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 A
  Monica STELLE CADENTI
  Disteso sulla coperta, il
  soldato François Girod guardava il cielo. Per tutto
  il pomeriggio le nubi avevano velato il sole, ma in serata il vento dall’oceano
  le aveva spazzate via e ora la notte era limpida. La luna non era ancora
  sorta, era soltanto un vago chiarore sulla linea dell’orizzonte, e nel cielo
  brillavano migliaia di stelle. Ogni tanto una scia luminosa solcava l’aria:
  le stelle cadenti si spegnevano in un attimo. La notte d’agosto era
  fresca, come lo sono sempre le notti in Bretagna, ma non fredda: si poteva
  benissimo dormire all’aperto, purché ben coperti. Eppure il soldato François Girod non riusciva ad addormentarsi: era nervoso e irrequieto.
  Guardando le stelle cadenti si chiedeva che cosa avrebbe chiesto, se avesse
  potuto veder esaudito un suo desiderio. Avrebbe avuto mille desideri da
  esprimere.  In primo luogo avrebbe
  voluto non trovarsi in Bretagna. E questo era comprensibile. La guerra
  civile, che dopo lo scoppio della rivoluzione aveva infuriato a lungo in
  Bretagna e in Vandea, per poi spegnersi, sembrava ora sul punto di
  riprendere, ancora una volta. L’anno precedente, quando c’era stata l’ultima
  grande rivolta, tutti avevano sperato che con la morte del capo dei ribelli,
  il marchese di Montauran, nella regione sarebbe
  tornata la pace. E così era successo, apparentemente, almeno: i rivoltosi si
  erano dispersi e non si erano più verificati attacchi contro le truppe, né
  assalti alle diligenze o alle case dei sostenitori della repubblica. Ora però
  pareva che la ribellione stesse per riaccendersi, sotto la guida di due
  famiglie nobili: i Vilhoet e i La Boussac. I due
  fratelli Vilhoet, il marchese e il conte, si erano messi a capo della
  cospirazione, e avevano coinvolto il conte di La Boussac,
  suocero del marchese, e suo figlio. Si parlava di loro come dei quattro re,
  quelli dei mazzi di carte, e il capo-brigata Hulot
  diceva che l’esercito repubblicano li avrebbe eliminati, proprio come la
  Repubblica, nata dalla rivoluzione, aveva eliminato i re delle carte,
  sostituendoli con altre figure.  Il conte di Vilhoet, detto
  il re di cuori per le sue frequenti avventure amorose, doveva essere ancora
  in Inghilterra: era uno dei tanti che si era rifugiato all’estero quando la
  vedova, com’era scherzosamente chiamata la ghigliottina, aveva incominciato a
  fare la scriminatura alta ai nobili. Gli altri tre capi erano sicuramente già
  ritornati in Bretagna e stavano organizzando le prime azioni. All’idea di dover
  combattere, François provava una certa inquietudine. Non era particolarmente
  pauroso di natura, ma non aveva mai combattuto. Temeva di morire, come era
  morto, un anno prima, il suo amico Louis Gudin,
  ucciso dalla marchesa di Montauran. Temeva di fare
  una pessima figura, magari di farsela addosso o di scappare al primo scontro.
  E non gli piaceva l’idea di dover sparare contro altri francesi. Una cosa era
  difendere la Francia dagli austriaci, dagli inglesi e da tutti quelli che
  minacciavano la repubblica. Un’altra cosa era sparare ai suoi concittadini,
  anche se erano sostenitori del re. Insomma, François avrebbe
  preferito essere altrove, per esempio con l’esercito d’Italia, agli ordini di
  Napoleone.  O forse avrebbe preferito
  non essersi mai arruolato. Perché l’aveva fatto? La risposta la conosceva
  benissimo: l’aveva fatto perché non ne poteva più della vita a Saint-Brieuc. Non che l’ambiente della cittadina non gli
  piacesse, ma da quando vi era ritornato, dopo aver completato gli studi a
  Parigi, la sua esistenza era diventata un inferno. I primi giorni era stato
  contento di essere di nuovo a casa. Si era pavoneggiato un po’, orgoglioso
  dei suoi studi e della sua patina di eleganza parigina, che agli occhi dei
  suoi concittadini poteva apparire il non plus ultra. Il diciottenne François Girod aveva subito avuto molto successo. Tutti lo
  invidiavano e le ragazze si erano interessate a lui. Fin troppo. Più d’una
  aveva cominciato a fargli il filo. In particolare Jeannette,
  la figlia del medico. Non riusciva a togliersela di torno. Lui non si era
  dimostrato molto interessato, né a Jeannette, né
  alle altre. E le ragazze avevano cominciato a punzecchiarlo. I coetanei lo
  prendevano in giro, gli chiedevano se intendeva farsi monaco o se non gli
  interessavano le gonnelle. Alle loro battute François arrossiva e questo
  peggiorava la situazione: gli scherzi diventavano più pesanti e François si
  sentiva sempre più a disagio. Il problema era che
  François, con i suoi grandi occhi neri, i capelli ricci, il naso greco, le labbra
  carnose, era proprio un gran bel ragazzo. Troppo bello per non attirare le
  ragazze e per non suscitare la gelosia degli altri ragazzi. Così, tra scherzi
  e prese in giro, sempre più acide e velenose, la situazione aveva finito per
  diventare pesante, tanto più che il rossore gli rendeva impossibile
  nascondere il proprio imbarazzo e gli attirava nuovi sarcasmi e frecciate. Un
  mese dopo il suo ritorno François non usciva quasi più di casa, per paura di
  incontrare quelli che aveva sempre considerato i suoi amici. A un certo
  punto, con grande dispiacere dei suoi genitori, aveva deciso di arruolarsi,
  per sfuggire a quella situazione che non reggeva più. Ora era un soldato della
  repubblica. Era abbastanza lontano da Saint-Brieuc,
  ma si era portato dietro tutti i suoi dubbi. Perché non gli importava nulla
  di una come Jeannette, che pure era giudicata la
  ragazza più carina della cittadina? Perché, durante il viaggio da Parigi a Saint-Brieuc, quando in una locanda una cameriera gli si
  era offerta, lui era scappato via? Quella cameriera gli aveva gridato un
  insulto, che a François bruciava. Bruciava perché forse conteneva più verità
  di quello che gli faceva piacere ammettere. François aveva le idee
  confuse, ma non era proprio stupido. Inizialmente si era detto che era troppo
  giovane, ma stava per compiere diciannove anni, diversi suoi coetanei erano
  sposati o progettavano di farlo al più presto. Lui non ci pensava neanche:
  evidentemente in lui c’era qualche cosa che non andava.  Le donne non lo
  attraevano, questo era chiaro. E allora? Che cosa poteva farci? Doveva farsi
  monaco, come gli dicevano, sprezzanti, le ragazze che lui ignorava? Doveva
  spararsi un colpo? Prima, avrebbe voluto capire che cosa non funzionava, ma
  nella sua testa c’era una tale confusione! Forse, se avesse potuto
  esprimere un desiderio, uno solo, avrebbe chiesto che la vita fosse un po’
  meno ingarbugliata o che almeno nella sua testa le idee fossero un po’ più
  chiare. L’inquietudine gli
  impediva di dormire. Non erano solo i mille pensieri che gli frullavano in
  testa. C’era anche il senso di insicurezza che gli dava dormire all’aperto.
