6
  
 IL POSTO SBAGLIATO
  Quando Dessart lo scosse,
  era appena mattino. François aveva dormito poche ore e aveva un gran sonno,
  ma non c’era tempo da perdere. Sorrise a Dessart e, con un gesto istintivo,
  tese il braccio e gli prese la mano. - Grazie, capitano. Dessart ricambiò il suo
  sorriso, poi ritornò serio e parlò: - Questa notte ci siamo
  allontanati molto dalla nostra strada. Dovremo fare un altro percorso, che mi
  piace poco, ma non abbiamo scelta. Non credo che ci convenga ripassare dal
  castello. - Temo che, come dice il
  mio capitano, non ci accoglierebbero a braccia aperte. - Il tuo capitano è
  proprio intelligente! François rise. - Non ne ho mai dubitato. - Proprio mai? A François ritornò in
  mente quanto aveva pensato di Dessart qualche giorno prima e sentì la sua
  faccia accendersi. Doveva essere rosso brace, ormai. Dessart rise. - Non ti preoccupare,
  anch’io ho cambiato opinione su di te. Andiamo, Girod. Le parole di Dessart
  incuriosirono François, che però non disse nulla. Il capitano si avviò e
  François lo seguì. Ora poteva vedere davanti a sé la schiena possente di
  Dessart, segnata dalle frustate. Senza riflettere, chiese: - Non hai freddo? Perché
  non ti sei preso anche tu una camicia e una giacca? Dessart voltò la testa e
  gli lanciò uno sguardo ironico: - Penserai mica che ci
  starei in una camicia come la tua? François si rese conto di
  aver detto una sciocchezza: quell’Ercole non sarebbe mai entrato in una
  camicia del marchese: non era certo della stessa misura. Per lui sarebbe
  andata bene quella del conte, ma la sera prima non era certo il caso di
  mettersi a cercare la camera del conte per trovare giacca e camicia! Camminarono a lungo in silenzio,
  evitando le fattorie, fino a che non si ritrovarono su una strada.  - È la strada da Fougères a Rennes. Ci
  converrebbe andare in direzione di Rennes, ma
  torneremmo vicino al castello e non è prudente. Quindi, andiamo verso Fougères. - Quanto è lontana? - Non più di un’ora di
  cammino. Si avviarono, seguendo la
  strada, ma tenendosi ai margini. In alcuni punti Dessart si spinse in avanti
  per controllare la situazione, poi tornò a prendere François. Due volte
  lasciarono la strada per passare tra gli alberi, senza però allontanarsi
  troppo. Quando furono vicini a Fougères, Dessart rinunciò alle precauzioni. - Qui non corriamo più il
  rischio di cadere in un’imboscata, siamo troppo vicini alla città. François fu contento di
  essere fuori pericolo, ma si rese conto che Dessart non era perfettamente
  tranquillo e questo lo rese inquieto. - Qualche problema,
  Dessart? - No, nessuno. - Fermi! La voce era risuonata alle
  loro spalle. Si voltarono. Quattro soldati appostati tra gli alberi uscirono
  allo scoperto. - Chi siete? - Il capitano Dessart e il
  soldato Girod. Torniamo da una missione per conto
  del capo-brigata Hulot e stiamo andando a Fougères, per parlare con il capitano Béage. Dagli sguardi che si
  scambiarono i soldati, François capì che dovevano conoscere i loro nomi.
  Probabilmente erano stati avvisati della loro fuga. - Alzate le braccia. Siete
  in arresto. Il capitano è qui vicino. Foy, vallo a
  chiamare. Mouriès, controlla che non siano armati. Dessart alzò le braccia e
  François lo imitò. - Abbiamo tutti e due un
  coltello e null’altro. - Non abbassare le
  braccia. Lo prenderà Mouriès. Il soldato che si chiamava
  Mouriès prese la sacca, tolse i coltelli e
  controllò che François non avesse altre armi. Le sue mani scorsero
  velocemente sulla camicia e poi più lentamente lungo il culo di François. Il
  soldato Mouriès non stava più cercando coltelli, ma
  approfittava dell’occasione per palpare un po’. Mouriès aveva appena finito quando arrivò il
  capitano. Era un uomo sui quarant’anni, dai lunghi capelli rossi e il viso
  lentigginoso. La sua voce era tagliente. - L’assassino
  dell’aiutante generale Auray e il disertore
  Dessart: un buon colpo! Dessart replicò con
  fermezza: - Béage,
  non sono un disertore e il soldato Girod non ha
  ucciso l’aiutante. Il capo-brigata Hulot è
  informato di tutto. È stato lui a mandarci in missione al castello di Roussière. - Lo dici perché sai che
  il capo-brigata è stato ucciso questa notte. Speravi che la notizia non fosse
  ancora arrivata, ma ne siamo stati informati poco fa. François vide una leggera
  contrazione sul viso di Dessart: la morte di Hulot
  doveva averlo colpito profondamente. Dessart replicò con decisione: - Nella bisaccia ci sono
  le teste del marchese di Vilhoet e del conte di La Boussac, che abbiamo ucciso. Ci sono anche documenti
  importantissimi, che permetteranno di domare la rivolta. Li stavamo portando
  a Fougères perché tu li facessi giungere al comando
  di Rennes. - Stai cercando di
  salvarti, perché tanto ormai le carte sono nelle nostre mani. Non so perché
  avete ucciso il marchese e il conte, ma non credo alle tue frottole. Voi due
  finirete al plotone. Dessart non batté ciglio,
  ma replicò: - Girod
  non ha ucciso l’aiutante generale Auray:
  l’assassino è uno dei camerieri della locanda, che è venuto quella sera a
  portare del vino per gli ufficiali, un certo Bruz. - Non credo a una parola
  di quello che dice un disertore. - Puoi non credermi, ma
  non puoi non controllare. Nella bisaccia c’è anche una lettera che lo prova.
  Devi verificare. - Pensi di potermi dire
  che cosa devo fare? - Se non fai il tuo
  dovere, sì. Béage fissò Dessart con odio, ma non rispose.
