8.

 

IL VIAGGIO

 

Quella sera Felipe salutò Ines, Pedro e la piccola Isabel. Al momento di dire addio alla bambina gli vennero le lacrime agli occhi: pensò che non l’avrebbe più rivista, che probabilmente non avrebbe saputo più nulla di lei, e si sentì smarrito.

Poi salì sulla nave, un po’ inquieto. Temeva qualcuno degli imprevisti che non erano certo mancati nei suoi viaggi precedenti. Già si immaginava incontri con nuovi pirati, tempeste, naufragi. Non temeva tanto per sé, ma per il piccolo Miguel.

Lo rassicurava la presenza dell’uomo che Trujillo aveva mandato con loro: era un piccolo colosso, tarchiato, con un torso possente, due braccia vigorose che sembravano tronchi d’albero e gambe corte. Quando Felipe lo salutò, rispose con un borbottio e per tutto il viaggio aprì la bocca pochissime volte. Ma Felipe aveva la certezza che in caso di guai avrebbe potuto contare su di lui.

Non ebbe modo di verificare la sua convinzione, perché il viaggio filò liscio, senza intoppi di nessun tipo.

Passarono a Giamaica, con una tappa a Port-Royal. Felipe non si chiese come mai una nave spagnola facesse sosta in un porto inglese. Avrebbe potuto porsi anche diverse altre domande: ad esempio perché la sua nave era salpata la notte, non dall’Havana, ma dal vicino villaggio di Regla; perché la nave era diretta esattamente nel porto più vicino alla tenuta dove viveva Michel; perché sulla nave non sembravano esserci altri passeggeri; che tipo di affari faceva quella nave, che due volte si avvicinò alla costa di notte. Se si fosse posto qualche domanda, probabilmente avrebbe capito che Testapelata aveva ancora molti amici per i mari e che, dietro adeguato compenso, qualcuno si era reso disponibile ad accompagnare a destinazione Felipe, mentre si dedicava anche ad alcuni altri traffici: il contrabbando era un’attività alquanto lucrativa.

A Port-Royal, Felipe avrebbe voluto andare al Marinaio ubriaco, per saldare un vecchio conto, ma non voleva rischiare: non temeva certo il proprietario, ma se lo avesse colpito o ucciso, sarebbe stato arrestato. E senza di lui, che ne sarebbe stato di Miguel?

     Passò comunque davanti alla taverna e lanciò un’occhiata dentro, ma non vide il signor Jules Goldhand, chiamato Trafficone. Al banco c’era invece un altro uomo, piuttosto grasso. 

Decise allora di entrare e, dopo aver ordinato da bere, chiese all’oste, con aria noncurante:

- Non c’è più il signor Goldhand, il vecchio proprietario?

L’uomo si guardò intorno un attimo e poi rispose:

- Non lo sa? È morto. Ha fatto una fine orribile, pochi mesi fa.

L’uomo abbassò la voce, si guardò nuovamente intorno, per controllare che nessuno lo stesse ascoltando. Era evidente che aveva voglia di raccontare quello che era successo, ma preferiva non farsi sentire dagli avventori.

- Lo hanno gettato una sera, nella taverna piena di gente. L’avevano appena ammazzato. Con la spada. In un modo…

Il sorriso dell’uomo indicava che era ansioso di raccontare. Felipe sapeva che dandogli un po’ di spago, avrebbe saputo tutto. Glielo diede, fingendosi ingenuo.

- In che modo?

- Un colpo di spada un po’… particolare!

- In che senso?

L’uomo avvicinò ancora di più la faccia a quella di Felipe. L’alito sapeva d’aglio e non era piacevole. Ma Felipe era curioso di sapere. Aveva l’impressione che quella storia in qualche modo lo riguardasse.

- Gli hanno infilato la spada… in culo! Sì, proprio in culo, fino all’elsa. Gliel’hanno infilata, in camera, ma poi hanno gettato il cadavere sotto, nella taverna, con la spada piantata in culo, così tutti lo vedevano. Capisce? Uno che ha rischiato di farsi beccare, ed impiccare, non per ammazzare il povero Goldhand, perché lo aveva già ammazzato, ma solo perché tutti dovevano vederlo, in quel modo.

Felipe finse un’espressione di orrore. Il tizio riprese, felice di aver fatto colpo sul suo interlocutore.

- Una fine terribile, terribile! Ma su di lui circolavano delle voci…

Felipe lo interruppe:

- Ma l’uomo che lo ha ucciso? Non lo hanno preso? Lo hanno visto, no?

- No, nessuno l’ha visto. O almeno… nessuno ha voglia di fare la stessa fine del povero Goldhand, rivelando quello che può aver visto. E poi, sa, Goldhand stava sul culo a molti, dicono che…

L’uomo avrebbe continuato a lungo, ma ormai Felipe sapeva quello che gli interessava. Finì di bere, pagò ed uscì.

Ritornando alla nave, Felipe si disse che era stato Michel. Non aveva nessun motivo per dirlo, quel bastardo dell’oste aveva fatto a molti lo scherzo che aveva fatto a lui e certamente c’erano molti giovani in giro per i Caraibi che non vedevano l’ora di infilare una spada in culo a chi li aveva venduti ai pirati. Sempre che fossero ancora vivi, perché per molti quella prigionia aveva significato la morte.

Ma ad uccidere Trafficone era stato Michel: solo lui poteva essere tanto folle da gettare un uomo in una taverna affollata solo perché tutti vedessero che fine gli aveva fatto fare.

Il viaggio riprese e, mentre si dirigevano a Saint-Domingue Felipe continuò a costruire castelli in aria, guardando talvolta il mare, talvolta suo figlio, talvolta la spada di Michel.

Sapeva benissimo che i suoi erano sogni e che forse non si sarebbero realizzati. Ciò che immaginava con più frequenza, che gli riempiva il cuore di gioia, era il pensiero di Michel quando lo avrebbe visto. La felicità che gli avrebbe letto in volto. L’abbraccio, il bacio. Rivide la scena centinaia di volte in quei giorni di viaggio, peggio che se avesse avuto un videoregistratore.

È superfluo dire che le cose non andarono come lui se le aspettava: l’unico a non averlo ancora capito è ovviamente Felipe.

 

VERSO LA LIBERTÉ

 

Arrivo2

 

Felipe sbarcò di notte in una piccola rada e la nave ripartì immediatamente. Per la prima volta Felipe fu sfiorato dal dubbio che quel viaggio potesse non essere del tutto regolare. Ma ormai non aveva nessuna importanza. Era a terra, con Miguel e la balia, oltre naturalmente al suo angelo custode.

Costui li guidò fino ad un grosso paese poco distante. L’uomo doveva conoscere bene il posto, perché si diresse senza esitare fino ad una casa situata in una piazzetta. Bussò e, dopo una breve attesa, un uomo piuttosto giovane si affacciò alla porta. Non appena li vide, li fece entrare, senza porre domande, e li condusse in due camere in cui i letti erano già pronti. Si informò se gli ospiti avevano bisogno di qualche cosa, si raccomandò di chiamarlo per qualsiasi esigenza ed augurò loro la buona notte.

Felipe tardò ad addormentarsi, perché il pensiero di rivedere Michel lo rendeva troppo felice per abbandonarsi al sonno, ma quando infine la stanchezza ebbe la meglio, dormì a lungo.

Il giorno seguente, dopo colazione, Felipe si preparò a partire per la piantagione di Michel, che si trovava a tre ore di marcia dal paese. Decise di lasciare Miguel con la balia e l’uomo e di raggiungere la piantagione da solo: aveva bisogno di parlare a Michel e di raccontargli di Miguel. E preferiva farlo senza avere il bambino con sé.

L’uomo che lo accompagnava, di cui Felipe ancora non sapeva il nome, ascoltò le intenzioni di Felipe e rispose con la frase più lunga che Felipe gli avesse sentito dire fino ad allora:

- Va bene, la accompagna un ragazzo del paese.

Non era una proposta, era una decisione, e Felipe non la discusse. Si disse che avrebbe congedato il ragazzo quando fossero giunti in vista della piantagione di Michel. Non voleva nessuno tra i piedi, in quel momento.

Il ragazzo era un bel mulatto di circa quattordici anni. Felipe gli chiese alcune informazioni sul posto, tanto per incominciare a conoscere quella terra in cui contava di vivere per il resto dei suoi giorni, ma il ragazzo parlava il creolo, che per Felipe non era sempre comprensibile, per cui la conversazione procedette a fatica.

Felipe si sentiva sempre più agitato ed impaziente. Non riusciva più a reggere l’attesa. Si stava giocando la sua vita intera, la sua felicità ed aveva una paura dannata. Dal suo arrivo in America non era stato propriamente fortunato. Ma se Michel era alla piantagione, vivo e sano, non aveva nulla da temere.

