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     6. UN BREVE TEMPORALE
  Mentre la nave faceva vela
  verso sud, lasciando l’isola alle spalle, Michel si avvicinò a Pierre. - Bentornato a bordo,
  Pierre. Così dicendo, gli si
  avvicinò e lo baciò sulla bocca. Felipe si sentì a disagio, senza capire. Non
  era certamente la vista di due uomini che si baciavano a turbarlo: a parte il
  fatto che lui e Michel si erano baciati, da quando era salito sulla nave di
  Barbanera aveva assistito ad ogni tipo di rapporto tra uomini e, anche se né
  sull’Adventure, né sulla Black
  Gull i pirati si baciavano, sulla Liberté non era una rarità. Eppure quel bacio gli dava
  fastidio, come gli dava fastidio l’intimità evidente tra Michel e Pierre. Con
  un certo stupore, Felipe si rese conto di essere geloso. Era irragionevole,
  era stupido, ma era così. Come se Michel fosse una sua proprietà! - Grazie, capitano. Sapevo
  che non mi avresti abbandonato, ma non pensavo che ce l’avresti fatta. Michel lo guardò, con un
  cipiglio piuttosto truce: - Come sarebbe a dire? Mi
  sottovaluti. Questa è un’offesa. Cento frustate, Gros-Jean, per questo
  farabutto. Gros-Jean, che era lì
  vicino, annuì.  - Sì, prima lo frusto e
  poi lo inculo, come abbiamo fatto con quell’altro. Anzi, prima lo inculo, poi
  lo frusto. La risata di Pierre
  risuonò allegra: - Non ci sperare,
  Gros-Jean! Felipe si allontanò un
  po’, cercando di nascondere un turbamento di cui si vergognava. Pierre era
  l’uomo di Michel? Michel lo avrebbe escluso dalla sua cabina (non osò dirsi:
  “dal suo letto”), ora?  Immerso in queste
  riflessioni, non si accorse di essersi avvicinato all’ufficiale spagnolo, Valenciano, ed al soldato, di cui ignorava il nome. Anche Michel venne nelle
  stessa direzione. Vedendolo arrivare, Valenciano gli si rivolse: - Grazie, capitano, le
  dobbiamo la vita. Michel sorrise e Felipe si
  disse, con una fitta al cuore, che aveva il più bel sorriso del mondo. - Amici, è stato un
  piacere, tanto più che non l’avevo previsto. Ma nelle prigioni spagnole ho
  sempre trovato il meglio della Spagna: anche il mio carissimo Pierre l’ho
  scovato in una prigione.  Il “mio carissimo” fu una
  pugnalata per Felipe, ma un inatteso balsamo gli fu fornito dalla
  prosecuzione del discorso di Michel, che gli passò la mano attorno alla vita,
  attirandolo a sé:  - Devo però dire che il
  meglio del meglio non l’ho trovato io, mi ha trovato lui in una prigione,
  dove peraltro mi aveva cacciato. Felipe si sentì subito
  meglio (anzi: il meglio del meglio), anche se la gelosia continuava a
  punzecchiarlo. Ma rispetto ai denti da caimano di poco prima, ora era solo un
  topino fastidioso. E mentre sentiva il calore del corpo di Michel contro il
  suo, nella propria infinita magnanimità era pronto a perdonare a Pierre il
  fatto di esistere, purché stesse alla larga da Michel. Intanto Michel continuava: - Che cosa contate di
  fare? Potete unirvi a noi, posso lasciarvi in territorio francese o inglese.
  Oppure posso farvi raggiungere Cuba. Non vi consiglio di rimanere a Hispaniola, a meno che non abbiate qualche appoggio su
  cui contare. Vi daranno la caccia. - Non so, capitano, non ne
  abbiamo parlato. Eravamo convinti di morire. - Non c’è fretta. Parlatene, poi me lo direte. Per il momento, finché vorrete, siete miei ospiti. Michel aveva parecchio da
  fare e per un po’ Felipe lo perse di vista.  La nave, lasciatasi
  l’isola alle spalle, si diresse verso ovest e dopo alcune ore, venne
  avvistata la Liberté. Michel decise di non
  passare sulla Liberté e rimasero tutti sulla
  Madre de Dios. Michel e Pierre si misero a
  parlare animatamente e questo ravvivò la gelosia di Felipe. Avrebbe voluto
  avvicinarsi, ma per orgoglio preferì non farlo, visto che Michel non lo
  chiamava. Così se ne rimase in disparte. Felipe guardò i due
  militari spagnoli. Ignacio era seduto contro la
  murata, a gambe larghe. Ramón si era seduto contro
  di lui e le braccia di Ignacio lo stringevano.
  C’era una tale tranquilla felicità in quell’abbraccio, che Felipe si sentì
  struggere di invidia. Giunse infine la sera.
  Felipe trafficò con alcuni marinai per sistemare la vela maestra ed era
  appena sceso, tutto sudato, quando Michel gli si avvicinò, lo afferrò per il
  braccio e gli stampò un sonoro bacio sulla bocca. Poi il capitano, senza
  mollare la sua preda, salutò i suoi ospiti, dicendo: - Buona notte. Anch’io mi
  prendo un po’ di riposo, con il mio guanciale preferito. E così dicendo, Michel
  lanciò un sorriso a Felipe, che si sciolse interamente. Quando però fu sulla porta
  della cabina, Felipe volle togliersi del tutto il pensiero e chiese: - Pierre non viene? Michel lo guardò
  perplesso. - Perché mai dovrebbe
  venire? Vuoi che facciamo qualche cosa in tre? - No, io no, credevo che tu… che tu e Pierre… insomma… Michel non gli dava
  minimamente una mano, anzi: sembrava divertirsi a vederlo in imbarazzo.
  Felipe lo stramaledì. E, per levarsi dai guai,
  lo baciò sulla bocca. Entrando nella cabina del
  comandante, Felipe perdonò Pierre per quanto lo aveva fatto patire, ma si
  disse che in futuro avrebbe evitato quell’uomo.  Va da sé che nei mesi
  successivi Pierre divenne il suo migliore amico. PORCO-FOTTUTISSIMO È DAVVERO UN PORCO
  Felipe era tutto sudato e
  sentiva il bisogno di lavarsi. - Senti, Michel, c’è un
  po’ d’acqua per lavarsi, qui? - Nella cabina di un
  ufficiale spagnolo? Non credo. Gli spagnoli non si lavano mai, sono tutti dei
  maiali. Felipe fulminò Michel con
  uno sguardo e si guardò intorno. Smentendo Michel, trovò un contenitore per
  l’acqua, ma prima che avesse fatto in tempo a prenderlo, fu fermato. - No, non ti lavare, ti
  preferisco così. Michel gli era già addosso
  e, annusando e leccandolo, lo stava già spogliando. Felipe rise di quella
  lingua che gli faceva il solletico, ma lo stuzzicava anche. - Vedo che voi francesi
  amate la pulizia… Michel si era accovacciato
  e stava abbassando i pantaloni di Felipe. - Proprio perché siamo
  puliti, apprezziamo i maialini spagnoli. La carne di maiale è buona, gustosa,
  piccante al punto giusto… Questa frase fu
  accompagnata da un vigoroso morso alle natiche che strappò un gemito a
  Felipe. Felipe rise, mentre la
  lingua di Michel indugiava sull’ombelico e poi scendeva in linea retta fino
  alla base del sesso, che venne delicatamente afferrato tra i denti,
  mordicchiato quattro o cinque volte e poi percorso dalla lingua, che indugiò
  sulla punta. - … la carne di maiale
  spagnolo è saporita, ha un sacco di gusti forti. Chi assaggia la carne di
  maiale spagnolo, non smette più…  Mentre faceva risuonare lo
  spot pubblicitario (in anticipo di qualche secolo, ma Michel era un genio)
  nelle orecchie di Felipe, Michel spinse la testa tra le gambe del suo
  compagno e, prima che Felipe capisse le sue intenzioni, lo sollevò e lo mise
  sulla propria schiena, a testa in giù, bloccandogli le gambe sulle spalle con
  le braccia possenti. Non era una posizione
  comodissima per Felipe, ma il culo di Michel era a portata dei denti e Felipe
  gli appioppò un bel morso leonino che strappò al capitano un gemito molto
  sincero. Felipe continuò a mordere
  e Michel lo fece cadere a terra, gettandoglisi
  sopra e bloccandolo. Poi la testa di Michel scese sul culo di Felipe e
  cominciò a mordere. Infine la lingua percorse più e più volte il solco tra le
  natiche ed arrivata all’apertura, cominciò a forzarla, spingendosi dentro.
  Felipe si chiese se Michel non volesse penetrarlo. Sapeva di desiderarlo, ma
  non voleva che avvenisse. Cercò di liberarsi.  - Sei mio prigioniero,
  Felipe. Non mi scapperai.  La voce di Michel era
  fintamente minacciosa, ma poi divenne seria. - Non temere, non ti farò
  nulla che tu non voglia. La lingua tornò a fare il
  suo lavoro e Felipe si disse che non poteva continuare così, perché avrebbe
  chiesto a Michel di fotterlo, glielo avrebbe chiesto lui. Doveva liberarsi e
  realizzò che aveva una necessità impellente. - Aspetta, Michel, ma
  fammi almeno pisciare. Michel allontanò la bocca
  dall’apertura, morse con decisione una natica e mollò Felipe, dicendo:    - D’accordo. Ma appena Felipe fu in
  piedi, Michel si mise in ginocchio davanti a lui e gli prese in bocca
  l’arnese, già un po’ turgido. Poi, vedendo Felipe esitante, gli disse: - Dai, Felipe, fammi bere.
  Ho sete. Felipe rimase allibito.
  Barbanera l’aveva costretto a bere il suo piscio, questo è vero. A Lapo
  piaceva. Ma era una cosa per gente come Lapo. Michel gli strizzò gli
  occhi e gli succhiò la punta. - Muoviti, Felipe, o non
  ce la farai più. Felipe era impacciato. - Avanti, maialino
  spagnolo. - Io sarei un maialino? E
  tu cosa sei? Un porco, fottutissimo. - Direi di sì, ma non lo
  ridire, ti sbatto in mare. E muoviti a pisciare. Ho voglia di sentire il
  sapore del tuo piscio. Dai, Felipe, hai meno fantasia e più pregiudizi di un
  vescovo spagnolo!  Felipe ancora esitava, poi
  scoppiò a ridere e lasciò che il getto prorompesse. Michel bevve avidamente. Quando Felipe ebbe finito,
  Michel ripulì con cura la punta dell’arma. - Non pensavo che ti
  piacesse bere il piscio, sei come quelli della Black
  Gull. Lo Zoppo si faceva cagare addosso. Michel rispose,
  sorridendo: - Lo so. A me la merda non
  è che piaccia molto, ma se ci tieni, possiamo fare qualche cosa… Lo sguardo di raccapriccio
  di Felipe provocò una sonora risata. - Santo cielo, Felipe, sei proprio una monachella. Felipe annuì. - E tu un porco. Il mio
  porco preferito, comunque. DAL PASSATO
  
 Quando infine ebbero
  concluso i loro giochi, rimasero distesi, uno di fianco all’altro. Michel
  guardava Felipe, sorridendo, la testa sollevata ed appoggiata ad una mano, il
  gomito sul cuscino. Felipe leggeva in quello
  sguardo non più il desiderio, ma un sentimento, la cui intensità lo
  intimoriva. Aveva paura che Michel dicesse qualche cosa che preferiva non
  sentire. Perciò cercò un altro argomento di conversazione e parlò della
  giornata: - Oggi ho capito perché Testapelata è così famoso. Michel alzò le spalle.
  Felipe insisté. - Barbanera diceva che tu
  e lui eravate gli unici pirati che valevano.  Michel lo guardò stupito: - Hai conosciuto
  Barbanera? Felipe annuì, un po’ a
  disagio. - Dai, raccontami.  Felipe raccontò brevemente
  e concluse dicendo che era stato catturato, ma era riuscito a scappare. - Quanto tempo sei rimasto
  con Barbanera? - Oltre un mese. - È stato lui, vero?  Felipe capì, ma finse di
  non capire. - Che cosa? - Quello che ti ha fatto
  il servizio e ti ha fatto passare la voglia. - Sì, ma come hai fatto a
  capire? Testapelata rise. - Tutti sanno di
  Barbanera. Anche se dicono che ha avuto quattordici mogli, pare che non abbia
  mai combinato granché con nessuna. In compenso di maschi giovani e vigorosi
  ne ha avuti a bizzeffe, con le buone o con le cattive.   Felipe non disse nulla.
  Non aveva mai riflettuto sul fatto che Barbanera doveva averne presi molti
  altri come lui. Pensò che aveva vendicato tutti quelli che erano stati
  costretti con la forza.  Michel aveva capito. O
  forse no. Aveva capito quello che era successo, ma il problema era un altro.
  Barbanera non gli aveva fatto passare la voglia, ma gliel’aveva fatta venire.
