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DIETRO LA TENDA

 

Il marchese entrò, seguito dal conte, e chiuse la porta a chiave.

- Voglio essere sicuro che nessuno ci disturberà.

Henri di La Boussac alzò le spalle.

- Allora perché non chiudi anche la porta sul balcone?

François si sentì rabbrividire. Se si fossero avvicinati al balcone, avrebbero potuto vederli: la tenda li copriva davanti, ma non di lato.

La risposta del marchese lo tranquillizzò:

- Henri! Nessuno arriverà dalla finestra. Tu confondi sempre la prudenza con la paura. Per un capo non è una buona cosa.

Il conte non rispose e ci fu un momento di silenzio. François non sapeva che cosa stesse succedendo e guardò in direzione di Dessart. Si accorse che il capitano riusciva a guardare tra le tende, tenendo aperto uno spiraglio con due dita.

- Non so come mi alzerò domani: a forza di cavalcare ho il culo indolenzito e i coglioni che sembrano essere stati macerati nell’aceto. Con quel che mi aspetta adesso, non oso pensare…

A giudicare dalla voce, il marchese doveva essere più divertito che spaventato all’idea di ciò che lo aspettava.

- Se non vuoi… O se vuoi che ci vada piano…

Il conte sembrava sicuro della risposta, che giunse puntuale:

- Guai a te se ci provi!

Passò un momento, poi François sentì la voce del marchese che proveniva da un altro punto, dal letto, con ogni probabilità.

- Ci sei? Sono impaziente.    

- Arrivo.

In François ci fu un breve combattimento tra la curiosità e la prudenza. Fu quest’ultima ad avere la peggio e François si spostò leggermente, in modo da avvicinarsi a un’estremità delle tende. Il candeliere era stato spostato e ora la parete lungo cui si trovavano era in ombra. Con cautela si affacciò. Poteva guardare senza rischi: il marchese era sdraiato a pancia in giù sul letto, le gambe divaricate e il conte, di fianco al letto, non guardava nella loro direzione, ma fissava il culo che gli si offriva.

- La mia sorellina non si è lamentata che non passi la notte con lei?

- Henri, sai benissimo che la tua sorellina non è particolarmente interessata ai suoi doveri coniugali. Preferisce di gran lunga mio fratello, più giovane e focoso: a Londra alcuni credevano che fosse sua moglie, non la mia. Comunque sai che neanch’io tengo ai miei doveri coniugali. In passato ho provveduto solo perché arrivasse un erede. Adesso ho lasciato perdere. Se ci riesce Adolphe, tanto di guadagnato: sarà sempre l’erede dei Vilhoet.

Henri di La Boussac non disse nulla. La sua mano stava lentamente accarezzando l’artiglieria: artiglieria di grosso calibro e pronta al fuoco, in grado di affrontare molte battaglie, anche se meno maestosa di quella di Dessart. Dal suo punto d’osservazione François poteva vedere il cannone di profilo, mentre sollevava la testa, prima un po’ incerto, poi più sicuro, si metteva orizzontale, si alzava ancora, fino a ergersi, perfettamente verticale, gonfio, una grossa vena in rilievo sul fianco.

Quella vista rinnovò in François le sensazioni che aveva provato nei giorni precedenti, quando aveva osservato Philippe e David fare all’amore e la sera in cui aveva spiato Dessart e i suoi uomini. Ma ora le sensazioni erano più precise. Sapeva di desiderare quel terribile cannone, di volerlo…

Non osava formulare il pensiero, ma guardava affascinato la mano di Henri di La Boussac salire alla bocca, la lingua scorrere sulle dita, le dita scivolare tra i fianchi del marchese e fermarsi in un punto preciso. Poi con un salto il giovane conte fu sul letto, inginocchiato tra le gambe divaricate del marchese. François fissava quel corpo vigoroso, non meno potente di quello di Dessart, ma più giovane, più elegante, molto meno peloso.

Con un gesto brusco Henri posò le mani sulle natiche del marchese, le strinse e le spinse verso l’esterno. Poi avvicinò l’arma a quel culo aperto di fronte a lui, fino a che la punta scomparve tra le natiche.

Una violenta spinta fece penetrare completamente il cannone. Il marchese lanciò un urlo e François ne guardò il viso, stravolto dal dolore e dal piacere.

- Sì, porco, sì!

Le parole del marchese stupirono François, ma ormai le sensazioni che provava erano troppo forti, assai più del suo stupore. La risposta del conte non lo sorprese neppure più:

- Ti piace, eh?

- Sì, porco dal grande cazzo, sì.

Il conte si protese in avanti: ora le sue mani poggiavano a lato delle spalle del marchese, ma il suo corpo rimaneva sollevato.

- Ora sentirai.

- Sì, porco, sì! Sfondami!

Nuovamente, come due sere prima, François avrebbe voluto essere insieme a quegli uomini, partecipe di quel gioco. Ma qui non c’era la possibilità di uscire alla scoperto e chiedere se c’era posto. Forse glielo avrebbero anche concesso, un posto, ma la sua vita non sarebbe andata oltre quell’unica volta. Se almeno fosse stato da solo, la sua mano avrebbe potuto soddisfare il suo uccello palpitante e teso, che nuovamente provava un violento bisogno di trovare compagnia. Ma con Dessart a fianco, non osava. Sbirciò verso il capitano. La mano destra di Dessart stringeva il pugnale, ma la sinistra, vicino a lui, era leggermente contratta.

