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I FANTASMI DELLA FORESTA DI LIFFRÉ

 

Dopo un buon tratto di corsa, Dessart, che doveva conoscere bene la zona, li fece fermare e deviare lungo un sentiero che passava tra i campi coltivati. Il loro cammino divenne via via più tortuoso: dovevano superare le siepi che separavano i campi, entrare in terreni cintati, guadare ruscelli. Sentivano tutti la fatica della giornata, ma seguivano il loro capitano docili come pecore.

A un certo punto Dessart li fece fermare tutti in un campo.

- Ormai ce la siamo cavata, ma non siamo proprio in una bella situazione. Al castello sono rimasti i servitori e la marchesa. Avranno avvisato subito gli altri che la trappola è fallita e non mi stupirei che fossero già alla nostra ricerca. Non troveranno facilmente le nostre tracce e questo ci dà un buon vantaggio. Però dobbiamo evitare di incontrare qualcuno: chiunque si aggira da queste parti la notte può essere un nemico. Dobbiamo camminare ancora un’ora, ma arriveremo in un posto sicuro, in cui non ci verranno a cercare. Coraggio, ragazzi.

Nessuno disse nulla, eccetto Auray:

- Perché hai chiamato quella donna marchesa?

- Perché se l’uomo era il conte di La Boussac, il re di denari, la donna deve essere la sua figlia minore, la marchesa di Vilhoet. E nessuno dei due ha mai viaggiato su quella carrozza. D’altronde il re di quadri era troppo ricco per servirsi di una diligenza pubblica: era lui il principale finanziatore della rivolta.

Auray non replicò. Ripresero a camminare, in silenzio.

Vicino a François, Athanase si rivolse a Kervars:

- Ma perché quel coglione di Auray è aiutante e Dessart solo capitano?

- Perché Auray è figlio di un pezzo grosso di Le Havre, mentre il padre di Dessart fa l’oste a Nantes.

- Ho capito. Bello schifo.

- Quando arriveremo a Rennes, e se ci guida Dessart sta’ pure tranquillo che ci arriveremo domani, tutti quanti, Hulot farà pelo e contropelo a quello stronzo di Auray. Se era per lui, eravamo tutti a guardare la terra dalla parte delle radici.

Più tardi uno dei soldati, Marcel Drégan, si avvicinò a Dessart.

- Capitano, dove ci stai portando?

Dessart scoppiò a ridere.

- L’hai capito benissimo, Segno-della-Croce.

François ignorava il soprannome di Drégan e gli venne da ridere.

- Capitano, non lì, non lì!

- Perché no?

Dessart si stava divertendo. Doveva sapere benissimo perché Drégan non voleva andare dove si stavano dirigendo. Segno-della-Croce non rispose. Dessart riprese:

- Allora, perché non ti piace la grande pietra della foresta di Liffré?

Drégan si fece il segno della croce.

- Capitano! È un posto maledetto. Ci sono gli spiriti dei morti senza sepoltura. Capitano!

Ora la voce di Dessart era seria:

- Sì, Drégan. Proprio per quello ci andiamo. È il posto più sicuro. Lì non ci verrà a cercare nessuno e se qualcuno sente delle voci o vede delle ombre, si terrà ancora più lontano!

Drégan si fece il segno della croce e mormorò qualche cosa.

Auray, che aveva seguito la discussione, intervenne.

- In che posto ci stai portando, Dessart?

- Alla grande pietra che si trova nella foresta di Liffré: in una radura c’è questa pietra enorme, circondata da molte altre che sono state messe in verticale, a formare un cerchio. Antichi monumenti dei Galli. Da queste parti tutti credono che è un posto frequentato dagli spiriti. Dicono che nelle notti di luna piena, i morti che non hanno ricevuto sepoltura si aggirano lì intorno, aspettando di trovare qualche vittima: chi si ferma vicino alla pietra viene ucciso e prende il posto del morto insepolto, che può finalmente ritrovare la pace. Per questo nessuno ci andrebbe mai la notte. E in particolare nelle notti di luna piena, come questa. Lì saremo perfettamente al sicuro.

François aveva seguito tutto il discorso, che gli piacque molto. I congiuntivi non erano tutti al loro posto, ma forse in quelle circostanze non era così importante.

Mentre Dessart parlava con Auray, il gruppo arrivò alla radura.

Il bosco che li aveva avvolti nell’ultima parte del viaggio si aprì e davanti a loro videro un ampio spiazzo, in cui una serie di pietre, alte uno-due metri, formavano una linea quasi continua intorno a un masso di dimensioni gigantesche. La luce lunare illuminava la radura, ma le ombre delle pietre nascondevano gran parte del terreno.

- Ragazzi, dormirete qui. Mettetevi nel cerchio delle pietre. Si può entrare da quella parte. Quattro uomini di guardia, insieme a me: Questembert, Lons, Angles, Forte-Braccio.

Dessart condusse i quattro alle posizioni di guardia, mentre gli altri soldati si stendevano. Il posto era perfetto. All’interno del cerchio erano invisibili e nel caso, altamente improbabile, di un attacco, le pietre avrebbero fornito un ottimo riparo.