  Si rivolse ai suoi soldati. - A Fougères.
  Teneteli sotto tiro. Se solo cercano di scappare, sparate senza pietà. Voi
  due, le mani dietro la nuca. Dessart e François
  obbedirono e il gruppo si avviò.   In una ventina di minuti
  furono a Fougères. Mentre passavano per la strada,
  la gente si radunava per vedere i due prigionieri. François sentiva i
  commenti: tutti sapevano che erano due soldati, dicevano che erano due
  assassini, due disertori. Le voci si accavallavano e man mano che salivano
  per le vie della città, la folla cresceva.  François era confuso e si
  sentiva a disagio. Avrebbe voluto chiedere spiegazioni a Dessart, ma non era
  il momento. Che cosa sarebbe successo? Hulot doveva
  essere l’unico a sapere che Dessart aveva una missione e che non era un
  disertore, ma tutto dimostrava che non erano traditori in fuga: i documenti
  nella borsa, le teste dei due capi della rivolta, il fatto stesso che loro stessero
  andando a Fougères lungo la strada. E la lettera di
  cui aveva parlato la marchesa provava la sua innocenza. Eppure Dessart non
  era tranquillo. E se non era tranquillo lui, ci doveva essere qualche motivo. - Il tuo nome, soldato. La voce femminile, più
  forte delle esclamazioni della folla, risuonò inattesa. François guardò nella
  direzione da cui proveniva e vide la donna che aveva salvato. - Il tuo nome! - François Girod. Béage intervenne: - Signorina Cabourg, non può parlare al prigioniero. È un assassino. La donna guardò Béage con un’espressione di disprezzo, si voltò senza
  rispondergli e se ne andò, fendendo la folla. Béage diede un violento spintone a François. - Muoviti, disgraziato. Giunti nella fortezza, Béage si rivolse ai suoi uomini. - Portateli subito in
  cella. I soldati li fecero
  scendere nei sotterranei e li condussero in una cella, che prendeva luce da
  una finestra con la grata, collocata in alto. Dessart si sedette sul
  tavolaccio che serviva da giaciglio e François si mise al suo fianco. Dessart taceva, immerso
  nei suoi pensieri. Per un buon momento François rispettò la sua meditazione,
  poi parlò, perché il silenzio cominciava a pesargli.  - In fuga o in cella, in
  cella o in fuga: mi sembra che in questo periodo non abbiamo fatto altro che
  scappare o marcire rinchiusi.  Dessart si riscosse. - Beh, non sarei così
  pessimista. Abbiamo fatto un sacco di altre cose: abbiamo privato la
  ribellione di due dei suoi capi, probabilmente l’ultimo sarà catturato grazie
  a quelle lettere, tu hai impedito a una poveretta di venire violentata da
  quelle bestie e… François completò la frase
  per lui: - …finiremo
  tutti e due al plotone. Dessart si morse il
  labbro. - Siamo finiti nel posto
  sbagliato. Ma non potevo prevedere la morte di Hulot.
  Mi sarei tenuto lontano da Fougères, se lo avessi
  saputo. - Il posto sbagliato? Che
  cosa intendi dire? - Béage
  mira al posto di Auray, se non a quello di Hulot, ora che è morto.  - E allora? - E allora non gli pare
  vero di poter eliminare il concorrente più temibile. Che cosa credi? Anche se
  ha appoggi in alto, non sarà lui a ottenere la promozione se si sa che ho
  ucciso il conte e il marchese e portato le lettere. Perciò ha tutto
  l’interesse a far credere che io sono un disertore. D’altronde mi odia perché
  ha dieci anni in più di me e il mio stesso grado. François si sentì gelare. - Vuoi dire che ci farà
  davvero fucilare? - Quanto a me, certamente,
  e subito. Quanto a te, no, non così in fretta, almeno. Non gli dai troppo
  fastidio. Farà comunque un’indagine su questo Bruz,
  per essere sicuro: se non la fa rischia grosso. E secondo me non sarà
  difficile incastrare Bruz: quello del vino era uno
  stratagemma, non è stato certo il sindaco di Rennes
  a mandarlo. Béage non può non indagare: ho parlato
  davanti ai suoi soldati, loro sanno. Te la caverai. Ma non potrò aiutarti: a
  parte Hulot, nessuno sapeva della mia missione. Ci fu una pausa, poi
  Dessart aggiunse: - Mi spiace per Hulot. Era il miglior comandante che ho conosciuto, un
  vero patriota.  Lo sgomento invase
  François.   - Dessart, non mi dire… Non finì la frase. L’idea che
  Dessart potesse essere fucilato lo angosciava. Dai suoi compagni d’armi, per
  di più! Per avere cercato di salvare lui! La voce di Dessart interruppe i
  suoi pensieri: - Hai un’idea del perché
  la figlia del sindaco ha chiesto il tuo nome? - La figlia del sindaco? Intendi… - Cabourg
  è il sindaco della città e quella donna deve essere sua figlia: Béage non la trattava con tanto riguardo, se non aveva
  una posizione importante. - È la donna che ho salvato… ieri. Ieri! Gli sembrava che
  fosse passato un secolo ed erano appena trascorse ventiquattr’ore. Dessart lanciò un urlo di
  gioia. - Splendido. Si darà da
  fare. È sicuramente una donna decisa. Questo mi assicura che Béage farà l’indagine. Ottimo! - Abbiamo qualche
  probabilità in più di cavarcela? Ostinatamente François
  cercava di accomunare in un unico destino se stesso e il capitano. - Te la caverai
  senz’altro. - E tu? Dessart alzò le spalle.