Voleva quella mano. Immaginava che quella mano lo accarezzava, gli passava sul culo, cercandone l’apertura, gli stringeva l’uccello. Poi vide, oltre la mano, il corpo di Dessart. All’altezza della mano il profilo del corpo avanzava prepotentemente: c’era un promontorio, un gonfiore, di tale volume che François ne ebbe un capogiro. Le immagini di quel giorno allo stagno, quelle di due sere prima si accavallavano nella sua testa.

Si mosse, spostando il peso da una gamba all’altra, irrequieto. Tornò a guardare la scena. Il conte aveva cominciato a muoversi. Muoveva il culo avanti e indietro, con violenza, schiacciando ogni volta il corpo del marchese. Le spinte erano violente, ma il marchese lo aizzava: 

- Più forte, porco, più forte. Fammelo sentire tutto, il tuo grande cazzo. Dai, porco, dai! Scopami, scopami!

Il conte non rispondeva. Spingeva con violenza sempre maggiore. François pensò che presto sarebbe venuto, anche senza toccarsi, ma di colpo la scena si concluse: due spinte selvagge strapparono un urlo al marchese, poi il conte aprì la bocca, senza emettere suono, la richiuse e si lasciò andare sul marchese.

- Henri, Henri! Troppo breve!

Il conte si sollevò, estrasse dal culo del marchese il cannone ancora gonfio, ma non più rigido, e scese a terra. François vide che l’arma era sporca. Il conte era chiaramente infastidito e quando si guardò il membro, la sua irritazione sembrò aumentare.

- Muoviti, puliscimi.

Il marchese si alzò, guardò il conte e, senza dire una parola, si inginocchiò ai suoi piedi. Gli prese l’arma in bocca e cominciò a pulirlo con la lingua e le labbra, leccando e succhiando. Non appariva intenzionato a terminare molto presto l’operazione, perché continuava a succhiare, ma il conte si ritrasse.

- Basta così, Amédée. Ne ho abbastanza.

Ora la voce del marchese era aspra:

- Il cavaliere del Vissard ha esaurito le tue forze, eh, Henri?

Henri di La Boussac alzò le spalle, si rivestì in fretta e uscì, lasciando il marchese nudo e solo in mezzo alla stanza.

François ritenne opportuno ritirare la testa. Ci fu un lungo momento di silenzio, poi il marchese uscì.

François si volse verso Dessart per chiedergli che cosa intendeva fare, ma Dessart si mise un dito davanti alle labbra.

     

Alcuni minuti dopo, si sentirono diversi passi. Parecchie persone entrarono nella stanza. Probabilmente portavano candelieri, perché anche attraverso le tende si vedeva che ora c’era molta più luce. I passi si avvicinarono alla tenda. La voce del marchese risuonò:

- Esci da dietro quella tenda o sei morto. Non hai scampo, sei circondato.

Dessart fece cenno a François di non muoversi, nascose il coltello nella giacca e con un gesto deciso scostò la tenda davanti a lui e uscì fuori.

- Ma sono in due! Fuori anche tu! Sappiamo che ci sei, spunta il tuo stivale.

François abbassò lo sguardo. Una gamba era un po’ spostata in avanti e la punta dello stivale doveva sporgere oltre la tenda. Era stato lui a farli scoprire, a perderli.

Sapeva di non avere scelta, ora. Uscì. Nella stanza dieci uomini, armati di pistole e picche, tenevano sotto tiro Dessart e lui. Il marchese li guardava sprezzante.

- Vediamo cosa vogliono questi due imbecilli.

François sapeva che li avrebbero ammazzati molto presto, ma più forte della paura sentiva l’umiliazione: era stata la sua balordaggine a perderli. Ignorò il cerchio di uomini e guardò Dessart, come sempre impassibile.

- Mi spiace, capitano.

Il marchese voltò la testa di scatto e fissò Dessart:

- Capitano? Ma certo, tu sei il capitano Dessart, l’assassino di mio suocero. Adesso tutto è chiaro. Portateli nella sala sotterranea e sistemateli. Gondrieu, tu sai come fare.

L’uomo a cui il marchese si era rivolto, un domestico basso e robusto, con un viso porcino, parlò ai due prigionieri.

- Alzate le mani bene in alto.

Poi diede istruzioni a due degli uomini:

- Tu, passa dietro con la pistola; Antoine, perquisiscili.

Gli uomini eseguirono e in breve François e Dessart furono privati delle loro armi. Poi discesero nei sotterranei: due uomini li precedevano portando i candelabri, gli altri li seguivano, con le pistole e le picche puntate contro le loro schiene.

François parlò nuovamente, con fatica.

- Sono un coglione. Ora sanno anche chi sei.

Dessart scoppiò a ridere. Una risata franca, che fece sobbalzare gli uomini che li guidavano. Entrambi si voltarono preoccupati a guardarli: che cosa aveva da ridere quel gigante, che presto sarebbe stato scannato e lo sapeva benissimo?

- Non dire cazzate, Girod. Figurati se qualcuno di questi bei tipi non mi ha visto l’altro giorno! E anche se così non fosse, la marchesa si ricorda di me, lo ha detto chiaramente. E dopo la descrizione che ha fatto, Vilhoet ci avrebbe pensato.

François non disse nulla: Dessart aveva ragione. Quel suo secondo errore era irrilevante. Il primo, no.