  E lui non voleva, perché doveva fare dei figli, perpetuare il nome dei Llera. Si chiese se quella storia dei figli non fosse
  un’emerita cazzata. Lo era, sicuramente lo era, ma lui era vivo per quel
  motivo e, per suo padre e soprattutto per quel ragazzo morto al suo posto,
  doveva cercare di tener fede alla sua promessa, costasse quel che doveva
  costare. La voce di Michel
  interruppe il corso dei suoi pensieri: - Finisci la storia. Felipe esitò. Temeva di
  non essere creduto, di apparire un millantatore. Come poteva vantarsi di aver
  ucciso Barbanera ed essere creduto? - Che cosa vuoi dire? - Che cosa è successo
  dopo? Perché con Barbanera la storia non è finita lì. Come aveva fatto Michel a
  capirlo? Non era così strano, in fondo. Michel aveva una sensibilità rara. Felipe raccontò quello che
  era successo in seguito: la conversazione al bordello, la spedizione, la
  morte di Barbanera. Michel lo ascoltava attento. Quando ebbe finito, Felipe
  gli chiese: - Michel, mi credi? Per lui era maledettamente
  importante che Michel gli credesse. Michel gli sorrise. - Ne dubiti, forse? No, se Michel lo guardava
  così, non ne dubitava. Ma voleva sentirselo dire. - Non so, non hai detto
  niente. Michel scosse la testa. - Felipe, tu non sei tipo
  da raccontare storie. E se menti, te lo leggo negli occhi, nella voce. Finora
  mi hai mentito in un’unica occasione. Quando ti ho chiesto della tua vita
  passata. Lì hai preferito tenermi nascosta la verità.  - Hai ragione, Michel.
  Scusami, ma ti conoscevo poco e non me la sentivo di parlarne. La mia storia
  è un’altra. Se vuoi, ora te la posso raccontare. Non era passato davvero
  molto tempo da quando Felipe aveva scelto di non raccontare: neppure tre
  giorni. Eppure ormai si sentiva troppo vicino a Michel e non voleva, né
  poteva, nascondergli nulla del suo passato. Michel gli rispose: - Solo se lo vuoi, se
  davvero lo vuoi. Felipe sapeva di volerlo.
  Desiderava che Michel lo conoscesse, lo conoscesse davvero. - Sì. Voglio che tu la
  sappia. Michel gli sorrise. Un
  sorriso dolcissimo. - Allora abbracciami
  stretto e raccontamela. Michel si girò sul fianco
  opposto, dandogli la schiena. Felipe si avvicinò, fino a che il suo corpo non
  aderì completamente a quello di Michel, gli cinse la vita con il braccio
  destro e cominciò a narrare. Tutto, senza nascondere nulla, dalla sua infanzia
  in una casa nobiliare al periodo di Londra. Era bello raccontare così.
  Era bello percepire l’attenzione di Michel. Era bello stringere quel corpo. Quando Felipe ebbe finito,
  Michel disse: - Non hai avuto una vita
  facile. - In fondo sono stato
  abbastanza fortunato fino a sedici anni. Da allora, devo riconoscere, non mi
  sembra che la fortuna mi abbia amato molto. - E così devi perpetuare
  il nome e la stirpe dei Llera nel Nuovo Mondo. Michel aveva intuito.
  Aveva una notevole sensibilità. Tanto notevole che non insistette
  sull’argomento, ma deviò su un commento ironico:  - E quindi sei tu che hai fatto morire
  Barbanera ed il Gallego. - Veramente, mi sembra che
  per il Gallego qualcun altro abbia fatto di più. Io non ho alzato un dito. - Senza di te avevo poche
  possibilità di riuscirci, per non dire nessuna. E qualunque tribunale ti
  condannerebbe: mi hai liberato, mi hai dato il coltello. Sei mio complice. E
  sei un uomo pericoloso, Felipe. I pirati che ti prendono a bordo finiscono
  uccisi: Barbanera, il Gallego, il Sanguinario. Forse dovrei stare in guardia.
  Non vorrei che tu mettessi fine alla mia carriera di pirata. Testapelata aveva ragione di temere: Felipe mise
  davvero fine alla sua carriera di pirata, ma anche questo verrà dopo. LA STORIA DI
  TESTAPELATA
  
        Ora però Felipe aveva
  voglia di conoscere un po’ meglio il famoso Testapelata. - E tu, perché sei
  diventato un pirata? - Anche questa è una
  storia lunga. Vuoi sentirla? - Altroché! - Vivevo a Port-Royal. Mio padre e mia madre avevano un negozio
  di tessuti. Allora Port-Royal era un centro
  importante ed i pirati ci bazzicavano parecchio, più ancora di oggi. Io avevo
  un fratello più grande ed una sorellina. Ricordo poco della mia infanzia:
  alcuni dettagli mi sono perfettamente chiari, ma di come era la mia vita
  allora, ho solo una vaga idea. Doveva essere felice. Ci fu un attimo di pausa.
  Poi Michel riprese: - Avevo sette anni.
  Giocavo fuori casa, con un altro bambino. Mio fratello era in negozio, con i
  miei genitori, e la mia sorellina dormiva in casa. D’improvviso la terra
  cominciò a tremare. Io rimasi paralizzato a guardare la mia casa che vibrava,
  alzandosi ed abbassandosi, fino a che non sentii uno schianto e la casa
  crollò. È una cosa strana, una casa che crolla: vedere il tetto, le pareti,
  le finestre, cose che conosci benissimo, che di colpo non sono più al loro
  posto, si muovono, cadono al suolo. Guardavo stupito e non capii subito. Non
  mi resi conto immediatamente che ero solo al mondo, che tutta la mia famiglia
  era morta. Poi, di colpo, compresi. Cominciai a piangere ed a chiamare i miei
  genitori, ma nessuno rispondeva. Gridavo e piangevo, ma nessuno veniva. Felipe poteva percepire la
  sofferenza di Michel, ancora viva. Non doveva essere un ricordo di cui
  parlava spesso, era ancora una ferita aperta. - Il terremoto aveva raso
  al suolo buona parte della città e nessuno si occupava di me. Io non sapevo
  dove andare, che cosa fare. Gridavo e piangevo. Piansi fino a che non ebbi
  più lacrime. Mi stesi a terra e mi addormentai. Quando mi svegliai avevo fame
  e sete. Cominciai a vagare per la città distrutta, ma nessuno badava a me. Mi
  sedetti su un mucchio di legno. Felipe chiuse gli occhi.
  Gli faceva male pensare a Michel bambino, solo in una città distrutta. - Fu allora che vidi
  venire verso di me un uomo molto alto. Mi vide e mi si avvicinò. Mi chiese
  chi ero, da dove venivo, dove erano i miei. Raccontai quello che era
  successo. Senza piangere: non avevo più lacrime. Quell’uomo mi prese con sé.
  Si chiamava Amedeo e, come scoprii in seguito, era un nobile italiano. Suo
  nonno era stato corsaro ed anche suo padre era vissuto nelle Antille per un
  certo tempo. Lui aveva voluto seguire le loro orme, trasferendosi dalla
  Liguria nelle Antille. Aveva preso il nome di Corsaro Rosso, come suo nonno.
  Amedeo mi portò sulla sua nave. Così a sette anni mi imbarcai su una nave
  corsara. Nei primi anni davo una mano in cambusa ed in cucina. A dodici anni
  presi parte ad un arrembaggio per la prima volta. E così divenni un corsaro. - Che ne fu di Amedeo? - Fu catturato dagli
  spagnoli, che lo impiccarono, come era successo a suo nonno. Io mi salvai,
  con diversi altri uomini, grazie all’altruismo di Amedeo. Ma persi quello che
  per me era stato un padre. Piansi la sua morte come avevo pianto quella dei
  miei genitori. Quella stessa notte, sulla spiaggia dove eravamo sbarcati, uno
  degli uomini del Corsaro Rosso, Long John, mi prese. - Vuoi dire che… - Mi inculò. Non posso
  dire che feci resistenza. Né che lo incoraggiai. Lo lasciai fare, troppo
  sconvolto dalla morte di Amedeo per trovare la forza di agire. Ma in fondo lo
  desideravo anch’io.   - Che ne è stato di lui? Michel alzò le spalle: - Se ne andò, alla ricerca
  di qualche tesoro nascosto, di cui gli avevano raccontato. Non ne ho più
  saputo nulla.  I lettori sono
  probabilmente meglio informati di Michel, grazie a Mr. Stevenson. Michel non disse altro.
  Felipe strinse Michel ancora più forte. Quella notte dormirono
  abbracciati. Felipe non si era mai sentito così vicino a nessun altro essere
  umano. PIERRE, OVVERO PEDRO
  Il giorno dopo, mentre
  Felipe osservava Petit-Jean arrampicarsi, agile
  come una scimmia, su una sartia, Pierre gli si avvicinò. Gli si rivolse in
  spagnolo. - Tu sei spagnolo, vero? Non era proprio una
  domanda. Felipe rispose un po’ asciutto, ma cercando di non essere scortese:
  in fondo poteva perdonare a Pierre il fatto di esistere, visto che Michel non
  sembrava volerselo scopare.  - Sì. - Anch’io. - Non hai un nome
  spagnolo. - Mi chiamo Pedro, ma Testapelata preferisce non usare quel nome. Non so che
  cosa ne sai, ma…         - Sì, ho conosciuto quel
  Pedro. Quello che Michel… Testapelata
  ha impiccato. - Sì, quel fottuto
  bastardo. Sono contento che sia crepato, finalmente. Felipe non disse nulla.
  Non sapeva che cosa voleva Pierre ed era un po’ a disagio. Pierre riprese: - Ce l’avevo a morte con
  Pedro, per quello che ha fatto. Consegnare agli spagnoli Testapelata,
  che gli aveva salvato la vita almeno due volte, che era il suo…  Pierre esitò, poi
  concluse: - Non credo che Testapelata te ne abbia parlato e non spetta a me
  parlartene. Ma sono contento che sia morto. Felipe non sapeva che cosa
  dire, ma rimanere in silenzio gli sembrava scortese, così chiese: - Come mai ti sei unito a Testapelata? - Veramente è lui che mi
  ha preso con sé. Ero prigioniero nella fortezza di Maracaibo, quando Testapelata l’assalì per salvare quattro dei suoi uomini.
  Una pura follia, che comunque gli riuscì, come sempre. In quell’occasione
  liberò anche una dozzina di prigionieri che attendevano di essere
  giustiziati. C’ero anch’io e la corda al collo me l’avrebbero messa il giorno
  dopo. - Che cosa avevi fatto? La domanda era per lo meno
  indiscreta, ma Pierre rispose: - Ero scappato dalla
  Spagna dopo la guerra, ma mi cercavano dappertutto e fui riconosciuto a
  Maracaibo. Il ricordo della guerra
  risvegliò molti pensieri nella mente di Felipe. - Anch’io sono fuggito
  dopo la guerra. - Ma eri molto giovane!
  Quando è finita la guerra non potevi avere più di quindici anni. - Sì, ma la mia famiglia
  venne condannata a morte.  - Come ti chiami? Felipe si era proposto di
  non rivelare mai la verità sulla sua famiglia, ma in quella situazione
  mentire era impossibile e tacere lo avrebbe messo in una situazione
  spiacevole.  - Llera. - I Llera
  di Barbastro? Credevo fossero morti tutti! - Sì, lo sono. Solo io… Felipe tacque. Il pensiero
  era ancora doloroso. Poi riprese: - E tu che cosa avevi
  fatto? - Mi ero battuto a
  Valencia contro l’usurpatore. Dovetti fuggire e sulla mia testa fu messa una
  taglia. Sono Pedro Alfaguera. Felipe conosceva benissimo
  quel nome: per la sua famiglia e per tutti i sostenitori della causa di
  Carlo, era il nome di un eroe.                            D’impulso abbracciò Pedro,
  che lo strinse a sé. La voce di Michel li
  riscosse: - Voi due, non fate troppa
  amicizia. Pierre, mi hai sempre detto che preferisci le donne e poi proprio
  Felipe ti metti ad abbracciare? Ti riporto al Pendón
  del Rey e sono sicuro che Hembrado
  sarà felice di avere qualcuno con cui sfogarsi! NELLA BAIA
  Il giorno dopo le due navi
  si fermarono in una piccola baia, tra pareti rocciose alla cui base si
  allargava una spiaggetta. L’acqua era di un blu
  cobalto e Felipe la guardò a lungo, pensando che si sarebbe tuffato
  volentieri.      Andò a chiamare Michel e lo trovò intento
  a radersi, come faceva ogni giorno: capelli, barba, baffi, sul suo viso non
  rimaneva neppure un pelo, a parte ciglia e sopracciglia. - Perché ti radi anche i
  capelli? - Una vecchia abitudine,
  presa quando non avevo neppure vent’anni. - Ma perché mai?  - Durante la navigazione
  scoprii di avere i pidocchi. Una quantità di pidocchi inverosimile. Fui
  costretto a radermi la barba, di cui ero piuttosto orgoglioso, ed i capelli,
  che portavo lunghi. Fu allora che venni soprannominato Testapelata.
