2. La piccola tratta Gli
uomini si sono seduti nella radura, disponendosi in cerchio. Sono tutti nudi,
come richiede il rituale: è una cerimonia di purificazione riservata ai maschi.
Al centro hanno lasciato un ampio spazio per l’hûngun che officerà e a
settentrione uno spazio perché l’officiante possa entrare. La pioggia scende
intensa e tutti sono fradici, ma non se ne preoccupano: a ottobre le
temperature sono ancora molto alte e l’acqua che scende porta un po’ di
frescura. La sera sta calando e prima che sia notte probabilmente smetterà di
piovere, come succede di solito. Gli
uomini aspettano l’hûngun. Sanno che verrà solo a notte, ma sono giunti tutti
per tempo: nessuno può arrivare dopo l’hûngun. Lentamente la luce svanisce e
anche la pioggia rallenta, fino a fermarsi del tutto. I suonatori
incominciano a battere sui tamburi. Non è ancora il ritmo veloce della
cerimonia, ma un richiamo per gli spiriti divini e un monito per chi si
trovasse a passare nelle vicinanze. Henri
e Cristophe sono seduti vicini. I loro corpi si sfiorano. In entrambi questa
vicinanza accende il desiderio, ma, come tutti, tengono le ginocchia
sollevate e le gambe unite e i loro membri, non ancora rigidi, rimangono
nascosti tra le cosce. Ora
l’oscurità li avvolge. Due uomini accendono quattro torce e le dispongono ai
quattro punti cardinali. Il ritmo della musica diventa più intenso. Ora che
non piove più, si possono sentire i rumori della foresta. Una brezza leggera
porta loro l’odore intenso di erba e terreno bagnati. L’hûngun
compare a settentrione. Tutti guardano nella sua direzione. In
quel momento si sente un rumore di passi. Non di un uomo solo. L’hûngun viene
a volte con un aiutante, ma mai con molti altri. Gli uomini che sbucano dalla
radura sono una trentina, in maggioranza bianchi, e puntano le armi su di
loro. Tutti li guardano spaventati. Sanno benissimo di chi si tratta: sono
banditi che periodicamente attaccano i villaggi di Haiti per catturare gli
abitanti e farne schiavi da vendere negli Stati Uniti. Nell’isola la
schiavitù è stata abolita da tempo e la flotta britannica blocca le navi
negriere che cercano di portare schiavi neri dall’Africa in America, ma ci
sono ancora negrieri che sfidano il pericolo. E alcuni hanno scoperto questo
nuovo modo di procurarsi schiavi: ai piantatori statunitensi poco importa se
gli schiavi neri sono stati catturati in Africa o a Haiti. Proprio
vicino a Christophe si è piazzato il capo dei banditi, che nell’isola viene
soprannominato La Mort, perché ovunque vada porta la morte: molti vengono
uccisi durante la cattura e gli altri scompaiono per sempre. Nessuno dei neri
lo ha mai visto, ma tutti lo conoscono di fama, come conoscono il suo
aiutante, un grande nero che viene chiamato il Toro. Christophe
vede che Henri si tende. Intuisce che il suo amico vuole saltare addosso a La
Mort e gli afferra il braccio con la mano: sa benissimo che il bandito sta in
guardia e non si lascerà sorprendere. La Mort non esisterebbe a sparare e
Henri verrebbe ucciso. A volte la schiavitù è peggio della morte, Christophe
lo sa, ma non può accettare di veder morire Henri. Avere la meglio su questi
assassini ora non è possibile: sono tutti armati, mentre loro, anche se più
numerosi, non hanno nulla che possano usare per attaccare. I
banditi sanno come muoversi: hanno già fatto diverse incursioni e catturato
molti uomini. Rapidamente sei di loro legano le mani a tutti i neri
catturati, mentre gli altri li tengono sotto tiro. Poi passano una seconda
corda intorno al collo dei prigionieri. In pochi minuti una cinquantina di
neri sono legati e avviati lungo il sentiero che porta alla costa. L’unico
a non essere legato è l’hûngun, che li guarda sorridendo. Quel figlio di
puttana li ha venduti. La cerimonia era una trappola per catturarli nudi e
disarmati, ma nessuno di loro potrà andare in giro a raccontarlo. Quando
passa davanti all’hûngun Henri sputa a terra. Ormai
è completamente buio, ma le torce illuminano la strada. Christophe scende
dietro a Henri. Una delle torce è portata da un uomo che cammina poco dietro
di loro e Christophe può vedere la schiena del suo amico. Verranno portati
negli Stati Uniti, venduti come schiavi. Probabilmente non si vedranno mai
più. I
banditi raggiungono la riva. I neri sono fatti salire a gruppi di otto sulle
scialuppe e condotti alla nave che aspetta nella rada. Uno dopo l’altro
vengono fatti salire. Non è facile arrampicarsi sulla scaletta con le mani
legate: devono tenersi alla corda laterale mentre appoggiano i piedi sui
listelli che costituiscono i gradini. I negrieri li battono con i bastoni per
incitarli a muoversi più in fretta. Man mano che arrivano, vengono condotti
nella stiva, forzati a distendersi e legati gli uni agli altri e alle travi,
in modo che siano costretti a rimanere distesi, senza possibilità di
muoversi. Così viaggeranno fino alla costa degli Stati Uniti. Ogni tanto
durante la traversata li porteranno sul ponte, per fargli respirare un po’
d’aria pura, costringerli a fare un po’ d’esercizio e intanto lavare la
stiva: i negrieri vogliono evitare che si ammalino, perché costituirebbero
merce avariata e perciò priva di valore. Jacques
Lapierre, soprannominato Jacques La Mort, è soddisfatto: non c’è stata
nessuna resistenza e hanno potuto catturare tutti. La spedizione precedente è
stata fallimentare: quei fottuti negri si sono ribellati e alcuni erano
armati. C’è stata una vera carneficina, Jacques ha perso sei dei suoi uomini
e hanno catturato solo una dozzina di quei bastardi. L’idea della cerimonia è
stata ottima. Tutti giovani maschi, nudi e senz’armi, in uno spazio ben
limitato, nessun rompicoglioni intorno. Le condizioni ideali. L’accordo con
l’hûngun si è rivelato la carta vincente. Adesso bisogna pagare: l’uomo
servirà ancora. Jacques
fa segno a due uomini, che raccolgono una cassa e un sacco lasciati in una
scialuppa e se li caricano sulla schiena. Alla luce delle torce raggiungono
la macchia di alberi dove li attende l’hûngun. Jacques gli indica con un
cenno del capo i due contenitori che gli uomini depositano ai suoi piedi:
sono la sua ricompensa. Se l’è meritata. Nella
stiva sono tutti stretti uno all’altro. Christophe è di fianco a Henri, ma
questa volta il contatto con il corpo del suo uomo non suscita nessun desiderio.