Giunti all’estremità del corridoio scesero due piani di scale e arrivarono nei sotterranei. Percorsero un altro corridoio, parallelo a quello superiore, ed entrarono in una grande sala sotterranea. I due candelabri non arrivavano a illuminare pienamente tutto il locale, in cui si ammassavano diversi mobili. Su una parete, una serie di sbarre di ferro, disposte alcune orizzontalmente e altre verticalmente, formavano una specie di grande grata.

Li spinsero contro quella parete e legarono loro le mani a una sbarra che correva in alto.

Ora erano rivolti con la schiena contro la parete, le braccia sollevate in alto, i piedi che poggiavano a terra. François, che era alquanto più basso di Dessart, toccava appena il suolo.

- Toglietegli i vestiti.

All’ordine di Gondrieu, due uomini gli sfilarono stivali e pantaloni, poi con un coltello gli tagliarono la giacca e la camicia e le tolsero, lasciandoli completamente nudi. I loro abiti furono gettati in un angolo.

Gondrieu controllò che fossero ben legati, poi fece posare un candelabro su un tavolo posto al centro della sala e tutti gli uomini uscirono. Ora erano soli.

François guardò Dessart, alla sua destra. Si vergognava da morire: non sapeva fare altro che combinare guai e mettere nei guai anche il capitano.

- Mi spiace, capitano, sono davvero…

Non completò la frase: Dessart lo interruppe.

- Piantala di scusarti.

Abbassò la voce, fino a che divenne un sussurro appena udibile.

- Sta’ pronto a cogliere ogni occasione. Finché siamo vivi, nulla è perduto. Possiamo ancora cavarcela. E quelle carte sono troppo importanti, dobbiamo procurarcele. Ma ora silenzio.

 

 

IL RE DI PICCHE

 

Rimasero un buon momento in silenzio. François guardava il grande corpo del capitano al suo fianco. Ne vedeva il profilo aquilino, poi il forte collo, il torace muscoloso ricoperto dal vello nero, il ventre piatto da cui, oltre la massa particolarmente fitta e nera dei peli del pube, spiccava il profilo dell’ingente cazzo. Di colpo si rese conto che, nonostante la situazione, il desiderio si accendeva nuovamente. Non poteva. Non in quella situazione.

Con uno sforzo di volontà si costrinse a guardare diritto, davanti a sé.

Pochi minuti dopo entrò il marchese.

Si fermò davanti a Dessart, che evidentemente lo interessava assai più di François.

- Non so esattamente che cosa ti ha portato a ritornare qui, ma visto che l’altra volta ti hanno lasciato scappare, questa volta rimedieremo.

La bocca gli si aprì in un largo sorriso mentre la sua mano aperta passava sotto i coglioni di Dessart e il pollice gli scorreva dall’alto al basso lungo il cazzo.

- Sarà un vero piacere castrarti, capitano della fottutissima repubblica.

Anche Dessart sorrise e non replicò, ma al brusco movimento che fece il marchese, François si rese conto che qualche cosa stava succedendo. Distolse lo sguardo dai due volti per abbassarlo fino alla mano del marchese e vide che Dessart stava pisciando addosso a Vilhoet. Questi non disse nulla, non tolse la mano, non indietreggiò. Lasciò che il getto di piscio gli bagnasse la mano e poi i pantaloni. François guardò l’ampia macchia allargarsi.

Quando Dessart ebbe finito, il sorriso del marchese si allargò:

- Per ogni goccia del tuo piscio verserai un bicchiere del tuo sangue.

- Come vuoi, cittadino Vilhoet. Non mi fai paura.

Il marchese non smise di sorridere. C’era qualche cosa di sinistro in quel sorriso. François avrebbe preferito vederlo infuriarsi.

- A la Selle, due miglia da qui, c’è un contadino che è ben dotato come te. Io ho una guaina di pelle con tante lamelle taglienti come rasoi. La guaina si infila sopra il cazzo e quando ti entra in culo, quasi non ti accorgi che ci sono le lamelle. Quando però cerca di uscire, le lamelle si alzano e ti fanno a pezzetti. Ti farò provare il mio contadino, con la guaina. Ti piacerà.

- Se lo dici tu, cittadino Vilhoet, non ne dubito: devi averlo provato spesso. Senza la guaina, naturalmente. Non hai i coglioni per quello, anche se in fondo ti piacerebbe.

L’espressione del viso del marchese non cambiò, come se non avesse sentito. 

- Poi porterò il mio cane. Basta praticare una piccola incisione.

Il marchese fece passare la lunga unghia del pollice lungo il cazzo di Dessart. Arrivato alla base spinse l’unghia nella carne, aprendo una piccola ferita. Ne uscì una goccia di sangue.

- Il mio cane ama l’odore del sangue. Gli piacerà. Ce n’è di che saziarlo.

- Più facile saziare lui che saziare te, cittadino Vilhoet. Il tuo culo non è mai soddisfatto, a quanto capisco.

Ci fu un lungo attimo di silenzio. Il sorriso del marchese ora era una maschera rigida. Guardò ancora Dessart, poi si spostò portandosi di fronte a François.

- Quanto a te, sarà un piacere sconciare questo piccolo capolavoro della natura. Farò provare anche a te il mio contadino, ma senza guaina.

François aveva una paura folle, ma cercò di essere all’altezza della situazione, ironizzando:

- Veramente gentile, ma ne farei a meno.

