tenente… Merda! Che coglione, quello! Farsi fottere in quel modo!

Gerald ride:

- Da quel che mi dice, in realtà è lui che ha fottuto il prigioniero, ma poi in effetti si è fatto fottere. Sì, è stato un coglione a liberare il Toro.

 

Gerald ha finito di scrivere l’articolo sul prigioniero scappato. Non ha fatto riferimento ai pantaloni abbassati: il pubblico del The Morning non apprezzerebbe certi dettagli, l’esercito ancora meno. Ma ne parlerà con gli amici al suo ritorno a New York.

Per il momento però Gerald non ha nessuna intenzione di tornare negli Stati Uniti. A Spanish Town sta benissimo, è invitato ai ricevimenti del governatore e in alcune delle piantagioni vicino alla capitale. È il beniamino delle donne, affascinate da questo statunitense impertinente. La bella Edith Crawford tra poco gli cederà, Gerald ne è sicuro. E il bordello di Mamy Louise offre le migliori puttane che Gerald abbia mai conosciuto, ragazzine nere che sanno fare di tutto. Gerald ci va almeno tre volte la settimana. La Giamaica è un piccolo paradiso dove ci si può muovere molto più liberamente che a New York.

Nella residenza del governatore, Gerald sta chiacchierando con Edith Crawford, il piantatore Richard Goldberg e alcuni altri ospiti.

Edith chiede:

- E quando tornerà a New York, signor Doane?

- Non appena potrò scrivere un articolo con la notizia dell’arresto del trafficante di schiavi.

- Per il momento nessuno sa chi è.

Gerald sorride.

- Nessuno… ne è sicura?

- A parte i suoi complici, naturalmente. Ma non si sa chi siano.

- Ma forse c’è qualcuno che sa… e che potrebbe presto rivelarlo…

Un lampo di curiosità si accende negli occhi di Edith Crawford.

- Signor Doane! Non mi dica che è riuscito a scoprire l’identità del trafficante!

Gerald sorride.

- Non voglio vendere la pelle dell’orso prima di averlo ucciso, ma… credo che l’orso abbia ancora poco da vivere. Ho condotto le mie indagini…

- E che cosa ha scoperto?

- Non posso anticipare niente, ma sono sicuro di poter risalire alla vera identità dell’organizzatore della tratta.

- Ma questo è incredibile.

- È il mio lavoro, no?

Gerald non ha la più pallida idea di chi sia a gestire la piccola tratta. Ma gli è sembrato un buon modo per far colpo su Edith, che in effetti non nasconde la sua ammirazione. Nei prossimi giorni Gerald intende marcare la donna da vicino. Ormai è sicuro del risultato. Poi inventerà qualche storia per spiegarle come mai non è in grado di rivelare l’identità del misterioso trafficante.

 

Il giorno dopo un soldato comunica a Gerald che il colonnello Brown gli vuole parlare.

Gerald si presenta nella caserma. Brown lo riceve immediatamente.

- Buongiorno, signor Doane. L’ho fatta chiamare perché ho bisogno di parlare un momento con lei.

- Mi dica, colonnello. Di che cosa vuole parlarmi?

- Di quella che viene chiamata la piccola tratta, da Haiti agli Stati Uniti d’America.

Gerald è stupito. Ovviamente sa benissimo che cos’è la piccola tratta: è stata il principale soggetto dei suoi articoli e il colonnello ne è a conoscenza. D’altronde è l’argomento di cui si parla di più alla Giamaica, soprattutto dopo la cattura della nave dei negrieri. Gerald annuisce, in attesa che il colonnello gli spieghi che cosa vuole da lui.

Il colonnello prosegue:

- Come lei sa benissimo, la piccola tratta è organizzata da un uomo che non conosciamo. Jacques La Mort, come veniva chiamato il comandante della nave, era probabilmente l’unico a sapere la sua vera identità.

Gerald non capisce perché il colonnello gli dica cose di cui entrambi sono perfettamente informati. Sembra che il colonnello si aspetti qualche cosa da lui. Gerald si limita a rispondere con un generico:

- Sì, certo.

Poi aggiunge, con un sorriso:

- O magari ne sapeva qualche cosa anche il suo aiutante, quel negro che avevate catturato e che vi è sfuggito.

Il colonnello si irrigidisce. Poi annuisce, a qualche suo pensiero. Probabilmente sospettava che Gerald fosse a conoscenza del prigioniero e della sua fuga.

C’è un momento di silenzio, poi il colonnello dice:

- Signor Doane, ieri sera lei ha raccontato di conoscere l’identità dell’organizzatore di questa tratta.

Ora Gerald è un po’ in imbarazzo. Non si aspettava di dover rendere conto delle sue vanterie. Una conversazione in un salotto, per far colpo su una bella donna, non è una testimonianza in tribunale.

- Ma no, non ho mica detto che lo conoscevo.