La voce del ragazzo lo riportò al presente:

- Ci siamo quasi, la Liberté è laggiù.

Su una collina vicina, proprio in cima al pendio, appariva una grande casa bianca. Alla vista della casa ed al nome, a Felipe il cuore balzò in petto. Mormorò:

- La Liberté?

- Sì, la tenuta si chiama così. Non ci sono schiavi, lì, i negri sono tutti liberi.

Felipe non ne fu stupito. Si sarebbe piuttosto stupito del contrario, anche se non ci aveva mai pensato.

- Va bene. Proseguo da solo.

- Alla fine della discesa, la strada si divide. Per la Liberté, prendi a sinistra, mi raccomando. Dall’altra parte finisci a Cavaillon e alla tenuta di Navarro, la Grande Colline. Sta’ in guardia, da quello, è un amico di MaîtCarrefour, quello.

- Chi è MaîtCarrefour?

- Il loa dei morti. Ma Ogûn non ha niente da temere da lui. Ogûn è più forte.

Felipe incominciava a perdere la bussola. Non sapeva che i loa erano divinità e non aveva mai sentito nominare Ogûn: la sua conoscenza delle credenza haitiane era uguale a zero. Chiese ancora:

- Chi è Ogûn?

Il ragazzo rise:

- Ogûn è Testapelata.

E questo Felipe lo capì, anche se era una risposta solo parziale alla sua domanda.

Felipe scese rapidamente il pendio e giunse al bivio. Qui si fermò, raggelato.

In mezzo alla strada di destra erano stati piantati due pali, che formavano una grande X. Su quei due pali era inchiodato un nero. Felipe si avvicinò.

L’uomo era cadavere, ma non si sentiva ancora l’odore della morte: non doveva essere passato molto tempo da quando era stato ucciso. Guardando meglio, Felipe vide che l’uomo non aveva quasi sangue alle ferite ai polsi ed ai piedi, dove era stato inchiodato sulla croce: con ogni probabilità era morto prima di essere crocifisso, ma Felipe non vide i segni di altre ferite.

Felipe arretrò, guardando quello spettacolo sinistro. La sua allegria era svanita ed era rimasta solo una grande paura. Quel Navarro era amico del loa del mondo dei morti. Sì, non sapeva che cos’era il loa, ma chi aveva crocifisso quel nero doveva davvero avere amici nel mondo dei morti.

Ogûn era più forte. Felipe lo sperava.

 

UN INCONTRO A LUNGO ATTESO

 

MichelPlacide

 

Felipe prese la strada a sinistra, che saliva verso la piantagione di Michel, verso la Liberté.

Man mano che avanzava, svanì l’oscura sensazione di angoscia che lo accompagnava da quando aveva visto il morto crocifisso.

La casa bianca era ben visibile, ora. Tra poco avrebbe visto Michel. Michel! Michel! Michel!

Michel gli sarebbe corso incontro, lo avrebbe abbracciato stretto stretto, lo avrebbe baciato, capace anche di gettarlo a terra, spogliarlo e fare l’amore con lui lì, davanti alla casa. Michel, Michel, Michel.

Michel era sulla porta, vicino ad un giovane nero. Michel aveva i capelli corti, anche se un po’ più lunghi dell’ultima volta, e anche la barba era corta. Michel era bellissimo.

Michel gli sorrise, senza fare un passo verso di lui. Un sorriso di cortesia.

- Felipe, è un piacere vederti.

La voce era gentile, ma di una freddezza che non lasciava dubbi.    

Fu una doccia ghiacciata, ma di ghiaccio a blocchi. Tanti blocchi di ghiaccio che gli caddero addosso, coprendolo di lividi. Non riuscì a nascondere il suo smarrimento. Sentì un desiderio violento di piangere, che solo l’orgoglio riuscì a frenare.

Non sapeva che cosa dire. Sapeva solo che stava soffrendo più ancora di quando lui e Michel si erano separati. Non pensava che fosse possibile, ma era così.

Michel riprese, senza alzarsi, senza avvicinarglisi.

- Io e Placide siamo di partenza, per cui non posso ospitarti, ma torneremo presto e, se sarai ancora a Saint-Louis, magari passiamo a trovarti.

“Io e Placide” fu l’ultima coltellata. Felipe annuì. Disse solo:

- Va bene, grazie, Michel.

Si voltò ed incominciò a scendere rapidamente, il più rapidamente possibile, perché stava piangendo e non voleva che Michel lo vedesse.

Quando fu a metà pendio, al di fuori della vista della casa, si sedette un momento a terra: non riusciva più a camminare, neppure a stare in piedi. Piangeva e singhiozzava, in preda ad una disperazione totale. Non era in grado di pensare, riusciva solo a soffrire.

In quel momento una voce lo fece sobbalzare.

- Felipe!

Cercò di fermare le lacrime e si soffiò il naso. Poi si voltò a guardare. L’uomo che l’aveva chiamato era un nero. Felipe lo fissò, cercando di capire chi fosse.

- Tu sei Felipe, vero?

L’uomo parlava un buon francese, non il creolo del ragazzo che lo aveva accompagnato. 

- Sì. Chi sei? Che cosa vuoi?

- Non te ne andare, il padrone ha bisogno di te.

Felipe non capiva.

- Mi ha mandato via…

E non continuò, perché il dolore gli tolse la voce.

- Sì, non vuole che tu resti. Questa notte combattiamo e siamo pochi. Ma tu puoi aiutarci.

Felipe si alzò di scatto. Michel aveva finto, per mandarlo via? Era davvero così? Sì, doveva essere vero, quello che aveva visto non era il vero Michel, non aveva niente a che fare con l’uomo generoso e sensibile che lui conosceva. Anche se Michel non l’avesse amato più, non l’avrebbe mandato via in quel modo. Michel? Come aveva potuto pensarlo, anche solo un attimo?

- Andiamo!

- Sì, ma da questa parte.

Il nero lo guidò per il bosco e la piantagione, fino a che arrivarono alla casa dalla parte posteriore. Poi lo fece entrare in casa, in punta di piedi. In una stanza sul lato anteriore, che guardava verso il sentiero da cui Felipe era arrivato, era seduto Michel. Felipe poteva vederlo di profilo. E poteva vedergli il viso bagnato di lacrime. Pensò che era la seconda volta che vedeva Michel piangere. E tutte e due le volte per causa sua.

Beh, questa volta per causa di tutti e due, anzi, più per colpa di Michel che di Felipe!

 

UN SECONDO INCONTRO

 

Felipe entrò nella stanza e Michel si alzò di scatto, aprendo la bocca, ma non disse nulla. Felipe lo raggiunse e lo abbracciò stretto. Michel rimase un momento immobile, poi le sue braccia si strinsero disperatamente intorno a Felipe.

- Felipe, Felipe, amore mio, Felipe.

Le mani di Michel lo accarezzavano e gli scompigliavano i capelli, le labbra di Michel cercavano i suoi occhi, la sua bocca.

- Felipe, amore mio, perdonami.

Felipe non aveva bisogno di perdonare.

- Ti amo, Michel.

Rimasero un buon momento così, a baciarsi ed abbracciarsi, asciugandosi le lacrime.

Poi Michel si staccò da lui.

- Chi è stato? Ti-Paul, vero?

Felipe fece lo gnorri, ma la voce di Michel risuonò forte:

- Ti-Paul, fetente, vieni un po’ qui.

Ti-Paul apparve ed era effettivamente il nero che aveva riportato indietro Felipe.

- Ti-Paul, sei un gran figlio di puttana.

Ti-Paul assunse l’aria più ingenua possibile, ma ormai era evidente che lui e Michel stavano giocando tutti e due.

- Ti-Paul, tu hai, come al solito, ficcato il naso negli affari altrui.

- Che dice mai, padrone?!

- Hai parlato a Felipe!

- Non gli ho detto niente.

- Giuralo.

Il nero ghignava e anche Michel ormai stava ghignando:       

- Lo giuro sulla testa di García Navarro.

- Ed io giuro sulle palle di García Navarro che domani, se siamo vivi, ti appendo per il collo ad un albero e ti lascio lì fino a che Baron Samedi non ti viene a prendere. E ora vai e non farti più vedere fino a che non ti chiamo!

Il nero sorrise ed uscì.

Michel si voltò verso Felipe.

- Felipe, devi andartene. Domani tornerai.

- Michel, ormai è tardi, non riuscirai a mandarmi via neanche con la forza. E lo sai benissimo.

- Felipe, non voglio che tu rischi la vita.

- Michel, piantala e raccontami tutto.

- Sei testardo come un mulo!