Il marchese non badò alle sue parole.

- Ma prima credo che ti assaggerà Henri. A lui piacciono i bei culetti.

La voce di Dessart risuonò sferzante:

- È per quello che non apprezza tanto il tuo? O è soltanto perché ha così poca resistenza? Questa sera ti ha proprio deluso.

In un attimo il marchese fu di fronte a lui.

- Tu credi di saper fare di meglio?

Il tono era ironico, il sorriso una smorfia di disprezzo, ma negli occhi c’era una luce diversa, che a François non sfuggì. Era quello che voleva Dessart?

- Certo, cittadino Vilhoet. Ti posso fare urlare per il piacere per un’ora di seguito. Noi del popolo abbiamo ancora i coglioni. Voi li avete persi quando avete cominciato a perdere le teste.

Il marchese scosse il capo.

- Vediamo, vediamo se sarai ancora in grado, dopo.

Si voltò e uscì.

François rabbrividì: che cosa intendeva il marchese con quel “dopo”?

Dalla porta il marchese chiamò. Arrivarono subito due uomini, che non dovevano essere lontani.

- Voltatelo.

I due uomini tagliarono le corde che legavano la sinistra di Dessart e lo costrinsero a fare un mezzo giro su se stesso: ora il capitano aveva il viso rivolto contro la parete. Gli uomini legarono nuovamente, stringendo forte, la mano sinistra. 

François cercò con gli occhi il marchese. Si era avvicinato a una parete, lungo la quale erano appoggiati diversi strumenti e armi: una mannaia, alcune lance, pugnali, fruste. Il marchese prese una frusta e si avvicinò.

- Tornate al vostro posto.

I due uomini uscirono senza dire una parola.

- E ora cominciamo a farti pagare il prezzo.

Il marchese si tolse la camicia e la gettò vicino al mucchio in cui giacevano i loro abiti. Poi alzò il braccio e abbatté la frusta con forza sulla schiena del capitano. Dessart si aspettava il colpo ed ebbe appena un piccolo sussulto.

Il marchese ripeté il gesto più e più volte. Dessart taceva, anche se a tratti François poteva vedere il viso contrarglisi in uno spasimo di sofferenza. Ora il torace del marchese era madido di sudore e goccioline scendevano fino ai pantaloni.

A un certo punto François vide un rivolo di sangue scendere lungo la schiena di Dessart. Non poteva vederlo, ma sapeva che ce ne dovevano essere altri.

Dopo una quindicina di colpi alla schiena il marchese cominciò a frustare il culo del capitano. Ora il torace del marchese era bagnato come se si fosse immerso in una vasca, dalla fronte le gocce scendevano sulle guance. Dopo un po’ dal culo di Dessart rivoli di sangue cominciarono a colare lungo le gambe, perdendosi tra la peluria nera.

François sentiva un dolore acuto stringergli lo stomaco. Lo strazio del corpo di Dessart lo angosciava.

Il marchese abbassò il braccio. Era esausto.

- Saresti ancora capace di soddisfarmi, ora?

La voce di Dessart era forte, non tradiva dolore o stanchezza:

- Certo, cittadino Vilhoet.

Il marchese andò sulla porta.

- Chiamate Jean e Petit-Paul e venite tutti e quattro qui.

Il marchese rientrò e rimase a fissare Dessart.

Anche François lo fissava. Poteva vedere che il viso del capitano gocciolava di sudore come quello del suo carnefice.

I quattro uomini arrivarono.

- Al tavolo.

Gli uomini dovevano già sapere che cosa fare, perché, senza aspettare altre istruzioni, tagliarono le corde che legavano Dessart, lo spinsero al tavolo e lo forzarono a stendersi a pancia in giù. Ora che gli dava la schiena, François poteva vedere i segni delle frustate e il sangue che si perdeva nella peluria nera.

Gli uomini legarono le mani di Dessart a due ganci posti sul lato inferiore dell’asse del tavolo, a metà dei lati più lunghi.

- Andate a dormire. E chiudete questa porta.

I quattro uomini uscirono.

- Bene. Adesso vediamo che cosa sai fare.

Il marchese finì di spogliarsi. Poi si avvicinò al tavolo.

- Alzati sulle braccia.

Dessart eseguì, sollevando il corpo. Il marchese si infilò nello spazio tra la superficie del tavolo e il capitano.

Ora era prono, sotto Dessart. Ma Dessart aveva le mani legate e non poteva servirsene.

- Bene, datti da fare.

- Certo, troia dal culo caldo, ora ti divertirai. La mia piccola troia troverà finalmente un cazzo in grado di farla godere.

A una serie di movimenti del culo di Dessart seguì una spinta violenta, accompagnata da un urlo del marchese: il cazzo doveva avere trovato la sua strada.

Dessart cominciò a spingere. Spingeva con forza, con movimenti violenti, che gli facevano colare il sangue dalle ferite alla schiena e al culo. Dessart non sembrava badarci. Le sue spinte strappavano al marchese mugolii e gemiti, che ben presto divennero parole:

- Sì, sì. Scopami così. Sfondami, spaccami il culo.

- Puoi contarci, troia!

Dopo aver replicato, François vide che il capitano spostava le gambe verso sinistra, in modo da mettersi di traverso, per quanto glielo permettevano le mani legate. Tirava indietro il culo e poi spingeva, lanciandosi in avanti con tutta la sua forza.