  François sbottò: - Guai a quel figlio di
  puttana se decide di farti fucilare. Lo minaccerò di rivelare a tutti la
  verità. La figlia del sindaco mi aiuterà, si saprà fino agli alti comandi che
  vuole farti fucilare solo per eliminare un concorrente. Non oserà farlo! - François… Prima che Dessart potesse
  completare la frase, sentirono che il catenaccio veniva aperto ed entrò Béage, seguito da due soldati. Béage sorrideva. - Cittadino Girod, anche se non credo alla tua innocenza, farò
  indagare su questo Bruz di cui si parla nella
  lettera. Non voglio scontentare un fedele repubblicano come il cittadino Cabourg. Rimarrai qui fino a che non avremo stabilito che
  cosa è successo. Quanto a te, cittadino Dessart, sarai fucilato domani
  all’alba. François esplose in un
  urlo: - No! Non è giusto. Se lo
  fai io… Il pugno di Dessart lo
  prese di sorpresa. Fu come se un macigno fosse stato scagliato sul suo
  stomaco. Boccheggiò, incapace di articolare ancora un suono, e sarebbe caduto
  se Dessart non lo avesse sostenuto e fatto sedere sul tavolaccio. Dessart si
  rivolse a Béage: - È molto giovane e si
  scalda per niente. Béage fissò
  François. Nei suoi occhi
  c’era odio. E minaccia. - Dovrà imparare a tenere
  a freno la lingua, se vuole invecchiare. Con queste parole Béage uscì e la porta venne chiusa. Dessart si avvicinò e
  rimase in piedi di fronte a François, che aveva le lacrime agli occhi per il
  dolore e la rabbia. Nella sua voce François colse una malcelata irritazione. - Mi spiace, François,
  spero di non averti fatto troppo male. Ho cercato di dosare le forze, ma
  dovevo farti stare zitto. Porcod…, François, vuoi
  farti ammazzare? Vuoi che crepi pensando che non sono nemmeno riuscito a
  salvare te? François lo fissava,
  cercando di recuperare il respiro. Se quel colpo era stato dato dosando le
  forze, che cosa sarebbe stato un colpo vibrato senza dosarle? Probabilmente
  lo avrebbe trapassato, da parte a parte. - Non capisci, François?
  Se lo minacci, non solo non ottieni di salvarmi, ma metti in pericolo la tua
  vita. Può dire che crede alle tue parole e mandarti, con i soldati che hanno
  assistito al nostro arresto, al castello di Roussière,
  che tu conosci tanto bene. Quattro o cinque soldati. Come credi che sarete
  accolti? François lo sapeva
  benissimo. Annuì. - Quindi, niente minacce.
  A testa bassa. Contento quando provano la tua innocenza e cerca di non farti
  notare, deve dimenticarsi la tua esistenza. Ci sono molti modi di mandare un
  soldato a morte, senza fucilarlo, e Béage li userà
  tutti, fino a che non ottiene il risultato, se solo pensa che tu puoi
  danneggiarlo. Sai la verità e questo non gli va bene. Se non dici nulla, eviterà
  di prendere iniziative, se non altro per ingraziarsi il sindaco. François annuì di nuovo.
  Poi trovò la forza di parlare: - Scusami. - Scusami tu, non volevo
  farti male. François, devi vivere, non solo per te, anche per me: devi
  raccontare ai tuoi compagni la verità, devono sapere che sono scappato con
  l’autorizzazione di Hulot. Senz’altro lo
  sospettano, ma tu glielo devi dire. Non mi devono credere un disertore. Senza riflettere, François
  tese la mano e carezzò la guancia di Dessart. - Racconterò tutto. Avrebbe voluto tenere la
  mano su quella guancia, ma non poteva. La ritirò. Dessart si sedette di
  fianco a lui. RINGRAZIAMENTI
  Ci fu nuovamente un lungo
  momento di silenzio. François sentiva la fitta allo stomaco attenuarsi, ma
  l’angoscia non diminuiva. Guardò Dessart seduto al suo fianco, assorto nei
  suoi pensieri. Nuovamente senza pensare, François tese la mano e gli
  accarezzò la nuca. - Grazie, Dessart, grazie
  di tutto. Dessart si voltò verso di
  lui e gli sorrise. - Confermo quanto ho detto
  l’altro giorno. Sei un bravo ragazzo, François Girod.
  E un buon soldato. Farai strada, se solo sai tenere chiusa la bocca. Lui avrebbe fatto strada.
  E Dessart? Per Dessart l’unica strada che restava da fare era quella fino al
  cortile, dove lo aspettava il plotone. François ripensava alle parole che
  Dessart gli aveva rivolto quando era venuto a trovarlo in cella.  Guardò ancora Dessart,
  vicino a lui. Guardò quel torace da lottatore, quelle braccia muscolose,
  quelle grandi mani. Guardò la peluria fitta che ricopriva quel corpo. E di
  colpo un’idea gli attraversò la mente. Se non poteva salvare quell’uomo,
  poteva almeno regalargli un po’ di piacere. Poteva offrirglisi.
   Sapeva che quella generosa
  offerta di sé non era disinteressata. Intuiva che rispondeva in realtà a un
  suo violento desiderio, ma in quel momento gli sembrava che fosse dettata
  soltanto dalla sua riconoscenza, dal desiderio di sollevare un po’ Dessart
  dall’angoscia.  Continuava a fissare
  Dessart. Aveva preso una decisione, ma non sapeva come dirlo. - Dessart, vorrei poter
  fare qualche cosa per te. - Per me? - Non c’è nulla che
  desideri, ora, che io posso fare? François si diede del
  vigliacco. La stava prendendo alla lontana. Se partiva così, rischiava di
  arrivare il giorno dopo. E il giorno dopo era tardi. Dessart rispose: - Vorrei vederti fuori di
  qui. François sorrise, ma
  quelle parole lo colpirono profondamente. Sapeva che era la verità. Se avesse
  dovuto scegliere tra la propria vita e quella di François, Daniel Dessart
  avrebbe scelto quella di François. - Grazie, Daniel…         Si fermò. Era la prima
  volta che lo chiamava per nome, mentre Dessart lo aveva chiamato François in
  alcune occasioni e quel giorno, da quando erano stati rinchiusi nella cella,
  non aveva più usato il cognome. Si vergognò. Ma Daniel Dessart gli rispose
  con un ampio sorriso. Un sorriso da lupo, aveva pensato, un tempo lontano. Con la voce che gli
  tremava, François si lanciò. Aveva la precisa sensazione di saltare nel buio.