Christophe è troppo angosciato, come tutti i suoi compagni. Parlano piano.
Qualcuno recita una preghiera, altri maledicono i negrieri. Qualcuno dei più
giovani singhiozza, cercando di non farsi sentire. Christophe
sussurra, in modo che solo i suoi vicini lo possano sentire: -
Dobbiamo cercare di attaccarli, quando ci faranno uscire per prendere aria.
Se riescono a portarci negli Stati Uniti, non rivedremo mai le nostre case. Henri
chiede: -
Credi che si lascino sorprendere? -
Dobbiamo provare. Sentono
che l’ancora viene sollevata e che la nave si mette in movimento: i negrieri
vogliono uscire dalla rada mentre è ancora buio. In tutti la partenza genera
angoscia. C’è un momento in cui nella stiva regna il silenzio. Si sentono
soltanto i singhiozzi che qualcuno non riesce a soffocare. La
nave viaggia per un’ora o due, poi si ferma. Il mare è calmo, c’è appena un
leggero rollio. Christophe
e gli altri hanno ripreso a parlare. Il gruppo intorno a Christophe discute,
poi le proposte vengono trasmesse agli altri, sussurrando. Due uomini si
assumono l’incarico di pregare ad alta voce, perché le loro parole coprano
quelle degli altri: non si può escludere che qualcuno dei negrieri comprenda
il creolo haitiano e che se ne stia in ascolto, con l’orecchio contro la
botola della stiva, per capire le reazioni dei prigionieri. Decidono
che la prima volta che saranno condotti sul ponte non faranno nulla, ma
osserveranno con cura la situazione: poi nella stiva stabiliranno un piano
d’azione. Ci sono poche possibilità di farcela, lo sanno tutti, ma è meglio
morire combattendo che rimanere schiavi per tutta la vita. Sanno che dovranno
lasciare in vita il timoniere e qualche marinaio, perché nessuno di loro è in
grado di condurre una nave. Dopo
essersi parlati, decidono di riposare, ma il sonno viene per pochi: stesi sul
legno e legati, sono in una posizione molto scomoda per dormire e a tenerli
svegli contribuisce l’angoscia di cui sono tutti preda. Anche chi riesce ad
addormentarsi, si sveglia più volte. Infine
un po’ di luce filtra nella stiva. Il giorno sta nascendo. Il loro primo
giorno da schiavi. Nella stiva c’è un odore greve, di sudore, piscio e merda. Di
colpo c’è agitazione sul ponte. Qualcuno grida, si sentono passi di corsa.
Poi la botola che dà accesso alla stiva si apre. La Mort sta dando ordini. Solo
uno dei prigionieri capisce le parole pronunciate dal comandante dei
negrieri: l’uomo è stato schiavo a Grenada e parla inglese. Grida ai
compagni: -
Vogliono buttarci in mare. C’è
un momento di panico. Quattro uomini sono scesi e stanno tagliando le corde
che legano i piedi dei prigionieri. Ne prendono due e li spingono verso la
scala, ma i neri, consci di andare alla morte, oppongono resistenza. In
quel momento si sente di nuovo la voce di La Mort, che urla di lasciar
perdere e risalire. I
quattro negrieri obbediscono e salgono la scala, senza più occuparsi dei
prigionieri. Richiudono la botola, senza neppure bloccarla. L’uomo
che conosce l’inglese dice: -
Qualcuno li sta attaccando. Volevano buttarci tutti in mare, perché non ci
trovassero, ma ormai è troppo tardi. Tutti
chiedono, ma l’uomo non sa altro. - Ma
chi può attaccarli? Perché? Una
voce risponde: - Ad
attaccarli è la marina inglese, di sicuro. Cerca di bloccare il traffico di
schiavi. Un
altro chiede: - Ma
perché volevano gettarci in mare? - Lo
fanno sempre quei bastardi dei mercanti di schiavi. Adesso che la tratta è
proibita, se vedono una nave della marina inglese, gettano in acqua tutti, perché
affoghino. Così non rimane prova che stavano trasportando schiavi. -
Maledetti assassini! - Ma
se c’è una nave della marina, ci libereranno! -
Sempre che non affondino la nave. Christophe
interviene: -
Toussaint, Laval, cercate di liberarvi delle corde, sfregatele contro il
legno. Dovete liberare anche noi. Toussaint
e Laval sono i due uomini che stavano per essere portati sul ponte. Non sono
più bloccati, come tutti loro: hanno solo le mani legate. Incominciano a
sfregare le corde contro uno dei pali, fino a che riescono a spezzarle. Poi
sciolgono le corde dei compagni. Jacques
La Mort osserva la fregata della Royal Navy avvicinarsi. Quella fottuta nave
è molto più veloce della loro, perché ha il vento a favore. Ormai dalla
fregata possono vedere gli uomini sul ponte. Inutile buttare a mare il
carico: li vedrebbero. Quei bastardi erano nascosti dietro l’isolotto e sono
apparsi non appena loro hanno doppiato il promontorio. Di sicuro sapevano o
almeno sospettavano che la Sirius
sarebbe passata di lì oggi: qualcuno ha raccontato della spedizione. Un
traditore o magari anche solo un ubriaco che non ha saputo tenere a freno la
lingua. Merda! Se li beccano, finiranno impiccati come pirati. Jacques
ha dato ordine di girare la nave in modo da avere il vento a favore, ma sa
che è del tutto inutile. Jacques valuta la distanza che li separa
dall’isolotto: non è così grande che un buon nuotatore non possa arrivarci.
Jacques si getterà in acqua, anche se il rischio di essere attaccato da uno
squalo è forte: ce ne sono sempre parecchi che seguono le navi. E in ogni
caso gli inglesi potrebbero cercarlo anche sull’isola. Ma è l’unica soluzione
possibile: Jacques non ha nessuna voglia di finire a danzare appeso a una
corda per il divertimento di quei fottuti marinai inglesi. La
fregata li sta raggiungendo. Il capitano intima la resa, ma Jacques risponde
ordinando di fare fuoco. I negrieri sparano, anche se sanno di non avere
nessuna possibilità di cavarsela: sono assai meno numerosi e a differenza
degli inglesi non hanno artiglieria pesante. La distanza tra le due navi e il
loro continuo movimento manda a vuoto tutti i colpi. Dalla
fregata non fanno fuoco con i cannoni, ma i soldati inglesi sparano e danno
prova di possedere una mira migliore: due negrieri vengono colpiti a morte,
un terzo viene ferito. Il
capitano della fregata ordina di nuovo di arrendersi. Ormai la nave inglese
sta per affiancarli. Jacques dà ordine di prepararsi a sparare di nuovo:
quando la fregata sarà di fianco alla nave, i negrieri faranno fuoco e questa
volta i colpi non andranno a vuoto. Tutti
gli uomini sono sulla fiancata, pronti a sparare, e nessuno si accorge che la
botola della stiva si sta sollevando e i neri stanno uscendo. Christophe
valuta la situazione e fa segno ai suoi compagni di avvicinarsi in silenzio.