  Ed adesso, come può Testapelata presentarsi con i
  capelli, magari anche lunghi? Ti garantisco che non sono calvo, per cui o mi
  rado tutti i giorni o mi cambio nome. Come vuoi che mi chiami? - Beh, un nome
  l’avrei!   Michel aggrottò le
  sopracciglia. - Ah sì, quale? - Porco-fottutissimo! - Se lo ripeti ti sbatto
  in mare! Te l’ho già detto. Felipe scoppiò a ridere:         - Porco-fottutissimo! - Ah sì, ti sei permesso
  di chiamarmi così? Ti avevo avvisato. Ora ti sbatto in mare! Prima che Felipe, scosso
  da una risata dirompente, potesse reagire, Michel lo afferrò e lo portò
  fuori. Felipe sapeva che Michel
  scherzava, non l’avrebbe certamente buttato in acqua, tra gli squali. Era
  talmente sicuro di questo che, continuando a ridere, non si preoccupò nemmeno
  di difendersi. Soltanto quando si vide
  oltre la murata, capì che lo scherzo di Michel andava un po’ oltre le sue
  aspettative. Ma ormai era tardi. - Di testa, Felipe, di testa! E Felipe si trovò a volare
  verso l’acqua blu. In fondo non aveva espresso il desiderio di tuffarsi? Cercò di assumere una
  posizione adeguata, ma ci riuscì solo in parte. L’impatto con l’acqua non fu
  propriamente piacevole. Scese a fondo e poi risalì
  in superficie, sperando di non trovare un pescecane affamato.  Quando riemerse si guardò
  intorno e vide che Michel accanto a lui. Gli fu subito addosso e gli mise la
  testa sotto. Ma non era facile affogare il pirata Testapelata,
  che con un guizzo si liberò e riapparve un po’ più in là, per mettersi poi a
  nuotare vigorosamente verso la riva. Felipe lo seguì, ma nel
  breve tragitto Michel lo staccò di diversi metri.  Arrivato a terra, Felipe
  trovò che Michel si era già spogliato completamente. - Muoviti, spogliati e
  vieni con me. Felipe ubbidì senza
  chiedere nulla: aveva piena fiducia in Michel. Quando Felipe si fu tolto i
  vestiti, Michel scattò di corsa lungo la spiaggia. Corsero un buon momento,
  fino a che arrivarono ad una fenditura nella roccia, che Felipe non aveva
  notato dalla nave. All’interno di quella spaccatura una cascatella scendeva
  dalla cima della parete fino alla spiaggia. Michel si mise sotto il
  getto d’acqua. - Un po’ di acqua fresca
  fa solo bene. Vieni qui, maialino spagnolo. Felipe non se lo fece
  ripetere, anche se lo spazio era ristretto. Appena fu accanto a Michel,
  questi si impadronì di lui e cominciò a strofinarlo energicamente con le
  mani. Le carezze erano un po’ ruvide, ma Felipe non oppose resistenza.  Poi Michel ritornò sulla spiaggia. - Stenditi su un lato,
  Felipe. Felipe eseguì, un po’
  incerto. Michel si mise di fronte a
  lui, vicinissimo, ma girato nella direzione opposta ed un po’ spostato, in
  modo che la sua bocca fosse all’altezza dell’arma di Felipe. Con un guizzo afferrò con
  la bocca l’arma, il cui proprietario sussultò, ma lasciò che quel bene
  prezioso venisse inghiottito. Davanti a sé Felipe aveva l’arma del nemico e
  logicamente, visto che lo sfidante teneva saldamente la sua spada, afferrò
  con la bocca la sciabola dell’avversario, pareggiando i conti. La lingua di
  Michel lavorava con gusto e le sue labbra non erano da meno. Felipe cercava
  di imitare il maestro, ma si sentiva chiaramente incapace di eguagliarlo.  A volte la sua arma veniva
  liberata e l’avversario allargava il campo di battaglia, invadendo tutta
  l’area circostante. Allora anche Felipe provava a percorrere le due sfere del
  nemico con la propria lingua, spingendola fin dietro la sacca che racchiudeva
  i gioielli di famiglia dell’avversario.  Forse l’intera operazione
  fu poco spontanea da parte di Felipe, troppo teso ad imitare per lasciare
  spazio all’inventiva, ma nell’insieme questo primo 69 della sua vita venne
  abbastanza bene, dando piena soddisfazione ad entrambi. Michel inghiottì il seme
  di Felipe, ma quando fu sul punto di aprire il getto, lo avvisò: - Sto per venire, Felipe. Felipe esitò un attimo,
  poi decise di ritirarsi. Avvicinò la mano al grande sesso inumidito di
  Michel, ma non ebbe neppure bisogno di toccarlo: il fiotto già saliva, per
  poi perdersi sul ventre e sulla sabbia. Felipe guardò le gocce che
  luccicavano al sole e si pentì di non averle inghiottite. Poi si sollevò su un
  gomito e soltanto allora vide che lungo il fianco della Liberté,
  più vicina della Madre de Dios al posto in
  cui si trovavano, diversi pirati li stavano guardando. Si sentì preda di un
  imbarazzo mortale. - Dalla Liberté ci guardano! - Certo, è un bello
  spettacolo. Gli dà qualche idea. Vedi come si danno da fare! Ed in effetti, guardando
  meglio, il movimento di molte teste e le posizioni di alcuni corpi indicavano
  che chiaramente i pirati stavano seguendo l’esempio del loro capitano, anche
  se con modalità diverse. E solo a questo punto
  Felipe notò un particolare che, quando era a bordo della Madre de Dios, non aveva avuto modo di vedere. La polena della
  Liberté non raffigurava una sirena, un
  santo, una madonna o qualche animale mitologico, come era usuale: era un
  vigoroso maschio nudo, con un sesso di tutto rispetto teso contro il ventre.
  Felipe scoppiò a ridere, ma in fondo la scultura era perfettamente adeguata
  alla nave ed al suo capitano. - Che bella polena! - Sono contento che ti
  piaccia. Secondo l’Artista era un mio ritratto. Al pensiero dell’Artista e
  della sua fine orrenda, Felipe ebbe un brivido, ma Michel non se ne accorse,
  perché guardava la nave. - La fece lui, quando si
  ruppe la nostra. Per ringraziarmi di averlo salvato quando la prima nave del
  Frisone fece naufragio. A me piace molto. Anche se la polena della Madre
  de Dios era di tutt’altro genere, sulla tolda
  le cose non andavano molto diversamente dalla Liberté
  e quando Michel e Felipe tornarono a bordo, trovarono effettivamente
  l’equipaggio molto indaffarato.  Felipe fu colpito
  soprattutto dal Marsigliese, un trentenne piuttosto vigoroso, che stava a
  testa in giù, disteso su una sartia di scala, le ginocchia appoggiate ad una
  grisella e le gambe piegate a sostenerlo. Davanti a lui, in piedi, c’era
  Louis. In quella posizione ognuno aveva davanti a sé un piatto appetitoso, da
  cui si stava servendo con grande impegno. Invece Petit-Jean,
  il Bretone e Mano-larga stavano facendo un
  terzetto: Mano-larga era appoggiato alla murata, il
  culo in aria, e rimaneva fermo. Il Bretone, piegato su di lui, lo aveva
  infilzato e spingeva vigorosamente avanti e indietro il proprio culo. Petit-Jean gli stava dietro, stringendogli il culo con le
  mani ed a sua volta l’aveva trapassato: quando il Bretone tirava indietro il
  culo, si impalava sull’asta di Petit-Jean, quando
  spingeva in avanti, trapassando Mano-larga,
  sfuggiva quasi completamente all’arma formidabile. Tutti e tre sembravano
  alquanto soddisfatti, ma l’espressione beata del Bretone fece sospettare a
  Felipe che chi si divertiva di più era lui. Contro l’albero di
  trinchetto Felipe vide lo Sfregiato, le mani legate in alto. Prima di capire
  che cosa stesse facendo il pirata, Felipe vide una frusta abbattersi sul culo
  dell’uomo, che sussultò. Felipe rimase a bocca aperta: era sempre stato al
  fianco di Michel e non gli risultava che Michel avesse dato ordine di punire
  un uomo. Come era possibile che una decisione del genere venisse presa da un
  altro, senza informare il comandante? Guardò Michel, che stava contemplando,
  serafico, lo spettacolo dei suoi uomini impegnati in una serie di giochetti erotici.
  Non sembrava essersi accorto di nulla. Una seconda frustata, che
  lasciò una striscia rossa sulla pelle dello Sfregiato, fece sobbalzare la
  vittima e Felipe, che si rivolse a Michel: - Michel, perché… Michel lo guardò senza
  capire. - Perché che cosa? Che
  c’è, Felipe? - Stanno frustando lo
  Sfregiato? Che cosa ha fatto? Michel scoppiò a ridere. - Non ha fatto niente,
  l’ha chiesto lui. Gli piace farsi frustare, poi coprire le ferite con il sale
  e magari anche peggio. Felipe rimase a bocca
  aperta. - Se vuoi provare,
  possiamo farlo… Felipe scosse la testa. Ma
  continuò a guardare la frusta che si abbatteva sul culo dello Sfregiato, i
  lunghi segni rossi che si formavano sulla pelle, mentre il corpo, madido di
  sudore, si contorceva ad ogni colpo. SULLA COFFA
  Quando gli esercizi
  ginnici dei marinai ebbero termine, una spedizione andò a procurarsi l’acqua,
  poi la nave ripartì. Soffiava appena un vento leggero, che gonfiava le vele.
  In cielo non si vedeva una nuvola ed il mare era leggermente increspato. - Vieni, Felipe. Saliamo
  sulla coffa. Michel sorrideva, mentre
  si spogliava. Felipe guardò incantato quel corpo, che ormai poteva dire di
  conoscere piuttosto a fondo. Quando Michel si sfilò i pantaloni, Felipe vide
  con gioia che l’albero di maestra di Testapelata si
  innalzava ben teso e glorioso nel sole. - Su, spogliati e andiamo. Felipe abbandonò i suoi
  vestiti e seguì Michel che agilmente si arrampicava lungo la sartia di scala
  dell’albero. Michel saliva, veloce ed agile come un gatto, e Felipe, per
  quanto avesse ormai una buona dimestichezza con le navi, rimase un bel pezzo
  indietro. Gli dispiacque, perché la vista di Michel da sotto era davvero
  splendida: una prospettiva che faceva giustizia a quello che Felipe
  considerava il più bel culo del mondo. Era davvero un peccato vederlo
  allontanarsi. Ma alla coffa lo avrebbe raggiunto. Prima di giungere alla
  coffa, Felipe rialzò la testa ed ammirò Michel che, tenendosi all’albero con
  una mano, si sporgeva nella sua direzione e gli tendeva l’altra. Felipe lo
  guardò e si disse che non aveva mai visto un uomo così bello. Poi prese la
  mano ed in un attimo si trovò sulla coffa. Michel lo afferrò per la
  vita. Felipe sentì il calore di quel corpo vicino al suo e si abbandonò a
  quella stretta, ma la voce di Michel lo scosse. - Guarda, Felipe, guarda. Da quel punto poteva
  vedere sotto di loro il mare tutt’intorno alla nave, un’immensa distesa blu,
  in cui si distinguevano appena alcuni scogli e, in lontananza, piccole isole.
  Sopra di loro il cielo, perfettamente sgombro, di un azzurro intenso verso
  l’orizzonte, più chiaro in alto, dove ardeva il sole del mezzogiorno. La bellezza di quello
  spettacolo gli tolse il fiato. Sotto di sé poteva vedere la vela maestra e le
  altre grandi vele che il vento tendeva e, lontano, il ponte della nave, dove
  si muovevano le sagome degli uomini di Testapelata. Avrebbe voluto rimanere lì
  per sempre, sospeso tra il cielo ed il mare, il corpo di Michel contro il
  suo. - Non è bellissimo? Tanto
  bello da lasciare senza parole? Felipe annuì e guardò
  Michel. Guardò i suoi occhi, azzurri come il mare, e gli sfuggì:  - Bello come te… Si vergognò
  immediatamente. Michel gli sorrise. Un
  sorriso malizioso. - Molto più bello di me,
  ma se ti piaccio, perché non mi prendi qui? - Qui? La coffa di una nave non è
  il posto migliore per gli amplessi: per quanto il mare sia calmo, a
  quell’altezza il movimento della nave provoca un’oscillazione molto forte ed
  il rischio di perdere l’appiglio è sempre presente. Cadere significa
  sfracellarsi, senza nessuna speranza di salvezza. Ma il corpo di Michel era
  una tentazione a cui era impossibile sfuggire. Michel lo lesse negli occhi di
  Felipe e sorrise. - Tieniti forte a me e
  fottimi. Michel si appoggiò
  all’albero, stringendolo con le braccia e dando il culo a Felipe. Questi
  passò un braccio attorno a Michel e con due dita della mano libera preparò il
  terreno, come aveva imparato a fare. E poi, sulla coffa dell’albero di
  maestra della Madre de Dios, il comandante
  venne spietatamente infilzato dall’arma di Spadaccino. LA TENDA ROSSA
  
 Il giorno seguente, nel
  pomeriggio, la Madre de Dios, sempre
  accompagnata dalla Liberté, si diresse verso
  nord ed in breve arrivò in vista della terra.  Felipe si rivolse a
  Michel: - Come mai ci siamo
  avvicinati a riva? - Devo controllare la
  situazione, prima di allontanarmi da quest’area. Ho promesso a degli amici di
  non lasciarli nei guai. In quel momento Petit-Jean, che era di vedetta, scese rapidamente lungo la scala. - C’è la tenda rossa,
  capitano. - Sei sicuro, Petit-Jean? Petit-Jean annuì. - Come sono sicuro che sei
  qui davanti a me. - Cazzo!  Michel chiamò il
  Marsigliese e gli disse di allertare tutti gli uomini, poi la nave invertì la
  rotta e si diresse verso la Liberté. - Che cosa c’è, Michel?