- Senti chi parla!

 

PRELIMINARI ALLE SPIEGAZIONI

 

Felipe si disponeva ad ascoltare le spiegazioni di Michel, ma Michel gli si avvicinò nuovamente, lo baciò sulla bocca e, di colpo, si gettò a terra trascinandolo nella caduta. Felipe si trovò disteso sul pavimento, schiacciato sotto il peso del corpo di Michel. Non c’era posizione più bella al mondo. Peccato solo che avevano i vestiti.

Michel lo baciò sulla bocca.

- Allora, vuoi proprio sapere?

Non occorreva rispondere, ma Felipe, ubriacato dall’altalena di sofferenza e felicità dell’ultima ora, rispose:

- Se insisti…

Michel gli lanciò un’occhiataccia e si mise a cavalcioni sul ventre di Felipe. Il peso del culo di Michel su un’area già di per sé piuttosto sensibile ed alquanto solleticata dai contatti precedenti, produsse un certo effetto.

Michel si tolse la camicia, poi, mettendo le gambe in avanti, ma rimanendo seduto sul ventre di Felipe, si sfilò anche scarpe e pantaloni.

Vedere Michel nudo completò l’effetto a cui si faceva riferimento sopra. Peraltro lo stesso effetto si era già prodotto anche su Michel.    

Michel ritornò a piegare le gambe ed aprì la camicia di Felipe. Poi, sollevandosi, gli abbassò i pantaloni.

Con uno scatto Michel fu in piedi, con le gambe divaricate sopra Felipe, che ne approfittò per liberarsi degli indumenti e si distese di nuovo, guardando dal basso la splendida vista del grande palo tra le gambe di Michel.

Michel si sedette in modo che il suo culo si posasse esattamente sull’arma di Felipe, poi mosse il culo avanti e indietro ed il contatto fece guizzare scintille. Felipe si rese conto che rischiava di venire. Ma Michel si mise a quattro zampe, sopra di lui, ne afferrò la picca con la bocca e ne inumidì la punta. Felipe emise un gemito di piacere.

Poi Michel ritornò a sedersi su Felipe, ma questa volta ne guidò l’asta verso la meta: Felipe sentì la pressione del culo di Michel contro la punta della sua arma e la sentì immergersi con decisione, fino in fondo, fino a che il peso del culo di Michel fu di nuovo sul suo ventre e sui suoi coglioni.

Felipe quasi svenne dal piacere.

Michel lo provocò.

- Sempre irruente!

Felipe lo guardò, ma non era in grado di parlare. Le sensazioni che gli trasmetteva il suo corpo erano troppo forti. Mormorò soltanto:

- Il tuo culo, Michel…

Michel sorrise, un sorriso ineffabile.

- Il tuo cazzo, Felipe…

Michel cominciò a sollevarsi ed abbassarsi su Felipe, che vedeva il culo più bello del mondo accogliere completamente e poi quasi abbandonare la propria arma.

Il piacere che gli dava quella carne che ora lo avvolgeva, ora lo lasciava, era così forte, che quando il seme si sparse, Felipe urlò.

Michel continuò ancora un momento nel suo movimento, fino a che la sensazione divenne intollerabile per Felipe. Poi si staccò.

Senza interruzione, Michel allargò le gambe di Felipe e si inginocchiò in mezzo. Poi le sollevò e si mise i piedi sulle spalle. In questo modo Felipe si trovò ad offrirgli il proprio culo, completamente aperto.

Felipe sapeva che cosa sarebbe successo e l’anello di muscoli si contrasse, attendendo ansioso l’arrivo del suo padrone.

Questi non si fece attendere e, voluminoso ed imponente, teso e flessibile come una lama di Toledo, andò incontro all’anello, lo forzò ad aprirsi e si fece strada all’interno, riempiendo pienamente Felipe.

- Il tuo cazzo, Michel…

Michel sorrise di nuovo.

- Il tuo culo, Felipe…

Era bello vedere la faccia di Michel mentre lo fotteva. Era bello farsi fottere da Michel, sentire il suo grosso cazzo farsi strada dentro il proprio culo. Era bello vedere il sorriso di Michel, la bocca socchiusa dal piacere. Era bello sentire quella massa calda che entrava in profondità, sempre più in profondità, che accendeva desideri, che tormentava la carne e l’esaltava. Felipe sentì nuovamente, come l’altra volta in cui Michel lo aveva posseduto, un’onda di piacere salire dal suo culo, mentre un’altra onda, non meno forte, si allargava dai suoi coglioni.

Felipe si sentiva svenire, preda di quelle onde di piacere che gli toglievano il fiato. Urlò:

 - Michel!

E venne, venne con un getto che gli si sparse sul ventre, mentre in culo sentiva il seme di Michel riempirgli le viscere.

Si abbandonò completamente, esausto, mentre Michel usciva da lui, gli posava le gambe al suolo, e si stendeva sopra di lui.

Rimasero a lungo così, incapaci di muoversi.

 

I PROBLEMI DEL PIANTATORE MICHEL

 

Quando infine Felipe ebbe ripreso fiato, disse:

- Ma non avevi detto che intendevi spiegarmi…

Michel lo mollò, lanciandogli un’occhiataccia tra il furente e l’adorante. Entrambi si alzarono e si rivestirono. Poi Michel incominciò a spiegare.

- Mi stabilii qui dopo che ci lasciammo all’Havana. Comprai questa piantagione e liberai gli schiavi. Lasciai loro la scelta: potevano lavorare per me, con una paga, o andarsene. Rimasero quasi tutti. La mia decisione mi creò subito problemi con l’unico altro grande proprietario della zona, García Navarro. Mi accusò di sobillare gli schiavi, incitandoli alla rivolta. Non mi stupisce che i suoi schiavi lo odino, è di una ferocia…

Felipe annuì:

- Ho visto un negro crocifisso, mentre venivo qui.

- Sì, mantiene l’ordine con punizioni di questo tipo e poi si lamenta se i suoi schiavi pensano di ribellarsi. Comunque i buoni rapporti con García Navarro non mi preoccupavano più di tanto. Qui si sono stabiliti anche alcuni vecchi amici, come il Marsigliese, Ramón e Ignacio, i due del Pendón del Rey, non so se te li ricordi.

- Certo!  

- Hanno tutti acquistato piccole proprietà e si sta sviluppando una comunità, a cui presto si aggiungeranno diversi altri.

Michel fece una pausa ed offrì da bere a Felipe, ma questi non voleva avere più niente a che fare con i liquori, per cui rifiutò. Michel si servì un dito di rhum.

- García Navarro è andato fuori di testa. I nostri rapporti erano sempre più tesi e da tempo stavo in guardia. Ieri i nostri comuni amici sono tutti scesi a Jérémie per accogliere un altro consistente gruppo in arrivo ed acquistare diversi materiali di cui abbiamo bisogno per mettere a coltura nuove terre nell’area e creare un piccolo centro abitato. Insomma, per ricreare in quest’angolo di Saint-Domingue, un territorio libero, senza schiavi e senza preti, senza soldati e senza rompicoglioni, in cui vivere in pace. È un’area abbastanza lontana dai grossi centri per non preoccupare nessuno, se non ci impicciamo troppo degli affari altrui.

Felipe seguiva ammirato il discorso di Michel. Come aveva fatto a pensare che Michel si sarebbe messo a fare il piantatore e basta? Come al solito, c’era un mare di progetti ed idee in quella bellissima testa.

- García Navarro non ha gradito e ha deciso di passare all’attacco. Questa notte conta di sorprenderci nel sonno, ucciderci ed incendiare la piantagione.

Felipe si tese.

- Come puoi capire, non ho paura di García Navarro e dei suoi uomini, ma García Navarro ha fatto una mossa abile, che non avevo previsto. Ha ingaggiato venti uomini, venti pirati, avventurieri e avanzi di galera, abituati a combattere. Anche qui ci sono uomini, ma, in questi giorni che i miei ex-compagni sono via, siamo in pochi in grado di combattere. Non abbiamo armi da fuoco per tutti e molti comunque non saprebbero usarle. Tra gli acquisti che devono fare i nostri amici, ci sono anche le armi da fuoco, ma arriveranno quando questa faccenda sarà conclusa. Questo è il motivo per cui, se tu avessi un minimo di buonsenso, partiresti immediatamente. Io sono in grado di cavarmela, comunque: avevamo già sospettato qualche cosa, ma i negri della piantagione di García Navarro ci hanno avvisato, per cui siamo pronti. Se tu avessi un minimo di buonsenso…

- Di tale qualità sono del tutto privo.

- Non solo di quella –borbottò Michel- ed è per questo che ho cercato di mandarti via, ma quel figlio di puttana di Ti-Paul me la paga, se sopravviviamo.