  Non sapeva se si sarebbe sfracellato o se la caduta sarebbe stata indolore.  - Daniel, non c’è nulla
  che posso fare, qui e ora? Nulla che tu desideri? Il sorriso di Daniel si
  allargò. Lo guardò un attimo, poi gli disse: - Mi piacerebbe baciarti,
  François. A François sembrò che il
  cuore prima cessasse di battere, poi impazzisse. Tacque, incapace di dominare
  il pieno di emozioni. - Se non vuoi, non
  importa. È solo un’idea. La voce di Daniel lo
  riscosse. A fatica articolò: - No, no, va bene. Dessart rispose deciso,
  sorridente, ma senza allegria: - No, non va bene. Scusami
  per averlo detto, François. Mi era parso…, avevo creduto…, ma piglio lucciole per lanterne. Lascia stare.
  Ti darebbe fastidio e a me così non darebbe nessun piacere. No, ora doveva parlare,
  spiegare. Daniel il mattino dopo sarebbe morto, non poteva lasciare ancora
  che la timidezza lo bloccasse, non poteva negare a Daniel ciò che voleva
  dargli, più di ogni altra cosa al mondo, solo perché non riusciva a parlare.
  Facendo uno sforzo, articolò: - Daniel, non c’è nulla
  che desidero di più al mondo. Daniel lo fissò sorpreso. - È vero? - Forse no. No,
  sicuramente no, non è vero. Non se ti fermi al bacio. - François… - Sono giorni che lo
  desidero. Che ti desidero. Che desidero che tu mi baci, mi abbracci, mi… François sapeva di stare
  arrossendo. Ora doveva essere rosso come un peperone. - François… Ora erano fermi, in
  silenzio. François guardava il pavimento, conscio del proprio rossore e dello
  sguardo di Daniel. - È vero? Annuì, non riuscendo ad
  aprire bocca. - François. Le mani di Dessart si
  erano protese e l’avevano afferrato. François si lasciò trascinare contro il
  corpo di Daniel e sprofondò il viso nel vello che copriva il torace.
  Finalmente poteva appoggiarsi a quel corpo, finalmente ne sentiva il calore,
  finalmente ne assaporava l’odore. Le sue mani risalirono lungo i fianchi,
  perdendosi nella fitta peluria, scivolarono dietro la schiena, accarezzando
  quel corpo. Accarezzare Daniel. Accarezzare Daniel. Il paradiso era quello.
  Lo strinse, la testa affondata nel petto. Voleva rimanere così, per sempre. Sentì le mani di Daniel
  sulla sua testa, quelle mani capaci di strangolare, ora erano una carezza
  delicata sui capelli, sul collo, sulle orecchie. Avvertì che Daniel chinava
  la testa, gli baciava i capelli, l’orecchio. D’improvviso sussultò: la lingua
  di Daniel stava percorrendo il suo orecchio, scavando tra le pieghe, entrando
  all’interno. Un nuovo sussulto: i denti di Daniel gli mordicchiavano il lobo. Affondò ancora di più la
  testa nel torace di Daniel. Non sapeva se voleva sfuggire a quel delizioso
  tormento o prolungarlo. Gli sfuggì un grido: - Daniel! - François, mio piccolo
  François. I piccoli morsi leggeri
  ripresero, ma intanto una mano di Daniel percorreva la sua schiena. Le dita
  scorrevano lungo le vertebre: attraverso la giacca e la camicia, François
  sentiva quel contatto, che lo faceva rabbrividire. Poi la mano di Daniel si
  aprì e le dita si infilarono sotto i pantaloni. Le dita premevano sulle
  natiche, ma il medio scivolava nell’incavo. Quelle dita trasmisero a François
  una scossa e il suo corpo guizzò. Le sue mani strinsero la carne di Daniel,
  che a sua volta ebbe una leggera scossa. - Piano, mio piccolo
  François, piano. Pietà della mia schiena. François si rese conto che
  doveva aver stretto una ferita recente e allentò la presa, ma la mano di
  Daniel scese ancora, fino a che il medio non raggiunse un punto strategico, e
  a quel contatto François avvertì una nuova, violenta, scossa. - Daniel, Daniel. Avrebbe potuto rimanere
  così per sempre, una mano di Daniel sul culo, l’altra che gli accarezzava i
  capelli, ma le mani si staccarono, si posarono sulle sue spalle e
  cominciarono a sfilare la giacca. François fu costretto ad abbandonare il suo
  nido per permettere a Daniel di completare l’opera. Ora era seduto di fianco
  a Daniel, che lo guardava, e la sua giacca era a terra. Vide Daniel
  protendere le mani. Ora erano sulle sue guance. Scorrevano fino a che le dita
  si congiungevano dietro la sua nuca e lo tiravano verso il viso del capitano,
  poi ritornavano sulle guance e gli inclinavano leggermente il capo. Il fiume
  di sensazioni confuse in cui François sprofondava si interruppe quando una
  nuova sensazione emerse prepotentemente, dominando su tutte le altre: le
  labbra del capitano contro le sue.  François si sentì
  travolgere da una sensazione del tutto nuova, ma non ebbe il tempo di
  assaporarla, perché successe ciò che non poteva nemmeno lontanamente
  immaginare: tra le labbra sentì qualche cosa di caldo che si apriva un
  passaggio, che ora scorreva tra le sue labbra, contro i suoi denti. La bocca
  gli si aprì senza che se ne rendesse conto e la lingua di Daniel fu dentro la
  sua bocca, invadendola, carezzandogli la lingua. Ora entrava a fondo, ora si
  ritraeva. François barcollò e se le mani di Daniel non lo avessero sostenuto,
  sarebbe crollato, sopraffatto dall’intensità dell’emozione. Più e più volte la lingua
  di Daniel si fece strada, fino a che François non sentì che al suo ritrarsi
  era la propria lingua ad avanzare, movendosi in libertà. Assaporò le labbra
  di Daniel, poi raggiunse i denti e infine entrò a incontrare la sua compagna,
  che si era ritirata dentro quella bocca e ora l’accoglieva con una carezza. Non seppe quante volte