François cercò un posto adatto, girando per un buon momento. Quando infine vide un angolo che sembrava fare al caso suo, si rese conto che era proprio vicino a Philippe e David. Esitò un attimo, poi decise di stendersi. Dopo una notte insonne, era molto stanco e si addormentò subito, ma non dormì bene. Si svegliò nel cuore della notte. Intorno, tutto era silenzioso. Qualcuno dormiva vicino a lui, qualcuno che la sera non c’era. François si chiese chi fosse. Lo capì poco dopo, quando vide che l’uomo si alzava: era Dessart. Doveva essersi steso lì alla fine del suo turno di guardia, ma, come sempre, si alzava per andare a controllare. François lo vide sparire dietro la grande pietra. Sapere Dessart vicino gli dava una certa tranquillità. Era buffa, come idea: quell’uomo continuava ad apparirgli inquietante, eppure sapendolo vicino, si sentiva protetto. Poco dopo François si riaddormentò.

Si svegliò che era quasi l’alba: il cielo cominciava a essere più chiaro verso oriente. Dessart era ancora vicino a lui, ma dall’altra parte, Philippe e David erano scomparsi. François si mise a sedere. Dov’erano andati?    

Non erano affari suoi. Lui doveva solo rimettersi a dormire e approfittare di quel poco di sonno che poteva ancora godersi. Si erano fermati molto tardi, ma entro un’ora o due, al massimo, Dessart li avrebbe fatti ripartire.

Sì, doveva rimettersi a dormire.

François si alzò e si mosse con cautela, cercando di non fare rumore. Tutti sembravano addormentati.

Quei due non potevano essere all’interno del cerchio: non c’era spazio, c’erano ovunque i loro compagni. Si avvicinò a un’apertura, dove Kervans vigilava.

- Esco un attimo, devo pisciare.

Kervans lo guardò. A François sembrò che ghignasse, ma era ancora troppo buio per vedere bene.

- Certo, anche Vai-sicuro e Ménéac sono andati a pisciare, un po’ di tempo fa. Da quella parte.

François avvampò, ma al buio Kervans non poteva accorgersene. Facendo finta di niente, si diresse verso il bosco, ma ovviamente non nella direzione indicata dalla sentinella. Quando però uscì dalla radura, cominciò a spostarsi verso il punto in cui dovevano trovarsi Philippe e David. Avanzò lentamente, fino a che sentì dei mugolii.

Philippe e David non dovevano essere lontano. Si mosse ancora.

Ora i mugolii erano più vicini. Mugolii e un respiro pesante. Molto vicino. Con infinita precauzione François avanzò ancora, fino a che scorse, a pochi passi, i suoi due compagni.

Sotto gli alberi era ancora molto buio, ma François poteva distinguere nettamente la sagoma di Philippe, seduto su un masso, la testa reclinata indietro, il torace che si sollevava e si abbassava. Dalla sua bocca uscivano i suoni inarticolati che François sentiva.

Ai piedi di Philippe, appena visibile, doveva essere David. Era inginocchiato davanti a lui e il suo viso era nascosto tra le gambe di Philippe. François non riusciva a capire che cosa potesse fare. La testa emergeva a tratti tra le gambe, per poi immergersi nuovamente.

Per un buon momento la scena continuò, senz’altro accompagnamento sonoro che qualche mugolio e gemito da parte di Philippe. François voleva vedere, voleva sapere che cosa stavano facendo. Che cosa poteva fare un uomo con la testa tra le cosce di un altro?

François si accovacciò e avanzò, quasi strisciando, con il cuore che gli martellava in petto. Ora avrebbe quasi potuto toccare Philippe se solo avesse sporto il braccio oltre il cespuglio che lo nascondeva.      

- Mi piace il tuo cazzo. Ha un buon sapore.

La voce di David lo fece sussultare. Gli era sembrato che parlasse a lui. Ora la testa di David era più indietro, emergeva dalle gambe di Philippe. Anche qualche cos’altro emergeva dalle gambe. Grosso, teso verso l’alto, il mastino di Philippe si ergeva sicuro e tranquillo, in attesa di essere nuovamente accolto nella sua cuccia calda.

- Non smettere, David, per favore. Non smettere.

- Agli ordini. A questi ordini obbedisco sempre volentieri. Riprendo il mio posto… e il mio pasto.

François vide David aprire la bocca e avanzare verso il robusto banchetto che l’attirava, quasi volesse addentarlo. Poi la bocca inghiottì in un sol colpo l’intero piatto e si richiuse, mentre la testa andava su e giù, ritmicamente.

David stava succhiando l’arnese di Philippe. François guardava ammaliato quel mistero. Mai nella sua vita aveva pensato che si potesse fare una cosa del genere.

- Ormai ci sono, David. Ora! Ora!

La voce di Philippe era deformata, ora, un urlo strozzato.

La testa di David si muoveva rapidamente, senza che la bocca lasciasse la presa.

François si rese conto della propria erezione, violenta. Come la notte precedente. Un desiderio incontrollabile gli stringeva le viscere.

Philippe aveva reclinato la testa completamente.

- È buono il tuo sborro.

La bocca di David aveva lasciato la preda. L’arnese di Philippe non era più visibile. Il desiderio di François gli salì alla bocca, ormai secca, in un gemito di cui non si rese conto.

In un attimo David fu al suo fianco. François se ne rese conto quando ormai ogni fuga era impossibile.