Il timoniere vede gli uomini e grida, ma è troppo tardi: i neri balzano
addosso ai negrieri. I neri sono nudi e disarmati, ma i negrieri sono presi
di sorpresa e sono meno numerosi. Due
uomini si sono lanciati su Jacques, ma il suo aiutante, il Toro, è riuscito a
liberarsi dei suoi aggressori e si lancia sui neri che hanno bloccato il
comandante. Il Toro è un colosso e i suoi pugni mandano a terra gli
assalitori. Altri neri gli saltano addosso e lo bloccano. Jacques però è
riuscito a liberarsi e corre verso la fiancata della nave. Fa per lanciarsi
in acqua, ma in quel momento risuona uno sparo. Jacques sente un dolore
violento alla schiena: uno dei soldati inglesi si è accorto del suo tentativo
di fuga e gli ha sparato. La pallottola gli ha trapassato un polmone. Jacques
cade a terra. Mormora: -
Merda! Cerca
di sollevarsi. Riesce a mettersi a quattro zampe, ma non ha più la forza di
alzarsi. Dalla bocca cola del sangue. Jacques guarda la chiazza rossa che si
allarga sotto il suo viso, poi ricade disteso e tutto svanisce. Gli
inglesi prendono possesso della nave. Quattro negrieri che ancora cercano di
resistere vengono uccisi. Il capitano Swan è soddisfatto: non hanno dovuto
usare i cannoni, per cui la nave catturata è in condizioni perfette e questo
gli frutterà parecchie sterline. L’unico elemento negativo è la morte del
comandante, che non potrà più fornire informazioni su chi finanzia la tratta:
catturarlo vivo era uno degli obiettivi della spedizione. In ogni caso,
meglio averlo ucciso piuttosto che averlo lasciato scappare. I
negrieri vengono legati. Swan
chiede ai neri se qualcuno di loro parla inglese. Si fa avanti l’uomo che è
stato schiavo a Grenada. Swan chiede come sono stati catturati e il nero
racconta della cerimonia e del tradimento dell’hûngun. Swan
gli dice di informare i suoi compagni che ora sono liberi. Su
richiesta di Christophe, l’uomo che fa da interprete domanda: -
Comandante, ci lascerete a Haiti, vero? -
Sì, certamente. Portare
tutti questi uomini alla Giamaica e poi farli ricondurre a Haiti da una nave
mercantile sarebbe assurdo e creerebbe solo problemi. Il
capitano prosegue: -
Non possiamo riportarvi dove vi hanno catturato, ma vi lasceremo all’approdo
più vicino. Dovranno
tornare a piedi ai loro villaggi, ma non è certo un problema. L’idea di
essere tutti liberi e di poter tornare alle loro case è un tale sollievo, che
nessuno si preoccupa dei disagi del viaggio di ritorno. I
neri parlano ancora un momento, poi l’interprete dice: -
Non abbiamo niente per coprirci. Non potete darci qualche cosa? Swan
si guarda intorno, chiedendosi come vestire questi uomini. Poi vede i
negrieri, che i suoi uomini hanno legato e ammassato sul ponte, e osserva: -
Potete usare i vestiti dei pirati. Tanto a loro non servono più. Il
comandante si rivolge ai suoi uomini. -
Spogliate questi qui e date i vestiti ai negri. I
marinai ridono. Afferrano i prigionieri, che hanno tutti le mani legate
dietro la schiena, e incominciano a togliere loro i pantaloni. Non ce ne sono
per tutti i neri e allora, dopo aver spogliato anche i negrieri morti nello
scontro, i marinai tolgono le mutande a quelli che ne hanno un paio. Qualche
straccio permette di vestire anche gli ultimi. I marinai si divertono a
vedere i neri con addosso le mutande o uno straccio e i prigionieri nudi o
con solo una camicia: si scambiano battute e sfottono i negrieri. Ma è
tempo di pensare a scaricare gli ospiti. La
nave si avvicina alla riva, in una caletta deserta. Vengono calate le scialuppe
e i prigionieri liberati vengono ricondotti a riva. Dovranno camminare due
giorni per ritornare alle loro case, ma nessuno di loro si lamenta: sono
scampati alla schiavitù e potranno saldare i conti con l’hûngun. La
nave riprende il largo e si dirige verso Kingston. È
ora di provvedere ai negrieri. Sono considerati pirati catturati in azione e
pertanto non c’è bisogno di un processo: verranno impiccati. In questo modo
non sarà necessario sorvegliarli e nutrirli durante il viaggio. L’unico
a essere risparmiato è il Toro: quest’uomo poderoso era l’aiutante del
comandante e potrebbe avere qualche informazione importante per arrivare a
scoprire il capo dell’organizzazione. Swan
dà gli ordini. I cappi vengono preparati e passati al collo dei diversi
negrieri, poi i marinai li issano, uno per volta, fissando le corde agli
alberi. Per l’equipaggio è uno spettacolo divertente vedere i condannati
scalciare e spesso contorcersi a lungo. Il fatto che gli impiccati siano
senza pantaloni e senza mutande rende il tutto ancora più piacevole: a
diversi si drizza pure il cazzo e più d’uno viene anche, tra i lazzi osceni
dei marinai. Parecchi dei negrieri si pisciano addosso e qualcuno si sporca
pure di merda, provocando altre risate. Davvero di che sganasciarsi. Swan
non condivide l’entusiasmo dei suoi uomini: poco gli importa di quella