  Erano già tre giorni che i quaranta soldati del suo gruppo, in buona parte
  bretoni arruolati da meno di un anno, avevano lasciato Alençon,
  per raggiungere a Rennes il loro comandante, ma
  nelle notti precedenti non avevano dormito accampati.  Da ragazzo aveva dormito
  all’aperto molte volte, non era questo che lo preoccupava, ma ora la
  situazione era diversa: c’era il rischio di un attacco e, anche se c’erano le
  sentinelle e il capitano Dessart si alzava spesso per un giro di controllo,
  François non si sentiva tranquillo. I suoi commilitoni, già abituati a quella
  vita, riposavano senza problemi. Lui non riusciva a chiudere occhio. Adesso
  la luna era alta sull’orizzonte, la sua luce offuscava quella delle stelle e
  lui era ancora sveglio, mentre sentiva i suoi compagni russare. Pensò di
  alzarsi e muoversi un po’. Ora ci si poteva muovere senza difficoltà, anche
  se ogni tanto una nuvola velava la luce lunare. Si mise a sedere. Guardò
  attorno a sé le sagome dei compagni avvolti nelle coperte, distesi lungo il
  leggero pendio. Non lontano, alcuni alberi disposti a gruppi si stagliavano
  neri contro il cielo. Sagome familiari, eppure inquietanti. Lontano, risuonò lo
  stridere della civetta. François si alzò di scatto, assalito da un’improvvisa
  paura: i ribelli usavano spesso come segnale il grido della civetta. Rimase
  un buon momento immobile, in ascolto. Nulla. Era davvero una civetta?  L’idea di muoversi ora non
  gli andava più a genio, ma sarebbe stato inutile stendersi: non sarebbe
  riuscito ad addormentarsi, era troppo agitato. Meglio davvero camminare un
  po’, senza allontanarsi dal campo. Passò tra i compagni
  addormentati e fece alcuni passi in direzione di una macchia di alberi.
  Giunto al margine del boschetto, sentì dei rumori, come un ansimare forte. Si
  fermò, paralizzato dalla paura. Era un animale o, peggio, un uomo in agguato?
  Nella macchia non potevano essere nascoste molte persone, c’erano pochi
  alberi, ma una sola pallottola sarebbe stata più che sufficiente per mettere
  fine a tutti i suoi dubbi, passati, presenti e futuri. Rimase in ascolto,
  immobile. Il respiro pesante continuava, ma ogni tanto si sentivano dei
  mugolii. François si disse che doveva essere un animale, ma a un tratto in
  quei versi bestiali cominciò a distinguere dei suoni umani, delle parole
  appena sussurrate, che crescevano fino a diventare un grido soffocato. - Sì, sì, dai, dai, così!
  Sì! Sì! Ora era incuriosito e la
  curiosità era più forte della paura. Con cautela si mosse nella direzione da
  cui provenivano i suoni. Nella macchia la luce della luna arrivava appena, ma
  François non fece fatica a distinguere, pochi metri più in là, due figure
  umane. Non sapeva chi fossero e non capiva che cosa facessero. Poteva
  distinguere bene le due teste, che si stagliavano contro il cielo, vicine,
  entrambe di profilo, rivolte nella stessa direzione. La posizione dei corpi
  non gli appariva chiara. Un raggio di luna, che filtrava attraverso le chiome
  degli alberi, arrivava fino ai piedi dei due uomini, ma lasciava in ombra il
  resto del corpo. Uno dei due era appoggiato
  contro una roccia e l’altro era dietro di lui e si muoveva. Che cosa
  facevano? François non capiva. Una vaga idea frullava nella sua testa, ma se
  gli avessero chiesto di dire che cosa pensava, non avrebbe saputo rispondere.
  Sapeva solo, con assoluta sicurezza, che voleva vedere meglio, saperne di
  più. Fece due passi in avanti e si mise dietro un albero. Ora era a pochi
  metri dai due. Man mano che i suoi occhi
  si abituavano alla maggiore oscurità, poteva vedere meglio. L’uomo che stava
  dietro forse era il soldato David Trunvel, detto Vai-sicuro; si muoveva avanti e indietro, ora facendo
  aderire il suo corpo al culo dell’altro, di cui François non riusciva a
  distinguere i lineamenti, ora tirandolo indietro. Il respiro pesante era
  quello di David, mentre la voce era quella del soldato steso contro la
  roccia, che continuava a incitare l’altro: - Forza, spingi forte.
  Ancora. Sì, sì, sì! François non osava capire.