François non osava pensare a che cosa doveva provare il marchese, squassato da quella clava gigantesca, che pareva volersi aprire una nuova strada. Solo le grida del marchese, che aveva ormai perso ogni ritegno, gli davano un’idea di quello che sentiva:

- Ah, ah! Sì, così, più forte. Sì, cazzo di fuoco, sì cazzo di ferro. Sì, porco, sì mio porco!

In quelle urla, nella voce tesa quasi fino a lacerarsi, François sentiva un dolore che non doveva essere inferiore al godimento.

- Bravo, porco cazzo di acciaio. Sì cazzo grosso! Sì, sì. Ah! Ah!      

Dessart raddoppiava i suoi sforzi, spostandosi sempre di più verso sinistra, colpendo con sempre maggiore energia, agitandosi quanto più gli permettevano le corde.

A un certo punto il marchese urlò, tre urla inarticolate di dolore violento, a cui Dessart non badò. Il marchese gridò ancora:

- Non ce la faccio. Non ce la faccio.

E poi:

- Non smettere, ti prego.

- Certo, troia dal culo caldo, con te non ho ancora finito.

Il marchese urlò nuovamente:

- Sì, sì! Continua. Piano! Sì, così, porco, grande cazzo, cazzo di acciaio.

Qualunque cosa urlasse il marchese, Dessart continuava, in quel movimento che portava le sue gambe sempre più verso sinistra.

Inizialmente François aveva assistito alla scena con un misto di curiosità e di fastidio, ma man mano che la frenetica attività di Dessart proseguiva, sentì per l’ennesima volta il desiderio accendersi e impadronirsi di lui. Nuovamente avrebbe voluto essere non spettatore, come sempre gli toccava, ma attore di quella scena. Il suo uccello aveva cominciato ad alzare la testa, ma anche questa volta non c’era speranza che trovasse un nido accogliente.

A un certo punto, mentre fissava la cavalcata selvaggia di Dessart, François vide la mano destra del capitano sollevarsi di colpo e poi ricadere. Guardando con attenzione si rese conto che, grazie al movimento violento che imprimeva al proprio corpo, Dessart era riuscito a segare completamente una corda, sfregandola contro il bordo del tavolo. Ora teneva la mano bloccata contro il tavolo perché il marchese non se ne accorgesse e spostava rapidamente le gambe verso destra.

- Porco. Cazzo grosso, grande cazzo.

Travolto dal piacere e dallo spasimo, il marchese non si rendeva conto che i movimenti di Dessart avevano uno scopo ben diverso da quello di spaccargli il culo. Ma ora François sapeva che cosa sarebbe accaduto e osservava, eccitato e curioso, il movimento a stantuffo del culo di Dessart, che penetrava con violenza il marchese.

Poi, di colpo, la mano sinistra si sollevò come aveva fatto l’altra. Questa volta però non ritornò al suo posto: la destra la raggiunse ed entrambe scesero a stringersi intorno al collo del marchese.

François conosceva quelle mani. La loro stretta era una morsa d’acciaio. Sentì ancora la voce del marchese urlare:

- Sì, sì.

La voce del marchese si spense subito in un gorgoglio. Le mani di Dessart continuarono a stringere, per un buon momento, poi François le vide mollare il collo che avevano spezzato. Il capitano non si alzò: riprese il movimento, imprimendo un’ultima serie di spinte decise. Poi si ritrasse e in un attimo fu in piedi, davanti a François.

François ne guardò il grande cazzo, ancora turgido, sporco di sangue e di merda. Dessart gli sorrise, poi il capitano corse alla parete dove erano sistemate le armi, ne prese un coltello e si avvicinò.

Mentre tagliava la corda che teneva legata la mano destra di François, gli disse:

- Scusa, François, ma non ce la facevo a resistere. D’altronde vedo che anche a te la scena ha fatto un certo effetto.

La bocca gli si aprì in un sorriso che a François parve un ghigno beffardo. Con il palmo della sinistra Dessart gli diede due leggeri colpetti sull’uccello, che già François sentiva sul punto di scoppiare.

Istintivamente François arretrò il culo, come se fosse stato morso da un serpente. Dessart fece un mezzo passo indietro e il sorriso gli scomparve dalla faccia.

- Scusa, non intendevo offenderti.

François si morse il labbro inferiore. Non era quello. Sapeva benissimo ciò che desiderava più di ogni altra cosa: che Dessart gli prendesse l’uccello in mano e ne guidasse una buona volta il volo fino alla cima desiderata. Ma nello stesso tempo si vergognava, più che mai in quella situazione.

 

 

IL RE DI FIORI

 

Dessart si accingeva a liberare anche l’altra mano, quando François vide la porta aprirsi e Henri di La Boussac entrare.

Gridò: - Attento!

Dessart si voltò, mentre il conte, che era a torso nudo, si slanciava sulla rastrelliera con le armi e afferrava un pugnale, gridando:

- Maledetto assassino!

Dessart avanzò, impugnando il coltello.

Ora i due erano a pochi passi, il coltello stretto nella destra. Per un buon momento si fronteggiarono, muovendosi appena, poi il conte scattò in avanti, vibrando un fendente, che Dessart schivò senza fatica. A sua volta il capitano si protese in un attacco, ma il suo colpo venne facilmente parato. I due avversari si stavano misurando, cercando di comprendere quale fosse la forza del rivale. Rimanevano immobili per un momento, per poi scattare rapidi contro l'avversario o saltare di lato, vibrando e scansando fendenti.