  quel gioco si ripeté. A un certo punto sentì le mani di Daniel sui suoi
  fianchi, che gli sollevavano la camicia. François si alzò e drizzò le
  braccia, lasciando che Daniel completasse l’opera.  La camicia finì a terra e
  di colpo Daniel gli afferrò i pettorali e strinse con forza. François lanciò un urlo. Daniel mollò la presa e lo baciò di
  nuovo. Ora le mani di Daniel scorrevano lungo la schiena di François, sulla
  sua nuda pelle, e la sensazione di piacere ne era moltiplicata. A tratti le
  mani risalivano sul viso di François, lo avvicinavano, e nuovamente le loro
  lingue si incontravano. Poi, di colpo, nuovamente quella stretta al petto,
  quel dolore improvviso che era anche piacere. François si trovò a mormorare,
  o forse a gridare, non avrebbe saputo dirlo: - Sì! Ma le mani di Daniel stavano
  scendendo, gli slacciavano la cintura e scorrevano sui suoi fianchi, poi
  risalivano e, con la stessa forza con cui avevano stretto il petto, ora gli
  pizzicavano le natiche. François sussultò, ma le mani di Daniel erano
  nuovamente sul suo petto e stringevano. - Daniel! Non sapeva che cosa voleva
  dire. Non sapeva che cosa voleva. Voleva solo che quel contatto non finisse
  mai, che Daniel facesse di lui tutto quello che desiderava. Daniel si chinò e gli
  sfilò gli stivali e i pantaloni. Ora François era completamente nudo e Daniel
  era in ginocchio davanti a lui, che gli accarezzava le cosce e lo fissava
  negli occhi. Ficcò la testa tra le sue gambe. Le morse, leggermente. Poi
  risalì. Ora il suo viso era di fronte all’uccello di François, che aveva spiegato
  le ali. Le sue mani scorrevano lungo i fianchi, poi risalirono fino al petto,
  le dita strinsero i capezzoli.  Daniel si alzò e lo forzò
  ad alzarsi, ora erano uno davanti all’altro. I loro corpi aderivano, le mani
  di Daniel gli passarono dietro la schiena e le sue dita forti gli strizzavano
  il culo.  - Daniel! Daniel! La testa di Daniel scese
  sul petto di François e gli morse un capezzolo. - Daniel! François si rese conto di
  colpo che qualche cosa dentro di lui esplodeva, che dal profondo del suo
  ventre una nuova forza si faceva strada. Stava per venire. Urlò ancora, forte: - Daniel! Le mani di Daniel gli
  stringevano le natiche, mentre François rovesciava la testa all’indietro,
  trascinato lontano dal getto di sperma che saliva, saliva, usciva alla luce,
  schizzava alto nel piccolo spazio tra i loro due corpi, ricadeva sui loro
  toraci, abbondante. - Daniel! Le mani di Daniel erano
  tenaglie che gli martoriavano il culo, il corpo di Daniel premeva contro il
  suo, la bocca di Daniel cercava la sua e infine la trovava, la avviluppava,
  la lingua di Daniel si faceva strada tra le labbra di François. François si rese conto che
  solo le braccia di Daniel lo sostenevano. La violenza delle sensazioni
  provate lo aveva lasciato completamente svuotato. Daniel lo appoggiò sul
  tavolaccio e si inginocchiò davanti a lui. Daniel chinò il viso sul
  ventre di François e la sua lingua cominciò a percorrerlo. François ne
  sentiva la carezza umida. Abbassò il viso. La lingua percorreva il ventre e
  risaliva verso il petto. Con cura ricercava le strisce e le gocce che vi
  erano disseminate. François guardò la foresta
  scura del torace di Daniel. Anche lì, a volte quasi nascoste dai peli, a
  volte aggrappate a essi, brillavano molte gocce. Quando Daniel ebbe finito e
  lo ebbe nuovamente baciato, François chinò la testa e seguì lo stesso
  percorso lungo il torace di Daniel. Poi gli strinse le natiche con forza,
  dimenticandosi delle ferite, ma Daniel non sembrò soffrirne: gli accarezzava
  la testa e i capelli con le mani e quelle carezze, ora lievi, ora forti,
  quasi violente, riaccendevano il desiderio di François. Questi slacciò la
  cintura del suo compagno e fece scivolare i pantaloni a terra. Ora, davanti
  ai suoi occhi, vicino come non l’aveva mai visto, l’immenso cazzo di Daniel
  troneggiava, in tutta la potenza di una trionfale erezione. François lo guardò,
  sgomento e felice. Avrebbe voluto avvicinare la bocca, ma si sentì soggiogato
  e d’improvviso spaventato. Rimase immobile davanti a Daniel, che si chinò per
  sfilarsi gli stivali e i pantaloni. François non riusciva a
  distogliere gli occhi da quel cazzo gigantesco. Daniel gli prese nuovamente
  la testa tra le mani, lo strinse a sé e gli mormorò nell’orecchio: - Non aver paura,
  François. Poi le sue braccia gli
  passarono sotto le cosce e lo strinsero, sollevandolo in alto. Daniel lo posò
  in piedi sul tavolaccio. Ora la sua testa arrivava appena al ventre di
  François. Daniel gliela infilò tra le gambe, movendola sotto i gioielli di
  famiglia, mentre le sue mani stringevano il culo di François, poi scendevano
  lungo le gambe, in lunghe carezze che facevano vibrare il corpo del giovane.
  A François sembrava di essere un violino, nelle mani di un suonatore esperto:
  Daniel ricavava dal suo corpo armonie segrete di cui François non aveva mai
  sospettato la possibilità. Ora Daniel aveva sollevato
  il viso e di colpo François vide le sue palle sparire in quella bocca
  spalancata e sentì una nuova sensazione di calore e di umidità che si
  trasformava in una vertigine. Il vuoto gli salì dallo scroto al ventre, allo
  stomaco e infine alla testa. François reclinò il capo e si lasciò scivolare
  nelle mani di Daniel, in un precipizio senza fine. Ora la bocca di Daniel
  risaliva e un leggero morso gli trafisse il sesso, nuovamente eretto.