- Guarda qui chi ci spiava, il nostro bel Girod.   

- No, io… volevo pisciare.

- Pisciare?! Proprio qui?! Non si piscia con il cazzo duro, tesoro.

E mentre diceva quelle parole gli mise la mano sulla patta. Al contatto della mano di David, l’impulso di fuggire divenne irrefrenabile. François saltò di lato, ma David lo bloccò per il polso.

- Vieni qui, cuoricino mio. Se ti piace lo spettacolo, devi almeno pagare il biglietto.

Lo attrasse a sé e gli passò una mano sul culo, prima su una natica, poi sull’altra, fino a farla ritornare davanti, sull’uccello ormai sul punto di spiccare il volo. François si rendeva conto che sarebbe venuto e la paura lo prese: paura di che cosa, esattamente, non avrebbe saputo dire, ma paura era, incontenibile.

- No!

Nel silenzio dell’alba il suo no risuonò alto, molto più alto di quanto avrebbe voluto.

- Shhh! Tesoro mio. Non conviene farsi sentire.

Le parole di Philippe, che intanto si era avvicinato, furono sussurrate al suo orecchio, mentre la sua mano gli scorreva tra le natiche. Ma un’altra voce risuonò vicina:

- Che cosa succede?

La voce di Dessart. Era a pochi metri, nella radura.

- Niente, capitano, stavamo scherzando.

- Chi c’è, oltre a te, Vai-sicuro?

- Sono io, Philippe Ménéac.

- E io, François Girod.

François si era già pentito di avere urlato. Le due dita di Philippe che premevano tra le natiche gli trasmettevano un brivido e la pressione leggera della mano di David stava per completare l’opera. Era quello che voleva, ora. Venire. Venire tra le mani forti dei suoi compagni. Sentire le dita di Philippe che ora premevano più decise, cercando l’apertura nascosta tra le natiche. Sentire le dita di David, che attraverso il tessuto stringevano il suo uccello. I due non volevano mollarlo, sembravano cercare di convincerlo a non badare al capitano. E che gliene fregava, del capitano, in quel momento?

- Sei stato tu a gridare, Girod, no?

Fu Philippe a rispondere.

- Non è niente, capitano, stavamo scherzando.

- Non ho parlato a te, Ménéac.

Lo voce di Dessart era dura, una staffilata. Philippe Ménéac ammutolì. François doveva rispondere.

- Sì, sono stato io, capitano.

- Vieni qui.

David dovette mollarlo. François maledisse il suo urlo, tanto più che l’idea di affrontare il capitano lo metteva a disagio. Fece due passi e uscì nella radura, avvicinandosi a Dessart. Questi gli fece cenno di accompagnarlo e si diresse verso il cerchio di pietre.

- C’è qualche problema, Girod?

- Nulla, capitano.

- È tutto a posto? Sei sicuro?

- Sì. Davvero.

- Va bene. Meglio così. Adesso sei qui. Puoi decidere di tornare dai tuoi amici o di metterti a dormire con gli altri. Fa’ quello che vuoi, ma niente più grida. Tutti hanno bisogno di dormire e tra non molto dovremo alzarci.

François fu contento che nel buio il rossore della sua faccia non fosse visibile. Era avvampato, come suo solito. Si chiese se tornare da Philippe e David. Era quello che voleva, ma si vergognava. Senza dire una parola rientrò nel cerchio di pietre, stramaledicendo quel fottuto scimmione di Dessart, sempre vigile e attento ai suoi soldatini. Merda! Ma perché non si faceva i cazzi suoi e non lasciava i suoi soldati in pace, almeno di notte?!

Non era giusto quello che pensava, lo sapeva benissimo, era stato il suo urlo a richiamare Dessart. Ma in culo a Dessart e a tutto il mondo.

Rimuginò un po’, poi si addormentò, mentre il cielo si stava ormai schiarendo anche sopra la sua testa. Quando arrivò la sveglia, Philippe e David erano vicino a lui e lo guardavano ghignando.

- Perché non sei rimasto con noi, cuoricino mio? Non ti avremmo mica fatto male. Non mi dire che ti dispiaceva.

Questa volta il sole era sull’orizzonte e François si rendeva conto che il rosso fiamma del suo viso doveva essere ben visibile: il saperlo peggiorava la situazione e la sua temperatura facciale saliva vertiginosamente. Rimase muto e boccheggiante come un pesce: non riusciva a trovare una risposta da dare a quei due filibustieri.

Fu Philippe a continuare:

- Forse non ti andiamo a genio. Non siamo abbastanza belli per i tuoi gusti?

- Scommetto che ti piace Dessart.

Alla battuta di David, François ritrovò la voce:

- Dessart? Quella specie di scimmione nasuto?

Non era esattamente quello che pensava. O, meglio: era quello che pensava, ma in un’altra circostanza non l’avrebbe mai detto. Dopo quanto era successo al castello di Roussière, di Daniel Dessart François non avrebbe mai detto nulla di male, anche se il tiro che gli aveva giocato davanti al fienile non l’aveva ancora digerito e per di più ce l’aveva con lui per la faccenda di quella notte. Ma questo ora non aveva importanza: quei due maiali non dovevano pensare che a lui piaceva una scimmia come Dessart.