  Sentiva che la bocca gli si era seccata, che un vago senso di nausea lo stava
  prendendo. Doveva andarsene di lì, doveva andarsene subito. Subito! Prima di
  capire, prima che la risposta del suo corpo divenisse più precisa.  François non si mosse,
  rimase a fissare i due corpi, mentre sentiva il sangue affluire al suo
  uccello, che cominciava a gonfiarsi e a irrigidirsi, ansioso di lanciarsi in
  volo. Con sgomento vide che la
  luce lunare ora illuminava le gambe dei due uomini. Poteva distinguere i loro
  polpacci potenti, velati dalla peluria: entrambi avevano i pantaloni calati. Il movimento continuava e,
  di colpo, le parole sussurrate dal soldato disteso contro la roccia,
  cambiarono: - Su, ora tiralo fuori e
  rimettimelo dentro, di colpo. Su, così! La sagoma di David
  arretrò, poi avanzò di colpo, fino ad aderire completamente a quella
  dell’altro soldato. La luce della luna ora illuminava le cosce dei due
  uomini, ma lasciava in ombra le natiche. Cosce possenti. François avrebbe
  voluto fuggire via, ma per nulla al mondo se ne sarebbe andato. Il suo
  uccello era duro da scoppiare e il desiderio di accarezzarlo fino a fargli
  spiccare il volo era violento. Il vento allontanò una
  nuvola che copriva in parte la luna e ora al raggio di luce François poteva
  vedere i due culi nudi. Il corpo di David aderiva perfettamente al culo
  dell’altro soldato. - Di nuovo, David, dai, di
  nuovo. Tiralo fuori tutto e rimettimelo dentro. Voglio sentire il tuo cazzo
  che entra. - Ti accontento, Philippe,
  ma sarà l’ultima volta. Sto per venire. François vide
  perfettamente, alla luce della luna, l’attrezzo di David, grosso e duro, che
  usciva quasi completamente dal culo di Philippe e poi, con un colpo secco, vi
  rientrava. Poi David cominciò a spingere avanti e indietro, rapidamente, emettendo
  una serie di mugolii, mentre Philippe continuava a incitarlo: - Dai, David, dai! Così,
  così!  David diede un’ultima
  spinta e si abbandonò su Philippe. - Sei grande, David. Sei
  grande. David tacque un momento.
  François lo sentiva ansimare. Poi David parlò: - Sei venuto? - Non ancora, mi dai una
  mano? - Certo. François vide che David si
  girava, afferrando Philippe; entrambi si sarebbero trovati con il fianco
  sinistro appoggiato contro la roccia, dando il culo a François. Ma Philippe
  lo fermò. - No, dall’altra parte,
  c’è un raggio di luna che filtra tra i rami. Mi piace vedere le tue mani che
  mi fanno una sega. I due si spostarono, in
  modo da mettersi con la destra sulla roccia. Ora nella striscia di luce
  lunare François poteva vedere l’arnese di Philippe teso verso l’alto e subito
  sotto la sacca, in cui l’ombra disegnava il profilo di due morbidi rilievi.
  La mano destra di David accarezzò le due collinette ricoperte di vegetazione,
  poi risalì e si aggrappò allo spunzone di roccia che le sovrastava. François
  vide le dita forti che stringevano e sentì un senso di vuoto afferrarlo ai
  testicoli. Desiderava che quella mano stringesse il suo uccello, non meno
  turgido, non meno ansioso di essere accarezzato. La mano di David allentò la
  presa, ma solo per cominciare ad arrampicarsi lungo la forte pertica di
  Philippe, stringendo decisa. - Sì, sì. Sì! Il getto brillò alla luce
  lunare salendo verso l’alto, poi ricadde sulla mano di David e sul ventre di
  Philippe. David continuò a muovere
  la mano, mentre Philippe scuoteva freneticamente la testa a destra e a
  sinistra e spalancava la bocca. - Basta! David! Basta! La mano lasciò la presa e
  si ricongiunse all’altra, stringendo il corpo di Philippe in un abbraccio. Ci
  fu un lungo momento di silenzio. Poi David parlò: - Questa sera ci siamo
  divertiti. Era ora.  - Meno male che abbiamo
  dormito all’aperto. In questi ultimi giorni non si riusciva mai a trovare uno
  spazio per stare un po’ insieme. François sentiva le voci,
  ma il suo sguardo era fisso sull’arnese di Philippe, sulla cui punta
  un’ultima goccia del liquore inebriante rimaneva sospesa. Ogni tanto guardava
  le due mani intrecciate che stringevano quel corpo. Sapeva che se si fosse
  anche soltanto sfiorato, sarebbe venuto. - Andiamo a dormire? È
  tardissimo! - Sì, mettiamoci a
  dormire. Anche se è bello stare così. - Sì, sono d’accordo. Ma
  domani ci alzeremo presto. I due soldati si tirarono
  su i pantaloni e si allontanarono. François rimase in piedi,
  fermo al suo posto. Poi fece quattro passi in avanti, fino a che giunse al
  punto in cui poco prima si trovavano i due soldati. Qui si slacciò i
  pantaloni e li lasciò scivolare al suolo. Afferrò con la destra il suo
  uccello solitario, sempre teso, che ora era illuminato dal raggio di luce
  lunare. Guardò l’asta protesa, gonfia di un’energia che premeva per uscire, e
  cominciò lentamente ad accarezzarla. Quando si masturbava, immaginava di
  solito di vedere una coppia che faceva l’amore: se pensava solo a una bella
  ragazza o di essere lui con una ragazza, non gli veniva duro. Ma immaginare
  un uomo che scopava una ragazza, faceva effetto.  Avrebbe voluto pensarci
  anche ora, ma era impossibile: l’immagine dei due soldati era di fronte ai
  suoi occhi, più potente di qualunque altra. Rivedeva il momento in cui
  l’attrezzo di David era uscito dal culo di Philippe per poi rientrarvi di
  colpo, la mano di David che percorreva l’arnese di Philippe, i due corpi
  allacciati. Sentì che mancava
  pochissimo ormai. Con un’ultima carezza venne e il piacere ebbe un’intensità
  nuova. Lo sperma schizzò in alto, descrivendo un’ampia traiettoria prima di
  ricadere al suolo. François rimase a lungo
  fermo, mentre il respiro gli si calmava. Poi si pulì con alcune foglie, si
  tirò su i pantaloni e ritornò a stendersi. Si sentiva esausto, infelice e
  ancora più confuso. Anche se oscuramente sapeva che ormai avrebbe dovuto
  avere le idee più chiare.        DESSERT ALLA DESSART
  L’indomani mattina
  partirono presto. Quando venne data la sveglia, a François pareva di essersi
  appena addormentato e in effetti non aveva dormito molto. Se quella sera gli
  avessero rifilato un turno di guardia, avrebbe rischiato di assopirsi. Se
  fosse successo, il capitano Dessart l’avrebbe pelato vivo: non era tipo da
  scherzare sui turni di guardia.  Mentre mangiava la frugale
  colazione, François cercò con gli occhi David e quel Philippe, che non era
  sicuro di conoscere. Vide David seduto poco lontano, che mangiava con gusto
  il suo pane e scherzava con un altro compagno, di cui François non conosceva
  il nome. No, ora lo conosceva. La loro aria complice, quel continuo
  ammiccare, il sorriso carico di sottintesi, l’intimità che traspariva in ogni
  loro movimento, non lasciavano dubbi: era senz’altro Philippe. I due erano
  felici e sorridenti, scoppiavano a ridere in continuazione. Stavano bene.