  Qualche guaio? - Sì, Felipe, guai molto
  grossi, se i miei amici hanno steso ad asciugare la grande tenda rossa che
  usano per la processione di san Giacomo. Felipe aveva l’impressione
  che gli sfuggisse qualche cosa. Che cosa c’entrava san Giacomo? Lasciò che
  Michel continuasse. - Mi spiace, Felipe, ma
  questa notte dobbiamo fare un’azione di forza. Questo ritarderà un po’ il tuo
  viaggio, ma non devi preoccuparti: se tutto va bene è una questione di un
  giorno o due. Se qualche cosa va male, gli uomini rimasti sulle navi ti
  porteranno a Port-Royal. Ma non farti assumere al
  Marinaio ubriaco. Felipe si disse che a Port-Royal magari un salto al Marinaio ubriaco l’avrebbe anche fatto, tanto per salutare il proprietario e scambiare due parole affettuose con lui, in ricordo dei vecchi tempi. Ma in quel momento altro gli premeva. - Che cosa dobbiamo fare? Aveva cercato di barare,
  ma Michel non glielo permise. - No, Felipe, tu non
  vieni. Il tono di voce di Michel
  non lasciava spazio a repliche. Felipe se ne rendeva conto benissimo. Ci
  provò ugualmente. - Perché? Posso esserti
  utile. - Questa volta no, non più
  di un altro. E non voglio che tu venga. Vado a uccidere degli spagnoli, se lo
  vuoi sapere. E non sarà una bella scena. Felipe avrebbe voluto
  insistere, ma sapeva che era inutile.  Appena la Madre de Dios ebbe raggiunto la Liberté,
  ci fu una riunione comune. Michel espose la situazione: - A San José hanno bisogno
  di aiuto, urgente. Hanno esposto il segnale convenuto. Dobbiamo farla finita
  con Dávila e la sua banda di bastardi. Scenderemo a
  terra appena sarà buio. Quello che seguì fu una serie di ordini, relativi soprattutto a chi doveva accompagnare Testapelata e a chi doveva rimanere sulle navi, con quali compiti. Felipe si accorse che nessuno obiettava. Solo il Marsigliese fece una proposta, che Testapelata accolse, e Barba-di-capra chiese di poter partecipare alla spedizione, ma la sua richiesta venne respinta. Felipe dovette tenersi la
  curiosità e si disse che ne avrebbe saputo di più il giorno dopo, al ritorno
  dalla spedizione: era chiaro che non avrebbe assistito a quell’impresa di Testapelata, non lo avrebbe visto in azione una seconda
  volta e non avrebbe messo piede a terra. Ovviamente Felipe aveva
  formulato una sfilza di previsioni del tutto sbagliate, ma in fondo tutti al
  suo posto avrebbero fatto lo stesso. Prima di sera Pierre gli
  spiegò in che cosa consisteva l’impresa: un signorotto tiranneggiava la
  popolazione di una vallata e, dopo aver sconfitto ed eliminato un rivale,
  doveva aver compiuto un’azione che richiedeva un intervento immediato a
  protezione dei coloni spagnoli. Felipe si stupì che Michel
  intervenisse a favore di coloni spagnoli, ma Pierre gli spiegò che molto
  spesso Testapelata si imbarcava in imprese, anche
  molto rischiose, per portare aiuto a qualcuno che ne aveva bisogno, senza
  preoccuparsi di lingua, razza, nazionalità o religione e senza badare alla
  possibilità di ricavarci qualche cosa. Che comunque ci ricavava sempre,
  perché, per quanto riguarda la ricchezza, Testapelata
  era nato con la camicia. E doveva essere una camicia di Missoni, come i
  lettori possono aver già intuito.  Pierre raccontò a Felipe
  che in quell’area si era stabilito Marcelo. Costui
  aveva a lungo navigato con Testapelata e recentemente
  si era rivolto a lui per chiedergli aiuto, descrivendo la difficile
  situazione degli abitanti del paese. La tenda rossa era un segnale convenuto
  con lui e significava una richiesta di aiuto urgente.  UN’OCCASIONE DA NON PERDERE
  Gros-Jean fu contento che Testapelata non l’avesse preso con sé. Da quando aveva
  insegnato a Ruiz che cosa si prova a prenderselo in
  culo, un’idea gli frullava in testa: voleva provare a fare altrettanto con
  Virgen María e l’assenza di molti uomini era un’occasione da non perdere.  Virgen María era un bel
  ragazzo, con un culo stretto, come piacevano a Gros-Jean. Non che non
  apprezzasse i culi forti, come quello di Ruiz, ed
  anche quelli abbondanti, come quello di Mano-larga,
  ma ognuno ha le sue preferenze. Il problema era che quei
  due, Virgen María e Barba-di-capra (troppo brutto per farci un pensierino),
  non partecipavano mai quando sulla nave ci si divertiva un po’. In un primo
  momento, Gros-Jean aveva pensato che preferissero fare da soli, come Testapelata faceva con Spadaccino (un vero peccato,
  perché con loro due lui avrebbe fatto volentieri il terzo, in qualsiasi
  posizione). Ma poi si era reso conto che Virgen María e Barba-di-capra non
  scopavano neanche tra di loro. Quindi Virgen María doveva essere vergine. Di
  culo, si intende, perché era quello che gli interessava. Se aveva anche
  scopato tutte le puttane da Toledo a Città del Messico, a lui non gliene
  poteva fregare di meno. Quella sera era l’occasione buona. Testapelata non aveva portato con sé i due spagnoli ed aveva ordinato al Marsigliese di sorvegliarli. Lui avrebbe proposto al Marsigliese di fare cambio. Era sicuro che il
  Marsigliese avrebbe accettato: quello aveva voglia di passare la serata con
  Mano-Larga o con Lince. Così lui ci avrebbe provato con Virgen María. Per sua sfortuna, le sue
  previsioni erano esatte ed il Marsigliese fu ben felice di sperimentare un
  terzetto con due compagni disponibili, invece di fare la guardia a due che
  sembravano seminaristi appena confessati, in attesa della comunione. Probabilmente
  Virgen María e Barba-di-capra avevano capito qualche cosa, vedendolo
  arrivare, ed ora confabulavano piano. Sulla Liberté
  non si facevano molti preliminari, ma con un timido verginello
  come Virgen María, Gros-Jean sapeva di dover procedere in modo graduale. Per
  cui, per arrivare al dunque, ci avrebbe messo un po’ più di tempo, anche
  quattro o cinque minuti, se proprio necessario.  Se poi proprio Virgen
  María non ne voleva sapere, beh, neanche Ruiz ne
  voleva sapere. Certo, bisognava allontanare Barba-di-capra ed evitare che gli
  altri vedessero. Testapelata era troppo rigido: non
  voleva violenze, se non come punizione. In questo Testapelata
  sbagliava e lui aveva provato a dirglielo, ma non c’era stato modo di fargli
  intendere ragione. Se Virgen María lo denunciava a Testapelata,
  finiva male. Meglio convincere Virgen María. Per prima cosa si avvicinò
  ai due e mise una mano sulla spalla di Virgen María, che, con suo stupore,
  non fece nessun tentativo per sottrarsi. Gros-Jean si disse che non occorreva
  perdere tempo: - Ci divertiamo un po’,
  questa sera? Virgen María gli rispose: - Sì, ma non qui, davanti
  a tutti. Gros-Jean non si era mai
  posto un problema del genere e quel “davanti a tutti” lo faceva ridere: era
  buio pesto, la luna non era ancora sorta ed alla luce delle stelle, manco si
  riusciva a capire chi stava inculando chi. A parte il fatto che gli altri
  erano tutti troppo occupati a inculare o farsi inculare, succhiare un cazzo o
  farselo succhiare, per preoccuparsi di che cosa stavano facendo loro.  Comunque, se era solo una
  questione di posti, lui non aveva problemi. Andava bene dovunque. - Là, nella scialuppa. Gros-Jean annuì, ma, prima
  di spostarsi, decise di prendersi un anticipo e, mettendosi di fronte Virgen
  María, gli mise le mani sul culo, stringendo forte. Virgen María si divincolò
  e questo a Gros-Jean diede fastidio: non si può dire di sì e poi cambiare
  idea. È vero che non erano ancora sulla scialuppa, ma non lo stava mica
  inculando, per il momento, almeno. Gros-Jean lanciò
  un’occhiata intorno. Barba-di-capra non c’era e gli altri erano abbastanza
  lontani. Bloccò le braccia di Virgen María con le proprie e gli strinse di
  nuovo il culo. Virgen María cercò di liberarsi e questo indispettì ancora di
  più Gros-Jean. Sapeva di essere molto più forte e, per dimostrargli che con
  lui non si scherzava, gli abbassò i pantaloni, mentre Virgen María cercava di
  impedirlo, con scarso risultato. - Lasciami, porco! Virgen María aveva parlato
  sottovoce e a Gros-Jean venne da ridere. Se uno non ci sta, urla. Non
  protesta sottovoce. Quello non voleva difendersi, quello faceva solo scena.
  Voleva vendere cara la sua merce: si era pentito di aver detto di sì subito. Ormai Gros-Jean ce l’aveva
  duro, una spranga di ferro. E quella spranga sapeva dove voleva metterla,
  fosse stata anche l’ultima cosa che faceva (come in effetti fu). Voltò Virgen
  María, a cui i pantaloni erano ormai calati alle ginocchia, lo appoggiò alla
  murata e preparò l’ingresso con due dita. - No, no! Stava alzando la voce e ad
  ogni buon conto Gros-Jean gli tappò la bocca. Poi lo infilzò, senza tanti
  complimenti, vincendo la resistenza. Il guizzo di Virgen María gli confermò
  quello che già aveva intuito: il tipo era proprio vergine di culo. Bene, gli
  stava facendo un bel favore, gli insegnava qualche cosa che Virgen María
  aveva aspettato un po’ troppo ad imparare. 
   In realtà Virgen María
  sembrava non avere nessuna voglia di imparare e si dimenava come un
  forsennato, per quel tanto che la stretta di ferro di Gros-Jean gli permetteva.
  Gros-Jean si divertiva un mondo e quel culo stretto stretto,
  che per la prima volta si apriva ad un bel cazzo duro duro,
  gli procurava una serie di sensazioni fantastiche. Avrebbe voluto
  spaccarglielo tutto, quel culo, con la sua spranga, ma il piacere era troppo
  intenso e in pochi minuti, Gros-Jean sentì che il suo corpo intero esplodeva
  in una grande scarica.  Era stato breve, ma
  meraviglioso. Virgen María aveva smesso di agitarsi tanto, aveva capito che
  era inutile fare scena. Gros-Jean si ritrasse.