- Bene, adesso vediamo qual è la mia parte.

 

AGGUATO

 

La notte era scesa. Michel e Felipe abbandonarono la casa dalla porta sul retro, lasciando due lanterne accese, in stanze diverse. Insieme a loro uscirono i servitori che stavano in casa.

Le donne si mossero in una direzione: avrebbero trascorso la notte in una posizione sicura, insieme alle altre donne e ai bambini della piantagione.

Michel e Felipe scesero lungo un sentiero ed a loro si unirono i neri della piantagione in grado di combattere, una ventina di uomini.

Avevano tutti un’arma, ma erano di solito coltellacci, di quelli usati per il taglio della canna da zucchero, picche ed asce. In tutto avevano solo quattro pistole. È vero che contro le pistole di allora, che dopo un colpo dovevano essere ricaricate, era possibile difendersi anche con un coltello. Ma erano chiaramente in una posizione di svantaggio, rispetto ad un gruppo di uomini con fucili e pistole, che li avrebbero decimati prima di arrivare al corpo a corpo.

- Quanti sono loro?

- Una ventina di pirati, i sorveglianti, forse qualche negro, non credo più di trentacinque-quaranta.

- Circa il doppio di noi e per di più armati di tutto punto.

- Per quello ti avevo consigliato di andartene.

- “Consigliato”, eh? Quella scena da Shakespeare la chiami consigliare?!

In quel momento, prima che la discussione degenerasse, Felipe notò nel gruppo una giovane donna, la cui presenza lo stupì molto.

- Ma Michel, c’è una donna con noi.

- Sì, è una in gamba, sta con André, che forse tu non ricordi. Ci sarà d’aiuto. I negri pensano che sia un’incarnazione di Erzulie-gé-rouge e sa combattere.

- Un’incarnazione di che?

- I negri di qui credono in un sacco di divinità, che chiamano loa, ed hanno riti molto interessanti. Pensa che sono convinti che io sia un’incarnazione di Ogûn, il dio della guerra.

- Ogûn, l’arcangelo Michele. Ti riconoscono tutti, Michel.

- Che vuoi dire?

- Che l’ho sempre pensato che non eri di questa terra.

Questa volta il ceffone di Michel lo prese in pieno sulla nuca, ma la stessa mano che lo aveva colpito a tradimento lo afferrò e gli trascinò la testa verso la bocca più bella del mondo. E dopo un bacio, Michel gli disse:

- Piantala di pigliarmi per il culo e taci.   

Scesero al posto dell’agguato e si disposero in silenzio lungo il sentiero. Come Michel aveva spiegato a Felipe, quasi sicuramente gli uomini di García Navarro sarebbero saliti da lì. Loro li avrebbero lasciati passare tutti e sarebbero piombati sugli ultimi, uccidendoli ed impadronendosi delle armi, con cui slanciarsi sugli altri.

Il segnale dell’attacco sarebbe stata un’esplosione, dall’altra parte del sentiero, che sarebbe servita a distrarre l’attenzione dei pirati.

Il piano era studiato nei minimi dettagli, ma era un’impresa disperata: se davvero gli altri erano il doppio di loro, abituati a combattere e molto meglio armati, stavano andando tutti a morte certa. Felipe pensò a Miguel, ma si tranquillizzò dicendo che l’uomo che li aveva accompagnati fino lì l’avrebbe riportato da Trujillo e Trujillo in qualche modo lo avrebbe fatto arrivare da Pedro ed Ines.

Di una cosa Felipe era certo: non intendeva separarsi da Michel e preferiva morire con lui che vivere senza di lui. Sarebbe morto nell’ultima grande impresa di Testapelata.

Felipe non morì in quell’occasione e quella volta non ci fu neppure una grande impresa di Testapelata, perché qualcun altro aveva preso l’iniziativa.

 

LA NOTTE DEL FUOCO

 

Il tempo passava e non succedeva nulla. Era naturale che gli attaccanti aspettassero il cuore della notte per la loro impresa, ma per Felipe quell’attesa era esasperante.

La luna stava tramontando, quando sentirono le esplosioni. Non un’esplosione sola, ma una serie, che culminarono in uno scoppio più forte. Ci furono urla, lontane, ma perfettamente udibili nel silenzio della notte. Tutti furono in piedi in un attimo.

Le esplosioni e le urla provenivano da ovest, dalla zona dove era la tenuta di García Navarro. Quindi non erano né le loro donne ed i bambini, che erano esattamente dalla parte opposta, né la Liberté.

Poi sentirono ancora spari ed urla, poi silenzio.

- Che succede, Michel?

- Ne so quanto te, Felipe.

Ci fu un rapido scambio di battute in creolo tra Michel ed i suoi uomini.

Poi apparve la luce.

Ad occidente la notte si fece meno scura ed una diffusa luminosità rossastra cominciò a salire per il cielo, diventando sempre più forte, fino ad illuminare la cresta di una collina.

- La Grande Colline brucia!

Sì, la tenuta di García Navarro era in fiamme, il fuoco proveniva inequivocabilmente da quella parte e le sue dimensioni erano troppo vaste perché fosse un incendio locale: ad ardere doveva essere l’intera piantagione.

Guardarono tutti in quella direzione, poi Michel parlò:

- Non verrà più nessuno per questo sentiero. Nessuno che dobbiamo temere, almeno.

Michel si rivolse ai suoi uomini:

- Andate dalle donne. Il pericolo è passato, ma alcuni di voi stiano di guardia.

Poi Michel parlò a Felipe:

- Vai con loro!

- E tu?

- Vado a vedere che cosa è successo.

- Vengo anch’io!

- No!

- Sì!

- Testardo come un mulo!

- Temo di sì.

- Va bene, andiamo!

Ma quando si furono avviati, a Felipe arrivò un nuovo scappellotto.

Man mano che si avvicinavano alla piantagione, le proporzioni dell’incendio apparivano sempre maggiori. Dalla cima di una collinetta, videro che in effetti l’intera piantagione bruciava, come pure la casa padronale, ora perfettamente visibile alla luce del fuoco che ne divorava l’interno.

Altre fiamme si stavano spegnendo sul fianco di una collina rocciosa, non molto lontana dalla piantagione.

- Di là, Felipe. Là è incominciata la fine di García Navarro.

Camminarono fino a raggiungere il pendio della collina e poi si arrampicarono con una certa fatica, fino a che trovarono un sentiero che portava là dove divampava l’incendio. Man mano che si avvicinavano, Felipe sentiva un odore intenso nell’aria, che diveniva sempre più forte: era odore di carne bruciata.

Quando furono sul posto, videro. Ad ardere era l’interno di una grotta, intorno alla quale giacevano parecchi cadaveri, alcuni carbonizzati, altri che ancora bruciavano, altri che il fuoco non aveva toccato.

- Sì, è andata così. In questa caverna dovevano avere le armi e la polvere da sparo. I negri hanno aspettato che gli uomini di García Navarro scendessero a prenderle ed hanno dato fuoco. Probabilmente hanno usato della bagasse, il residuo della lavorazione della canna da zucchero, che brucia come la paglia. Qualcuno degli uomini di García Navarro è riuscito ad uscire prima che le fiamme lo uccidessero, ma è stato ammazzato qui fuori.

- Erano quelli gli spari?

- No, gli spari sono venuti dopo. Questi sono stati uccisi con i coltellacci.

- E allora, che cos’erano quei colpi?

- Certamente quando hanno attaccato la casa padronale, García Navarro ha cercato di difendersi.

Felipe guardò la casa che ardeva.

- È là dentro?

- No, so dov’è. Vieni con me, Felipe, ma rimani molto vicino. Se sei con me, non corri pericolo, ma se ti allontani, la tua vita non vale nulla.

Scesero in silenzio lungo il sentiero, fino a raggiungere la strada che portava alla piantagione. La presero in direzione opposta alla casa.

Ad un certo punto Felipe vide in mezzo alla strada una croce ad X e capì dove si trovava: era al punto in cui la strada per la Liberté e per la Grande Colline si biforcava. Michel gli disse:

- Qui García Navarro metteva gli schiavi che aveva assassinato. Qui metteranno il suo cadavere. Spero per lui che sia già morto, ma temo di no.

     

LA NOTTE DELLA VENDETTA

 

Notte fuoco4 copia

     

Si avvicinarono e passarono davanti alla croce.

Poco più in là, al bivio, una fiamma brillava: qualcuno aveva acceso una torcia. Alla luce Felipe poté vedere una dozzina di neri. Erano completamente nudi, ma avevano i testicoli fasciati. I loro corpi luccicavano alle fiamme: Felipe si chiese se fosse sudore o se si fossero unti con qualche sostanza.