  François gemette. Sentiva la barba fitta e
  dura di Daniel che gli vellicava il membro, poi il calore che gli avvolse la
  cappella gli rivelò che quella bocca era giunta alla meta. Per un attimo la
  bocca inghiottì per intero l’uccello, poi lo liberò, ma la lingua cominciò a
  percorrerlo, dalla base alla punta. A tratti la bocca si apriva nuovamente
  per accogliere il suo felice ospite, poi lasciava che fosse la lingua a
  percorrerlo, centimetro per centimetro. Poi la bocca scendeva ed erano le
  palle a trovare ospitalità in quella sacca umida o a ricevere le carezze
  della lingua. François non vedeva nulla,
  non si rendeva conto nemmeno dell’azione delle sue mani, che stringevano la
  testa di Daniel, afferrandogli i capelli con violenza, strappandoli, oppure
  accarezzavano quel capo. Viveva solo per quella bocca, per le carezze di
  quella lingua.   Le mani di Daniel gli
  stringevano i fianchi, a tratti salivano in una carezza lungo la schiena,
  passavano davanti, martoriavano i capezzoli, scendevano lungo il torace e il
  ventre, ritornavano in posizione. François se ne accorgeva appena, una
  stretta al culo o ai capezzoli gli strappava un gemito solo quando la bocca
  interrompeva il suo lavoro. Nuovamente, sentì che
  stava per venire, che dal fondo di quell’abisso in cui era sprofondato, una
  forza incontenibile stava facendosi strada, forzando ogni barriera, più forte
  del suo desiderio di continuare per sempre così, più forte di tutto.  Confusamente pensò che
  doveva avvisare Daniel, ma non riuscì a dire nulla, balbettò solo:  - Da…
  Da… Daniel! L’ultima sillaba fu un urlo
  che gli uscì insieme al getto. Daniel aveva capito,
  perché la sua bocca era risalita a ricevere la cappella e il frutto che ne
  sgorgava.  François si sentì
  attraversare da un’onda di piacere che lo abbatté. Senza rendersene conto,
  crollò nelle braccia di Daniel, che lo accolse e lo distese sul tavolaccio. Steso sul legno, François
  ebbe la sensazione di svenire, di perdere i contatti con la realtà. Chiuse
  gli occhi. Quando li riaprì, vide
  Daniel, steso accanto a lui, un gomito sul tavolaccio, la testa poggiata
  sulla mano, che lo fissava sorridendo. - Tutto bene? François scosse la testa. Non c’erano parole. Non avrebbe potuto
  esprimere quello che provava. Avrebbe voluto alzare le braccia e attirare la
  bocca di Daniel sulla sua. Ma non c’era più posto per altro piacere. Il vaso
  era pieno da traboccare. Rimase a guardare il viso
  di Daniel, mentre, lentamente, il suo cuore riprendeva il suo ritmo e il suo
  corpo riacquistava peso e consistenza. Pensò che Daniel era bellissimo, di
  una bellezza perfetta. Sapeva che non era vero, ma in quel momento si sentiva
  capace di uccidere chiunque avesse detto che Daniel non era bello. Quando cominciò a
  riprendere il contatto con la realtà, guardò il corpo di Daniel steso accanto
  al suo e vide il grande cazzo ancora proteso. Pensò che aveva voluto offrirglisi. Daniel gli aveva offerto il paradiso. E lui,
  che cosa gli aveva dato? Con una decisione
  improvvisa, si voltò, mettendosi a pancia in giù, e allargò le gambe. Così
  disteso ripensò al marchese nei sotterranei del castello, mentre Daniel lo
  chiavava. Se Daniel lo avesse preso in quel modo…
  Aveva paura. Daniel avrebbe cercato di non fargli male, di questo era sicuro,
  ma la sua arma era troppo formidabile… Sentì la voce di Daniel,
  che gli sussurrava in un orecchio: - François, sei sicuro di
  volerlo? François aveva paura, una
  paura violenta, ma sapeva che allo stesso tempo lo desiderava con altrettanta
  violenza e voleva che Daniel godesse con lui, dentro di lui. - Sì. Dopo aver risposto, sentì
  che la paura gli contraeva le viscere e si irrigidì. Il momento era venuto.
  Daniel era già pronto. Tra poco avrebbe sentito quel cazzo smisurato
  penetrarlo.  Attese il colpo. Ciò che successe dopo lo
  stupì, lasciandolo ancora una volta completamente confuso: sentì una trafittura
  al calcagno destro. Daniel gli aveva morso un piede. Poi un’altra piccola
  trafittura al polpaccio destro. Poi al sinistro. Poi al piede sinistro. Ora
  il suo corpo si preparava ad accogliere ognuno di quei morsi leggeri e la
  paura svaniva. Quando la lingua di Daniel
  gli passò nell’incavo dietro il ginocchio sinistro, François sentì un
  brivido. Poi la lingua risalì, una carezza bagnata lungo la coscia, che si
  trasformò in un morso alla natica. Un morso forte, che gli fece lanciare un
  gemito di dolore. Seguì un altro morso, alla natica destra, questa volta. Di
  nuovo strazio, ma anche voluttà. Una serie di piccoli morsi leggeri, qualche
  cosa tra la carezza e il pizzicotto. Sì, ancora! Altri piccoli morsi. Poi un
  morso violento, che quasi gli strappò un urlo. E poi la lingua, alla base
  della schiena. La carezza umida che scendeva fino a raggiungere lo spazio tra
  le natiche. Quando la lingua scese nell’incavo, François non poté reprimere
  un sussulto. Quella carezza umida era così calda, così forte!  La lingua si protese fino
  a sfiorare le palle, le toccò appena, ritornò a salire. Questa volta, quando
  giunse all’apertura tra le natiche, vi indugiò a lungo. François ne sentì la
  carezza, sempre più decisa, poi la pressione, che saliva, che forzava la
  carne a cedere. Sussultò nuovamente, mentre un’ondata di piacere lo
  travolgeva.  Il suo uccello era
  nuovamente pronto a spiccare il volo, ma non gli importava. Le sensazioni che
  gli trasmetteva quella lingua erano più forti.   La lingua si ritirò. - Adesso – pensò François,
  e nuovamente la paura lo fece irrigidire. Ma ora la paura era meno forte, il
  desiderio lottava ad armi pari. Un morso violento, più
  ancora dei precedenti, lo sorprese, ma già la lingua aveva ripreso a scorrere
  sulla schiena, questa volta però non più verso il basso, ma verso l’alto.