  Avrebbe voluto continuare, ma se quello stronzo non voleva, beh, lui la sua
  parte se l’era presa. Virgen María poteva andare a farsi fottere da qualcun
  altro. Virgen María si voltò
  verso di lui. Gros-Jean gli chiese, un po’ beffardo: - Ti è piaciuto? Virgen María disse, con
  una voce roca:      - Sì, facciamolo ancora,
  ma andiamo sulla scialuppa. Ce l’aveva con la
  scialuppa, quello! Comunque un bis si poteva fare. Non stette nemmeno a
  tirarsi su i pantaloni: preferì toglierseli. Con il cazzo che gli stava
  tornando duro, seguì Virgen María alla scialuppa. Si infilarono dentro e lui
  glielo ficcò in culo tanto in fretta che Virgen María fece appena in tempo a
  gemere. Si accorse che qualcun
  altro era arrivato, ma non ci badò più di tanto: sulla Liberté
  era normale trasformare le coppie in terzetti e quartetti e nessuno si tirava
  indietro. La mano sulla bocca gli fece intuire che qualche cosa non andava
  per il verso giusto, ma prima di fare in tempo a reagire, sentì la
  lacerazione del coltello che gli recideva la gola. Diede un guizzo violento
  all’indietro, cercando di afferrare l’assassino, urtò un altro corpo, ma le
  forze gli mancarono e cadde riverso sull’uomo che stava ancora inculando. UNA SCIALUPPA MANCANTE
  La luna era sorta e Felipe
  passeggiava, senza sapere bene che fare. Di dormire non aveva voglia e lì sul
  ponte si sentiva un po’ a disagio, senza Michel, mentre intorno a lui tutti
  si stavano divertendo a più non posso: al chiaro di luna, se ne potevano osservare
  di tutti i colori, come sempre sulla Liberté. Felipe avrebbe potuto
  risolvere il problema unendosi a qualcuno dei vari gruppi che componevano un
  nuovo presepe vivente (molto vivente, per la verità). Ma non aveva voglia di
  scopare con qualcun altro che non fosse Michel: non riusciva proprio a
  toglierselo dalla testa.  Fu un bene per Michel, perché, girando sul ponte, Felipe notò il Marsigliese seduto su Lince (sarebbe più esatto dire: infilzato su Lince), che leccava con gran gusto il culo di Mano-larga, in piedi davanti a lui. Non lo colpì la posizione del terzetto, quanto il fatto che il Marsigliese avrebbe dovuto sorvegliare i due spagnoli. Avrebbe voluto chiedere,
  ma gli sembrava poco elegante interrompere delle persone che erano molto
  occupate in un’attività seria ed impegnativa. Si mise allora a girare,
  cercando Virgen María e Barba-di-capra, ma dei due non c’era traccia, né sul
  ponte, né sottocoperta. Non voleva dire molto: anche se le amache
  sottocoperta erano vuote, potevano essersi messi a dormire in qualche
  scialuppa.  Con quell’idea in testa,
  Felipe risalì sul ponte e si diresse verso le scialuppe. Appena diede
  un’occhiata, intuì che c’era qualche cosa che non andava: mancava una
  scialuppa. Felipe era sicuro che quella scialuppa c’era ancora dopo la
  partenza di Michel, perché ci si era appoggiato contro, mentre osservava le
  barche che scomparivano nell’oscurità. Felipe tornò rapidamente
  al terzetto di cui faceva parte il Marsigliese. I tre proseguivano nella loro
  animata conversazione, ma Mano-Larga si era voltato, in modo da offrire alla
  bocca del Marsigliese un altro piatto, non meno appetitoso. Questa volta
  Felipe parlò. - Marsigliese! Il Marsigliese interruppe
  subito il suo lavoro. - Ti unisci a noi,
  Spadaccino? Mano-larga rincarò la dose: - Sì, ho giusto un vuoto
  al culo. Felipe non badò alle
  proposte, che pure erano piuttosto appetibili. - Che ne è dei due marinai
  spagnoli, Virgen María e Barba-di-capra. Non dovevi sorvegliarli? - C’è Gros-Jean con loro. - Non li vedo da nessuna
  parte. E manca una scialuppa. L’ultima frase di Felipe
  fu la parola magica: il gruppo si sciolse ed in un attimo i tre gli furono
  intorno, incuranti delle proprie armi spianate. - Che dici…
  Quale scialuppa? Sei sicuro? - Sì, venite con me.  Felipe li condusse al
  posto dove c’era la scialuppa e non ebbe bisogno di aggiungere niente, perché
  anche il Marsigliese si ricordava benissimo che le scialuppe che erano state
  calate in mare erano altre. - Cazzo. Dov’è Gros-Jean? Tutti e quattro
  incominciarono a chiamare a gran voce Gros-Jean, il quale, per ovvi motivi,
  non rispose. In breve altri pirati si unirono a loro e la nave fu frugata da
  cima a fondo.  Fu Lince a trovare
  Gros-Jean, riverso in una scialuppa.  - L’hanno ammazzato e sono
  fuggiti. - Vogliono avvisare Dávila. Sperano che possa sorprendere Testapelata
  e catturarlo o ucciderlo.  - Dobbiamo avvertire
  subito il capitano. - È meglio mandargli
  rinforzi. Se non è un attacco di sorpresa, i rischi aumentano. Decisero di inviare un
  piccolo gruppo: i due non potevano essere fuggiti da molto, al massimo
  un’ora, e quasi sicuramente non conoscevano l’area. L’importante era avvisare
  Testapelata del nuovo pericolo, senza però
  sguarnire completamente le navi. Felipe fu ovviamente uno
  degli uomini che si unirono al Marsigliese e ad altri due pirati per avvisare
  Testapelata. E così partecipò anche a
  quell’impresa.  UNA RICOMPENSA FAVOLOSA
  E
  una nota dell’autore Diego Alquebir,
  detto Barba-di-capra, era furibondo. Avevano giocato il tutto per tutto,
  rischiando la pelle, e Ferdinando, meglio noto ai lettori come Virgen María,
  invece di dare una mano, non faceva altro che lamentarsi. Sì, va bene, gli
  aveva assicurato che faceva fuori il porco prima che lo inculava ed invece
  non ce l’aveva fatta, ma era colpa sua se quel porco l’aveva inculato contro
  la murata? Lui non poteva mica tagliargli la gola allo scoperto! Ed anche
  nella scialuppa, quel porco aveva fatto il bis prima che lui gli tagliava la
  gola, ma, porca puttana, se Ferdinando teneva un po’ strette le chiappe, lui
  arrivava in tempo.    - Per la Vergine Maria,
  Diego, rallenta un po’. Ho il culo in fiamme. - Porca puttana,
  Ferdinando, non andiamo ad un banchetto di nozze. Se non arriviamo a questo
  fottuto forte prima di Testapelata, il nostro
  intervento non serve a nulla e rischiamo solo di farci impiccare. La luna illuminava il
  sentiero, ma il forte, in base a quanto aveva detto Lince, era piuttosto
  distante. Non avevano tempo da perdere. Testapelata
  voleva attaccare poco prima dell’alba, ma poteva essere già per strada. Se li
  raggiungeva, erano spacciati. E se era già appostato vicino al forte, erano
  fottuti. - Te l’avevo detto io che
  dovevamo ammazzarlo la notte, con quell’altro. - E come lo ammazzavamo,
  che è sempre rimasto sulla Madre de Dios? - Aspettavamo un’altra
  occasione. - Sì, facile trovarla! Ma perché mai aveva
  proposto a Ferdinando di fingere di volersi unire ai pirati? Per avere
  quell’impiastro tra i piedi, tanto valeva fare da solo. Certo, se riusciva
  nell’impresa… C’era una ricompensa
  favolosa per chi riusciva a prendere o uccidere Testapelata
  e dopo la cattura delle due navi, pagavano di sicuro di più. L’idea era stata
  sua e ne aveva parlato all’unico ufficiale rimasto sulla Santiago. Qualcuno degli
  ufficiali doveva sapere, altrimenti rischiavano anche loro di finire
  impiccati. Con quei soldi, finita la miseria, finita la vita di merda del
  marinaio. Con quei soldi, vita da signore, a spassarsela alle Antille, con
  due belle schiave negre. Tutto il tempo a mangiare, bere e scopare ed in culo
  a tutti gli ufficiali di quelle navi di merda! - Cammina piano. Non ce la
  faccio, per la Vergine Maria. Ho il culo che mi fa male. Di nuovo! Ferdinando era
  solo un impaccio. Diego si chiese se non faceva meglio a mollarlo. O magari
  ammazzarlo e gettarlo in un fosso. Se ce la faceva, poteva dire che erano
  stati i pirati ad uccidere Ferdinando. Così non doveva dividere la
  ricompensa! Ci pensò un attimo, ma l’idea non gli andava a genio e poi, in
  caso di imprevisti, meglio essere in due. E di imprevisti facile che ce
  n’erano!  Avevano perso un sacco di
  tempo a capire in che direzione muoversi: Ferdinando era sicuro di aver
  compreso esattamente dov’era il paese e dov’era il forte, in base a quanto
  gli aveva detto Lince, ma avevano faticato non poco a trovare la strada. Ed
  ora quel coglione voleva anche rallentare. Stavano rischiando grosso, molto
  grosso. Se non arrivavano prima di Testapelata al
  forte, se sulla nave si erano accorti della loro scomparsa, se avevano inviato
  qualcuno ad avvisare… Erano spacciati, questo era
  certo. Nelle sue previsioni per
  il futuro, Barba-di-capra si dimostrò assai superiore a Felipe. Stavano
  ancora camminando lungo la traccia che portava al paese ed al forte, quando
  sentirono un rumore sulla loro destra. Virgen María spiccò un gran salto in
  direzione della foresta, dimostrando in un colpo solo due importanti verità:
  la paura mette le ali e il male al culo non impedisce di correre come un
  primatista dei 100 metri piani, quando è in gioco la pelle. Barba-di-capra
  cercò di imitarlo, ma gli furono addosso in quattro e, malgrado la sua
  disperata resistenza, ebbero facilmente ragione di lui.  Barba-di-capra non ci mise
  molto a fare il punto della situazione. Era prigioniero dei pirati, che
  avevano scoperto tutto. Virgen María era scomparso nella notte, perdendosi
  nella foresta e di certo quello non cercava di raggiungere il forte: insomma,
  lo aveva lasciato nella merda. Barba-di-capra si disse
  che la sua vita era arrivata al porto di destinazione e che quel maiale di Testapelata lo faceva impiccare, questo era certo.     Un’altra previsione
  azzeccata. Prova ad imparare, Felipe! *
  L’autore si scusa per la strage di congiuntivi (nonché di condizionali) in questo
  capitolo. Come molti lettori avranno notato, ci sono già state numerose
  vittime nei dialoghi, perché i pirati, si sa, di rado avevano studiato ad
  Oxford o alla Sorbona. Nella marina spagnola non si stava certo meglio,
  almeno ai livelli più bassi. Poiché in questa pagina il punto di vista è
  quello di Barba-di-Capra, marinaio analfabeta,
  molti congiuntivi ci rimangono secchi prima ancora di nascere (ma non
  parliamo di aborto, perché in Italia questo scatenerebbe subito violente
  polemiche). ATTACCO AL FORTE
  Catturato Barba-di-capra, Testapelata riprese la sua spedizione, di cui ora
  facevano parte anche Felipe ed i tre uomini che erano venuti ad avvisarlo. La
  scomparsa di Virgen María non lo preoccupò più di tanto: da solo e sapendo
  che i pirati lo cercavano, lo spagnolo si sarebbe tenuto alla larga dal
  forte.  Il gruppo raggiunse il
  forte quando ancora c’era la luna: Testapelata
  voleva avere la possibilità di studiare bene la situazione, prima di
  attaccare. A quell’ora quelli del forte dovevano essere addormentati, perché Dávila e la sua masnada di assassini non si aspettavano
  di certo che qualcuno si avvicinasse al fortino: la popolazione della regione
  aveva una paura dannata di loro e gli uomini più decisi erano stati catturati
  a sorpresa il mattino precedente. Quali fossero le intenzioni di Dávila, nessuno lo sapeva: con ogni probabilità, dopo
  aver eliminato il suo rivale per il controllo della vallata, voleva far fare
  la stessa fine agli abitanti in grado di opporsi, per poter saccheggiare il
  paese impunemente e ridurre la popolazione in una condizione di
  semi-schiavitù. Nulla di strano, da quelle parti. Testapelata era convinto di trovare gli uomini
  ancora in vita, perché Dávila era più sadico di De
  Sade (che doveva ancora nascere, come abbiamo già detto) e certamente
  intendeva divertirsi a lungo con quei giovani, prima di ucciderli in qualche
  modo atroce.  Il fortino non era certo
  una fortezza sullo stile del Pendón del Rey: si trattava soltanto di un’abitazione fortificata,
  con mura esterne alte e prive di finestre. Era difficilmente espugnabile da
  un gruppo di uomini privi di armi pesanti, a meno di non prenderla di
  sorpresa. Ma in quel momento, nessuno si aspettava un attacco. Dal loro posto di
  osservazione, i pirati potevano vedere la sentinella muoversi sugli spalti.
  Era un solo uomo, che ad un certo punto venne sostituito da un altro. Costui
  però camminò solo una mezz’ora, per poi scomparire: doveva essersi messo a
  dormire. Mal gliene incolse. Quando la luna calò, tutti
  uscirono dall’ombra e raggiunsero il muro più vicino del fortino. Michel e
  diversi altri avevano delle corde con uncini. Ne lanciarono due ed
  aspettarono un momento. Non successe nulla. La sentinella doveva dormire o
  comunque non si era accorta del lancio delle funi.  Michel e Pierre si
  arrampicarono lungo le corde. Felipe avrebbe voluto salire al posto di
  Pierre, ma il modo in cui si muoveva e dava ordini Michel non lasciava spazio
  a discussioni. Non era Michel, era Testapelata, e
  Felipe sapeva che in azione gli doveva un’obbedienza assoluta.  Dopo un buon momento,
  Michel si sporse dagli spalti, tolse la corda e la spostò alla sua destra:
  era il segnale convenuto e rapidamente gli uomini cominciarono a salire,
  mentre altre corde venivano lanciate. In breve tutti i pirati furono sugli
  spalti. La sentinella continuava a dormire, ma di un sonno da cui non si
  sarebbe più svegliato. Un cane incominciò ad
  abbaiare, ma i pirati erano preparati a questa eventualità ed uno di loro gli
  gettò della carne. Il cane ci si avventò sopra e si mise a divorarla, imitato
  da un altro mastino che si era risvegliato. Il fortino era composto da
  un gruppo di edifici, di altezza diversa, disposti lungo il muro esterno,
  intorno ad un cortile e ad un giardino. Quelli intorno al giardino
  costituivano la parte padronale, gli altri erano gli alloggi della servitù e
  degli sgherri di Dávila, i magazzini, le scuderie e
  così via. Testapelata doveva avere le idee molto chiare sulla
  disposizione delle varie costruzioni, perché, senza dire una parola, assegnò
  ad ogni gruppo un campo d’azione. Gli uomini scesero, a parte due che
  rimasero di vedetta, e si disposero davanti alle porte degli edifici dove
  dormiva qualcuno. Poiché nessuno aspettava visite, molte porte erano aperte,
  per far circolare l’aria. Il segnale dell’attacco fu
  il violento colpo dato contro la porta della casa padronale, che era chiusa e
  venne sfondata. L’azione fu di una rapidità impressionante: prima che i
  diversi abitanti avessero fatto in tempo a svegliarsi completamente, erano
  tutti sotto il tiro di un’arma. Gli unici tentativi di reazione ci furono
  nella stanza dove alloggiavano gli sgherri, dove però due pallottole (e due
  cadaveri) furono sufficienti a calmare i bollenti spiriti. I PRIGIONIERI
  Felipe era con il gruppo
  che doveva scendere nei sotterranei, per liberare i prigionieri. Sorpresero
  la guardia nel sonno, la immobilizzarono e rapidamente raggiunsero il grande
  stanzone che serviva da cella.  La prima cosa che colpì
  Felipe fu la zaffata che li investì non appena la porta venne aperta: carne
  in putrefazione, merda e piscio.  - Siamo gli uomini di Testapelata. Alzatevi, senza parlare.  Dentro alla grande cella,
  sul lato sinistro c’erano circa quindici uomini. Si alzarono tutti al loro
  arrivo e, anche se nessuno disse nulla, sul loro viso era ben visibile il
  sollievo, per non dire la gioia. Sapevano benissimo che i pirati venivano a
  liberarli. Gli uomini non sembravano
  feriti, anche se alcuni di loro avevano lividi in faccia o in altre parti del
  corpo (perfettamente visibili, perché erano tutti nudi). Sul lato destro della
  cella c’erano quattro cadaveri. Tre dovevano essere lì da tempo, perché erano
  tanto decomposti che sarebbe stato impossibile dire la loro età o il loro
  sesso. Il quarto era invece recente e sicuramente era quello di una persona
  giovane. L’assenza di seno e le tracce di barba su un viso in parte
  scarnificato facevano pensare ad un maschio, anche se nel ventre c’era solo
  una serie di squarci rossi. L’odore nella cella era
  intollerabile ed i quindici prigionieri furono rapidamente fatti uscire e
  portati in cortile. Obbedendo all’ordine ricevuto, nessuno di loro aprì
  bocca. Nel fortino c’era un
  rapido movimento di uomini. Un gruppo dopo l’altro, tutti i prigionieri
  maschi, a parte i bambini, furono fatti scendere nei sotterranei, legati e
  chiusi nella cella con i cadaveri. Felipe contò una quarantina di persone,
  mentre loro non erano neppure trenta: senza la sorpresa la vittoria sarebbe stata
  ben difficile, perché molti degli uomini erano sgherri abituati a combattere
  e le armi di certo non mancavano. Le donne, una quindicina
  in tutto, ed i bambini furono rinchiusi nella stanza più grande della dimora
  padronale, con le finestre sprangate. Solo quattro furono inviate in cucina
  per preparare da mangiare, sotto la sorveglianza di alcuni pirati. Il fortino fu ancora
  percorso da cima a fondo, ma non c’era più nessuno, a parte i cadaveri della
  sentinella e di due sgherri, che vennero anche loro portati nella cella.  Gli uomini liberati dalla
  cella, sedici in tutto, vennero portati nel giardino della casa padronale,
  dove Testapelata parlò loro. - Qui nessuno può
  sentirci. Qual è la vostra situazione?  Per loro parlò un uomo che
  sembrava il più anziano: doveva avere circa quarant’anni ed era alto e magro. - Siamo stati catturati
  ieri. Ci hanno un po’ malmenato, ma per fortuna non avevano ancora
  incominciato a divertirsi con noi. Ci hanno fatto assistere al finale
  dell’esecuzione di Rodrigo, uno degli sgherri di Dávila. L’uomo chiuse un attimo
  gli occhi e tacque, come se non riuscisse più a trovare le parole. Poi
  riprese: - Non sono uomini, quelli.