trentina di fottuti pirati che ora penzolano, alcuni agitandosi ancora, altri
ormai mossi soltanto dal rollio della nave, il collo allungato in modo
grottesco, il viso congestionato, la bocca spalancata con la lingua che
sporge e la saliva che cola. Quando
lo spettacolo si è concluso, Swan fa portare il Toro sulla fregata, facendolo
legare bene: il pirata sarà impiccato a Kingston, ma prima dovrà raccontare
tutto ciò che sa. Il cadavere di Jacques La Mort viene appeso a fianco di
quello dei compagni; gli altri negrieri morti nello scontro vengono invece
gettati in mare, nudi come sono: anche gli squali hanno diritto alla loro
parte. Una parte dell’equipaggio rimane sulla Sirius e le due navi fanno rotta verso la Giamaica. La
notizia dell’arrivo della fregata Duke
of Kent e della nave negriera che è stata catturata fa rapidamente il
giro di Kingston. Molti sfaccendati si dirigono al porto, per vedere i pirati
che penzolano sulla Sirius. I cadaveri
sono ormai in decomposizione, ma Swan ha deciso di lasciarli appesi, per
offrire ai cittadini uno spettacolo. Il colonnello Fitzroy, a capo della
guarnigione di Kingston, dà però ordine di toglierli immediatamente: non è
proprio il caso che le signore vedano questi corpi nudi, il cazzo ben
visibile. Swan pensa che molte signore sarebbero ben contente dello
spettacolo e in ogni caso, se non hanno voglia di guardare, hanno solo da non
venire al porto, dove non hanno niente da fare. Ma sa che è più saggio non
esprimere ciò che pensa e fa eseguire l’ordine senza discutere. Tra
coloro che sono accorsi al porto vi è Gerald Doane, l’inviato di uno dei
maggiori giornali degli Stati Uniti, The
Morning. Il quotidiano è stato fondato dal padre di Gerald, uno degli
uomini più ricchi di New York, e rivaleggia con il più recente Sun per conquistare il pubblico avido
di storie sensazionali. Gerald si è fatto mandare alla Giamaica per scrivere
una serie di articoli sulla situazione dell’isola dopo la rivolta di due anni
fa e sulla cosiddetta piccola tratta: il commercio di neri catturati a Haiti
da negrieri giamaicani e rivenduti a New Orleans, nonostante la proibizione
inglese della tratta. Gerald
sapeva che gli inglesi stavano cercando di catturare i negrieri e adesso, con
il ritorno della nave, avrà nuovo materiale per i suoi articoli. Gerald
ha una grande disponibilità di denaro e non ha fatto fatica a inserirsi
nell’alta società dell’isola, costituita essenzialmente dai grandi
piantatori, dai principali funzionari dell’amministrazione e dagli alti gradi
dell’esercito. La
sera stessa dell’arrivo della Duke of
Kent, Gerald è a cena dal governatore a Spanish Town, il capoluogo, che
si trova a sole tredici miglia dal porto di Kingston. È stato invitato anche
il capitano Swan, che ha fatto rapporto al governatore e al comandante della
guarnigione della città, il colonnello Brown. A
tavola Gerald ha modo di ascoltare il resoconto che Swan fa dell’impresa: tutti
vogliono sapere e il comandante è al centro dell’attenzione. Uomini e donne
gli pongono molte domande e Swan racconta volentieri. Gerald non si perde una
parola: gli servirà per i suoi articoli. Trascura persino di fare la corte
alla bella Edith Crawford, che da tempo copre di attenzioni, con l’obiettivo
di portarsela a letto. Edith è una gran bella donna, con un corpo slanciato e
lineamenti aristocratici. Gerald è sicuro di piacerle, ma questa sera anche
lei è tutta presa dal racconto di Swan. Quando,
dopo il pasto, gli uomini si appartano, il governatore e gli ufficiali degli
alti comandi chiacchierano tra di loro. Gerald si rivolge a Swan e chiede
diversi dettagli. In assenza delle donne, la conversazione diventa più libera
e Swan, che ha bevuto alquanto, racconta ridendo: -
Sì, allora mi sono chiesto: “Come cazzo li vesto, questi fottuti negri?” Non
potevo mica mandarli in giro nudi come li avevo trovati. Capaci di andare a
dire che la marina inglese si era tenuta i loro abiti. Swan
ride, una risata sguaiata. Poi prosegue: -
Intanto i pirati erano lì che aspettavano di scalciare con il cappio al
collo. E allora mi sono risposto: “Ecco come cazzo li vesto.” Quei fottuti
negrieri non avevano più bisogno dei pantaloni. I negri sì. Per loro i cenci
dei negrieri andavano benissimo: pidocchiosi gli uni, pidocchiosi gli altri.
Li diamo a quei fottuti negri, così non vanno in giro con l’uccello che
penzola. E che uccelli! Certi ce l’avevano davvero da cavallo. Con
le mani Swan indica le misure. Esagera un po’, contento di vedere i suoi
ascoltatori ridere. Parla con voce sempre più alta, ma il colonnello Brown
gli si avvicina e gli mormora qualche cosa. Swan diventa improvvisamente
serio. -
Sì, signor colonnello. Scusi, signor colonnello. Rapidamente
Swan si congeda dal governatore e si allontana. Gerald decide di seguirlo. Lo
raggiunge sulle scale. -
Come mai se ne va? - Il
colonnello… mi ha ordinato... Ha ragione. Ho alzato un po’ troppo il gomito.