Legato, in mezzo a loro, c’era un bianco, che doveva avere forse quarant’anni. Era certamente García Navarro. Era stato spogliato ed ora era seduto a terra, con le mani legate dietro la schiena, le caviglie anch’esse legate. Aveva una ferita alla coscia destra ed un labbro spaccato, da cui colava sangue. Guardava gli uomini intorno a sé e sul suo viso Felipe poteva leggere rabbia e paura.

Accanto a lui c’erano tre mastini di quelli usati per la caccia ai neri, legati  per le zampe, ed un nero, un uomo giovane e molto robusto, anch’egli legato e con una ferita alla spalla destra.

Michel si fermò e Felipe si mise al suo fianco. I neri dovevano essersi accorti del loro arrivo, ma non diedero segno di averli visti.

García Navarro invece gridò:

- Bastardo assassino, sei stato tu. Assassino. Hai fatto uccidere mia moglie, il ragazzo.

Michel non rispose. I neri non dissero nulla.

Uno dei neri prese da terra uno dei cani e lo sollevò. Un altro dei neri immerse una lama nel collo dell’animale, che guaì appena. L’operazione si ripeté per ognuno dei tre animali.

Poi l’uomo che aveva sgozzato i tre cani si avvicinò al nero. Questi gli sputò addosso. L’uomo rise e la sua risata fece rabbrividire Felipe. Quando l’uomo abbassò il coltello, Felipe voltò lo sguardo altrove. Non aveva voglia di vedere un uomo sgozzato come un animale.

Ritornò a guardare quando ritenne che l’uomo avesse concluso la sua opera, ma questa volta l’uomo non si era limitato a recidere l’arteria: aveva immerso il coltellaccio e stava procedendo a tagliare la testa.

Quando ebbe finito, il nero prese la testa e la scagliò su García Navarro. Poi decapitò anche i tre cani.

Due uomini presero García Navarro e lo sollevarono da terra, un altro gli tagliò i legacci. Felipe vide che la mano destra di García Navarro era coperta di sangue e che gli mancavano tre dita. Dovevano avergliele tagliate con un coltellaccio, durante l’attacco.

Gli uomini trascinarono García Navarro alla croce. Felipe si accorse che non c’era più il corpo del nero appeso.

García Navarro si dibatteva, ma i suoi sforzi erano evidentemente inutili e la sequela di insulti e le minacce che lanciava non intimorivano più nessuno.  

Uno dei neri aveva quattro grossi chiodi. Gli altri appoggiarono García Navarro sulla croce. Il nero che gli teneva il braccio sinistro lo tese, torcendolo, fino a che la mano non fu appoggiata sulla croce con il palmo. Il nero che aveva i chiodi se li mise in bocca e raccolse una pietra grossa come un pugno. Mentre gli altri tenevano fermo García Navarro, il nero prese dalla bocca un chiodo e lo avvicinò al polso sinistro di García Navarro. Costui fece uno sforzo violento per allontanare il braccio, ma il risultato fu minimo. Con un colpo secco della pietra, il nero gli infilò il chiodo nel polso e con altri due colpi lo trapassò, bloccando il braccio sulla croce.       

Felipe fece per voltare la testa dall’altra parte, ma Michel gli sussurrò:

- Guarda! Non possiamo mostrare segni di pietà, ora.

Obbedì.

García Navarro urlò ancora insulti, ma il nero che gli teneva il braccio destro glielo torse. Questa volta Felipe sentì netto il rumore secco dell’osso che si spezzava. Anche il polso destro venne trapassato da un chiodo e García Navarro emise un urlo di dolore. Urlò ancora quando gli inchiodarono le caviglie alla croce, con le punte dei piedi all’infuori.

Felipe avrebbe voluto non vedere, ma era vicinissimo, perché quando erano scesi si erano fermati proprio subito oltre la croce. Michel rimaneva immobile e Felipe, dopo quanto gli aveva detto Michel, non intendeva certo spostarsi. La situazione non era rassicurante: quei neri stavano ammazzando, con grande soddisfazione, un bianco. Vero è che García Navarro doveva essere della stessa razza di Dávila, ma Felipe non era sicuro che i neri sapessero distinguere tra García Navarro e lui.

García Navarro non rinunciò ad insultare i neri, che erano fermi davanti a lui e lo guardavano. Lo sguardo di Felipe scorse lungo quei corpi. Due uomini in particolare, il carnefice ed uno degli altri, erano alti e robusti, due vere sculture.

García Navarro si contorceva, per quanto i chiodi glielo permettessero, ma nella voce si sentiva la fatica.

Per un lungo momento rimasero tutti fermi, in silenzio. García Navarro perdeva sangue dalle ferite ed il suo corpo era percorso da spasimi di sofferenza. Doveva fare fatica a respirare, perché cercava di issarsi sulla croce, ma le braccia cedevano.

I neri lo guardarono ancora a lungo, poi si voltarono, ed in silenzio incominciarono a scendere.

Michel fece due passi avanti ed estrasse la pistola.

Una voce alle loro spalle fece sobbalzare Felipe.

- Fermo!

Michel si mise la pistola alla cintura e si voltò con calma. Felipe aveva il cuore che sembrava un martello pneumatico. Si voltò anche lui. I neri fissavano Michel e Felipe aveva paura per lui.

Uno dei neri si avvicinò e chiese:

- Che cosa vuoi fare?

La voce di Michel era perfettamente tranquilla. Ma quando mai Michel mostrava paura?

- Quest’uomo ha già sofferto abbastanza.

Felipe seguiva il dialogo con una certa difficoltà, perché si svolgeva nel creolo, che deformava alquanto il francese.

- Quest’uomo è nostro. Non puoi decidere tu la sua sorte. Ha ucciso molti dei nostri e li ha sempre tormentati a lungo.

- Non volete lasciarmelo?

- Ascolta. Noi ti abbiamo salvato. Quest’uomo e i suoi ti avrebbero ucciso. Ora non uccideranno più nessuno. Ma tu devi aiutarci.

- Che cosa volete?

- Alcuni di noi raggiungeranno i nostri compagni liberi, che vivono nei boschi della Sierra de Bahoruco e quelli non hanno bisogno di niente. Non tutti però vogliono andare. Tu devi aiutarci a nascondere quelli che non partono, metterli tra la gente che lavora per te.

Michel annuì.

- Li nasconderò. Intanto la Grande Colline sarà messa in vendita. Il mio amico qui la comprerà e vi libererà tutti. Coloro che vorranno lavorare, avranno le stesse condizioni della mia piantagione, gli altri possono andarsene. Diremo che abbiamo ammazzato i capi della rivolta e che puniremo gli altri.

- Sappiamo che di te ci si può fidare. Verremo alla tua proprietà domani. Siamo d’accordo così, allora.

Alcuni si stavano già voltando per andare e Felipe, pur non avendo capito appieno il dialogo, si sentì più tranquillo, ma Michel parlò di nuovo:

- Non ancora. C’è un’altra cosa che mi dovete dare.

- Che cosa?

Michel accennò con il mento all’uomo crocifisso.

Il nero si voltò verso i compagni. Tutti annuirono.

- Va bene. A più tardi.

I neri scomparvero.

Michel estrasse la pistola.

- Non voglio che tu soffra ancora.

García Navarro parlò:

- Ba… stardo… li hai…  sobillati. Li hai… spinti… alla rivolta.

Michel scosse la testa.

- Non sono stato io ad aizzarteli contro, García Navarro. L’hai fatto tu. Sai chi c’era appeso qui fino a questa mattina.

L’uomo avrebbe voluto parlare, ma una contrazione più violenta gli soffocò le parole in un gorgoglio. Il torace si sollevava e si abbassava a fatica, mentre un rantolo gli usciva dalla bocca, insieme a saliva e sangue.

Michel alzò la pistola e puntò. L’uomo trovò ancora le forze per parlare:

- Sei… un figlio… di puttana...

Michel sparò. Felipe vide il sangue sgorgare all’altezza del cuore. La testa dell’uomo scattò di lato, poi si afflosciò.

Michel guardò Felipe.

- Mi spiace che tu abbia assistito a tutto. Ma l’hai voluto tu. Ti ho impedito di guardare altrove perché i negri non avrebbero gradito. Avrebbero potuto pensare che tu stavi dalla parte di García Navarro. Era meglio di no.

     

LA NOTTE DEL RITO

 

ritovudu copia

 

Mentre risalivano verso la casa, Felipe sentì i tamburi: il suono proveniva dalla direzione in cui si trovava la piantagione di Michel.

- Che cos’è?

- Comincia il rito. I negri vogliono ringraziare i loa che li hanno aiutati ed i loa verranno a parlare con loro: il grande cammino che unisce i due mondi è aperto.