Philippe e David scoppiarono a ridere di cuore. Ridevano come due scemi, Philippe si rotolava per terra dal gran ridere, tenendosi la pancia, e David si sbellicava, senza riuscire a controllarsi. François non riusciva a capire, non aveva detto niente di così divertente. Che cosa diavolo avevano da ridere tanto? Sorrise anche lui, come se fosse contento di aver detto una battuta spiritosa, finché David non gli fece cenno di voltarsi.

François si girò e vide, alle sue spalle, il capitano Dessart che si voltava e se ne andava. Non poteva non aver sentito e quei due bastardi schifosi l'avevano fatto apposta a punzecchiarlo per fargli fare la peggiore figura della sua vita. François avrebbe voluto essere nel suo paese a tenere a bada quella peste di Jeannette, avrebbe voluto essere in battaglia, anche nel fienile del castello di Roussière, con i ribelli alla porta. Avrebbe voluto essere morto e sepolto, soluzione che in quel momento gli sembrava di gran lunga la migliore, in quanto definitiva. Ovunque, ma non lì, a guardare Dessart che se ne andava.

Si alzò, conscio che il rosso del suo volto doveva aver raggiunto sfumature e intensità inusuali:

- Siete due stronzi! L'avete fatto apposta.

- Su, su cuoricino mio, non te la prendere. Dessart non è vendicativo. È una pasta d'uomo.

 

Per tutta la mattinata, durante la marcia di avvicinamento a Rennes, François cercò di tenersi lontano da Dessart: si vergognava da morire alla sola idea che i loro sguardi si incrociassero. Man mano che procedevano, si rese conto che anche Dessart evitava di guardarlo. Ne fu sollevato, ma si sentì ancora più umiliato.

Cercò di distrarsi chiacchierando con i compagni. Athanase e Forte-Braccio discutevano dell’agguato della sera prima e ammiravano la bravura con cui Dessart aveva organizzato la difesa, trasformandoli da vittime in carnefici.

- Quell’uomo è incredibile.

François aveva bisogno di una piccola soddisfazione di amor proprio, dopo la brutta esperienza della mattina.

- Sono proprio contento che Dessart mi abbia scelto per accompagnarlo a riaprire la porta posteriore del fienile, si vede che ha fiducia in me e… 

Non completò la frase, perché il fischio irrisorio di Jean Trégunc, detto, non a caso, Fischietto, risuonò alle sue spalle. François e i suoi due compagni si voltarono e lo guardarono interrogativamente.

- Dessart ha scelto te perché il tuo bel culetto rendeva credibile la scena, mica per altro.

François ci rimase malissimo, rendendosi conto che Fischietto poteva avere ragione. Però non doveva essere proprio così: Dessart lo aveva scelto anche per appostarsi vicino al carro.

- Se fosse solo per quello, non mi avrebbe fatto mettere insieme a lui dietro al carro: ha detto che era la posizione più importante.

L’argomento sembrava buono e François era di nuovo contento.

- Ti ha portato al carro per vedere come ti comportavi di fronte al pericolo. Lo fa sempre con i novellini: se li mette accanto quando si arriva al dunque, per valutarli e per dargli una mano, se occorre.

François non disse più nulla. Avrebbe voluto far ingoiare a Fischietto la canna del fucile o il fucile intero o, in alternativa, infilarglielo in culo e poi sparare. E si sentiva ancora più depresso, ora. Un unico pensiero lo consolava: almeno sapeva di non aver fatto brutta figura al castello. Magra consolazione: la brutta figura l’aveva fatta quel mattino.

Mentre François taceva, con il muso lungo, si avvicinò Segno-della-Croce.

- Abbiamo corso un bel rischio questa notte.

Athanase lo guardò ridacchiando:

- Che cosa dici? Ce l’hai ancora con la storia degli spiriti?

- Non avete sentito niente?

- No, che cosa avremmo dovuto sentire?

- Verso mattina, ho sentito chiaramente un urlo e poi delle voci: qualche disgraziato è finito nelle grinfie dei fantasmi della foresta di Liffré. Lo dicevo io che quel posto è maledetto.

- Sarà anche maledetto, ma almeno a noi non è successo niente.

François non disse nulla. Voltò la testa a guardare il bosco alla loro destra, sperando che nessuno notasse il bel colore rosso fragola della sua faccia.

 

 

LE SCUSE     

 

Arrivarono a Rennes, senza altri problemi, nel pomeriggio.

Nel cortile della caserma, un vasto edificio che era stato un convento fino alla rivoluzione, li aspettava il comandante Hulot. Li accolse con visibile soddisfazione: in mattinata era arrivata notizia dell’attacco alla diligenza. Più tardi un informatore aveva avvisato che i ribelli intendevano tendere un agguato alle truppe in arrivo. Era ormai troppo tardi per intervenire e Hulot aveva temuto il peggio. Ora, vedendo arrivare i suoi uomini sani e salvi, era molto sollevato.

- Le voci erano infondate, dunque. Ho temuto che si ripetesse la tragedia della Vivetière.

- Le voci non erano per nulla infondate, hanno davvero cercato di attirarci in un tranello, al castello di Roussière, ma siamo stati noi a farli finire in trappola. Abbiamo ucciso tutti i ribelli e il conte di La Boussac, per giunta. Senza perdere un solo uomo.

- I ribelli e il conte uccisi e voi nemmeno un ferito?