  Sono bestie. Quello che gli hanno fatto… Quello che
  volevano farci… Grazie, capitano, grazie. E d’impulso si gettò ai
  piedi di Michel e gli baciò le mani. Il suo gesto fu imitato da
  tutti gli altri, che si inginocchiarono davanti a Testapelata,
  ripetendo i ringraziamenti. E Felipe ebbe la
  soddisfazione di vedere Testapelata in imbarazzo. - Ma che cazzo fate?
  Alzatevi, che non abbiamo tempo da perdere.  Quando tutti ebbero
  obbedito, Michel cominciò a farsi raccontare le responsabilità dei diversi
  uomini presenti nel fortino. E Felipe sentì cose che avrebbe preferito non
  sentire. Alcune cose non le capì, ma non chiese spiegazioni. Meglio non
  sapere. Il Gallego e la sua ciurma erano conosciuti come spietati figli di
  puttana in tutte le bettole dei Caraibi e fino in Inghilterra, ma Alando Dávila, conte di Oheda, non era
  da meno. - Va bene. Provvederemo
  all’esecuzione di questi assassini. Voi continuerete ad essere prigionieri:
  chi assiste non deve sospettare nulla. Quando ce ne saremo andati, potrebbero
  arrivare dei soldati e fare un’inchiesta e nessuno deve potervi denunciare
  per complicità. Per tutti siamo intervenuti per impadronirci del tesoro
  accumulato da Dávila. Ora andate in cucina, dove le
  serve provvederanno a rifocillarvi.   Quando i prigionieri se ne
  furono andati d i pirati furono inviati ad eseguire i diversi compiti, Michel
  si rivolse a Felipe: - La parte successiva non
  è piacevole. Preferisco che tu non la veda. Felipe si disse che Testapelata aveva sbagliato tono, perché non gli si era
  rivolto da capitano, ma da uomo a uomo. Per cui lui non intendeva rinunciare
  a stare con il suo capitano un minuto in più del necessario. - No, ci tengo a
  partecipare. In realtà non era vero,
  l’unica cosa che voleva era stare a fianco di Michel. - Va bene, Felipe, ma non
  sarà divertente. Felipe si disse che di
  fianco a Michel, nulla poteva turbarlo. LA CAMERA DELLE TORTURE
  
 Michel condusse Felipe,
  insieme ad alcuni dei suoi uomini, in una grande stanza sotterranea di fianco
  alla cella. Accese le diverse torce alle pareti, in modo da illuminarla
  completamente. Felipe vide una serie di
  oggetti di cui non capiva l’uso, ma che gli apparvero vagamente inquietanti. Testapelata diede alcuni ordini e nella cella
  vennero introdotti diciotto uomini: l’esercito privato di Dávila.
  Erano tutti saldamente legati con le mani dietro la schiena ed anch’essi
  nudi, come i prigionieri che erano stati rinchiusi nella cella. Testapelata indicò alcuni attrezzi attaccati alla parete. - Bene, Spadaccino,
  scommetto che non sai a che cosa servono. Felipe scosse la testa. - Sono arnesi molto utili,
  che i signori qui usavano spesso e volentieri. Ne scoprirai presto l’uso. Con un cenno, Testapelata indicò il primo uomo della fila dei
  prigionieri, che venne preso da due pirati e portato davanti a Testapelata. - Mettetelo sul tavolo, a
  pancia in giù, culo aperto. Il prigioniero venne
  sistemato come indicato, con le gambe allargate che appoggiavano a terra, la
  pancia sul tavolo. Testapelata prese due strani oggetti. Ad
  un’estremità avevano una specie di sfera, appuntita da una parte, che dall’altra
  si restringeva fino a terminare con un ampio manico decorato. - Queste sono le pere. Ora
  ti faccio vedere come si usano. Si avvicinò al
  prigioniero, che cominciò ad agitarsi, ma veniva tenuto ben stretto da
  quattro pirati. - Questo attrezzo veniva usato
  per le streghe e per i sodomiti, una categoria dannata che finisce bruciata
  nelle fiamme dell’inferno. Michel sorrise, ma non era
  un sorriso allegro. - Bretone, provvedi tu? Il Bretone prese una delle
  due pere. - Vedi, Spadaccino, la
  pera si infila nel culo del prigioniero, anche nella fica di una donna, ma
  qui non ce ne occupiamo. Non è un’operazione piacevole, ma neppure così
  dolorosa, se la pera è ben unta ed uno è abituato a prendersi in culo un bel
  cazzo grosso. La Chiesa sa essere generosa con le sue vittime. Solo la punta
  lacera la carne, ma se la pera è ben diretta nel buco del culo, produce solo
  graffi. Mentre Michel parlava, il
  Bretone aveva sputato sulla pera, bagnandone la superficie. Poi l’avvicinò al
  buco del culo dello sgherro, che si dimenava furiosamente. - Il signore qui è
  abituato ad usare questo giochetto con le sue vittime, per cui sa di che cosa
  si tratta. Non si aspettava che sarebbe toccato anche a lui. Il Bretone spinse e,
  malgrado la resistenza disperata del prigioniero, la pera venne infilzata in
  culo al malcapitato. Felipe non vedeva nulla di
  terribile in quello che stava succedendo. Certamente non era gradevole, ma ad
  uno che era stato inculato da Barbanera e dal Toro (più numerosi altri),
  quell’innocente pera non sembrava nulla di speciale. La punta poteva
  lacerare, ma non era la punta di una spada. - Però, vedi, Felipe, il
  meccanismo è più divertente di quello che sembra. Se tu giri il manico, qui,
  comincia ad aprirsi. Quando Michel incominciò a
  girare il manico al fondo della pera, Felipe vide la sfera che chiudeva la
  pera aprirsi, mettendo in mostra una grande vite al suo interno e soprattutto
  proiettando in fuori una serie di lame affilate: la superficie della sfera
  era in realtà composta da quattro coltelli che ora venivano aperti.  Il gemito e poi l’urlo
  dello sgherro gli dissero che, contemporaneamente a Michel, il Bretone aveva
  iniziato ad azionare il meccanismo della seconda pera, quella che era nel
  culo del condannato. Felipe guardò sconvolto
  l’uomo, che si dimenava, mentre un rivolo di sangue gli colava dal culo ed il
  Bretone concludeva la sua opera.  - Questi qui si
  divertivano in questo modo e lasciavano i condannati agonizzare per ore ed
  ore, a volte per giorni, godendosi gli spasimi. Noi siamo più buoni. Ad un cenno di Testapelata, il Bretone prese un’ascia alla parete e si
  mise di lato all’uomo. Per un momento non
  successe nulla: l’uomo continuava a gemere ed a contorcersi. Poi Testapelata fece un nuovo cenno ed il Bretone calò
  l’ascia sul collo del prigioniero, tranciandogli di netto la testa. Felipe avvertì, violento,
  il desiderio di andarsene. E Michel lo capì immediatamente. - Allora, Spadaccino, vuoi
  proseguire? Felipe scosse la testa.
  Michel lo accompagnò alla porta e gli sussurrò: - Mi spiace, Felipe, non
  mi diverto neanch’io, ma è necessario punirli. A
  tutti farò solo assaggiare ciò che loro hanno fatto ad altri, poi l’ascia del
  Bretone metterà fine alle loro sofferenze. Felipe si sedette in
  cortile. Ogni tanto sentiva un grido straziante, ma le urla non duravano mai
  molto. Passò parecchio tempo da
  quando le urla cessarono a quando Michel riapparve. Come Felipe seppe dopo, Testapelata aveva mostrato i cadaveri degli sgherri ai
  servitori di Dávila, minacciandoli di far loro
  subire la stessa fine. Un avvertimento per il futuro. GIUSTIZIA SOMMARIA A TERRA
  Rimaneva ancora Dávila. La sua esecuzione si svolse a mezzogiorno. Tutta
  la gente della vallata era stata invitata ad assistere, accanto ai servitori
  di Dávila.  Dávila era un uomo sui cinquant’anni, alto e
  muscoloso, con la pancia sporgente di chi è abituato a bere e mangiare molto.
  Aveva capelli grigi, ma la barba, che portava corta, era ancora nera, con
  appena qualche filo bianco. I pirati lo avevano già spogliato ed ora stava
  sugli spalti, nudo e furente. Continuava a maledire Testapelata
  ed i pirati, augurando loro ogni possibile morte, tortura, dolore: le sette
  piaghe d’Egitto non sarebbero state sufficienti a soddisfare la sua sete di
  vendetta. Felipe era un po’
  defilato, dietro ad altri pirati: Michel non voleva che fosse visto, affinché
  nessuno potesse identificarlo come pirata quando lui fosse sbarcato a Cuba. Legarono due corde alle
  caviglie di Dávila e, senza tanti complementi, lo
  misero a sedere sugli spalti, con il culo sul parapetto. Poi lo spinsero nel
  vuoto, senza però mollare le corde che gli tenevano le caviglie: Dávila, che aveva le mani legate e non poteva
  aggrapparsi, si trovò sospeso a testa in giù contro la parete, ma le gambe erano
  ancora sugli spalti. Prima di calarlo più in basso, gli infilarono
  l’estremità di un tubo metallico in culo. Poi lo fecero scendere un po’,
  finché solo le caviglie rimasero all’altezza degli spalti. Ora la gente davanti al
  fortino poteva vedere l’uomo più temuto ed odiato della regione appeso nudo,
  a gambe ben divaricate, un tubo infilzato nel culo. Tutti sapevano che cosa
  stava per succedere, a parte Felipe e due o tre pirati, perché una pratica
  ricorrente di Dávila era quella delle vesciche
  bollenti di aceto: aveva letto in un libro che un pirata dell’antichità usava
  infilzare in culo ai prigionieri aceto bollente, servendosi di vesciche, ed
  aveva voluto provare. Le convulsioni dei prigionieri gli avevano procurato
  una bella soddisfazione, per cui quello era diventato uno dei suoi spassi
  prediletti. Testapelata non si servì delle vesciche,
  inutilizzabili, data la posizione del prigioniero, ma di un tubo e di un
  imbuto. L’aceto venne riscaldato sugli spalti e poi versato nel tubo.  La prima reazione di Dávila non fu particolarmente violenta, perché l’aceto
  era caldo, ma non bollente. Man mano però che si manifestava l’azione
  corrosiva del liquido, Dávila cominciò a
  contorcersi, nel vano tentativo di liberarsi del tubo e dell’aceto. Dalla
  folla si levarono urla di incoraggiamento. Una seconda dose di aceto,
  a temperatura decisamente più alta, ustionò le viscere di Dávila,
  che si mise ad urlare, alternando maledizioni e richieste di pietà.        La terza dose, di aceto
  bollente, provocò nuove urla, ma di breve durata: il condannato perse i
  sensi. La marmitta con l’aceto
  venne allora avvicinata al parapetto e sollevata, poi l’aceto bollente venne
  versato sulla vittima, risvegliandola, anche se ben presto, mentre il corpo
  si copriva di ustioni, Dávila perse definitivamente
  i sensi. IL TESORO DI
  DÁVILA
  Prima di partire, Testapelata provvide alla distribuzione dei beni di Dávila: tutti ebbero qualche cosa, compresi i servi, in
  modo che nessuno potesse un domani accusare gli altri di aver partecipato al
  saccheggio, dichiarandosi personalmente innocente. E tutti ricevettero dalle
  mani di Testapelata, che così si assumeva l’intera
  responsabilità.  Per sé il capo dei pirati
  prese il tesoro di Dávila, che era alquanto
  consistente. Poi il fortino, ormai svuotato di ogni cosa di valore, fu dato
  alle fiamme e quando le mura crollarono, il tiranno ed i suoi sgherri
  trovarono sepoltura. Sulla strada del ritorno,
  ormai a sera inoltrata, Michel, Felipe e tre uomini fecero una deviazione,
  dopo che Michel ebbe messo in un sacco una parte del tesoro. In breve il gruppetto
  raggiunse una casa, piuttosto grande, sul fianco della valle. Una giovane
  donna introdusse i pirati in una sala, in cui una famiglia numerosa era
  riunita a tavola. Appena li videro, tutti si alzarono ed un vecchio,
  evidentemente il patriarca, si avvicinò a Testapelata.