  Beati loro. François fu contento
  quando cominciarono a muoversi: si sarebbe scosso di dosso quel torpore.
  L’aria era frizzante, soffiava un po’ di vento e in cielo neanche uno
  straccio di nube. Camminare sarebbe stato piacevole, per alcune ore, almeno: poi
  il sole avrebbe cominciato a battere troppo forte. Due giorni di marcia,
  ancora. Quella sera avrebbero nuovamente dormito all’aperto, ma il giorno
  successivo, nel primo pomeriggio, sarebbero arrivati a destinazione.
  Avrebbero potuto arrivare prima, ma dovevano procedere con cautela,
  assicurandosi di non finire in un’imboscata. Spesso, nei punti in cui ai lati
  della strada si stendeva il bosco o salivano i fianchi di una montagna,
  facile nascondiglio per i ribelli, quattro uomini venivano mandati in avanscoperta
  e loro aspettavano. François cercò di mettersi
  vicino a David e Philippe. Non sapeva perché. Si disse che era soltanto
  curiosità. Alla luce del giorno guardò meglio i due compagni. Philippe doveva
  avere la sua età, mentre David era più vecchio, ma non aveva più di
  trent’anni. Erano entrambi ben piantati, con le spalle larghe, ma molto
  diversi. David era più alto della media dei loro commilitoni e aveva un bel
  volto regolare, con occhi chiari e capelli castano chiaro, quasi biondi; solo
  una cicatrice allo zigomo destro spezzava la regolarità di quel viso,
  sottolineandone la bellezza. Philippe aveva un viso molto simpatico, ma
  piuttosto brutto, tondeggiante, con grandi labbra sporgenti, un naso largo e
  piatto, dotato di grandi narici, un mento sfuggente, occhi scuri e capelli
  castano scuro. François continuava a
  osservarli, ma a un certo punto si rese conto che Philippe doveva essersene
  accorto, perché lo vide mormorare qualche cosa all’orecchio di David. Questi
  si girò e gli lanciò un’occhiata penetrante. François fece in modo di
  rimanere indietro e di unirsi a Athanase Lanrelas, anche lui arruolatosi solo un mese prima,
  l’unico tra i soldati con cui aveva fatto un po’ amicizia.  Il sole era ormai alto in
  cielo e il calore diventava opprimente. Quando la strada attraversava un
  bosco, all’ombra delle grandi querce ritrovavano un po’ di frescura. Quando
  invece passavano tra i campi o tra terreni incolti, il caldo li schiacciava.
  Lungo la strada incontravano poche persone. Ogni tanto, lungo le siepi d’alberi
  che delimitavano i campi, vedevano un contadino.  A un certo punto François
  rimase tra gli ultimi. Un contadino li guardava passare. La durezza di quel
  viso colpì François, che lo tenne d’occhio, senza voltare completamente la
  testa. Quando furono tutti passati, lo vide sputare per terra.  Da quel momento François
  cercò sempre di osservare i contadini che vedevano ai lati della strada,
  senza farsi notare. Appoggiati ai loro attrezzi, guardavano passare i
  soldati, indifferenti, ma quando pensavano che nessuno potesse più vederli,
  non di rado sputavano. Uno alzò la mano, chiusa a pugno, nella loro
  direzione. Un altro fece un gesto sconcio. 
   François sentì un brivido.
  Avrebbe voluto essere a Rennes, in caserma. Ora erano giunti ai piedi
  di una collina, da cui la strada riprendeva a salire, quando in lontananza
  sentirono degli spari. L’aiutante generale Auray,
  l’ufficiale che comandava il distaccamento, diede ordine di accelerare il
  passo e, su consiglio del capitano Dessart, mandò quattro uomini in avanscoperta. Quando arrivarono poco
  oltre la metà della salita, due degli uomini che erano andati in
  perlustrazione tornarono indietro per annunciare che la strada era sgombra
  fino alla sommità. Qui ritrovarono gli altri due uomini e poterono vedere, ai
  piedi della collina, dove la strada costeggiava il fiume, una diligenza
  ferma, un tronco di traverso sulla strada e alcuni uomini. Non appena però
  gli uomini si accorsero dell’arrivo dei soldati, scomparvero nella foresta.
  Vicino alla carrozza c’erano alcuni corpi stesi al suolo e una giovane donna,
  in ginocchio vicino a uno dei corpi. I soldati scesero
  rapidamente e raggiunsero la carrozza, mentre il capitano Dessart mandava
  quattro uomini a controllare che i ribelli non fossero ancora nei dintorni.  Al suolo, vicino alla
  carrozza, giacevano i cadaveri del conducente e di tre passeggeri. Una
  giovane donna in lacrime stava aiutando ad alzarsi un uomo molto alto, non
  più giovane, ma di corporatura robusta. I due sopravvissuti
  accolsero i soldati con gioia. L’uomo si rivolse all’aiutante generale, Auray, che era l’ufficiale di grado superiore. - Grazie, ci avete salvato
  la vita. Io sono Pierre Argentré e questa è mia
  figlia, Valentine. Senza di voi, ci avrebbero
  uccisi, come hanno fatto con gli altri. La giovane donna sorrise
  all’aiutante Auray. Aveva lunghi capelli neri e
  occhi di un azzurro intenso, sotto folte sopracciglia: Auray
  sfoderò per lei il suo più bel sorriso, poi chiese al padre: - Che cosa è successo? - I briganti ci hanno
  assalito, hanno sparato al conducente e poi ci hanno fatto scendere. Hanno
  preso i soldi che la diligenza trasportava e ci hanno costretto a consegnare
  tutto quello che avevamo. Il giovane Guilben, il
  figlio del notaio di Rennes, ha cercato di reagire
  e loro hanno sparato. Hanno ucciso subito anche il signor Boussière,
  un commerciante di Vitre. Io e il notaio Guilben siamo stati colpiti con il calcio dei fucili e
  gettati a terra. Poi hanno sparato a Guilben a
  bruciapelo. Pover’uomo! Volevano uccidere anche me, ma prima volevano sapere
  dove tengo il denaro a casa mia, per farselo consegnare da mia figlia. Mentre
  stavano interrogandomi, siete arrivati voi. Ci avete salvato. - Quanti erano? - Otto uomini, non di più.