- Ma non avevi detto di stare in guardia?

- Sì, ma devono essere arrivati i negri della Grande Colline, gli altri, ed hanno detto che tutto è finito. Ed allora i tamburi chiamano a raccolta i vivi per festeggiare, i loa ed i morti, per parlare con loro.

Felipe rimase un attimo in dubbio.

- Michel, tu credi a queste cose?

Michel alzò le spalle.

- Ti ricordi la nave bianca che si dissolse nell’aria, Felipe? Ci sono cose che non capisco, tante. Ma quella nave io l’ho vista e ci sono anche salito sopra, a portare dell’acqua. Non so che cosa ci sia di vero e forse non mi interessa neanche saperlo.

Felipe non replicò. Se Michel non sapeva, lui, che era appena arrivato, non era certo la persona adatta a formulare un giudizio. Michel riprese:

- Io devo andare. Non posso non partecipare. Sai com’è, sono un’incarnazione di Ogûn e magari il mio loa mi viene a trovare.

- Io posso venire?

- Certamente. Ma non fare nulla che possa disturbare l’hûngun.

- Chi? L’hongon?

- L’hûngun, il sacerdote della cerimonia vodûn.

- Vodûn? Michel, parli turco?

- Più o meno, sono parole africane, almeno credo. Il vodûn sono le credenze degli schiavi neri. Ma tu che sei istruito, queste cose dovresti saperle. Non ti hanno insegnato niente i tuoi precettori, solo il latino?

Questa volta fu Felipe ad allungare una mano per dare uno schiaffo a Michel, ma questi fu più rapido, gli bloccò il polso e lo attirò a sé. Il bacio di Michel tolse a Felipe ogni velleità di vendetta.

Michel e Felipe risalirono verso la casa, ma prima di giungervi voltarono a destra e scesero ad un ampio spiazzo in piano, posto tra alcuni alberi. Al centro era stato acceso un fuoco che gettava riflessi rossastri sui corpi scuri dei neri, seduti tutt’intorno.

Il loro arrivo fu accolto da un borbottio, in cui più volte ritornò la parola:

- Ogûn, Ogûn!

Michel si sedette con la schiena contro un albero, in un posto che doveva essere stato lasciato apposta per lui, perché tutt’intorno al fuoco non c’erano altri posti liberi ed i neri stavano stretti uno contro l’altro. Poi Michel forzò Felipe a sedersi davanti a lui, cingendolo con le braccia, e Felipe si abbandonò sul corpo di Michel.

Era bellissimo rimanere così, appoggiato a Michel. Il mondo poteva crollare.

Felipe si guardò intorno. C’erano molti uomini, di tutte le età, e molte donne. Probabilmente tutta la popolazione della fattoria. Felipe riconobbe Ti-Paul, Placide, alcuni dei neri che li avevano accompagnati all’agguato, la giovane nera che si era unita a loro. C’erano anche molti altri.

- Come mai così tanti, Michel? Non eravamo in tanti prima, a rischiare la pelle!

- Ci sono anche alcuni degli uomini di García Navarro, che la pelle l’hanno rischiata, e come. Ci sono dei marron, i negri che sono liberi perché sono scappati dalle piantagioni. Ce ne sono diversi nella zona. Due degli uomini che si sono uniti a noi erano marron, che volevano essere d’aiuto, anche se non erano tenuti a farlo. Spesso do una mano ai marron, quando hanno bisogno di nascondersi. Adesso ci sono anche uomini e donne di alcune proprietà vicine o meno vicine, scappati di nascosto. Tutti sanno che qui è come se fossero liberi e che nessuno si occuperà dei fatti loro. Ad ogni riunione viene più gente di quella precedente. Tra un po’ avremo mezza isola. Potremmo far pagare un tanto per l’ingresso nella proprietà…

Nel cerchio entrò un uomo, che doveva avere forse cinquant’anni. Tutte le voci si spensero, i tamburi tacquero e si sentì un sonaglio.

Michel sussurrò nell’orecchio di Felipe:

- Silenzio! È l’hûngun!

I tamburi ripresero, il sonaglio continuò ad accompagnarli e l’hûngun incominciò a parlare. Felipe non era in grado di capire quelle parole mormorate, che sembravano una preghiera. L’hûngun parlò a lungo, ma non successe nulla. Ad un certo punto, però il tono dell’hûngun cambiò e divenne più deciso, come se stesse incitando qualcuno. Tutti erano in attesa, ma non si verificò niente di notevole. Poi il tono cambiò ancora, diventando secco, come se l’hûngun stesse dando ordini. Poi ritornò suadente. 

Di colpo un uomo si alzò dal cerchio. Fece due passi e cadde in ginocchio. Alla luce del fuoco Felipe poteva vederne gli occhi chiusi, da cui scendevano lacrime.

L’uomo si alzò, si avvicinò ad uno degli uomini ed incominciò a parlare. Aveva il collo rigido, le mascelle serrate e digrignava i denti, gemendo e gridando.

Michel parlò a Felipe:

- È la prima moglie, morta tre mesi fa. Lo sta rimproverando perché si è messo con un’altra senza aspettare il periodo prescritto.

- Ma come, sua moglie, se è un uomo!? E poi, non sono le divinità che devono venire?

- Lo spirito di una donna può entrare anche in un uomo. E prima degli dei di solito ci sono spiriti minori che si intrufolano quando la grande via è aperta. Questa aveva qualche cosa da dire e non appena il guardiano del cancello l’ha lasciata passare, è arrivata.

L’uomo-donna urlava e il marito aveva abbassato gli occhi. Ma l’altro continuò, finché il marito non promise di fare qualche cosa. Allora l’hûngun convinse lo spirito a stare tranquillo.

Vennero altri spiriti: man mano che uno spirito arrivava, una persona intorno al cerchio si irrigidiva. L’uomo, o la donna, si muoveva e, ognuno secondo modalità proprie, si rivolgeva a qualcun altro.

Circa un’ora dopo, un uomo si alzò di scatto. Intorno a lui, gli altri incominciarono a mormorare: - Legba, Legba.

Michel sussurrò a Felipe.

- È una divinità importante, uno dei grandi loa.

L’uomo si avvicinò a Michel e si mise davanti a lui. Poi parlò. Felipe avvertì la tensione nel corpo e nelle braccia di Michel e si sforzò di capire, ma ci riuscì solo in misera parte. Era qualche cosa che riguardava Ogûn, la sua vita e la sua morte.

Quando l’uomo se ne fu andato, Felipe chiese, sempre sottovoce:   

- Che cosa ha detto?

- Ha detto che è contento per Ogûn, perché è finalmente venuto il compagno di Ogûn e che il compagno rimarrà con lui, per sempre. Vivranno insieme e moriranno insieme. Insieme scenderanno nel fondo dell’acqua ed insieme ritorneranno un giorno sulla terra. Che ne pensi?

Felipe sapeva di non essere bravo a fare previsioni, per cui preferì andare con i piedi di piombo.

- Non sono un indovino io.

Il piombo, notoriamente, trascina a fondo. Ed infatti la voce di Michel cambiò. Non era più dolce come prima. Era secca, quasi ostile.

- Cristo, Felipe! Lo so. Credevo che…

Felipe rimediò in fretta:

- È tutto quello che desidero, Michel. Dovessimo anche andarcene insieme tra cinque minuti. Purché sia insieme.

Michel gli morse il lobo dell’orecchio, strappandogli un piccolo gemito:

- Così va bene, disgraziato.

Uno dopo l’altro, i loa ritornarono al loro mondo, Legba se ne andò con loro e chiuse il cancello.

I tamburi ripresero a suonare ed ebbe inizio la danza di ringraziamento.

 

LA NOTTE DELLA FESTA

 

Danza2

 

Quando infine anche l’hûngun se ne andò, la musica cambiò: i tamburi ripresero, suonando un ritmo di danza. Uomini e donne mescolati incominciarono a ballare.

- Il rito è finito, ora incomincia la festa. Vuoi che andiamo o che restiamo?

Felipe non sapeva che cosa dire. Avrebbe voluto stare da solo con Michel. Avrebbe voluto dormire. Avrebbe voluto assistere. Chiese:

- Tu che cosa faresti, se fossi da solo?

- Io mi fermerei, ma non è un obbligo: Ogûn non è tenuto a ballare.

- Rimaniamo. Non mi spiace vedere la festa.

I neri ballavano in cerchio, muovendosi con un’agilità che stupiva Felipe. Sembrava che i loro corpi fossero il ritmo stesso della musica, che fossero loro a dettare ai tamburi il ritmo.