   - Grazie, che Dio vi renda
  merito. Per Felipe fu facile
  capire il motivo della gratitudine del vecchio: tra gli uomini in piedi
  intorno al tavolo riconobbe tre dei prigionieri del forte. Testapelata alzò le spalle e disse: - Don Gerardo, ho bisogno
  di parlarle da solo. Don Gerardo non ebbe
  bisogno di dire nulla: alle parole di Testapelata
  tutti si erano diretti alla porta e stavano già lasciando la stanza. I pirati
  fecero la stessa cosa, ma Felipe fece finta di niente, perché era curioso di
  vedere che cosa sarebbe successo. Michel non gli disse nulla, ma si rivolse a
  don Gerardo: - Don Gerardo, qui c’è una
  parte del bottino che Dávila aveva fatto razziando
  e prendendosi il denaro degli altri. Dandolo a lei, so che saprà distribuirlo
  nel modo giusto, quando necessario. Testapelata aprì il pesante sacco e a Felipe apparve
  una quantità d’oro come aveva visto un’unica volta in vita sua, quando i
  pirati della Black Gull
  si erano divisi il tesoro della Texel. - Don Miguel, è un vero
  tesoro, io... - Lo prenda, don Gerardo.
  Lei ne farà l’uso migliore, a vantaggio di tutta la comunità. Nessuno sa che
  ce l’ha lei. Io mi sono tenuto la mia parte di denaro e tutti i gioielli.  Don Gerardo scosse la
  testa: - Michele è il nome di un
  principe degli angeli. E davvero suo padre non poteva scegliere un nome
  migliore. Michel scosse la testa: - Oggi avrò ucciso venti
  uomini. Come angelo… Don Gerardo lo interruppe: - Michele è un angelo
  guerriero, colui che combatté contro gli angeli ribelli. Mikha-el
  è il suo grido di guerra: Chi come Dio? Davvero mai nome fu più appropriato. E per la seconda volta
  nella giornata Felipe ebbe la soddisfazione di vedere Testapelata
  in imbarazzo. Don Gerardo riprese: - Don Miguel, io non so se
  andrò in paradiso. Sono vecchio ed ho spesso peccato. Ma se andrò in
  paradiso, l’aspetterò. - Spero che aspetti a
  lungo! E con questa battuta,
  Michel si congedò dal vecchio. Appena furono fuori, si
  rivolse a Felipe, fingendosi irritato: - Avevo detto che volevo
  parlargli da solo! Non mi dire che non hai sentito! - Sì, ho sentito tutto, e
  devo dire che sono d’accordo con don Gerardo. Come principe degli angeli… Felipe non finì la frase,
  perché dovette spiccare un salto per schivare il ceffone che Michel gli
  mollò.  - Se racconti una parola,
  è la tua fine! Felipe rise, senza dire
  nulla. Più tardi, tornando alle
  scialuppe, Felipe espresse un dubbio che gli era venuto sentendo parlare del
  tesoro. - Come mai non avete
  ancora diviso il tesoro della Texel ed il
  bottino delle altre navi? La risposta di Michel lo
  spiazzò completamente. - Noi non dividiamo il
  bottino. Tengo tutto io. In parte sulla nave, in parte in diversi
  nascondigli. Uno è proprio vicino al posto in cui mi hai catturato, dopo che
  ero appena andato a nascondere monete e gioielli. Questa era troppo grossa:
  la spartizione del bottino veniva effettuata su tutte le navi, il bottino era
  l’unico motivo per cui i pirati facevano… i pirati.
  Che senso aveva combattere e rischiare la pelle, se il bottino se lo teneva
  il capo? Michel intuì i dubbi di
  Felipe e spiegò: - Quando scendiamo a
  terra, in qualche posto dove i soldi servono, distribuisco sempre
  l’occorrente ad ogni uomo, in modo che possa andare a puttane, bere, giocare
  o fare che cos’altro vuole. Quando qualcuno ha bisogno di denaro per la
  famiglia o per affari suoi, glielo do. Quando un uomo lascia definitivamente
  la nave, gli do quello che giudico la sua parte, togliendo quello che ha già
  ricevuto. Non l’ho scelto io. L’hanno deciso loro. Per quale motivo sulla Liberté vigeva questa regola strana, Felipe lo
  capì solo più tardi, parlando con Pedro. La regola era nata per caso, perché
  in uno dei primi viaggi i pirati avevano accumulato una tale fortuna, in un
  incontro propizio dopo l’altro, che per superstizione avevano deciso di non
  dividerla, convinti che Testapelata fosse baciato
  dalla sorte. Quando qualcuno aveva rinunciato alla pirateria, aveva ricevuto
  molto più denaro di quello che si aspettava e questo aveva trasformato una
  decisione impulsiva in un uso consolidato, che veniva comunicato ai nuovi
  arrivati: il sistema funzionava troppo bene per gli uomini e nessuno avrebbe
  più accettato che venisse messo in discussione. A Spadaccino non era stato
  detto, perché lui non era un pirata, ma solo un ospite, come Michel aveva
  chiarito. Per tutti, la lealtà e la generosità di Testapelata
  erano una garanzia di gran lunga maggiore di qualunque spartizione. E poi,
  nelle mani di Testapelata il denaro sembrava
  moltiplicarsi, peggio che in quelle di un finanziere di Wall
  Street, e su questo Felipe non poteva che essere d’accordo: nel breve periodo
  trascorso con Testapelata, questi si era
  impadronito del tesoro della Texel, di
  quanto di valore c’era sulla Black Gull, sulla Santiago e sulla Madre de Dios (nonché della Madre de Dios
  stessa) e infine del tesoro di Dávila (che
  comprendeva anche quello del suo rivale). Insomma, Paperon
  de’ Paperoni era niente, in confronto a Testapelata, con la differenza essenziale che l’uno era
  tanto disponibile a dare quanto l’altro era restio a farlo.        GIUSTIZIA SOMMARIA IN MARE
  Appena le due navi si
  furono allontanate dalla costa, Testapelata chiamò
  gli uomini a raccolta. La Madre de Dios si
  affiancò alla Liberté e la maggioranza degli
  uomini passò sulla nave del capitano: nessuno voleva perdersi lo spettacolo
  che li attendeva. Davanti a Testapelata c’erano il Marsigliese e Barba-di-capra. I
  due uomini erano nudi, ma il Marsigliese aveva le mani libere, mentre
  Barba-di-capra aveva le mani saldamente legate dietro la schiena. Felipe vide
  che lo spagnolo non dimostrava paura, anche se sapeva benissimo che cosa lo
  aspettava. In terra c’era il cadavere di Gros-Jean, avvolto in un telo.  Per prima cosa Testapelata si rivolse al Marsigliese: - Hai abbandonato il posto
  che ti avevo assegnato, provocando la morte di un tuo compagno e mettendo a
  rischio l’intera spedizione e le nostre vite. Che cos’hai da dire a tua
  discolpa? Il Marsigliese fissò Testapelata negli occhi. Da quando erano ritornati sulla
  nave, appariva chiaramente mortificato, ma anche lui non dimostrava paura. - Sono colpevole. Fu
  Gros-Jean a chiederlo, ma io non avrei dovuto accettare.  Testapelata annuì. - Esatto, accettando hai
  disubbidito all’ordine, in un momento cruciale. Il Marsigliese chinò il
  capo. Mormorò: - Fai quello che ritieni
  giusto. Qualunque sia la pena, l’ho meritata.   Felipe si chiese se Testapelata avrebbe condannato a morte il Marsigliese.
  Sapeva che non l’avrebbe fatto volentieri, ma Testapelata
  doveva farsi rispettare, anche da quegli uomini che lo adoravano. E Testapelata si era dimostrato implacabile, al fortino.        Felipe guardò gli altri
  uomini dell’equipaggio. Erano tutti tesi, anche loro temevano il peggio.
  Felipe sentì una stretta al cuore. Mandando a morte il Marsigliese, Michel
  avrebbe sofferto come e più di tutti i suoi uomini. Ma sulle navi da guerra,
  quella era la disciplina. Sì, lo avrebbe certamente condannato a morte, come
  esempio per tutti. - Mettiti contro l’albero. Felipe non capì subito, ma
  l’evidente sollievo del Marsigliese ed il sorriso che apparve sul viso di
  tutti gli fecero comprendere che, come al solito, aveva previsto ciò che non
  sarebbe successo. - Bretone, viene qui. Al comando di Testapelata, il pirata si fece avanti. - Venti, culo e schiena. Mentre il Bretone si
  toglieva la camicia, mettendo in mostra un torso alquanto muscoloso, ma quasi
  completamente glabro, si sentirono alcune risate e diversi incominciarono a
  sbeffeggiare il Marsigliese: - Mi sa che per un po’ non
  ti siedi, Marsigliese! - Una bella camicia nuova,
  a scacchi, per il Marsigliese! - Peccato che non puoi
  fare cambio con lo Sfregiato, così eravate contenti tutti e due!          L’idea che il loro
  compagno non venisse impiccato era un tale sollievo per tutti loro, e per il
  Marsigliese stesso, che erano tutti allegri e disposti a scherzare anche
  sulle frustate. Il Bretone ci diede dentro
  con energia e dopo un po’ i segni rossi si trasformarono in lacerazioni da
  cui colava il sangue, in particolare sul culo, dove il Bretone batteva di
  più. Alla quindicesima frustata il Marsigliese, che non era stato legato,
  vacillò e cadde al suolo, accovacciato. Testapelata
  fece un cenno ed il Bretone si arrestò immediatamente. Per la prima volta
  Felipe rifletté su come a Testapelata spesso
  bastasse appena un cenno per farsi capire ed ubbidire. Dopo un momento, il
  Marsigliese riuscì ad alzarsi e si rimise contro il palo. Sapeva benissimo
  che la sua dose non era finita, ma Testapelata fece
  un altro cenno: il Bretone mise via la frusta e si avvicinò al Marsigliese,
  dandogli il braccio.    Il Marsigliese guardò il
  capitano, anche se era ben conscio che il Bretone non avrebbe mai interrotto
  la punizione senza un ordine di Testapelata. Il
  capitano annuì e il Marsigliese gli disse: - Grazie. Poi, sostenendosi al
  Bretone, si allontanò dall’albero. Non si fece medicare subito, però, perché
  voleva assistere allo spettacolo seguente, in cui, per suo fortuna, faceva da
  spettatore e non da protagonista. Comunque assistette in piedi: come avevano
  predetto i compagni, di sedersi, neanche parlarne. Testapelata si rivolse a Barba-di-capra: - Sei una spia ed un
  assassino e come tale sarai impiccato. Hai qualche cosa da dire? - Spero solo che tu crepi
  presto impiccato, come ti meriti. - È possibile. Ad un cenno del capitano,
  un pirata, appollaiato sul pennone di trinchetto, sistemò il cappio e lo fece
  calare. Il Bretone lo mise intorno al collo del condannato, che affrontava da
  uomo la morte.         Il Bretone incominciò a
  cantare. Doveva essere una canzone che aveva inventato e che adattava di
  volta in volta, inserendo il nome dell’impiccato. - Oioooooooooò,
   Oioooooooooò I pirati si unirono al
  coro, ripetendo il grido. - Guarda un po’,  guarda un po’ Barba-di-capra,  Barba-di-capra Il nome del condannato fu
  ripetuto, in un coro che però si trasformò in una serie di sghignazzi e
  sberleffi. Il Bretone incominciò a
  tirare l’altra estremità della corda, sollevando così Barba-di-capra per il
  collo. - In cielo se ne va Tra poco sborrerà Oioooooooooò,  Oioooooooooò        Il Bretone legò la corda
  all’albero. Barba-di-capra incominciò subito a scalciare disperatamente. Il
  Bretone riprese la sua canzone: -Barba-di-capra,  Barba-di-capra Il cielo è scuro Il cazzo è duro Felipe si disse che
  certamente Luis Góngora y Argote
  o Dante Alighieri erano un’altra cosa, ma in fondo su una nave pirata non si
  poteva pretendere alta poesia. Comunque le rime erano tanto facili quanto
  inesatte: il cielo era un po’ nuvoloso, ma non scuro, ed il cazzo di
  Barba-di-capra, di dimensioni più che ragguardevoli, non era ancora duro. -Barba-di-capra, Barba-di-capra, Il cazzo è grosso Se la fa addosso. Anche questo era
  prematuro, ma adesso effettivamente il cazzo di Barba-di-capra si stava
  drizzando: ora era proteso in avanti, perpendicolare al corpo, quasi offerto
  a chi lo voleva assaggiare. Il movimento delle gambe era ancora forte, ma
  meno frenetico. Invece il corpo sgroppava in un modo strano, arcuando la
  schiena e venendo in avanti, come se qualcuno gli stesse dando grandi calci
  da dietro.  Anche questo movimento
  rallentò, fino a cessare del tutto. Le gambe si muovevano ancora, in modo
  irregolare, mentre il cazzo, ormai perfettamente sull’attenti, si preparava
  all’ultima grande scarica della vita di Barba-di-capra (o alla prima ed
  unica, si suppone, della sua morte).  Ora che vedeva l’arma
  pienamente in tiro, Felipe si disse che era davvero notevole, ed in effetti
  molti dei suoi compagni esprimevano apprezzamenti, piuttosto ironici, per la
  verità, perché quell’arnese formidabile non sarebbe più servito a molto: - Cazzo-grosso,
  me lo metti in culo? - Era meglio se pensavi a
  fottere!  Barba-di-capra si tese ancora,
  in uno spasmo finale, ed il seme sgorgò, violento, verso l’alto. Non doveva
  essere venuto da tempo, perché il getto schizzò fin quasi al cappio,
  ricadendo poi sul torace, il ventre ed a terra.  Il corpo ora era quasi
  immobile. Piccole contrazioni delle dita rivelavano lo spegnersi dell’ultima
  scintilla di vita.  - Barba-di-capra Barba-di-capra No, non fotte più In mare a testa in giù.        Su quest’ultima quartina,
  amara considerazione sulla vacuità del piacere e della vita, con echi
  vagamente leopardiani, il Bretone concluse la sua canzone e Barba-di-capra la
  sua vita. Lo lasciarono appeso fino
  al mattino successivo. NOTTE DI LUNA
  PIENA
  Felipe si svegliò nel
  cuore della notte. Si stiracchiò un po’ nel letto, ancora mezzo addormentato,
  e la sua mano cercò il corpo di Michel, ma non trovò nulla. Si riscosse e si
  mise a sedere. La stanza era immersa nell’oscurità, ma dalla finestra e dalla
  porta, socchiusa, filtrava la luce lunare. Nella cabina non c’era nessuno.  Felipe aspettò un buon
  momento, pensando che Michel fosse uscito per pisciare. Tutto era silenzioso,
  doveva essere ormai quasi mattino.  Michel non tornava.