   - Ne ha riconosciuto
  qualcuno? - No, erano mascherati. Auray appariva preoccupato: - Quanto Hulot aveva previsto, si è avverato. La ribellione
  riprende: quei briganti assassini cercano di procurarsi i soldi necessari per
  le loro imprese. È bene che non perdiamo altro tempo e raggiungiamo Rennes. Quanto a voi, dovete allontanarvi rapidamente.
  Potrebbero tornare. In che direzione andate? - Al castello di Roussière, a poche leghe di qui. Auray non disse nulla, ma guardò l’uomo
  interrogativamente. L’uomo si affrettò a spiegare: - Alcuni anni fa, quando
  il governo mise in vendita i beni dei nobili traditori emigrati in
  Inghilterra, comprai il castello dei La Boussac.
  Per questo i ribelli mi odiano: non mi hanno mai perdonato di aver comprato
  una proprietà degli emigrati. Se mi riprendono mi uccideranno senza dubbio,
  come hanno fatto con quel povero Guilben, e non oso
  pensare che cosa ne sarà di mia figlia, in mano a quegli infami. La prego, ci
  protegga. Quei maledetti non sono lontani. L’aiutante parve esitare. - Vediamo…
  dove si trova il castello? - A poche leghe. Al bivio
  per Saint-Aubin si lascia questa strada e lo si
  raggiunge in meno di un’ora. - Fino a Saint-Aubin dobbiamo andare anche noi. Poi dovremmo
  proseguire per Rennes. Auray tentennava, guardando con la coda
  dell’occhio la bella figlia di Argentré. Il padre
  insistette: - Non potrete arrivare a Rennes in giornata: se veniste fino al castello, potremmo
  ospitarvi per la notte. Voi dormireste al coperto e mia figlia e io
  viaggeremmo al sicuro. La donna, che fino ad
  allora non aveva aperto bocca, intervenne.  - La prego, non ci abbandoni
  così. Vogliono ucciderci. Auray sfoderò il suo migliore sorriso
  ammaliatore e disse: - Non posso certamente
  abbandonare una fanciulla in pericolo. Vi scorteremo fino al castello. Padre e figlia
  ringraziarono con calore. Appena il capitano Dessart
  ebbe provveduto a far raccogliere i quattro corpi, la marcia riprese. Mentre François camminava,
  sentì i commenti di due suoi compagni, Lucien Guerlédan e Pierre Moustoir,
  detto Cinghiale: molti di loro avevano soprannomi, come era frequente nella
  regione.    - Questa storia non mi
  piace. - E perché mai? - Guarda la faccia di
  Dessart. L’ho tenuto d’occhio mentre seguiva il dialogo tra Auray e il vecchio. Non era per niente convinto. E anche
  dopo, ha esaminato la carrozza e i quattro corpi…
  come se cercasse qualche cosa. E deve averla trovata. Non perde d’occhio quei
  due e ha raddoppiato le precauzioni. Lucien guardò Dessart e disse: - Credo che tu abbia
  ragione. È chiaramente preoccupato. François guardò anche lui
  il capitano Dessart. Quell’uomo fissava Argentré e
  la figlia con un’espressione sospettosa e sembrava assorto in meditazioni
  poco piacevoli. François sentì un leggero
  brivido corrergli lungo la schiena: c’era qualche cosa di repellente in
  quell’uomo, alto e massiccio, con un fisico da Ercole, il collo taurino e
  quelle grandi mani coperte da una fitta peluria nera. Il viso barbuto, con un
  grosso naso aquilino, gli dava un aspetto minaccioso, che il suo
  atteggiamento non smentiva. La divisa non gli stava bene addosso: quell’uomo
  avrebbe dovuto vestirsi con una pelle di capra, come i contadini, come i
  ribelli. O correre nudo come una bestia, perché aveva più della bestia che
  dell’uomo: François ricordava che una volta al lavatoio, quando lo aveva
  visto a torso nudo, aveva notato le due braccia pelose da animale e il vello
  che gli ricopriva il torace e la schiena, salendo fino alla base del
  collo.     Athanase diceva di lui che era brutto come la
  morte e aveva ragione. François se n’era sempre tenuto alla larga. Eppure
  tutti i suoi compagni avevano molta fiducia in lui e quando erano partiti, Clément Kervars aveva detto: -
  Meno male che c’è Dessart, perché solo con Auray,
  non so se arriveremmo a Rennes senza problemi. Kervars era soprannominato Lingua-franca,
  perché diceva sempre quello che pensava, infischiandosene dei gradi e delle
  buone maniere.  Forse i suoi compagni
  avevano ragione, ma François si fidava di più dell’aiutante generale Auray, che comandava il loro gruppo. E anche gli alti
  comandi se ne fidavano di più, se lui era il superiore di Dessart.  François cercò con gli
  occhi Auray. L’aiutante generale era un gran
  bell’uomo, biondo, occhi grigi, viso fine, corporatura slanciata. Meno alto
  di Dessart, ma aggraziato e armonioso nei movimenti. Sapeva vestirsi e
  addosso a lui la divisa non avrebbe sfigurato a una festa da ballo a Parigi.
  Forse era un po’ vanesio, ma tra lui e Dessart c’era la stessa differenza che
  c’è tra un habitué dei salotti parigini e uno scimmione in gabbia, come
  quello che François aveva visto nella capitale, al Jardin
  des Plantes.    Sì, questo era Dessart:
  uno scimmione nasuto. L’espressione gli piacque e guardò Dessart. Calzava a
  pennello: ora che avevano ripreso a salire sul fianco di una collina Dessart
  si voltava spesso verso destra, per controllare il pendio che li sovrastava e
  il suo grosso naso spiccava tra la barba nera. Proprio uno scimmione nasuto. Dessart era sempre
  all’erta, sempre a inviare uomini in avanscoperta, sempre diffidente, sempre
  a controllare. La notte precedente François l’aveva visto alzarsi più volte
  per fare un giro nel campo.  Auray era più sereno, più tranquillo. Mille
  volte meglio. Julien Auray era proprio un uomo che
  sapeva vivere. Al paese lasciarono i
  quattro cadaveri e proseguirono fino al bivio. Qui abbandonarono la strada principale
  e si diressero verso il castello di Roussière. La
  stradina passava tra campi coltivati, cinti da siepi, e boschi, ma dopo
  un’ora sulla destra apparve un piccolo lago, in riva al quale videro il
  maniero. Il castello di Roussière era in realtà una vecchia dimora nobiliare di
  campagna, senza difese: se mai erano esistite fortificazioni, esse erano
  state abbattute per far posto a una serie di edifici agricoli che
  cominciavano immediatamente a fianco dell’abitazione signorile. Arrivati di fronte all’ingresso
  principale, su uno slargo su cui si apriva un grande fienile, Argentré si rivolse al capitano: - Comandante Auray, lei e i suoi ufficiali sarete miei ospiti questa
  sera. Quanto ai suoi soldati, nel vecchio fienile dormiranno benissimo. C’è
  molta paglia su cui stendersi e ne farò portare altra. Darò ordine di
  distribuire qualche fiasco di sidro e pane, salame e formaggio per la cena.