  Accarezzava la colonna vertebrale, poi il contatto si interrompeva e un morso
  al culo o una carezza tra le natiche spostavano il piacere. Oppure la lingua
  si faceva sentire improvvisamente contro l’ingresso posteriore, bussava,
  premeva, entrava, usciva. - Daniel! Non avrebbe saputo dire
  perché lo aveva chiamato. Sapeva che stava nuovamente sprofondando, che il
  suo corpo scopriva una nuova melodia e che non avrebbe potuto fermarsi
  neppure se fosse stata in gioco la sua vita o quella di Daniel. Ora capiva
  perché il marchese aveva gridato – Sì, sì – quando Daniel lo aveva
  strangolato. Se avesse potuto salvare Daniel dicendogli di smettere, non
  l’avrebbe fatto. Non perché non avrebbe voluto, perché non avrebbe potuto.
  Quella lingua e quei denti gli toglievano ogni volontà. Il contatto tra i loro
  corpi era limitato alla bocca di Daniel, ma a un tratto François sentì le
  mani che gli afferravano le natiche, che le martoriavano. - Sì, Daniel, sì! Il corpo di Daniel lo
  schiacciava, ora, i suoi denti affondavano nella spalla, poi la lingua
  accarezzava un orecchio, poi la bocca avvolgeva l’altro. Il peso del corpo
  scompariva, la lingua ritornava a scorrere nell’incavo del culo, a sforzarne
  l’ingresso. Il corpo pesava nuovamente su di lui. Un morso violento alla
  spalla lo fece gemere, qualche cosa premeva tra le sue natiche.  Non capì ciò che stava
  avvenendo, perso tra le mille sensazioni che si accavallavano, troppo rapide.
  Aveva rinunciato a capire, si lasciava trascinare dalle onde del piacere che
  lo sballottavano. Solo nel momento in cui il cazzo di Daniel fu dentro di
  lui, se ne rese conto. Era doloroso, una
  sofferenza reale, forte, anche se l’ingresso era avvenuto con delicatezza. Ma
  era piacevole. Un piacere intenso, violento. Voleva gridare: – Basta -,
  voleva gridare: – Di più, entra di più!. Non disse nulla. Daniel
  sapeva quello che faceva e lui era nelle sue mani. Nelle sue mani. Mani che
  lo percorrevano, lo accarezzavano, lo pizzicavano, lo stringevano. I denti
  mordevano, la lingua scorreva lungo le pieghe del collo, la bocca avvolgeva
  interamente un orecchio. La prima spinta lo prese
  nuovamente di sorpresa, quasi avesse dimenticato ciò che aveva tra le gambe.
  Come se fosse possibile dimenticarlo!  Ogni spinta aumentava il
  dolore e il piacere. Più il piacere del dolore. Ben presto lo spasimo sembrò
  recedere, scomparire e rimase solo l’appagamento che gli dava la sensazione
  di quell’animale vibrante. L’animale si scavava una strada dentro il suo
  corpo: era un piacere intenso, completamente nuovo. Ora Daniel spingeva avanti
  e indietro, con lentezza estrema. François sentiva che il cazzo del suo
  capitano si ritirava fin quasi a scomparire e soffriva di quell’arretrare,
  avrebbe voluto tenerlo dentro di sé per sempre. Poi avanzava nuovamente, più
  baldanzoso e deciso che mai, riprendeva possesso del territorio abbandonato,
  forse si spingeva un po’ oltre, sicuro di non incontrare resistenza. Sì, per quello si poteva
  morire. La bocca gli si aprì. - Daniel! Non era un urlo di
  piacere, né un gemito. Era una preghiera, forse, a un dio onnipotente.
  Preghiera di ringraziamento e supplica perché quella benevolenza non avesse
  mai fine. Mai fine, per sempre così. Fu il suo corpo a
  provocare la fine di quell’incantesimo. Il piacere troppo forte per essere
  contenuto si sciolse in una serie di gemiti, mentre il seme schizzava fuori
  con violenza. Al suo venire risposero due spinte più vigorose, che
  restituirono al dolore la sua presenza e dilatarono il piacere, poi una serie
  di spinte più contenute e la sensazione del liquido che scorreva dentro di
  lui. - Daniel! Daniel gli passò le
  braccia intorno al corpo, avvolgendolo. Poi si mise su un fianco e François
  si ritrovò nella stessa posizione. Sentiva ancora dentro di
  sé il cazzo di Daniel, non più massiccio come prima, ma ancora vigoroso. Era
  una sensazione splendida. Tutto era splendido. Quella era la perfezione. Avrebbe voluto rimanere
  così per sempre, stretto contro quel corpo, sentire il calore di quel cazzo
  che era dentro di lui, il peso di quelle braccia che lo stringevano. Per
  sempre. Di colpo si rese conto che
  erano in cella, che Daniel stava per morire, che il giorno seguente quel
  braccio sarebbe stato freddo e inerte. Daniel sarebbe stato un cadavere. Una lama di ghiaccio gli
  attraversò il cuore e cominciò a piangere. Cercò di dominarsi, ma era
  impossibile; cercò di non farsi sentire, ma non riusciva a controllare i
  singhiozzi. Sentì immediatamente Daniel reagire: - François! François non rispose. - François, stai piangendo!
  Che cosa succede? François sentiva
  l’angoscia nella voce di Dessart, ma non riusciva a rispondere. Non avrebbe
  mai più sentito quella voce. Il pianto aumentò. - François, perché?