François capì subito che il duello non si sarebbe risolto facilmente e tremò per Dessart, che le frustate avevano certamente indebolito. Cercò di liberarsi, ma la mano sinistra era ancora bloccata e con la destra non riusciva sciogliere il nodo: non era in grado di intervenire in aiuto del capitano e probabilmente questi non lo avrebbe nemmeno voluto.

I due combattevano in un silenzio assolu­to e François guardava affascinato i loro movimenti e le grandi ombre che i corpi proiettavano sulla parete.

A un certo punto il conte si slanciò in avanti con un movimento brusco e riuscì a ferire Dessart a una spalla. François si morse le labbra per non urlare. Si accorse però subito che la lama aveva raggiunto Dessart di striscio: solo un po' di sangue colava sul braccio.

Allora il conte ruppe il silenzio:

- Il prossimo colpo andrà a segno.

Dessart non replicò.

I due conti­nuarono ad avvicinarsi e ad allontanarsi, fino a che il conte, con una mossa fulminea, riuscì a bloccare con la mano sinistra il polso di Dessart, cogliendolo di sorpresa. Prima però che La Boussac riuscisse a colpirlo, Dessart si avventò su di lui e caddero al suolo av­vinghiati. Nella caduta Dessart perse il coltello e nuovamente poco mancò che François non urlasse: la lotta poteva dirsi finita, se solo il conte fos­se riuscito a liberarsi dalla stretta del capitano.

François fece un altro tentativo di sciogliere la corda che gli bloccava la sinistra, ma senza risultato. Assistere così, impotente, alla morte di Dessart! Era atroce.

Nella caduta, però, Dessart era riuscito a sovrastare il conte e ora gli bloccava le braccia, stringendole con le­ proprie, da dietro. I loro corpi aderivano e, sollevandosi sulle ginocchia, Dessart forzò il conte, che ancora stringeva il pugnale, ad assu­mere la stessa posizione. Il capitano teneva il polso del marchese in una morsa di ferro e lentamente cominciò a girarlo, fino a che la lama si trovò rivolta verso il ventre. Poi cominciò a premere su quel polso.

Il conte  cercò di resistere alla pressione che portava la sua stessa lama verso il suo corpo, ma la stretta di Dessart era più forte: François guardava, senza riuscire a staccarne un attimo gli occhi, la mano di Dessart che premeva su quella del conte fino a che la lama non raggiunse la carne, subito sopra i pantaloni. Qui sembrò fermarsi un attimo, mentre un sot­tile rivolo di sangue colava dalla ferita appena aperta.

François alzò gli occhi per guardare i visi dei duellanti, stravolti dallo sforzo, poi li abbassò sulla mano col pugnale, bloccata nella stretta dell'altra mano. Dopo un'estrema resistenza da parte del conte, la lama cominciò a pene­trare, prima lentamente, poi più rapidamente, affondando fino all'elsa. Il sangue sgorgò abbondante, mentre il conte sembrava ancora cercare di resistere. Per un buon momento i due corpi rimasero uniti, entrambi tesi, uno nello sforzo di mantenere in posizione il pugnale, l’altro in un’ultima resistenza alla morte, poi il corpo del conte si af­flosciò e le braccia ricaddero inerti. Allora Dessart estrasse il coltello dalla ferita e con un colpo solo recise la carotide del conte: il sangue schizzò in avanti, descrivendo un’ampia curva.

Dessart si alzò e il cadavere del conte scivolò a terra.

Rapidamente il capitano si avvicinò a François e gli liberò la mano sinistra.

- Mettiti pantaloni e stivali, presto. Dobbiamo essere pronti per uscire. Anche la camicia, quella di Vilhoet.

François eseguì, mentre Dessart si avvicinava alla porta e spiava nel corridoio.

- Tutto a posto. Non c’è nessuno. Questo stronzo veniva a vedere se poteva farsi il bel soldatino, ma gli è andata male.

Dessart si avvicinò al mucchio degli abiti, si pulì il cazzo con un lembo della camicia stracciata, poi prese i pantaloni e si rivestì. François guardò affascinato quel culo, con i segni delle frustate e il sangue raggrumato, mentre scompariva nei pantaloni. Dessart si infilò gli stivali, poi si avvicinò al tavolo e François lo imitò.

Ora François poteva vedere che la testa del marchese ciondolava, in modo grottesco, unita al corpo da un collo spezzato. Dessart tirò indietro il corpo, in modo che la testa si trovasse sul tavolo, poi lo voltò.

François vide l’ampia macchia biancastra sul tavolo e sul ventre del marchese, l’asta ancora sollevata. Dessart si rese conto del suo sguardo e gli disse:

- È crepato mentre veniva.

François non sapeva che cosa provava: un misto di orrore e di sottile inquietudine.

Dessart sollevò il cadavere del conte e apparentemente senza sforzo lo depose accanto a quello del marchese.

- Ci servono queste teste.

François non capì e guardò il capitano interrogativamente.

- Dobbiamo provare che li abbiamo eliminati, se riusciamo a tornare. La parola di un assassino e quella di un disertore non hanno molto valore. Le teste di due re sono una prova inoppugnabile. E d’altronde i re vanno decapitati.