  Loro saranno ospiti alla mia tavola. Auray non aveva battuto ciglio a sentirsi
  chiamare comandante. D’altronde, che ne poteva sapere un borghese come Argentré dei gradi militari, soprattutto ora che la
  repubblica li aveva cambiati tutti?  L’aiutante generale
  sorrise, accettando l’invito: - La ringrazio per la
  cortesia. Sarà per noi un piacere cenare con loro, vero, cittadino capitano? Dessart era l’unico altro
  ufficiale e quindi l’invito lo comprendeva. - Certamente, cittadino
  aiutante, penso che fai molto bene ad andare. Quanto a me, se il cittadino Argentré non si offende, rimarrò a mangiare con i
  soldati. Ho dormito poco la notte scorsa e questa sera approfitterò della
  sicurezza che ci offre il castello per andarmi a coricare molto presto, come
  tutti. Non credo proprio che i nostri uomini fanno tardi, questa notte.
  Domani dovremo partire di buon’ora. - Come preferisci. François notò che né Argentré, né Auray insistevano
  minimamente. Non c’era da stupirsi. Chi aveva voglia di avere a tavola uno
  scimmione come quello? Tanto villano da ricordare ad Auray
  il suo grado, dopo che Argentré l’aveva chiamato
  comandante. E tanto zotico da non sapere nemmeno usare un congiuntivo. I soldati entrarono nel
  fienile, la cui porta si apriva sullo spiazzo davanti al castello.
  Osservarono con piacere l’ampio edificio, in cui c’era spazio per tutti.
  L’arrivo di alcune balle di paglia, che venne distribuita lungo le due pareti
  più lunghe, destò una serie di commenti entusiastici: avrebbero dormito
  comodamente. François cercò con lo sguardo David e Philippe. Li vide
  guardarsi intorno. Probabilmente cercavano un posto un po’ appartato, per
  quella notte. Il pensiero lo turbò.   Distolse lo sguardo e
  scorse Dessart. Era sulla porta e si guardava in giro, poi rientrò e andò
  all’altra estremità del fienile, dove c’era una seconda porta, sbarrata da un
  asse. Tolse l’asse e cercò di aprire, ma la porta rimaneva bloccata. Qualcuno
  dei soldati lo osservava, perplesso, ma Dessart non disse nulla. Venti minuti dopo alcuni
  servitori vennero ad accendere un piccolo fuoco al fondo del fienile, in
  un’area priva di fieno, poi uscirono e ritornarono portando grossi fiaschi di
  sidro, pane, salame e formaggio. I tre servitori erano
  appena usciti e i soldati si stavano gettando sul cibo, quando risuonò un
  ordine perentorio: - Non avvicinatevi a quei
  fiaschi. Si sentirono alcune
  esclamazioni, due bestemmie soffocate, poi nello stanzone scese il silenzio,
  interrotto appena da qualche mugugno. Tutti guardarono il loro capitano: era
  stato Dessart a parlare. - Tre mesi fa hanno fatto
  fuori un'intera squadra in questo modo, alla Vivetière,
  poche miglia da qua. Ospitalità per i soldati. Da mangiare, da bere e
  divertitevi e poi li hanno scannati tutti come maiali al macello. Il
  sedicente Argentré e sua figlia non hanno mai
  viaggiato su quella carrozza.   Ora il silenzio era totale. A François
  quelle precauzioni sembravano  eccessive:
  Auray era andato a cena senza timore, perché
  Dessart faceva tante storie? Ma negli occhi dei compagni, nel silenzio
  assoluto e nella concentrazione con cui ascoltavano il loro capitano, era
  facile leggere un’altra visione delle cose: Dessart non parlava a vuoto, non
  era uno stupido, come il loro aiutante generale, capace di lasciarli scannare
  per correre dietro a una gonna. François si disse che in fondo lui era appena
  arrivato, non ne sapeva niente. Forse erano gli altri ad avere ragione. - Lingua-franca,
  Ménéac, Vai-sicuro, Corri-veloce, voi quattro rimanete qui e fate rumore per
  quaranta. Grida, scherzi, canzoni, sempre più forte, fate conto che avete già
  cominciato a ubriacarvi. Tutti voi, nascosti vicino alla porta, fucili in
  mano. Finché c'è luce non attaccheranno, ma è meglio essere prudenti e
  comunque il sole è già tramontato, tra mezz'ora sarà buio. Fate casino anche
  voi, ma senza distrarvi un attimo. Fischietto, sulla porta, senz'armi, a
  fischiettare, senza avere l'aria di controllare. Se arriva qualcuno
  disarmato, una persona sola o due, passi a fischiettare La Marsigliese:
  voi nascondete i fucili, ma li tenete a portata. Se c'è qualche pericolo, un
  gruppo numeroso, passi a Ça ira! e
  voi prendete i fucili. Voi quattro, alla porta posteriore, quella che è
  sbarrata. Cercheremo di aprirla. Girod, vieni con
  me e stai al gioco. A sentirsi chiamare,
  François sentì un brivido d’orgoglio. Non sapeva a quale gioco dovesse stare,
  ma era ben contento di essere stato scelto. Un’occasione per dimostrare di
  valere qualche cosa. Forse quel Dessart non era proprio una bestia. Dirigendosi verso