  François, ti ho fatto male? Non volevi? François? Daniel aveva allontanato
  il culo, ritirandosi. François sentì il cazzo uscire e il suo senso di
  abbandono crebbe. Ora singhiozzava senza ritegno. - François! Mi spiace,
  François. Non volevo farti male, non mi sono accorto… Doveva smettere di piangere,
  doveva rispondere. Non riuscì a frenare le lacrime, ma articolò, con fatica: - No, Daniel, no. È stato
  bellissimo. È stata la cosa più bella della mia vita. È che…
  penso che domani, domani… La voce di Daniel ora era
  tranquilla: - Non devi preoccuparti di
  questo, François. La tua innocenza sarà provata. A quelle parole François
  si sentì invadere dalla rabbia. Urlò, tra le lacrime: - Cristo, Daniel, non ci
  sono solo io. Domani ti fucilano. Dodici buchi. Riprese a piangere con
  violenza. Daniel lo strinse più forte tra le braccia, fece aderire
  completamente i loro corpi. - François, non ha
  importanza, non ha davvero importanza. Te l’ho già detto, in guerra si può
  morire ogni giorno. Io sono pronto. Non ho paura. - Daniel, tu muori per
  salvare me! Se non avessi cercato di salvarmi… - Se non cercavo di
  salvarti, non uccidevamo il marchese e il conte e non prendevamo quei
  documenti. François, ti sembra poco? Probabilmente la nostra azione impedirà
  lo scoppio di una nuova guerra in Bretagna, salverà molte vite. Di fronte a
  questo, che cosa conta una vita? - È la tua unica vita! - Sì, porcodd…,
  sì, e sono contento di averla spesa come l’ho spesa. Sono contento di crepare
  per aver contribuito a soffocare la rivolta in Bretagna. François, se potessi
  tornare indietro farei le stesse cose. Va bene così. Io sono contento così. - Ma non è giusto. - Se muori per un delitto
  che non hai commesso, è giusto?. - Perché sei venuto a
  parlarmi, quel pomeriggio, in cella, Daniel? Perché? - Perché mi sento responsabile
  dei miei soldati. Perché sapevo che eri innocente. E sono contento di averlo
  fatto. Sono contento di sapere che ti salverai. Ora basta, François, ora
  basta. Si scostò da lui e lo girò
  sulla schiena. François lo lasciò fare. Poi Daniel si chinò su di lui e
  cominciò a baciarlo sugli occhi, fino a che non smise di piangere. Poi la sua
  bocca scese sulle guance, sulle labbra, sul collo. La mano di ghiaccio che
  stringeva il cuore di François aveva cominciato ad allentarsi. Se Daniel
  avesse continuato nella sua opera, avrebbero senza dubbio scritto un nuovo
  movimento della sinfonia che stavano componendo, ma in quel momento sentirono
  tirare il catenaccio. Daniel si stese accanto a François e con un rapido
  gesto li coprì entrambi con la coperta. Il carceriere portò una
  brocca d’acqua e la magra cena, poi scomparve, senza dire una parola. - Bene, mettiamoci a
  tavola. Non è molto, ma sempre meglio di niente. - Daniel, come fai ad
  avere fame? - Come fai tu a non avere
  fame? A quando risale l’ultimo pasto regolare che hai fatto? - Non è questo. Nella
  situazione in cui siamo… - François, ascoltami. Non
  bisogna arrendersi. Quante possibilità avevamo di uscire dai sotterranei del
  castello, ieri notte? Pensavi che ne uscivamo vivi? - No. - E invece ne siamo usciti.
  Quindi: regola numero uno, non scoraggiarsi; regola numero due, essere sempre
  pronti. Il che vuole dire: mangiare quando è ora. Un barlume di speranza si
  accese per François: - Credi che riusciremo a evadere? - Scherzi? Béage ha organizzato tutto per essere sicuro che io non
  scappo. E di qui a domani mattina non ci saranno molte occasioni. Vieni qui e
  mangia, prima che diventa buio. Mangiarono quanto era
  stato portato, ma al pensiero che per Daniel si trattava dell’ultima cena,
  François ebbe nuovamente un attacco di pianto. Daniel lo attirò a sé e lo
  consolò. La notte arrivò mentre erano seduti uno a fianco dell’altro, un
  braccio di Daniel intorno alle spalle di François. - Grazie, François. - Di che cosa? - Di questo bellissimo
  pomeriggio. Mi compensa largamente della mattinata di domani. François scoppiò per
  l’ennesima volta a piangere. - Di nuovo?! François! È
  stato così tremendo per te? François tirò su con il
  naso e articolò: - No, lo sai.  Ci fu un momento di
  silenzio, mentre il pianto di François si calmava. - Daniel. - Dimmi. - Non ti arrabbiare. - Perché dovrei
  arrabbiarmi? - Daniel, vorrei essere
  insieme a te domani. - Porcodd…!
  François! Sei un emerito… Si fermò, rendendosi conto
  che François aveva ripreso a piangere. - …piagnone! Rise, ma la sua non era
  una risata allegra. François si rese conto che il suo dolore angosciava
  Daniel, che gli stava rendendo più difficile affrontare la morte. Non ne
  aveva il diritto. - Sì, hai ragione. Ora
  smetto.  Voltò il capo verso Daniel,
  che non poteva vedere, ne cercò la testa con le mani e lo baciò sulla bocca. - Dormiamo abbracciati.
  Vuoi? - È quello che desidero di
  più. Si stesero, l’uno contro
  l’altro. Daniel avvolse il corpo di François tra le sue braccia. François rimase a lungo
  senza dormire. L’idea che Daniel sarebbe stato fucilato poche ore dopo gli
  impediva di prendere sonno. Sentiva che anche Daniel non dormiva. A tratti
  era assalito dalla voglia di piangere ma il calore di quell’abbraccio lo
  calmava. Era molto tardi quando
  infine sentì che Daniel era scivolato nel sonno. Allora lasciò che le lacrime
  scorressero, poi si abbandonò a quell’abbraccio e si addormentò.  | 
 |||||||||