Ogûn non era tenuto a ballare, ma Michel si alzò, costringendo Felipe ad abbandonare la splendida posizione in cui si trovava. Michel si tolse la camicia e cominciò a muoversi al ritmo dei tamburi. Non aveva la scioltezza incredibile dei neri, ma la sua danza aveva una forza che soggiogava. C’era meno velocità, meno sveltezza, ma altrettanta spontaneità. Era davvero Ogûn, dio guerriero, che anche nella danza dimostrava la sua forza e la sua potenza.

Un po’ imbarazzato, anche se nessuno badava a lui, Felipe danzava (ci spiace dirlo: più o meno come un orso ammaestrato), ma non riusciva a staccare il suo sguardo da Michel. Man mano che la danza procedeva, il corpo di Michel si copriva di una pellicola di sudore, che luccicava ai riflessi del fuoco e delle stelle. Ed il desiderio si accendeva in Felipe, un desiderio tanto violento da stordirlo.

Poi diverse coppie si allontanarono e scomparvero tra gli alberi. Allora alcune donne presero i bambini e li portarono via. Altri maschi si allontanarono anch’essi.

Alla fine nel cerchio erano rimasti solo sette neri e loro due.

Un uomo si avvicinò e porse a Michel una scodella di legno, piena di un liquido.

Michel si fermò, prese la scodella con una mano e con l’altra prese un braccio di Felipe.

- Che cos’è?

- È una bevanda fatta con l’estratto del legno bendato.

Prima che Felipe dimostrasse nuovamente la sua ignoranza, Michel aggiunse:

- È una pianta dalla cui corteccia si ricava una bevanda che… fa venire voglia di scopare.

- Sei così mal ridotto da averne già bisogno?

Felipe si disse che con la scodella in mano, Michel non poteva colpire, ma fu un errore tattico: Michel si limitò a lasciare il braccio di Felipe, quel tanto da mollargli una sberla. Poi gli prese nuovamente il braccio ed aggiunse:

- Quando sto con te la prendo sempre, se no non mi tira.

L’offesa avrebbe dovuto essere lavata con il sangue, ma Felipe scoppiò a ridere e Michel lo imitò. Risero tanto, che Michel dovette posare la scodella.

Quando ebbero smesso di ridere, Michel gli disse:

- La bevanda ha un effetto molto forte, te lo assicuro. Se vogliamo partecipare a quanto segue, allora beviamo. Ma partecipiamo a tutto.

- Che cosa intendi per partecipare?

- Felipe, devo spiegarti che cosa possono fare insieme sette-otto maschi sani e forti?

- Tu vuoi dire… tutti insieme?

- Sì, mia timida e ritrosa monachella spagnola. Ma nessuno ci obbliga.

- Michel, ma tu facevi queste cose quando io non c’ero?

La voce di Michel cambiò, l’ironia scomparve:

- Ho fatto di tutto per non impazzire nell’attesa dell’uomo che amo, Felipe.

Felipe si chinò, afferrò la scodella e cominciò a bere. Michel lo fermò quasi subito.

- No, Felipe, la prima volta devi bere poco.

Allora Felipe passò la scodella a Michel, che bevve tutto quanto rimaneva.

Michel si calò i pantaloni. Ce l’aveva duro. La vista più bella del mondo, per Felipe. Felipe vide che anche tutti i neri erano nudi ormai e tutti mettevano in mostra una bella picca scura che gli batteva contro il ventre. Felipe si spogliò. Anche lui aveva una picca, ma chiara, contro il ventre. La danza riprese.

A Felipe parve che la bevanda non facesse nessun effetto particolare, ce l’aveva già duro prima, gli bastava guardare Michel perché gli venisse duro. Si sentiva però più libero e meno impacciato nella danza: in effetti non ballava più come un orso ammaestrato, ma come una scimmia. La danza degli altri era forse meno sciolta di prima, ma più intensa, come quella di Michel. Costui aveva rallentato il movimento, che ora non appariva più legato al ritmo della musica, eppure non ne era separato: la sensazione di Felipe era che la danza di Michel generasse la musica e la danza degli altri, ma che in questo processo essa si alterasse, fino a diventare qualche cosa di diverso.

Il cerchio si restringeva ed i corpi sudati si avvicinavano sempre di più, sfiorandosi. Felipe aveva a tratti la sensazione che una mano gli toccasse la schiena o il culo e la visione di quei corpi che lo stringevano da tutte le parti lo stordiva, come il rullo continuo dei tamburi.

Poi i neri si allontanarono nuovamente e Felipe si trovò solo. Si accorse che non vedeva più Michel. I neri lo avevano circondato completamente e neppure la sua testa era visibile. Poi Michel apparve, sollevato in alto dalle braccia dei neri. Ora era disteso sopra le loro teste, il capo rovesciato all’indietro. Di colpo i neri urlarono: - Ogûn, Ogûn, e le loro braccia si piegarono e si sollevarono, lanciando Michel verso il cielo. Per un attimo a Felipe si fermò il cuore, ma le braccia dei neri presero Michel mentre ricadeva. Lo lanciarono altre sei volte in alto, ripetendo sempre il nome di Ogûn.

Senza rendersene conto, Felipe danzava ancora al ritmo dei tamburi, come danzavano i neri. Non sarebbe riuscito a smettere. Si sentiva stordito.      

I neri piegarono le braccia. Erano in sette ed il corpo di Michel poggiava sulle spalle di sei di loro, tre per parte, ed era sostenuto dalle loro braccia. Il settimo nero si mise davanti a Michel e si infilò tra le gambe, che i primi due neri divaricarono, allontanandosi un po’ verso l’esterno.

Ora il nero era esattamente davanti alla grande asta di Michel e, complici i compagni, che abbassarono leggermente il corpo, inghiottì i coglioni, poi li lasciò ed afferrò l’asta, prima con i denti, come se volesse lacerarla, e poi con tutta la bocca. 

Il mondo rollava e Felipe non avrebbe più saputo dire se stavano tutti continuando a danzare o se loro erano fermi ed era il mondo intero ad oscillare o se il mondo era un’unica grande danza. Il corpo di Michel ondeggiava sospeso tra quelle forti braccia e la sua asta doveva vibrare nella bocca del nero, che sembrò per un attimo immobile, poi si staccò.

L’uomo arretrò e Felipe poteva vedere che stava venendo, in un orgasmo che lo scuoteva violentemente e sembrava non finire mai. L’uomo si teneva con due dita il grande membro contro il ventre ed il seme biancastro si spandeva sul corpo. Dalla bocca dell’uomo colava altro liquido biancastro. Con le mani l’uomo si sparse il suo seme e quello di Michel sul viso e sul corpo.

Felipe guardò Michel: vide che il suo uccello era ancora teso verso il cielo, anche se era certamente appena venuto.

Il nero si ritrasse e Michel venne nuovamente lanciato in aria. Rapidissimo, il nero che era appena venuto prese il posto di uno degli altri ed il compagno, liberato dal suo incarico di portatore di pesi, passò a quello di raccoglitore di nettare.

Uno dopo l’altro i sette uomini fecero la loro offerta e ne ricevettero la ricompensa. Quando il settimo nero si mise davanti a Michel, Felipe passò dietro. Michel aveva il capo reclinato all’indietro e nei suoi occhi, alla luce ormai fioca delle braci, a Felipe parve di leggere uno spasimo di piacere e di sofferenza. Michel lo vide e ripiegò ancora la testa all’indietro. Felipe raccolse l’invito e posò le sue labbra su quelle di Michel.

Poi Michel fu ancora lanciato in aria, più in alto e con più violenza, ma le mani non lo accolsero più, limitandosi invece a dirigere il suo ritorno al suolo, in modo che Michel si ritrovò in piedi. Il suo uccello era sempre nella stessa posizione, mentre tra i neri solo alcuni avevano una nuova erezione.

La danza riprese. Felipe sentiva che le gambe non rispondevano più, ma la tensione che saliva dal suo sesso era troppo forte per permettergli di fermarsi.

Non seppe in che momento le mani lo presero ai fianchi ed uno spiedo rovente entrò dentro di lui. Non fu un ingresso delicato e la sensazione di dolore fu forte, ma arrivò al suo cervello come attutita dai tamburi, dalla danza, dalla notte. Invece l’ondata di piacere che dal culo incominciò a percorrere tutto il suo corpo fu subito violenta: forse era quello l’effetto del legno bendato.

Non smise di danzare, solo che ora la danza seguiva un ritmo diverso, quello del corpo che lo stringeva. Felipe guardò le braccia sul suo ventre. Erano braccia nere, muscolose, forti. Ma su quelle braccia si appoggiavano altre mani, anch’esse forti, ma chiare. Michel era dietro il nero. Erano in tre a muoversi al ritmo dei tamburi. Felipe sentiva che era Michel a penetrarlo, attraverso il corpo del nero. E quando sentì la scarica del nero che gli riempiva il culo, il suo uccello lanciò in aria un getto abbondante come gli sembrava non fosse mai successo e fu sicuro che nel culo del nero la spranga di Michel scaricava un’analoga quantità di luce bianca.