  l'uscita, Dessart gli sussurrò: - Facciamo finta di
  volerci mettere a pisciare contro il muro. Io ti fermo. Tu stai al gioco. La seconda spiegazione non
  era molto più chiara della prima, ma François si disse che avrebbe ubbidito. Uscirono e François si
  mise contro il muro, cominciando a sbottonarsi. Dessart parlò a voce alta. - Sei già ubriaco, dopo
  due bicchieri di sidro, o cosa? Vuoi metterti a pisciare di fronte alle finestre
  del castello? Andiamo dietro il fienile. François si riabbottonò,
  mentre Dessart gli si avvicinava e diceva, a voce più bassa, ma ancora
  abbastanza alta da essere udita: - Ti aiuto a trovare il
  posto giusto. E con la mano gli pizzicò una
  natica. Se qualcuno guardava dalle finestre del castello, quel gesto non
  doveva essergli sfuggito. Fischietto scoppiò a
  ridere e disse ad alta voce: - Non fate tardi, o non
  rimarrà niente da bere. François sapeva di essere
  arrossito. Quel maiale di Dessart, come si era permesso!? Perché aveva fatto
  una cosa del genere? Dopo aver voltato
  l'angolo, Dessart gli disse: - Scusa, ma chi ci
  sorveglia se non ci vede tornare subito si chiederà che cosa stiamo facendo:
  non possiamo metterci dieci minuti a pisciare. Così almeno penseranno che
  siamo occupati a scopare.  Dessart fece strada e
  François fu contento che non lo guardasse: sapeva di essere diventato rosso
  come un pomodoro maturo. Passarono lungo la parete
  del fienile, dietro la quale il terreno saliva rapidamente: lì nessuno poteva
  vederli, a meno che non fosse nascosto dietro la siepe che correva parallela
  al fienile, alcuni metri più in alto. Arrivati al fondo della parete, si
  trovarono in un piccolo spiazzo, stretto tra la parte posteriore del fienile
  e quella di due altri edifici. Non c'era nessuno. - Vediamo perché questa
  porta non si apre. La porta posteriore del
  fienile era bloccata da due grosse travi inchiodate. - Messe di recente. Oggi
  stesso, probabilmente. Guarda i chiodi, Girod,
  nuovi di zecca. Una trappola perfetta. Un fienile con una sola uscita, un
  gruppo di soldati mezzo ubriachi, mezzo addormentati, l’ideale per un bel
  tiro a segno. Dessart estrasse un
  coltello che aveva sotto la giacca e cominciò a cercare di schiodare le
  travi, con l’aiuto di François. Dovettero lavorare dieci minuti, ma alla fine
  la porta fu liberata. Dessart controllò che si potesse aprire e ritornarono
  indietro. - Zoppica un po', Girod, tanto per rendere il tutto più divertente. François non capì. Eseguì l’ordine perché era un ordine e
  gli ordini non si capiscono, si eseguono. Fu Fischietto a fargli capire,
  quando lo vide arrivare zoppicando: - Sei andato giù pesante,
  eh, cittadino capitano?  - È ancora giovane, gli
  manca l’abitudine, ma gli passerà.  François si sentì avvampare.
  Doveva essere rosso come una ciliegia. Quel fottutissimo scimmione gli aveva
  fatto fare una figura di merda di fronte a… Di
  fronte a chi? Chi li stava guardando da quelle finestre? Al pensiero sentì un
  brivido lungo la schiena. Meno male che c’era Dessart. Era un fottutissimo
  scimmione nasuto, ma meno male che c’era.       Appena dentro, Dessart parlò:       - Benissimo. Adesso vediamo di trasformare la trappola in
  un'esca. Ormai è abbastanza buio. Voi quattro, fate più casino. Oramai dovete
  essere completamente ubriachi. Tra un po', abbassate il tono, cominciate a
  essere stanchi e volete mettervi a dormire; intanto avvolgete la paglia
  vicino al fuoco con le coperte; dall’entrata si devono vedere le sagome di
  gente che dorme: un facile bersaglio. Poi prendete il fucile e raggiungete
  gli altri vicino alla porta.         Dessart prese venti soldati e rapidamente uscirono dal retro.
  Salirono lungo il pendio e si disposero dietro la siepe che limitava lo
  spiazzo principale, proprio di fronte alle finestre del castello e
  all'ingresso del fienile. Dessart li dispose e diede le istruzioni.       - Non sparate prima di loro, se non siete costretti a farlo.
  Lo faranno appena arriveranno alla porta del fienile, credo. Così avranno i
  fucili scarichi. Non manca più molto, ormai. Nessuno di voi deve mancare il
  suo uomo. Non so quanti saranno. Dovete farlo secco al primo colpo, poi
  ricaricate e ne fate fuori un altro. Se tutto va come prevedo, saranno troppo
  disorientati, non capiranno neppure da dove vengono i colpi. Quando fischio due
  volte, con una breve pausa, scendete immediatamente a raggiungermi. Ritorno
  dentro, ma tra un attimo sono qui. Girod, tu rimani
  qui. Dessart scese ancora nel
  fienile e diede le ultime istruzioni. Sentirono la sua voce che urlava: - Tutti a dormire, ragazzi.