Si diresse alla parete, prese dalla rastrelliera la mannaia e si avvicinò al tavolo. Solo allora François capì. Avrebbe voluto distogliere lo sguardo, ma non voleva mostrarsi pauroso e cercò di guardare il capitano all’opera, come se stesse osservando un contadino che tirava il collo a una gallina. Vide Dessart che sollevava in alto la mannaia e la calava con forza e precisione sul collo del marchese, poi si spostava dall’altra parte del tavolo e ripeteva l’azione con il cadavere del conte. La testa del conte rotolò di lato e, trovandosi quasi sul bordo del tavolo, cadde a terra. Vedendo il collo tranciato, da cui colava un po’ di sangue, François si sentì afferrare dalla nausea. Si girò, fece due passi, ma appena arrivò alla parete vomitò.

Si sentiva sfinito e tremava leggermente. Si appoggiò al muro. Che razza di soldato era: nemmeno capace di vedere decapitare un cadavere! Si vergognava, ma non riusciva a calmare il tremito. Dessart gli si avvicinò, gli posò una mano sulla spalla e François sentì la sua voce:

- Non è un bello spettacolo, lo so. Ma dovevo farlo.

François gli fu grato per non averlo rimproverato e si girò a guardarlo. Dessart gli sorrise. Poi andò a prendere le loro camicie stracciate e avvolse le due teste, ponendole nella sacca, insieme a due coltelli. Ne prese un altro per sé e ne porse uno a François.

- Quei maledetti ci hanno tolto le pistole. Abbiamo solo i coltelli.

Dessart rifletté un buon momento, poi parlò:

- Girod, adesso cerchiamo di uscire dal castello. Poi io rientrerò e cercherò di procurarmi quelle carte, sono troppo importanti. Tu rimarrai fuori. Se io non torno o se senti dei rumori nel castello, se vedi delle luci, scappa il più rapidamente possibile. Se riesci, conserva questa sacca: è il tuo salvacondotto.

L’idea di uscire da quel posto infernale appariva molto allettante, ma François non la prese in considerazione.

- Se ci vedono mentre usciamo, tu non potrai rientrare. E se cerchiamo quelle carte insieme, forse posso esserti utile. Non è meglio che venga con te?

Dessart lo fissava. François temeva che non si fidasse di lui. Doveva ancora essere pallido come un lenzuolo.

- Sì, ma te la senti? Mi sembri un po’ scosso.

François si sentì nuovamente umiliato, ma non poteva dare torto a Dessart.

- Sì, capitano. E scusami. Cercherò di non commettere più errori.

- Se non commettevi errori, magari a quest’ora il conte e il marchese erano ancora vivi: abbiamo dato un colpo mortale alla ribellione: due re decapitati. E se ci procuriamo quelle carte, completeremo l’opera. Andiamo.

François respirò, rincuorato.

Uscirono nel corridoio e con grande cautela lo percorsero fino alla scala da cui erano scesi. In silenzio salirono, cercando nel buio di non mettere un piede in fallo: un rumore avrebbe potuto rivelare la loro presenza.

Nel castello tutto era silenzioso e buio: nessuno sembrava vegliare. François si disse che nessuno avrebbe potuto prevedere la loro fuga, per cui né il marchese, né il conte avevano ritenuto necessario sorvegliare i sotterranei. Non solo: probabilmente entrambi preferivano non avere tra i piedi ficcanaso che avrebbero poi potuto raccontare certi dettagli.

Al primo piano ritrovarono la camera del marchese ed entrarono. La finestra era aperta e, anche se i raggi della luna non entravano nella stanza, il loro chiarore permetteva di vedere senza difficoltà gli oggetti.

Si avvicinarono al tavolo. Dessart cominciò a far scivolare le mani sulle superfici laterali, alla ricerca del meccanismo che comandava l’apertura dello scomparto.

- Le ha infilate da questa parte, ne sono sicuro.

Non avendo trovato nulla, Dessart si chinò e cominciò a passare le mani sotto il tavolo, ma senza risultato.

- Merda! Non riesco a trovare nulla. Non possiamo portarci via il tavolo.

Questo era evidente: il grande tavolo, di noce massiccio, più adatto a una sala da pranzo che a una camera da letto, doveva pesare qualche quintale.

Anche François cominciò a cercare con i polpastrelli, prima lungo i lati, poi sotto. Anche lui però non trovava nulla. Il tempo passava e la rabbia di Dessart aumentava.

- Porcodd…! Non è possibile! Rinunciare a quelle carte!

François capì che il capitano si stava rassegnando e anche lui era sul punto di rinunciare, quando, ripassando per l’ennesima volta le mani su uno dei lati del tavolo, si rese conto che in un angolo una borchia decorativa era sistemata in modo diverso rispetto a quelle corrispondenti disposte agli altri angoli. Cominciò ad armeggiare, tirando, spingendo, cercando di spostare, fino a che, muovendo verso destra, la borchia cedette e si sentì un piccolo scatto. Un cassetto segreto si aprì.

- François Girod, sei un genio!

A François non sembrava di meritare il complimento, ma era felice di aver dato un contributo. Dessart prese i documenti, cercò nel guardaroba un tessuto in cui avvolgerli e li mise nella sacca. Poi diede a François una giacca del marchese e prese un grande mantello, che infilò nella sacca. Infine prese un lenzuolo dal letto, lo annodò e lo legò alla balaustrata del balcone.