- Questa è l’impressione che ha dato, non a uno solo degli ospiti del governatore. Ha detto che le sue indagini lo hanno portato a fare scoperte importanti e che è sicuro di poter risalire alla vera identità…

Gerald è infastidito. Gli scoccia doversi smentire, ma non sa chi possa essere il misterioso organizzatore. Sorride e dice:

- Probabilmente avevo bevuto un po’ troppo. Non ho proprio idea di chi sia quel trafficante di schiavi.

Il colonnello annuisce. Non sembra stupito.

- Signor Doane, le credo. Ho pensato che si trattasse solo di… parole. Ma quelle parole sono state sentite da molti.

Quindi? Gerald non capisce. Il colonnello prosegue:

- Il trafficante di schiavi a quest’ora potrebbe essere già a conoscenza di queste sue vanterie. E non è detto che sappia che erano soltanto vanterie.

Gerald è a disagio.

- E allora?

- Allora le consiglio di fare attenzione. Quell’uomo non ha nessuna intenzione di farsi catturare. Se ritiene che lei costituisca una minaccia, potrebbe decidere di sopprimerla.

Gerald guarda il colonnello, perplesso. È davvero in pericolo? No, probabilmente no. Anche il trafficante di schiavi, chiunque sia, sa benissimo che lui non ha nessuna carta in mano. Con ogni probabilità il colonnello vuole spaventarlo un po’, per toglierselo dai coglioni.

- La ringrazio per l’avvertimento. Farò attenzione. E cercherò di bere di meno…

Gerald sorride, saluta ed esce. Pensa che questa sera andrà al bordello e domani lancerà l’assalto finale alla bella Edith. Gerald è sicuro di ottenere ciò che vuole.

 

È ormai notte fonda quando Gerald esce dal bordello. Le negre qui alla Giamaica sono fantastiche. L’ultima con cui ha scopato non deve avere più di quattordici anni, ma sa fare di tutto. Mamy Louise tiene merce di prima qualità: l’altro giorno gli ha offerto una ragazzina che era ancora vergine. Gli è costata parecchio, ma ne valeva la pena. L’altro bordello di Spanish Town non vale la metà di questo.

Gerald si avvia verso la sua residenza. Un uomo sta venendo in direzione opposta a Gerald. Probabilmente va al bordello. Quando si incrociano, l’uomo scarta leggermente a sinistra, come per lasciare il passo a Gerald. Ma mentre il giornalista passa l’uomo estrae il coltello e glielo affonda nel ventre. Gerald emette un grido strozzato, mentre l’uomo estrae la lama e colpisce altre tre volte. L’ultimo colpo è al cuore.

L’uomo si allontana in fretta. Il cadavere di Gerald Doane rimane steso a terra fino a che la ronda notturna non lo trova.

 

*

 

Alcune settimane dopo la morte del giornalista Gerald Doane, una lettera arriva a Edward Hardy, nella sua casa di Londra.

Edward la prende in mano e la guarda, senza aprirla. Crede di conoscerne il contenuto, perché qualche giorno fa ha letto della cattura della nave Sirius ad opera del capitano Swan della Royal Navy. Edward posa la lettera sulla scrivania. Si alza e va alla finestra. Guarda la strada che si sta animando. Mormora:

- Vanno al lavoro. Per loro incomincia una giornata come un’altra.

Poi torna alla scrivania, prende il tagliacarte e apre la busta. Al momento di prendere il foglio, si accorge che la mano gli trema.

Legge la lettera, che proviene da Londra, ma porta notizie dalla Giamaica. È quanto si aspettava. Edward china la testa.

Si chiede se distruggere la lettera, ma ormai non ha più importanza. Si alza e la sistema nel suo archivio. Thomas deve avere un quadro completo della situazione. Poi prende dal primo cassetto della scrivania un foglio bianco e incomincia a scrivere. Quando ha finito, lo piega e lo infila in una busta, su cui scrive il nome di Thomas Hardy, il suo primogenito.

Posa la lettera sulla scrivania e la fissa a lungo, senza più vederla. Mormora:

- Mi spiace, Thomas. Non sono stato giusto con te, lo so, tu non avevi nessuna colpa, ma… Ormai è tardi. E ora… anche questo.

Apre il secondo cassetto. Osserva la pistola. La prende. Guarda ancora la busta con il nome di Thomas. Si punta la pistola alla testa. Sente la canna premere contro la tempia. Deglutisce. Posa la pistola sulla scrivania. La mano gli trema.

Non c’è altra via. Non c’è altra via.

Edward prende l’arma, la punta nuovamente alla tempia. Preme il grilletto.

Quando il servitore che ha sentito lo sparo entra nello studio, il corpo di Edward Hardy è riverso sulla sedia, un foro alla tempia, da cui cola il sangue. La pistola è caduta a terra.

 

 

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