Uno dopo l’altro sette picche nere entrarono in lui, senza dolcezza, senza lasciargli il tempo di espellere il liquido che gli riempiva le viscere. Sette volte venne Felipe.

Ma quando, l’ottava volta, furono solo le mani bianche di Michel a stringerlo, il piacere divenne tanto forte, che mentre il suo seme si spandeva, Felipe svenne.

 

ALBA, OVVERO MICHEL

 

Felipe e Michel 3

 

Il cielo era di un azzurro intenso ed il sole era già alto sull’orizzonte, quando Felipe si risvegliò. Era sdraiato su una grande amaca a due posti, su un fianco, e Michel dietro di lui gli cingeva la vita con un braccio, mentre i loro corpi aderivano.

Il contatto era piuttosto intimo: in effetti a svegliare Felipe non era stata la luce del giorno, ma una spranga di ferro calda che gli era entrata dall’ingresso posteriore. Un ottimo modo per incominciare la giornata.

Felipe emise un mormorio di profonda soddisfazione, anticipando una bella sessione di educazione corporea di mattino. Per stuzzicare Michel, gli disse:

- Ma non sei sazio? Quante volte sei venuto ieri sera? Secondo me almeno quindici.

- Probabilmente è solo un effetto della bevanda. Richiede sempre qualche giorno prima che passi del tutto. Non saprei spiegare in altro modo questa voglia mattutina…

Felipe rise.      

- Ma come fai ad avere ancora le forze…

Poi si interruppe. Ricordava di essere venuto sette volte ed il suo uccello era di nuovo ben saldo.

- Non so che cosa sia davvero successo ieri sera, Felipe. Non so quanto sia realtà e quanto sogno. È così importante?

- No, non lo è. L’unica cosa importante è che siamo qui, insieme.

E con questa frase, Felipe era convinto di chiudere l’argomento e passare ad un po’ di ginnastica mattutina (o pomeridiana? Doveva essere piuttosto tardi). Ma non fu così (tanto per cambiare), perché Michel riprese a parlare. E le parole di Michel scendevano dentro di lui e gli mozzavano il respiro:

- Ti ho aspettato Felipe. Ti ho aspettato giorno dopo giorno. Ogni giorno guardavo lungo il sentiero, sperando di vederti arrivare, anche se sapevo benissimo che non potevi arrivare. Ogni giorno fissavo quel sentiero e quando calava il sole, mi dicevo: “Oggi non è venuto, ma verrà per quel sentiero.” Ero sicuro che saresti venuto, Felipe. Volevo essere sicuro che saresti venuto.

Felipe sentì che gli occhi gli bruciavano. Cercò le parole per rispondere.

- Il periodo dopo la tua partenza è stato un incubo, Michel. Non credo che avrei potuto reggere ancora a lungo… Grazie a Dio è finita e non ti libererai di me, Michel, se non con una stilettata nel cuore.

Michel rise e gli sussurrò nell’orecchio:

- Preferisco colpire al culo.

E con queste parole diede una forte spinta, che fece sussultare Felipe.

- Aspetta, Michel. Devo dirti una cosa.

Sì, Felipe aveva una cosa da dire. Ed era necessario dirla, per dissipare ogni dubbio.

- Abbiamo un figlio, Michel. 

Aveva paura, paura che Michel reagisse in modo negativo alla notizia. Perché a Miguel non era disposto a rinunciare. E a Michel neppure.

- L’hai portato con te? Che bello! Non pensavo che tua moglie te lo lasciasse.

La gioia nella voce di Michel era una risposta più che sufficiente.

- Lei s’è presa la bambina. Uno per uno.

- Sei stato bravissimo a fare due gemelli. Ma c’era da immaginarlo. Questi qui funzionano bene.

Mentre parlava, Michel gli strinse con la mano i gioielli di famiglia. Felipe sorrise.

- Non ti spiace che abbiamo un figlio, Michel? Perché è figlio di tutti e due.

- Ho sempre desiderato avere un figlio, Felipe. 

Michel lo baciò sul collo, poi chiese:

- Dov’è il piccolo? Come si chiama?

- È giù, vicino a Saint-Louis. L’ho chiamato Miguel.

Voltando la testa, Felipe vide che Michel lo guardava con un mezzo sorriso sulle labbra ed una domanda negli occhi. Felipe sorrise e gli disse:

- Gli ho dato il nome dell’unico uomo che ho amato, ma in spagnolo. Un po’ perché deve continuare la stirpe dei Llera, un po’ perché ho sempre conservato la speranza di riuscire un giorno a raggiungere quell’uomo e non volevo confondermi quando chiamo uno dei due. Sono tutto il mio mondo.

E nell’abbraccio di Michel Felipe pensò che da quel momento in poi la sua vita sarebbe stata un lungo fiume tranquillo. Vita da piantatore, senza avventure, mari da percorrere, pirati da combattere, fortini da espugnare, prigionieri da liberare, agguati nella notte, esecuzioni all’alba, giorni in cella, condanne a morte, vascelli fantasma, ecc.

Da perfetto pantofolaio, per dirla chiara.

E visto che stiamo parlando chiaro, diciamoci un’ultima verità, anche se poco gentile nei confronti del nostro eroe: Felipe era proprio un po’ limitato. Non occorreva mica essere indovini per sapere che a fianco di Michel la vita non sarebbe mai scorsa tranquilla!

 

EPILOGO, OVVERO MIGUEL

 

Michel e Miguel divennero i migliori amici del mondo.

Alla piantagione Miguel era l’unico bambino bianco tra tanti bambini neri: in altre piantagioni i piccoli non erano numerosi, non era raro che le donne uccidessero i loro figli appena nati, perché non fossero schiavi, ma alla Liberté, questo non succedeva. Inoltre i lavoratori scopavano come il padrone della piantagione, cioè molto spesso e con grande soddisfazione. Qualche volta, se ne avevano voglia, scopavano anche il loro padrone (o si facevano scopare da lui), quando Michel e Felipe volevano cambiare un po’.

Comunque Miguel Llera ebbe modo di frequentare anche diversi bambini bianchi e mulatti, perché tra i numerosi ex-pirati che si stabilirono intorno alla Liberté, ce n’erano anche alcuni regolarmente (o irregolarmente) sposati: non tutti, potendo scegliere, facevano la stessa scelta di Michel e Felipe, anche se molti amavano tenere il piede in due scarpe.

Miguel conobbe anche sua sorella e sua madre, perché Pedro ed Ines scelsero di stabilirsi nella stessa zona qualche tempo dopo l’arrivo di Felipe: Pedro era stato riconosciuto come un ribelle della guerra spagnola poco dopo lo sbarco in Messico ed era sfuggito per un pelo alla cattura. Così i due avevano deciso di vivere in un posto in cui non avrebbero corso rischi.

Miguel Llera assicurò la continuazione della stirpe dei Llera nel Nuovo Mondo, senza nessuna fatica, anzi: con molto piacere. Non che disdegnasse il culo, come il suo fratello di latte avrebbe potuto testimoniare già a dodici anni, né che non amasse gli uccelli, come diversi neri della piantagione capirono ben presto.

Ma dobbiamo dire, sperando di non dare una delusione troppo forte al lettore, che la sua predilezione andava decisamente alla passera.

Dalla prima moglie ebbe quattro figli maschi e dalla seconda, sposata a cinquant’anni, uno solo, Jorge, che i capricci della sorte finirono per legare ad un pronipote di Isabel Llera. Qualche altro figlio, bianco o mulatto (pare anche qualche meticcio) venne seminato qui e là: pur amando moltissimo la moglie (sia la prima, sia la seconda), Miguel non fu propriamente un marito fedele.

Miguel divenne famoso e d’altronde, con un padre adottivo come Michel, difficilmente avrebbe potuto vivere tutto il tempo in una piantagione. Anche Michel e Felipe non rimasero sempre nella piantagione e spesso accompagnarono Miguel nelle sue avventure, soprattutto negli anni della giovinezza di Miguel: Felipe non ebbe modo di annoiarsi e tutto sommato non rimpianse mai di non vivere tranquillamente come aveva (erroneamente) previsto.

In una delle loro avventure, molto tempo dopo i fatti narrati, Michel e Felipe se ne andarono insieme.

 

 

 

1

2

3

4

5

6

7

8

 

 

 

 

 

Area aperta

Storie

Gallerie

Indice

 

 

Website analytics