Ma dopo tutti questi giorni… Gerald
gli dà corda: -
Insomma, lei è l’eroe del giorno. Criticarla perché ha festeggiato dopo aver
condotto a termine un’impresa pericolosa… -
Già, a noi i pericoli, ma loro… buoni solo a rompere i coglioni, quelli. Noi
rischiamo la pelle, portiamo a termine la missione e non possiamo neanche
bere un bicchiere. Merda! Allontanato dalla festa come se fossi un cane
rognoso. Swan
si interrompe. Gerald lo stuzzica ancora, mentre camminano per le strade
della città in direzione degli alloggiamenti militari. Gerlad vuole scoprire
se Swan sa chi sia il misterioso organizzatore della tratta, ma Swan non ha
idea di chi possa essere. L’unico che lo conosceva era il comandante della Sirius, il famigerato La Mort, che è
stato ucciso nello scontro. Tutti gli elementi portano a pensare che
l’organizzatore sia un piantatore della Giamaica, ma la sua identità rimane
un mistero. Swan aggiunge: -
Forse ce lo saprà dire il prigioniero. - Il
prigioniero? Di questo non ha detto nulla alla cena. Swan
si ferma. Si volta verso Gerald e si morde il labbro. Poi dice: -
Non mi ficchi nei guai, signor Doane. Non avrei dovuto dire niente. Gerald
ride. - Ma
ormai l’ha detto, per cui… Swan
non è contento di essersi lasciato scappare questa informazione che aveva
ordine di tenere segreta. Riprende a camminare. -
Niente, niente. -
Su, capitano, non si faccia pregare. Swan
esita un momento, poi racconta: -
Abbiamo catturato un negro, che era l’aiutante del comandante. Uno che
chiamano il Toro. È a Kingston. Non sappiamo se conosca l’identità del capo,
ma vedremo di fargli ricordare anche quello che non sa. Preferiamo che non si
sappia in giro, per poter beccare di sorpresa l’altro bastardo. Swan
ride di nuovo, poi ritorna serio e aggiunge: - Ma
è un segreto, non ne parli con nessuno, Doane. Finisco nella merda, se lo fa. Gerald
ottiene qualche altro dettaglio da inserire nei suoi articoli: nulla di
particolarmente interessante, ma di che rendere più saporito il piatto da
presentare ai lettori. Dopo
aver salutato Swan, Gerald rientra nella residenza del governatore e trascorre
la serata come di consueto. Le donne sono un po’ stupite nello scoprire che
l’eroe del giorno se n’è già andato, ma il colonnello spiega che dopo una
missione lunga e pericolosa, il comandante Swan aveva bisogno di riposarsi un
po’. Si
parla ancora a lungo della cattura della nave negriera: da tempo non capitava
un evento così importante. Gerald
ha concluso gli articoli per il giornale The
Morning. Ha raccontato la cattura della nave dei negrieri, la liberazione
dei neri e l’impiccagione dell’equipaggio come se avesse partecipato
attivamente all’intera operazione. In questo modo la narrazione è molto più
vivida e a Gerald non spiace apparire come un giornalista eroico, che sfida
il pericolo. Ha anche inventato qualche dettaglio, per rendere più drammatico
l’arrembaggio alla nave dei negrieri. Nell’ultimo articolo Gerald fa qualche
allusione a nuovi elementi che potrebbero portare alla scoperta
dell’organizzatore della tratta. Tra le righe si capisce che il giornalista
sa molto di più di quello che scrive, ma non vuole rivelarlo per non
intralciare le indagini. Del
Toro, Gerald non ha scritto nulla: i sei articoli che ha scritto appariranno
uno dopo l’altro sul The Morning,
non appena la prima nave diretta a New York raggiungerà la città. Ce n’è di
che intrattenere a lungo la curiosità del pubblico. Gerald preferisce tenersi
il nero come una carta da giocare successivamente. A
Kingston l’interrogatorio del prigioniero non porta a grandi risultati.
L’uomo dice di chiamarsi Elijah e di essere uno schiavo di Jacques Lapierre,
il comandante che veniva chiamato La Mort. Elijah però nega di sapere per chi
lavorasse La Mort. A
occuparsi degli interrogatori è il tenente Greg Pyle, un uomo vigoroso, con
un viso squadrato, radi capelli biondi e occhi grigi. Pyle non è convinto che
il nero dica la verità, perciò decide di passare a misure più forti: finora
Elijah si è preso solo qualche pugno e schiaffo, ma adesso Pyle intende
andare sul pesante. Elijah
viene condotto nei sotterranei della fortezza e gli viene tolta la camicia.
Pyle non può non ammirare la forza di questo magnifico maschio. Il
carceriere lega le mani di Elijah a un gancio fissato in alto sul muro. Poi,
a un cenno di Pyle, prende la frusta e incomincia ad abbatterla sulla schiena
del prigioniero. Elijah stringe i denti, ma non dice nulla. Pyle osserva i
segni rossi che la frusta lascia sulla pelle nera. Si avvicina, afferra il
mento di Elijah con una mano, costringendo l’uomo a guardarlo in faccia. -
Parla, bastardo. Chi è il capo? Elijah
ansima. -
Non lo so… Lo giuro: non lo so. Pyle
fa cenno al carceriere, che riprende a fustigare Elijah. La pelle si spacca e
il sangue sgorga dalle lacerazioni. A Pyle piace guardare Elijah, che a ogni
colpo si contorce. Questo fottuto negro resiste, ma prima o poi cederà. Ora
a ogni frustata Elijah emette un grido, prima soffocato, poi, man mano che i
colpi si susseguono, sempre più forte. Le sue urla trasmettono un brivido di
piacere a Pyle. È bello sentire questo fottuto negro urlare, è bello
guardargli la schiena su cui il sangue scorre abbondante. Pyle si rende conto
che gli sta venendo duro. -
Abbassagli i pantaloni. Il
carceriere obbedisce. Pyle guarda il culo del negro, vigoroso e possente come
tutto il corpo. La sua eccitazione cresce. -
Sul culo. Il
carceriere incomincia a fustigare Elijah sulle natiche. Pyle guarda i segni
che la frusta lascia sul culo. Ormai ha il cazzo tanto duro da fargli male.
Pyle si rende conto che non ha più nemmeno interrogato il prigioniero: si sta
limitando a godersi la fustigazione. Pyle
fa un cenno al carceriere, che si ferma, e passa di nuovo di lato a Elijah.
Il suo sguardo scivola al cazzo del prigioniero. Un cazzo da toro, davvero. Pyle
ha la sensazione di essere ubriaco, anche se non ha bevuto nulla. -
Allora, pezzo di merda, chi è il capo? Da chi andava quel figlio di puttana
del tuo padrone, qui alla Giamaica? -
Non lo so, non lo so. Pyle
sente la rabbia montare dentro. Non è solo rabbia: è desiderio, un desiderio
feroce. Fa un cenno con la testa al carceriere. L’uomo riprende a fustigare
il prigioniero. Elijah
si lamenta ancora, poi reclina il capo e si lascia andare: dev’essere svenuto
e solo la corda che lo tiene legato al gancio gli impedisce di cadere. -