Dalla porta che dava sul balcone, François guardava lo spazio antistante, perfettamente illuminato dalla luna. La facciata del castello era ancora in ombra, per cui probabilmente avrebbero potuto scendere senza essere troppo visibili, ma non appena si fossero allontanati dalla parete, chiunque avrebbe potuto vederli. Era notte fonda, tutti dovevano essere a dormire, ma non c’erano sentinelle, lì, vicino al castello?

Mentre faceva queste riflessioni, François sentì dei passi nel corridoio. Fece un passo, si chinò e in un sussurro avvisò Dessart.

 

 

IN FUGA

 

Si calarono rapidamente dal balcone e si fermarono contro la parete, nella zona d’ombra. Per dirigersi verso la strada da cui erano arrivati avrebbero dovuto attraversare la vasta zona illuminata. Dessart preferì scivolare lungo la parete del castello, in direzione opposta a quella della porta, fino a che arrivarono all’angolo dell’edificio. Oltre lo spigolo si trovarono in un punto dove l’ombra era più fitta. Allora Dessart si staccò dalla parete del castello e cominciò a muoversi lungo il bordo del lago, in direzione contraria a quella da cui erano arrivati. Alla loro sinistra si trovavano alcuni edifici agricoli, tra cui il fienile in cui avevano rischiato di morire due sere prima.     

Avevano fatto pochi passi, quando sentirono voci provenire dal castello.

- Di corsa, Girod.

Dessart cominciò a correre lungo il bordo del lago. In breve superarono l’area edificata e si trovarono a percorrere un sentiero che costeggiava le acque. Era passato circa un quarto d’ora quando guadarono l’immissario del lago, un fiumiciattolo, largo ma poco profondo: l’acqua arrivava loro solo fino alle ginocchia. Non avevano più sentito voci, ma, un centinaio di metri oltre il torrente, d’improvviso Dessart si fermò, in ascolto.

- Merda, i cani!

François tese l’orecchio. In  lontananza si sentivano i latrati.

- Seguimi, presto!

Dessart fece dietrofront e cominciò a correre in direzione del castello. François si chiese se Dessart non fosse impazzito, ma non disse nulla. Ormai era sicuro che il capitano faceva sempre la cosa giusta. Si ritrovarono al fiumiciattolo. Ora l’abbaiare dei cani era molto più forte e in direzione del castello François poteva vedere le luci di torce che venivano loro incontro. Che cazzo aveva in mente Dessart?

Dessart entrò nel fiumiciattolo e cominciò a risalirne il corso. Nel primo tratto non ci furono difficoltà, poi il fiumiciattolo divenne un torrente che scendeva, ora impetuoso, ora più calmo, lungo il fianco della collina.

- Rimani sempre in acqua.

Risalire il fianco della collina sulle pietre scivolose, nell’acqua fredda che a tratti arrivava fino alla vita e talvolta scorreva con violenza, non era né facile, né piacevole. Dessart camminava tenendo in alto la grande sacca e badando a non scivolare. François lo seguiva, senza dire nulla. Non gli era stato difficile capire: muovendosi nell’acqua, avrebbero impedito ai cani di seguire le loro tracce. E infatti sentirono i latrati dei cani avvicinarsi e poi passare oltre, poi ritornare indietro e allontanarsi nuovamente. Si sentivano anche voci umane e di tanto in tanto potevano intravedere tra gli alberi la luce delle fiaccole: gli inseguitori non erano lontani, ma per il momento non riuscivano a ritrovare le loro tracce.

Camminarono a lungo, forse per un’ora, prima nel torrente, poi nel bosco, tra rovi e pietre. Ora François aveva freddo ed era esausto. Più di una volta si sentì sul punto di cedere. Stringeva i denti e tirava avanti. Non si sentivano più né le voci, né l’abbaiare dei cani. Ogni tanto vacillava.

- Ce la fai ancora, Girod?     

La voce di Dessart gli ridiede un po’ di coraggio.

- Sì.

Dopo pochi minuti incontrarono un sentiero e cominciarono a percorrerlo. Ora camminare era agevole, ma François sentiva che stava cedendo. A un certo punto si appoggiò a un albero per non cadere a terra, incapace di procedere.

Dessart aspettò che si fosse ripreso, ma subito dopo lasciò il sentiero. Risalirono un poco, poi si fermarono tra alcuni massi.

- Stenditi e cerca di riposare.

Mentre pronunciava questa parole, Dessart tirò fuori il mantello e lo stese al suolo. François si lasciò cadere sul mantello. Dessart lo avvolse. C’era una premura quasi materna in quel gesto e François si sentì commosso. Guardò Dessart stendersi accanto a lui.

- Non puoi dormire così, avrai freddo.

- Non ti preoccupare.

Dessart era a torso nudo ed era inzuppato d’acqua.

- Dai. Il mantello è abbastanza grande per tutti e due, stenditi qui.

Dessart si avvicinò, François aprì il mantello e lo accolse. Il capitano si stese a pochi centimetri da lui. François era contento di sentire Dessart vicino. Provava per lui una riconoscenza infinita.

Mentre le palpebre gli si chiudevano per il sonno, allungò il braccio e gli accarezzò la guancia. Sentì la voce di Dessart:

- È meglio che tu dorma, Girod. Abbiamo poche ore di riposo e domani dobbiamo essere in forma. Non sarà una passeggiata.

François non disse niente. Lasciò che il sonno lo inghiottisse, felice di essere vicino al suo capitano.

 

 

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