  Per tutte le belle opere della vedova, avete bevuto come spugne. Tutti a
  dormire, ora. Non voglio più sentire una parola. L’esclamazione di Dessart
  fece sorridere François. La prima volta che l’aveva sentita, François non ne
  aveva capito il significato, poi i compagni gli avevano spiegato: la vedova
  era la ghigliottina. Dietro la siepe, i soldati
  commentavano sottovoce: - Bella cena che ci
  offrivano. Al piombo. - Se contavano di farsi un
  boccone degli uomini di Dessart come dessert, avevano fatto male i conti - Glielo forniamo noi, un
  bel dessert alla Dessart Bisbigliando si ripeterono
  la battuta l’un l’altro e finirono per scoppiare tutti a ridere.  L’espressione, diffusa poi
  dai soldati di Hulot in diverse compagnie, ebbe
  fortuna e finì per diventare proverbiale: per tutto il periodo delle campagne
  napoleoniche un’accoglienza a base di piombo venne chiamata un dessert alla
  Dessart. Poco dopo François vide
  che Dessart usciva a chiamare Fischietto. Parlava ad alta voce: - Il solito lupo
  solitario. Mai in compagnia con gli altri. A dormire, muoviti. Qui non
  servono sentinelle.  I due rientrarono. Dessart arrivò dopo pochi
  minuti, passando dalla porta posteriore del fienile.  - Girod,
  noi due ci mettiamo là sotto, dietro il carro. È la posizione più esposta,
  perché possono arrivarci addosso da tutte le parti, ma è la più importante. Intervenne Questembert, uno dei soldati più anziani. - Scusa se mi permetto,
  cittadino capitano, ma non è il caso che venga qualcun altro di noi, se la
  posizione è così importante? - No, più di due persone
  non possono nascondersi e per quello che dobbiamo fare, due persone
  basteranno, se voi fate il vostro compito. - Non dubitare, cittadino
  capitano. Dessart si rivolse a
  François: - Vieni, Girod, e non una parola.  Camminarono lungo la siepe
  fino ad alcuni cespugli che scendevano verso lo spiazzo. La voce di Dessart era un
  bisbiglio appena udibile: - Qui dobbiamo strisciare,
  se ci vedono siamo tutti fottuti. Dessart cominciò ad
  avanzare rasoterra dietro i cespugli, scendendo verso lo spiazzo e François
  lo imitò. Avrebbe preferito rimanere con i suoi compagni, ma ancora una volta
  l'essere stato scelto gli dava una sensazione di orgoglio. Quando si ritrovò dietro
  al carro, che li nascondeva appena alla vista e non offriva una protezione,
  il senso di disagio aumentò. Non sapeva nemmeno che cosa doveva fare. Dessart
  aveva pensato a tutto, ma a lui non aveva detto niente. La temperatura era
  scesa, ma François sudava abbondantemente. Cercando di non farsi vedere da
  Dessart, si asciugò due volte le mani contro i pantaloni. Aveva voglia di
  pisciare, ma non poteva certo allontanarsi. 
   Improvvisamente, un urlo
  sinistro alle sue spalle lo fece sobbalzare. Si rese conto che era stata solo
  una civetta, ma ora tremava e il cuore sembrava impazzito. Ma perché
  esistevano le civette? Quei fottutissimi uccelli! Non riusciva a controllare
  il tremito, ma Dessart gli mise una mano sulla spalla, sussurrandogli: - Tranquillo, Girod. Andrà tutto bene. Non temere. Si vergognò della sua paura,
  ma si sentì un po’ rinfrancato dalle parole del capitano. Non tremava più,
  ora. Il suo sguardo passava dal castello, dove al primo piano diverse
  finestre erano illuminate, alla strada, che si perdeva nel buio, e al
  fienile, dove alla luce del fuoco si potevano vedere diverse sagome stese a
  terra. Passò un quarto d’ora
  circa. A un tratto Dessart gli indicò con la mano un punto oltre il castello.
  François non vide niente, ma continuò a fissare nella direzione che Dessart
  gli aveva indicato. Dopo un buon momento si rese conto che qualche cosa si
  stava muovendo, come un grande serpente che stesse strisciando. Ben presto il
  serpente si trasformò in dieci, venti, forse trenta uomini. Meno di quanti
  erano loro, ma più che sufficienti per ammazzarli tutti, se loro fossero
  stati addormentati e mezzo ubriachi. Li guardarono avanzare
  cautamente in direzione del fienile. Uno di loro, senz’armi, precedette gli
  altri e si affacciò, guardando dentro, poi fece un cenno. Il gruppo si
  avvicinò alla porta. All’interno si vedevano le sagome dei soldati che
  dormivano accanto al fuoco morente. Paglia avvolta nelle coperte, ma questo
  nessuno dei nuovi venuti poteva saperlo. Gli uomini presero la mira
  e spararono. Immediatamente risuonò una
  seconda scarica e venti uomini caddero al suolo: pochi metri separavano lo
  spiazzo dalla siepe e i soldati avevano avuto tutto il tempo di prendere la
  mira. Le istruzioni di Dessart erano state eseguite alla lettera: nessuno
  aveva mancato il colpo. Alcuni, che avevano capito
  da dove provenivano gli spari, cercarono la salvezza precipitandosi nel
  fienile, dove furono falciati dai soldati appostati all’interno. Altri,
  pensando invece che la scarica provenisse da dentro, si spostarono verso la
  siepe o verso il castello: anche loro vennero falcidiati senza pietà. Al
  termine della sparatoria rimaneva in piedi un solo uomo, a pochi metri dal
  carro. Dessart fece cenno a
  François. François non capiva perché dovesse farlo lui, ma Dessart teneva
  d’occhio l’ingresso del castello. François mirò e sparò. L’uomo barcollò e
  cadde. Nello spiazzo nessuno si muoveva più. Si sentivano appena dei gemiti.
  Qualcuno stava rantolando. François aveva appena
  sparato, quando l’aiutante generale Auray apparve
  sulla porta e si fermò, cercando di capire che cosa stesse succedendo. Doveva
  essere sceso di corsa. Subito dopo arrivò il loro
  ospite, il sedicente Argentré. - È inutile che corra, mio
  caro Auray, i suoi uomini sono ormai letame per
  concimare i campi della Bretagna e lei è prigioniero del conte di La Boussac. La Boussac,
  il re di denari! François trasalì, ma prima ancora che avesse avuto il tempo
  di chiedersi che cosa poteva fare, vide che Dessart prendeva la mira e
  sparava. Sul viso del conte, poco sopra il naso, si aprì un terzo occhio, da
  cui sgorgò un fiotto di sangue. Poi sentì la voce di Dessart, che lo fece
  sussultare. - Da questa parte, Auray, presto. L’aiutante con due salti
  li raggiunse dietro al carro. Dessart lanciò un fischio
  acuto, seguito da una pausa, poi da un secondo fischio. In un attimo i soldati
  furono tutti sullo spiazzo. Nemmeno un ferito. Ora c'era anche l’aiutante, ma
  tutti guardavano Dessart. Non era ad Auray che
  dovevano la pelle. Dessart si rivolse al suo
  superiore: - Dobbiamo allontanarci,
  subito. Lungo la strada, prima, poi per altre vie. Auray era senz'altro vanesio, ma non era
  imbecille. Si rendeva benissimo conto che Dessart sapeva meglio di lui il da
  farsi. - Cittadino Dessart,
  guidaci tu lungo la strada che ti sembra migliore.      - Vai-sicuro,
  Moustoir, Lingua-Franca, Pluvan,
  chiudete la fila e non vi distraete un attimo. Di corsa. Erano tutti stanchi, ma si
  misero a correre senza dire una parola. 
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