Basta così, adesso vai. Pyle
si rende conto che la voce gli è uscita roca, quasi a fatica. Il carceriere
fa un cenno con il capo ed esce. Pyle raggiunge la porta. La chiude: vuole
essere sicuro che nessuno entri. Si avvicina al prigioniero, inerte. Guarda
la schiena e il culo, grondanti sangue. Pyle
si spoglia, per evitare di sporcarsi la divisa. Ha il cazzo duro come una
lama e teso verso l’alto. Se lo accarezza, sorridendo. Afferra
le natiche del nero e le divarica. Osserva l’apertura. Si inumidisce la
cappella, poi si abbassa un po’ e infilza il culo di Elijah, affondando il
cazzo fino in fondo. È una sensazione fortissima, che lo stordisce. L’uomo
emette appena un gemito: non è cosciente, ma ha avvertito l’ingresso. Pyle
incomincia a fottere il nero, muovendo ritmicamente il culo. Ogni volta che
affonda il cazzo, sente un’ondata di piacere. Pyle spinge in avanti, poi si
ritrae e riprende il movimento. Intanto passa una mano davanti e stringe il
cazzo del nero. Ha un bel cazzo, questo negro di merda. La mano scende ai
coglioni e li stringe, con forza. Il nero geme nuovamente, più forte. La
stretta di Pyle diventa più decisa. Vorrebbe spaccarglieli. Pyle porta anche
l’altra mano e aumenta la pressione, senza arrestare il movimento. Ma il
piacere cresce ancora e lo travolge, mentre il suo sborro riempie il culo del
nero. Pyle
si affloscia sul corpo del nero. Dopo
un momento si rialza. Mormora, quasi rabbioso: - La
prossima volta i coglioni te li spacco, puoi giurarci, fottuto bastardo. Pyle
ha il torace e il ventre sporchi di sangue. Si pulisce con la camicia del
prigioniero. Poi si riveste e lascia la cella. Elijah è ancora incosciente. Greg
Pyle raggiunge l’ufficio del colonnello. Saluta. -
Allora, tenente Pyle? -
Niente, signor colonnello. O davvero non sa o è deciso a resistere. Lo abbiamo
fustigato fino a farlo svenire, ma continua a sostenere di ignorare il nome
del capo. Il
colonnello annuisce. È probabile che Elijah non menta: l’unico sulla nave a
sapere chi sia l’organizzatore della tratta forse era davvero Jacques La
Mort. Questo però significa che la tratta riprenderà, con un altro capitano e
un’altra nave. La Royal Navy ha vinto una battaglia, ma non la guerra. -
Continuerete a cercare di farlo parlare. Magari a forza di frustate gli
tornerà la memoria. -
Signorsì, signor colonnello. Nei
giorni seguenti Elijah viene più volte fustigato, fino a fargli perdere i
sensi, ma il nero continua a negare di conoscere l’organizzatore della
tratta. Dice che era Jacques La Mort a tenere i contatti con il proprietario
della nave e con i vari commercianti che fornivano l’occorrente per le
spedizioni. La
schiena e il culo di Elijah sono coperti di piaghe. È evidente che da
quest’uomo non si ricaverà nulla: probabilmente non sa davvero niente di
utile e se invece è a conoscenza di qualche cosa, è deciso a non rivelarlo. Elijah
verrà impiccato. L’esecuzione sarà pubblica e avverrà tra qualche giorno. Per
il momento nessuno al di fuori dei militari è a conoscenza della prigionia di
Elijah. Il
tenente Greg Pyle entra nella cella. Elijah è appoggiato contro la parete.
Appare incosciente, ma non può stendersi perché ha le mani incatenate in
alto. Prima
che lo impicchino, Greg vuole gustare ancora una volta il suo culo. Gli piace
inculare un uomo forte, come questo fottuto negro di merda. Greg si spoglia,
perché dalle piaghe aperte dalle frustate escono sangue e pus. Poi afferra
Elijah e cerca di voltarlo, ma con le catene non gli riesce di metterlo nella
posizione voluta: questo figlio di puttana è pesante, la catena gli tiene le
braccia alzate e per poterlo inculare Greg dovrebbe sollevarlo e sostenerlo.
Greg bestemmia. Vuole fotterlo, ce l’ha già duro. Greg decide di liberarlo
dalle catene, in modo da poterlo prendere comodamente: tanto il bastardo è
svenuto. Greg
distende Elijah a terra, poi gli allarga un po’ le gambe. Con le mani
divarica le natiche e guarda l’apertura. Si inumidisce la cappella con la
saliva e poi infilza il culo del nero con una spinta. Cazzo! Che meraviglia!
Fottere questo culo vigoroso è bellissimo. Greg spinge con forza: vorrebbe
far sanguinare il culo di questo negro di merda. Elijah
geme. Si muove. Poi di colpo si solleva. Si è svegliato o forse fingeva
soltanto di essere svenuto. Greg è colto di sorpresa. Scivola a terra. Si
alza in fretta, ma un pugno lo prende al ventre. Il colpo è una mazzata. Greg
si piega in due e il secondo pugno lo sbatte contro la parete. Greg urta il
muro con la testa e il mondo svanisce in una fitta di dolore. Elijah
si infila i pantaloni e la camicia sporca di sangue. Con cautela si affaccia
alla porta della cella. Sa benissimo che le sue possibilità di uscire dalla
prigione senza essere fermato sono minime, ma è notte e tutt’intorno c’è
silenzio. Elijah vede una sentinella di guardia all’ingresso dell’edificio in
cui si trova. Prenderla di sorpresa è difficile e se il soldato desse
l’allarme, Elijah non avrebbe nessuna possibilità di riuscire a fuggire.
Elijah si infila in una stanza. Con cautela apre la finestra e guarda fuori.
La finestra si affaccia su un passaggio tra il muro di cinta esterno e
l’edificio in cui ci sono le celle. Elijah scavalca la finestra e raggiunge
il muro. Cerca un punto in cui issarsi. Ci sono due alberi e Elijah riesce a
salire e arrivare alla sommità del muro. Ogni movimento gli provoca fitte
alla schiena, ma Elijah ignora il dolore. A cavalcioni sul muro controlla che
non ci sia nessuno e salta in strada. Si allontana in fretta. Sa dove andare.
Ora che è libero, si pente di non aver ucciso quel figlio di puttana
dell’ufficiale, ma con lui provvederà a regolare i conti. Gerald
è a Kingston. Vuole avere informazioni sull’interrogatorio del nero che è
stato catturato. Decide di contattare il capitano Swan. Conoscendo le
abitudini della guarnigione, lo cerca nelle due taverne che frequentano gli ufficiali.
Lo trova senza difficoltà. -
Buongiorno, capitano. Mi fa molto piacere vederla. Come sta? -
Buongiorno a lei, signor Doane. Io sto bene, grazie. E lei? -
Anch’io. Mi permette di offrirle un bicchiere? -
Grazie, signor Doane. Lei è molto gentile. Gerald
chiacchiera del più e del meno: vuole far passare del tempo, in modo che il
capitano abbia modo di bere parecchio. Non appena Swan ha vuotato il
bicchiere, Gerald glielo riempie di nuovo.