Il comandante sembrava perplesso di fronte alle parole di Auray. Un combattimento senza neppure un ferito?

- I ribelli erano troppo sicuri di averci intrappolato. Abbiamo fatto finta di crederci. Io sono persino andato a mangiare con loro come se non sospettassi niente e quando quei disgraziati sono venuti per uccidere, sono stati uccisi loro!

Da come parlava Auray, si sarebbe detto che il merito era tutto suo. Le parole dell’aiutante provocarono un notevole malcontento e più d’uno avrebbe voluto parlare, ma se non lo faceva il capitano, come potevano farlo loro? E Dessart non diceva niente. Appariva del tutto indifferente.

Hulot colse gli sguardi di insofferenza di molti soldati, ma sembrò ignorarli.

Più tardi, quando i soldati ebbero preso possesso dei loro alloggiamenti, Hulot convocò Auray. Pochi minuti dopo Auray uscì e Hulot chiese ad alcuni dei soldati dove si trovavano durante lo scontro a fuoco. Dopo essersi fatto un quadro della situazione, ne chiamò quattro: uno di quelli rimasti nel fienile, uno di quelli che si erano appostati dietro la siepe, Fischietto e François. Chiese spiegazioni su tutto ciò che era accaduto.

I compagni di François cominciarono a dire che era stato Dessart a capire l’inganno, che Auray non si era reso conto di niente, ma Hulot raggelò il loro entusiasmo:

- Voglio una relazione dettagliata su quello che è accaduto, non i vostri commenti.

Prese allora la parola René Questembert, che cominciò a raccontare i fatti, fin dall’incontro con il sedicente Argentré.

Hulot lo interrompeva ogni tanto, per porre domande precise. Quando Questembert arrivò al momento in cui Dessart era uscito dal fienile con François, gli passò la parola. François cercò di sorvolare sul piccolo espediente utilizzato da Dessart per non destare sospetti, ma per sua sfortuna Fischietto ritenne opportuno intervenire e aggiungere quel dettaglio. François lo avrebbe volentieri strangolato, impiccato, impalato, crocifisso o squartato, a scelta (o, preferibilmente, tutto insieme), mentre la sua faccia diventava più rossa del rosso della bandiera. Hulot scoppiò a ridere.

Quando ebbero finito di esporre i fatti, Hulot li elogiò, dicendo loro che si erano comportati molto bene, e li congedò. Poi convocò Dessart, ma nessuno seppe che cosa si erano detti.

Decise di non riparlarne subito con Auray, probabilmente pensando di farlo il giorno seguente. Quella sera infatti Auray, invitato a cena dal sindaco insieme a Hulot, si vantò dell’eroica azione con cui era riuscito a salvare i suoi soldati da una trappola mortale e a uccidere il conte di La Boussac. I commensali furono tutti convinti che il conte fosse stato ucciso dal valoroso Auray in persona.

 

Mentre Auray e Hulot erano a cena, i soldati rimasero in caserma. François continuava a pensare all’episodio del mattino. Non poteva continuare così. Doveva chiedere scusa a Dessart. Non poteva evitare di guardarlo in faccia.

Lasciò che i suoi compagni andassero a dormire, poi si diresse verso la camera dove dormiva Dessart, in un’altra ala del convento-caserma, in cui c’erano solo le stanze degli ufficiali.

La porta della camera era socchiusa e l’interno era illuminato. François pensò che era stato fortunato: così era sicuro di non disturbare. Ci sarebbe mancato solo più che svegliasse Dessart, che poteva benissimo essere andato a dormire presto, visto che nelle notti precedenti aveva riposato ben poco. Se nella stanza vi era una luce, voleva dire che Dessart era sveglio. Certo che era sveglio, si sentivano persino dei rumori! 

Rumori e voci. Merda! Dessart non era solo. Questa era una bella rottura. François si avvicinò con cautela: non se la sentiva di chiedere scusa davanti ad altre persone e, se lo avessero visto, non avrebbe saputo come giustificare la sua presenza nell’ala degli ufficiali.

Fortunatamente la luce delle candele era debole e il corridoio rimaneva in ombra. Senza far rumore si mise in una posizione da cui poteva vedere l’interno della camera. Guardò dentro. E rimase senza fiato.

Dessart non era solo, no, per nulla. Insieme a lui c’erano Pierre Moustoir, detto Cinghiale, e Gaspard Angles. Erano tutti e tre nudi, in mezzo alla camera. Dessart era in piedi e François lo vedeva di profilo. Inginocchiato dietro di lui, Cinghiale gli stringeva le natiche con le mani e teneva la faccia schiacciata contro il suo culo, alzandola e abbassandola. A François ci volle un buon momento per capire che cosa stava facendo: lo capì solo quando vide la testa arretrare e poi avanzare nuovamente, con la lingua protesa in avanti. Cinghiale stava leccando il culo di Dessart, passandogli la lingua tra le natiche.

Quanto a Gaspard, cosa faceva era chiarissimo. Inginocchiato anche lui, ma di fronte a Dessart, ne teneva in bocca il cazzo e muoveva leggermente la testa. Doveva avere in bocca solo la punta, perché il grosso del cazzo era fuori e François ne ammirò il volume. Inquietante, come tutto, in quell’uomo. Inquietanti anche le sue grandi mani che carezzavano i capelli di Gaspard, scendevano sulle sue guance, gli sfioravano il collo, poggiavano sulle sue spalle e riprendevano a salire, per poi scendere nuovamente.