Quando
Swan ha ormai bevuto una buona quantità di rhum, Gerald ritiene che sia
giunto il momento di affrontare l’argomento che gli sta a cuore. Chiede: -
Allora, capitano Swan, quel fottuto negro che avete catturato, il Toro, ha
fornito qualche informazione utile? Swan
si guarda intorno, per controllare che nessuno li stia ascoltando. -
Signor Doane, si dimentichi quella faccenda. Non avrei dovuto parlargliene. -
Capitano, è il mio lavoro. Ho mantenuto la promessa che le ho fatto e non ne
ho parlato con nessuno. Adesso però il tempo per interrogare il prigioniero lo
avete avuto. - Il
prigioniero non ha confessato. Forse non sapeva davvero il nome del
trafficante. O forse era soltanto uno tosto. -
Avete rinunciato a ricavarne qualche cosa? -
Per forza. -
Allora adesso lo impiccherete. Ma perché continuate a tenere segreta la sua
prigionia? Swan
è chiaramente a disagio. Gerald è sicuro che il capitano gli nasconda qualche
cosa. Si versa ancora un po’ di rhum, anche se il suo bicchiere è mezzo
pieno, e poi ne versa a Swan, che beve. A Gerald viene da sorridere. Il capitano
è un coglione, ma va bene così: Gerald è sicuro che riuscirà a ottenere le
informazioni che gli servono. Insiste: -
Allora, capitano? - Il
prigioniero non… oh, merda!, Doane, lasci perdere. Gerald
non ha nessuna intenzione di demordere. - Ma
su, mi racconti. -
Non molla mai, lei, eh? Gerald
sorride. -
Certo che no. Fa parte del mio lavoro. Swan
scuote la testa, poi sbotta: -
Merda, Doane! Il prigioniero è fuggito, due giorni fa. Quello stronzo di
Pyle… -
Fuggito!? Ma come è possibile? - Il
tenente Pyle si è lasciato sorprendere durante… un interrogatorio. Ieri il
prigioniero lo ha tramortito ed è scappato. -
Questa, poi! Non era legato, incatenato? E poi, di giorno… riuscire a uscire
senza che nessuno se ne accorgesse. -
Non era giorno, è successo nel cuore della notte. E quello stronzo di Pyle lo
aveva sciolto. -
Nel cuore della notte? Lo interrogavate nel cuore della notte? E perché poi
lo aveva sciolto? Gerald
è perplesso. A volte i prigionieri vengono privati del sonno per indebolirli,
ma gli sembra strano che gli interrogatori avvengano la notte. -
Quel coglione di Pyle… Si è meritato i pugni che si è preso. L’abbiamo
trovato svenuto… lasciamo perdere… è meglio che non le racconti… no, non
posso proprio… Gerald
versa ancora da bere al capitano. -
Una faccenda alquanto strana. Non capisco. -
Non capisce, eh? Swan
prende il bicchiere e guarda il liquore. Sorride e beve. Poi si appoggia
contro il muro. Guarda Gerald, ride e dice: -
Glielo spiego io. Sì, glielo spiego. Ride
ancora, ma non prosegue. È
evidente che il capitano ormai è ubriaco. Gerald è sicuro di ottenere ciò che
vuole e non lo forza. Sorride e risponde. -
L’ascolto. Swan
guarda Gerald e scuote la testa. Rutta, si porta la mano alla bocca e
nuovamente ridacchia. -
L’abbiamo trovato svenuto, quello stronzo di Pyle, svenuto. Con i pantaloni
abbassati. E il cazzo fuori, ancora sporco. Che coglione! Gerald
annuisce: ha capito che cosa è successo. Sogghigna. -
Questa poi! Si è lasciato sorprendere. -
Già, talmente infoiato da non rendersi conto che liberando il prigioniero
rischiava di farsi ammazzare. Gli è andata bene che il negro l’ha solo
colpito. Poteva strangolarlo. -
Sarà in punizione, ora. -
Può dirlo. Per aver lasciato scappare un prigioniero. Ma l ‘altra faccenda è
stata messa a tacere, per il buon nome dell’esercito, anche se quel coglione
di Pyle meriterebbe di essere impiccato. Diciamo che quella dei pantaloni
abbassati è uno sfregio del prigioniero, per umiliare il tenente… Merda! Che
coglione, quello! Farsi fottere in quel modo! Gerald
ride: - Da
quel che mi dice, in realtà è lui che ha fottuto il prigioniero, ma poi in
effetti si è fatto fottere. Sì, è stato un coglione a liberare il Toro. Gerald
ha finito di scrivere l’articolo sul prigioniero scappato. Non ha fatto riferimento
ai pantaloni abbassati: il pubblico del The
Morning non apprezzerebbe certi dettagli, l’esercito ancora meno. Ma ne
parlerà con gli amici al suo ritorno a New York. Per
il momento però Gerald non ha nessuna intenzione di tornare negli Stati Uniti.
A Spanish Town sta benissimo, è invitato ai ricevimenti del governatore e in
alcune delle piantagioni vicino alla capitale. È il beniamino delle donne,
affascinate da questo statunitense impertinente. La bella Edith Crawford tra
poco gli cederà, Gerald ne è sicuro. E il bordello di Mamy Louise offre le
migliori puttane che Gerald abbia mai conosciuto, ragazzine nere che sanno
fare di tutto. Gerald ci va almeno tre volte la settimana. La Giamaica è un
piccolo paradiso dove ci si può muovere molto più liberamente che a New York. Nella
residenza del governatore, Gerald sta chiacchierando con Edith Crawford, il
piantatore Richard Goldberg e alcuni altri ospiti. Edith
chiede: - E
quando tornerà a New York, signor Doane? -
Non appena potrò scrivere un articolo con la notizia dell’arresto del
trafficante di schiavi. -
Per il momento nessuno sa chi è. Gerald
sorride. -
Nessuno… ne è sicura? - A
parte i suoi complici, naturalmente. Ma non si sa chi siano. - Ma
forse c’è qualcuno che sa… e che potrebbe presto rivelarlo… Un
lampo di curiosità si accende negli occhi di Edith Crawford. -
Signor Doane! Non mi dica che è riuscito a scoprire l’identità del
trafficante! Gerald
sorride. -
Non voglio vendere la pelle dell’orso prima di averlo ucciso, ma… credo che
l’orso abbia ancora poco da vivere. Ho condotto le mie indagini… - E
che cosa ha scoperto? -
Non posso anticipare niente, ma sono sicuro di poter risalire alla vera
identità dell’organizzatore della tratta. - Ma
questo è incredibile. - È
il mio lavoro, no? Gerald
non ha la più pallida idea di chi sia a gestire la piccola tratta. Ma gli è
sembrato un buon modo per far colpo su Edith, che in effetti non nasconde la
sua ammirazione. Nei prossimi giorni Gerald intende marcare la donna da
vicino. Ormai è sicuro del risultato. Poi inventerà qualche storia per
spiegarle come mai non è in grado di rivelare l’identità del misterioso
trafficante. Il
giorno dopo un soldato comunica a Gerald che il colonnello Brown gli vuole
parlare. Gerald
si presenta nella caserma. Brown lo riceve immediatamente. -
Buongiorno, signor Doane. L’ho fatta chiamare perché ho bisogno di parlare un
momento con lei. - Mi
dica, colonnello. Di che cosa vuole parlarmi? - Di
quella che viene chiamata la piccola tratta, da Haiti agli Stati Uniti
d’America. Gerald
è stupito. Ovviamente sa benissimo che cos’è la piccola tratta: è stata il
principale soggetto dei suoi articoli e il colonnello ne è a conoscenza.