François sapeva che avrebbe dovuto andarsene. Ma, come la notte precedente, come la prima sera in cui avevano dormito all’aperto, appena quarantotto ore prima, la sua volontà si era dissolta e il suo corpo reagiva, con la stessa intensità. Di nuovo la gola gli si seccava, di nuovo un senso di sfinimento lo assaliva, di nuovo il suo aquilotto alzava la testa e si guardava intorno, smanioso di lasciare il nido. Ora però sapeva che cosa desiderava: avrebbe voluto essere dentro la stanza, non fuori.

In quel momento sentì dei passi. Arrivava qualcuno. Il cuore fece un balzo e per un attimo la paura paralizzò François.     

Non c’erano vie d’uscita: poteva solo cercare di nascondersi. Il corridoio era cieco e finiva con la camera dove dormiva Auray, poco oltre. La porta della camera dell’aiutante era però rientrata di due metri, per cui c’era uno spigolo che nascondeva alla vista una zona del corridoio. Era l’unico posto in cui nascondersi, anche se era rischioso: probabilmente l’uomo i cui passi pesanti si facevano più vicini era proprio Auray. Ma non c’erano alternative. François si appiattì oltre lo spigolo e attese, il cuore in gola.

I passi si avvicinarono, ma si fermarono alla porta di Dessart.

- Ehi, lazzaroni, non ci avete aspettato.

- Chi tardi arriva, male alloggia.

- Ma no, che c’è posto per tutti, basta pazientare.

L’uomo che aveva parlato per primo era Philippe e l’ultimo era stato Dessart. François rimase un buon momento nel suo angolo. Gli era andata bene. L’aveva scampata bella: se fosse stato Auray, si sarebbe ritrovato in un bel pasticcio, avrebbe fatto una figura di merda. E quanto a figure di merda, aveva già dato, abbondantemente. Per tutto l’anno 1800 poteva considerarsi a posto. Quindi, per quel giorno era più saggio tornare in camerata. Sì, era senz’altro più saggio tornare in camerata.

François uscì dal suo nascondiglio e ritornò davanti alla porta, al suo posto di osservazione.

Dessart, Cinghiale e Gaspard erano nella posizione di prima. Alle spalle del gruppo vi era David, nudo. Dietro di lui François poteva intravedere la testa di Philippe, le cui braccia sembravano sostenerlo.

- Pronto, David?

- Vai, Philippe.

François non poteva vedere, come i due corpi si incontravano, ma David rovesciò la testa all’indietro, sulla spalla di Philippe, spalancando la bocca, mentre il suo ventre sembrava protendersi in avanti. Philippe parlò:

- Ti preparo la strada, capitano.

Philippe sorrideva, mentre il corpo di David sussultava.

Lo sguardo di François andava dal corpo di David al terzetto in primo piano, ma era soprattutto la bocca di Gaspard ad affascinarlo. Guardava la guancia gonfiarsi e il lento movimento di quella testa lo stordiva. Anche le mani di Dessart attiravano il suo sguardo: ora non erano più sulla testa di Gaspard, ma su quella di Cinghiale, dietro di lui. La testa di Dessart era inclinata all’indietro, come quella di David, e anche la sua bocca era socchiusa. Quel viso, visto di profilo, conservava tutta la sua bestialità. Era un viso osceno, come osceno era quel corpo peloso. Come poteva Cinghiale leccare avidamente quel culo, passare la lingua tra quelle natiche nere di peli? Eppure provava piacere: il suo aculeo, meno voluminoso di quello di Dessart, non era meno teso e gonfio. Le sue mani stringevano le natiche del capitano, mentre la testa del soldato a tratti scompariva nelle carezze di Dessart.               

Quella scena era bestiale, ma François sentiva l’eccitazione sommergerlo. Tra poco sarebbe venuto, anche se non si fosse toccato.

Vide che David sollevava nuovamente la testa. Un sorriso beato danzava sulle sue labbra, mentre sotto le spinte di Philippe inarcava la schiena, spingendo in avanti il ventre. Il suo attrezzo non era ancora pronto per l’uso, ma già cominciava a crescere e a mettersi in posizione.

Fu Philippe a parlare:

- Ma perché non c’è il bel François? Ero convinto che fosse qui. In camerata non c’è.

François si sentì gelare. Gli sembrò che l’eccitazione svanisse in un attimo.

- E perché mai sarebbe dovuto venire qui?

Era stato Dessart a parlare. Philippe non rispose alla domanda, ma proseguì il discorso:

- Gaspard, sai che Girod ha definito il nostro capitano uno scimmione nasuto? Mica male, eh?

- Uno scimmione nasuto? Direi cazzuto, piuttosto!

Per parlare Gaspard aveva allontanato la bocca, liberando il cazzo di Dessart, che si slanciò in alto, orgoglioso e sicuro di sé. François provò un senso di vertigine: in bocca Gaspard non aveva tenuto solo la punta, ma almeno metà di quell’arma formidabile. Più di metà non sarebbe entrata.

François sentì che le gambe gli cedevano. Guardava quel cazzo possente, umido della saliva di Gaspard, incapace di distaccare per un attimo gli occhi. La saliva gli era tornata in bocca, abbondante. Le sue mani erano percorse da un fremito. Una mano non sarebbe bastata per afferrare quel portento: ci sarebbero volute due mani insieme per stringerlo. François non si rese conto che stava stringendo i pugni.

Nella stanza gli uomini parlavano, ma le loro parole gli arrivavano da lontano, anche se lo riguardavano.

- Quel lattante!

Dessart intervenne:

- Lasciatelo in pace, è un ragazzo. Non voleva offendere. Questi due farabutti l’hanno provocato.

- Se non ti apprezza, non sa che cosa si perde.

- Secondo me è ancora una verginella. Una verginella ritrosa, che spera solo di farsi trombare, ma quando qualcuno si fa sotto, grida “Al lupo! Al lupo!”

Le parole di David ferirono François, ma il suo sguardo fissava l’asta protesa. Ora Gaspard protendeva la lingua e cominciava a leccare: passò sotto i coglioni, poi davanti e di lì risalì lungo il cazzo, interrompendosi ogni tanto per scendere nuovamente.

Allora David parlò:

- Dessart, sono pronto.

Dessart tese la mano destra e la passò dietro la nuca di David, poi con un gesto deciso lo attirò a sé. Gaspard arretrò, rimanendo accovacciato per terra, mentre Dessart portava il corpo di David di fronte al suo, facendo aderire la schiena del giovane al suo petto. Gaspard tese le mani verso David che le afferrò. Gaspard tirò verso il basso, distendendosi per terra e il corpo di David lo seguì: ora David era a quattro zampe, il culo contro il corpo di Dessart, Gaspard sotto di lui.

Dessart afferrò le natiche del giovane e le allontanò leggermente. Il suo cazzo taurino emerse nuovamente, più grande e più duro che mai. Dessart vi poggiò una mano, forzandolo a rimanere in orizzontale e lo avvicinò fino a che toccò il culo di David. Poi, con grande lentezza, tirò il corpo di David verso di sé.

François vide la bocca di David aprirsi completamente, in una smorfia che forse era di dolore, forse di piacere. Un movimento della testa di Dessart richiamò la sua attenzione sul capitano. Non capì subito, poi vide. Cinghiale aveva smesso di leccare il culo di Dessart: ora lo mordeva. Morsi forti, violenti, che dovevano lasciare il segno.

Dessart rimaneva fermo e anche David non si muoveva, ma ora la smorfia sul viso di David era chiaramente di piacere. Intanto Gaspard, che era disteso al suolo, sotto David, scivolò in avanti, verso Dessart, ruotò su se stesso e si alzò sulle ginocchia fino a che la sua testa toccò il ventre di David. Avvicinò la bocca all’arma del giovane e la prese in bocca.

Philippe si avvicinò a Dessart, ora sembrava triste. Guardò David, Gaspard e Cinghiale, come se si sentisse escluso. Dessart gli fece un cenno e Philippe girò intorno a lui e a Cinghiale, per mettersi sull’altro lato. Ora dava la schiena a François e il suo culo copriva la zona in cui avveniva il contatto tra Dessart, David e Gaspard. François guardò quel culo, largo, su cui spiccavano i peli scuri, assai più corti di quelli di Dessart. Quella leggera peluria arrivava fino alla vita.

Ora la sinistra di Dessart era dietro la nuca di Philippe e lo attirava a sé. Philippe poggiò il capo sul torace del capitano, che cominciò ad accarezzargli i capelli con la destra. La sinistra invece prese a scendere in un'altra carezza lungo la schiena di Philippe, fino al culo. L’indice scorreva nell’incavo tra le natiche, fino ad arrivare all’apertura, la accarezzava, la titillava, infine entrava deciso.

François fissava affascinato quella mano dalle grandi dita che premeva sul culo di Philippe e immaginava quel dito che scavava dentro quel culo. Di colpo Philippe rovesciò la testa indietro, sfuggendo alla carezza di Dessart.

- Oh capitano. Mio capitano!

Il corpo di Philippe vibrava, la testa si agitava, ora sprofondando nel vello che copriva il torace di Dessart, ora gettandosi indietro, a bocca spalancata. A tratti risuonava quel grido:

- Oh capitano! Mio capitano!

Poi Philippe si girò di scatto e si scostò: ora il suo corpo era a fianco di quello del capitano e François poté vedere la grande mano di Dessart che stringeva le palle di Philippe e la base del suo vigoroso arnese. La tensione in lui cresceva di minuto in minuto.

Philippe rovesciò indietro la testa e gridò ancora:

- Oh capitano. Mio capitano!

In quel momento il suo arnese liberò la linfa che schizzò verso l’alto. L’ampia traiettoria si concluse sulla faccia di Gaspard, che si era collocato per raccogliere il nettare. Poi Gaspard prese in bocca lo strumento di Philippe e completò l’opera avviata da Dessart.  

In quel momento David parlò:

- Non ce la faccio più, Dessart.

Dessart rise, mentre la sua destra carezzava la testa di Philippe, nuovamente appoggiata sul suo petto. François vide che gli teneva ancora l’indice in culo.

- Dovrai aspettare ancora, Vai-sicuro. Non è il tuo turno.