D’altronde è l’argomento di cui si parla di più alla Giamaica, soprattutto
dopo la cattura della nave dei negrieri. Gerald annuisce, in attesa che il
colonnello gli spieghi che cosa vuole da lui. Il
colonnello prosegue: -
Come lei sa benissimo, la piccola tratta è organizzata da un uomo che non conosciamo.
Jacques La Mort, come veniva chiamato il comandante della nave, era
probabilmente l’unico a sapere la sua vera identità. Gerald
non capisce perché il colonnello gli dica cose di cui entrambi sono
perfettamente informati. Sembra che il colonnello si aspetti qualche cosa da
lui. Gerald si limita a rispondere con un generico: -
Sì, certo. Poi
aggiunge, con un sorriso: - O
magari ne sapeva qualche cosa anche il suo aiutante, quel negro che avevate
catturato e che vi è sfuggito. Il
colonnello si irrigidisce. Poi annuisce, a qualche suo pensiero.
Probabilmente sospettava che Gerald fosse a conoscenza del prigioniero e
della sua fuga. C’è
un momento di silenzio, poi il colonnello dice: -
Signor Doane, ieri sera lei ha raccontato di conoscere l’identità
dell’organizzatore di questa tratta. Ora
Gerald è un po’ in imbarazzo. Non si aspettava di dover rendere conto delle
sue vanterie. Una conversazione in un salotto, per far colpo su una bella
donna, non è una testimonianza in tribunale. - Ma
no, non ho mica detto che lo conoscevo. -
Questa è l’impressione che ha dato, non a uno solo degli ospiti del
governatore. Ha detto che le sue indagini lo hanno portato a fare scoperte
importanti e che è sicuro di poter risalire alla vera identità… Gerald
è infastidito. Gli scoccia doversi smentire, ma non sa chi possa essere il
misterioso organizzatore. Sorride e dice: -
Probabilmente avevo bevuto un po’ troppo. Non ho proprio idea di chi sia quel
trafficante di schiavi. Il
colonnello annuisce. Non sembra stupito. -
Signor Doane, le credo. Ho pensato che si trattasse solo di… parole. Ma
quelle parole sono state sentite da molti. Quindi?
Gerald non capisce. Il colonnello prosegue: - Il
trafficante di schiavi a quest’ora potrebbe essere già a conoscenza di queste
sue vanterie. E non è detto che sappia che erano soltanto vanterie. Gerald
è a disagio. - E
allora? -
Allora le consiglio di fare attenzione. Quell’uomo non ha nessuna intenzione
di farsi catturare. Se ritiene che lei costituisca una minaccia, potrebbe
decidere di sopprimerla. Gerald
guarda il colonnello, perplesso. È davvero in pericolo? No, probabilmente no.
Anche il trafficante di schiavi, chiunque sia, sa benissimo che lui non ha
nessuna carta in mano. Con ogni probabilità il colonnello vuole spaventarlo
un po’, per toglierselo dai coglioni. - La
ringrazio per l’avvertimento. Farò attenzione. E cercherò di bere di meno… Gerald
sorride, saluta ed esce. Pensa che questa sera andrà al bordello e domani
lancerà l’assalto finale alla bella Edith. Gerald è sicuro di ottenere ciò
che vuole. È
ormai notte fonda quando Gerald esce dal bordello. Le negre qui alla Giamaica
sono fantastiche. L’ultima con cui ha scopato non deve avere più di
quattordici anni, ma sa fare di tutto. Mamy Louise tiene merce di prima
qualità: l’altro giorno gli ha offerto una ragazzina che era ancora vergine.
Gli è costata parecchio, ma ne valeva la pena. L’altro bordello di Spanish
Town non vale la metà di questo. Gerald
si avvia verso la sua residenza. Un uomo sta venendo in direzione opposta a Gerald.
Probabilmente va al bordello. Quando si incrociano, l’uomo scarta leggermente
a sinistra, come per lasciare il passo a Gerald. Ma mentre il giornalista
passa l’uomo estrae il coltello e glielo affonda nel ventre. Gerald emette un
grido strozzato, mentre l’uomo estrae la lama e colpisce altre tre volte.
L’ultimo colpo è al cuore. L’uomo
si allontana in fretta. Il cadavere di Gerald Doane rimane steso a terra fino
a che la ronda notturna non lo trova. * Alcune
settimane dopo la morte del giornalista Gerald Doane, una lettera arriva a
Edward Hardy, nella sua casa di Londra. Edward
la prende in mano e la guarda, senza aprirla. Crede di conoscerne il
contenuto, perché qualche giorno fa ha letto della cattura della nave Sirius
ad opera del capitano Swan della Royal Navy. Edward posa la lettera sulla
scrivania. Si alza e va alla finestra. Guarda la strada che si sta animando.
Mormora: -
Vanno al lavoro. Per loro incomincia una giornata come un’altra. Poi
torna alla scrivania, prende il tagliacarte e apre la busta. Al momento di
prendere il foglio, si accorge che la mano gli trema. Legge
la lettera, che proviene da Londra, ma porta notizie dalla Giamaica. È quanto
si aspettava. Edward china la testa. Si
chiede se distruggere la lettera, ma ormai non ha più importanza. Si alza e
la sistema nel suo archivio. Thomas deve avere un quadro completo della
situazione. Poi prende dal primo cassetto della scrivania un foglio bianco e
incomincia a scrivere. Quando ha finito, lo piega e lo infila in una busta,
su cui scrive il nome di Thomas Hardy, il suo primogenito. Posa
la lettera sulla scrivania e la fissa a lungo, senza più vederla. Mormora: - Mi
spiace, Thomas. Non sono stato giusto con te, lo so, tu non avevi nessuna
colpa, ma… Ormai è tardi. E ora… anche questo. Apre
il secondo cassetto. Osserva la pistola. La prende. Guarda ancora la busta
con il nome di Thomas. Si punta la pistola alla testa. Sente la canna premere
contro la tempia. Deglutisce. Posa la pistola sulla scrivania. La mano gli
trema. Non
c’è altra via. Non c’è altra via. Edward
prende l’arma, la punta nuovamente alla tempia. Preme il grilletto. Quando
il servitore che ha sentito lo sparo entra nello studio, il corpo di Edward
Hardy è riverso sulla sedia, un foro alla tempia, da cui cola il sangue. La
pistola è caduta a terra. |
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