Mentre diceva queste parole Dessart diede una spinta. Una sola, ma decisa. David sollevò la testa, gettandola indietro e spalancò la bocca.

François strinse le natiche istintivamente. Sudava. E stava per venire.

Un impulso violento lo aveva afferrato: quello di entrare e dire: - C’è posto anche per me?

Non gli avrebbero detto di no. E François voleva sentire una mano che lo accarezzava, una bocca che lo accoglieva… Qualunque cosa, ma non voleva essere lì, fuori, da solo…

Era ancora combattuto tra la vergogna e il desiderio, ma sentiva che il desiderio stava vincendo e che doveva andare ora, prima che ciò che vedeva lo facesse venire.

In quel momento risuonarono altri passi. Senza pensarci, in un attimo François si rifugiò nuovamente oltre lo spigolo.

Questa volta però, era proprio l’aiutante generale Auray.

Quando François si rese conto di essere in trappola, cercò disperatamente di trovare una scusa, una soluzione onorevole. Ma nella sua testa c’era solo il vuoto, il vuoto totale, il suo cervello sembrava essersi spappolato.

Auray svoltò l’angolo, con la candela in mano, e si trovò di fronte François, pallido e sudato.

Non sembrò stupirsi.

- Oh, che piacevole sorpresa! Il bel soldatino Gibod.

- Girod, cittadino aiutante, François Girod.

- Il mio bel François è venuto ad aspettarmi alla porta. Che pensiero gentile! Vieni dentro, che ci divertiamo un po’.

Mentre diceva così, Auray gli passò il braccio dietro la schiena e si diresse verso la porta. François si irrigidì, ma Auray aprì la porta con un calcio e lo forzò a entrare, mentre la sua mano gli passava davanti, fino a toccare il sesso.

- Su, non fare il ritroso, mi hai aspettato fino a ora. E sei già bell’e pronto.

François si girò verso il corridoio, come se dall’esterno potesse venirgli un aiuto e in quel momento vide che da dietro lo spigolo del corridoio faceva capolino una testa. Lo stavano spiando. Avevano sentito che Auray parlava con qualcuno e uno di loro era uscito a vedere.

Ebbe uno scatto di orgoglio. Avrebbe dimostrato a quei maiali che lui non era una verginella ritrosa e avrebbe passato la notte con Auray, che era molto più bello non solo di Dessart, per quello ci voleva proprio poco, ma anche di tutti gli altri ufficiali.

Seguì docilmente Auray nella stanza e lasciò che chiudesse la porta.

- Dai, aiutami a togliermi gli stivali, che ci divertiamo.

L’aiutante pronunciò la frase tenendo il viso a pochi centimetri da quello di François, che ne sentì l’alito: Auray doveva aver bevuto parecchio. Aiutandolo a togliersi gli stivali, François si rese conto che Auray era anche piuttosto malfermo sulle gambe. Auray cominciò a spogliarsi, sotto gli occhi di François. Dalla camicia emerse un bel torace armonioso, coperto da una leggera peluria bionda. Dai pantaloni uscirono fianchi stretti e un sesso robusto: nulla a che vedere con il fenomeno da baraccone di quello scimmione di Dessart, ma promettente. François guardava affascinato il corpo dell’aiutante. Quella serata si sarebbe conclusa in modo molto piacevole. Assai meglio che con quel gruppo di porci. 

- Dai, spogliati, che io mi stendo. Ho bevuto un po’ troppo, temo.

François cominciò a spogliarsi. Era eccitato, ma anche spaventato. Provava una sottile inquietudine all’idea di che cosa sarebbe successo di lì a poco. Non aveva mai fatto l’amore. Sarebbe stata la sua prima volta. Diciott’anni, quasi diciannove. Era ora! Dopo essersi tolto i pantaloni si guardò: il suo uccello era a testa alta, anche se non così ansioso come poco prima, quando spiava i compagni nella camera di Dessart. Bene, – pensò – questa è la volta buona!

In quel momento sentì l’inconfondibile rumore di una persona che russa. Si voltò verso il letto e vide che Auray si era steso e immediatamente addormentato. Si avvicinò al letto e provò a smuoverlo. Nel sonno l’aiutante grugnì, senza però dare segno di svegliarsi.

François ora non sapeva che cosa fare. Non si sentiva più nemmeno molto sicuro di volere fare l’amore con quell’uomo. Era un bell’uomo, ma era ubriaco fradicio, che cosa avrebbero concluso?

D’altronde non poteva rientrare nella camerata: se gli altri se ne fossero accorti, avrebbero sparso ai quattro venti la voce che lui era scappato dopo cinque minuti. Immaginava già alcuni dei commenti che avrebbero fatto quei maiali: un’occasione troppo ghiotta perché se la lasciassero sfuggire.

Tutto sommato poteva dormire lì, in un letto più comodo del suo pagliericcio, e l’indomani mattina, al risveglio, lui e Auray avrebbero potuto dedicarsi a quello che desiderava.

O, nel peggiore dei casi, Auray gli avrebbe detto di andarsene.

Spense la candela con un soffio, si stese e ben presto si addormentò, mentre una domanda gli frullava nella testa: cosa avrebbe provato a fare l’amore con quell’uomo che russava al suo fianco?

A quella domanda François non poté mai dare una risposta.

 

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