  Incuriosito, Felipe cercò i pantaloni a tentoni, ma non riusciva a trovarli.
  Si disse che era lo stesso, che tanto nessuno avrebbe fatto caso a lui, anche
  se qualcuno fosse stato sveglio. Non sulla Liberté,
  di certo. Uscì sul ponte. La luna era alta,
  perfettamente tonda, ed il ponte della nave era immerso in una luce
  biancastra. La sagoma di Barba-di-capra si stagliava contro il cielo,
  illuminata quasi a giorno. Felipe poteva vedere la testa china verso il
  basso, le gambe leggermente divaricate, il grande sesso proteso. Istintivamente, senza
  nemmeno pensare che si era alzato per cercare Michel, Felipe avanzò verso
  quel corpo che penzolava dal braccio del pennone. Quando fu più vicino, vide
  che in piedi, a pochi passi dal cadavere, c’era Michel, nudo, perfettamente
  immobile. Era rivolto verso Barba-di-capra e la luce argentata gli illuminava
  la schiena ed il culo. Quel corpo lo attraeva,
  con un’intensità che per un momento lo paralizzò. Felipe rimase immobile a
  fissarlo.  La luna dava a quel corpo
  un’apparenza irreale e solo con uno sforzo Felipe poteva ritrovare i tratti
  che ben conosceva nelle linee forti di quei fianchi, nell’ombra che avvolgeva
  il solco, nelle spalle larghe, nella nuca possente.  Si avvicinò, in silenzio.  Capì che Michel aveva
  avvertito la sua presenza, ma la voce lo fece sobbalzare. - Vieni pure, Felipe. Sentì l’odore di morte,
  più forte ormai di qualsiasi altro aroma. Provò un senso di ribrezzo, ma
  anche una strana attrazione, la stessa che lo aveva spinto verso quel
  cadavere quando lo aveva visto dalla porta della cabina. Quando fu alle spalle di
  Michel, il fetore divenne ancora più forte. Guardò il corpo, ora a pochi
  passi. C’era qualche cosa di sinistro in quel corpo, argentato dalla luna, ma
  percorso dall’ombra scura di una vela, che sembrava tagliare le gambe
  dell’impiccato, e da quella del grande membro, proiettata sul ventre. Felipe rimase un buon
  momento a fissarlo, poi abbassò il viso e fissò la schiena di Michel. Ed il
  desiderio lo accese. Sussurrò, con una voce bassa, roca: - Che cosa fai? - Lo guardo. Felipe non disse nulla.
  Aspettò che Michel riprendesse: - È la fine dei pirati,
  questa, anche se Barba-di-capra era una spia, non un pirata. Morte da pirati.
  La mia. In un arrembaggio sarebbe meglio: un colpo di spada nel ventre, una
  pallottola nel cuore. Ma meglio così, che marcire nelle segrete. Meglio nudo
  al vento del mare, il cazzo duro per l'ultima volta. La nostra morte. La mia.
  Non la tua, tu no, tu appartieni ad un altro mondo. Finirò anch’io così.  Nella mente Felipe vide,
  distintamente, Michel impiccato al braccio del pennone, già immobile nella stretta
  della morte, le mani legate dietro la schiena, la faccia congestionata, il
  cazzo teso verso l’alto.    Sentì una fitta al cuore.
  Non poteva sopportare l’idea che Michel morisse. Sentì un bisogno impellente
  di stringere Michel, di proteggerlo dalla morte, di allontanare quella
  visione macabra. Fece un passo in avanti e lo abbracciò, come si abbraccia un
  uomo che si ama: gli poggiò la testa sull’incavo della spalla, si strinse al
  suo corpo, gli cinse il torace con un braccio, mentre l’altro scendeva verso
  il sesso. Sentì la grande asta di
  Michel tesa verso l’alto. Rimase stupito. Anche Michel aveva un’immagine di
  morte negli occhi, lo aveva detto, Felipe glielo aveva sentito nella voce.
  Eppure il pensiero della morte non aveva spento il desiderio in lui.   Felipe mormorò, cercando
  di essere ironico: - Il pensiero di morire ti
  fa questo effetto? Si stupì nel sentire che
  nella propria voce non c’era traccia di ironia. La voce di Michel sembrava
  venire dal profondo. - Sì. Spaventato, senza sapere
  da che cosa, Felipe lo strinse forte. Michel alzò un braccio e gli accarezzò
  la guancia. Poi disse: - E tu, perché ce l’hai
  duro? Felipe cercò di dare alla
  sua voce un tono allegro, ma venne fuori roca di desiderio ed ancora carica
  di sgomento. - Perché ho visto un bel
  culo.  La voce di Michel ora era
  ancora più cupa.  - Questa sera c’è da
  pagare. Felipe non disse nulla.
  Sapeva che avrebbe fatto quello che Michel voleva, come sempre. Sapeva che lo
  desiderava anche lui. - Prendi le corde, quelle. Con un cenno del capo,
  Michel indicò alcune corde poggiate in un angolo. Robuste funi di canapa,
  dello stesso tipo di quelle usate per impiccare Barba-di-capra.  Felipe si staccò a fatica
  da Michel e si chinò per prendere le corde. Provava un vago senso di paura,
  ma si sentiva eccitato come di rado gli era capitato nella sua vita.  - Legami le mani dietro la
  schiena. Forte. Non ti preoccupare di farmi male. Forte. Pensa che vuoi
  impiccarmi e che non devo liberarmi. Stringi.            Felipe respirò a fondo e
  cominciò a passare la corda intorno alle mani. Già sulla nave di Barbanera
  aveva avuto modo di imparare ad usare la corda in diversi tipi di nodi e poi
  sulla Black Gull
  aveva perfezionato le sue conoscenze. Aveva provato su di sé quanto doloroso
  possa essere lo sfregamento di una corda che attanaglia la pelle ed aveva
  visto i polsi sanguinanti di alcuni compagni, legati dai marinai spagnoli
  prima dell’impiccagione. Strinse bene, ma per
  Michel non era abbastanza. - Stringi di più, Felipe.
  Di più. Devi farmi male. Così non va. Sciolse un po’ il nodo che
  stava facendo e legò più forte, sperando di non fare troppo male a Michel. Ma
  non bastava ancora. - Cristo, Felipe, sai
  stringere? Davvero, stringere la pelle, farla sanguinare. Eseguì, stringendo con
  quanta forza aveva in corpo. Pensò che qualche graffio ai polsi non sarebbe
  stato un gran male, se Michel lo voleva. Ma avvertiva, confusamente, che
  quell’infliggere dolore, che lo sgomentava, tendeva ancora di più la sua
  eccitazione.  - Ora prepara un cappio,
  Felipe. Un bel cappio, per impiccare un pirata. Lo sai fare, vero? Felipe annuì, incapace di
  parlare, senza rendersi conto che Michel, di schiena davanti a lui, non
  poteva vederlo. Si mise a preparare il cappio. Gli sembrava che non sarebbe
  mai riuscito, ma le sue mani si muovevano sicure ed in breve ebbe completato
  l’opera. Rimase a fissare quel capestro, incapace di muoversi o di parlare.
  Ma sempre più violentemente eccitato.  Michel capì che Felipe
  aveva finito. - Passami il cappio
  intorno al collo. Felipe si accorse che le
  sue mani tremavano. Alzò il cappio sulla testa di Michel e poi lo fece
  scivolare intorno al capo. Fissò affascinato la corda che scendeva rapida
  lungo la pelle del cranio, fino al collo. Senza che Michel gli dicesse niente,
  tirò leggermente la corda, stringendo il capestro, fino a che tutta la corda
  aderì al collo. Ora la linea della corda si stagliava lungo la nuca di
  Michel. - Tira, Felipe, tira. Felipe esitò. Ora aveva
  paura. Paura di fare male a Michel. Tirò, con lentezza, quasi con
  delicatezza, pronto ad allentare il cappio al primo segno di sofferenza. Vide
  la corda stringersi, fino a che quasi scomparve nel profilo del collo. - Di più, di più. C’era una certa fatica,
  ora, nella voce di Michel e Felipe ebbe paura, ma ubbidì. Con lentezza tirò
  ancora la corda. Michel respirava, anche se con sforzo. Felipe si disse che
  non avrebbe tirato di più, neanche se Michel glielo avesse chiesto. - Ora puoi incularmi,
  Felipe. Va’ pure tranquillo, più deciso è, meglio è. Felipe respirò a fondo.
  Non era più in grado di reggere. Si sputò su due dita, le avvicinò al culo di
  Michel, cercò il buco e, piuttosto ruvidamente, lo forzò ad accoglierle. Poi
  si chinò leggermente, avvicinò la punta della sua picca all’apertura, la
  portò sulla soglia e spinse con decisione. Sentì il sussulto del corpo di
  Michel. Sapeva di avergli fatto male, ma era quello che Michel voleva. Spinse, risolutamente,
  fino a che la sua picca non affondò del tutto nel culo di Michel. - Tira, Felipe, tira. Felipe si era scordato del
  cappio, che era ancora stretto, ma, non più tirato, aveva smesso di
  ostacolare il respiro di Michel. Tirò, fino a che sentì che nuovamente Michel
  respirava con difficoltà. - Ancora, Felipe.          Felipe tese leggermente la
  corda. - Avanti, Felipe. Merda!
  Tira questa corda e spingi con il cazzo! Merda, muoviti! Spingi e tira. Felipe aveva paura, ora,
  paura di stringere troppo, di fare davvero male a Michel. Aveva paura, ma era
  eccitato. Tirò indietro il culo, fino a che la sua spada quasi uscì dal corpo
  di Michel, poi spinse con forza e nello stesso tempo tirò la corda. Ma lo
  fece piano, ancora bloccato dalla paura.  - Merda, Felipe! Se è
  tutto quello che sai fare, va’ a chiamare il Gabbiere.         Ci fu un attimo di
  silenzio, poi la voce di Michel riprese, più bassa e suadente. - Ci vuole di più per
  ammazzarmi, Felipe. Non temere, stringi come se dovessi davvero impiccarmi.
  Stringi e fottimi. Felipe appoggiò le mani
  sulle spalle di Michel, poi afferrò la corda e tirò con forza, mentre muoveva
  violentemente avanti e indietro la sua arma. Oscuramente capì che ciò che lo
  aveva bloccato era la paura di perdere il controllo, perché quel gioco
  accendeva in lui desideri inconfessabili. Ora però era troppo tardi: aveva
  davvero perso il controllo e stringeva e spingeva con vigore. Sentiva suoni
  strozzati provenire dalla gola di Michel, ma continuava a stringere ed a
  spingere. Poi, incontenibile, il
  fiotto proruppe, in un’esplosione che lo scagliò lontano. Lasciò la corda,
  appoggiandosi al corpo di Michel. Pensò che se Michel era ancora in piedi,
  ancora in grado di reggere il suo peso, non doveva avergli fatto troppo male. Le scosse si calmarono,
  lentamente recuperò la lucidità. Sentiva il respiro affannoso di Michel, che
  evidentemente riusciva a far entrare pochissima aria. Preso da una paura
  improvvisa, portò le mani intorno al collo di Michel ed allentò la corda.
  Sentì Michel che ritornava a respirare a pieni polmoni, tra colpi di tosse e
  qualche gorgoglio. Felipe lo abbracciò, come
  aveva fatto prima. Sentì sul ventre di Michel il liquido appiccicaticcio. Il
  sesso era ancora turgido, ma non più teso. Anche Michel era venuto. Rimasero un buon momento
  così. Felipe sentì che lentamente il suo respiro ritornava normale e che
  anche Michel respirava come prima.  Poi Felipe si staccò dal
  corpo di Michel e passò davanti a lui. Non poteva vederne i lineamenti,
  perché era del tutto in ombra. Si chinò e prese in bocca il sesso di Michel.
  Sentì il gusto, leggermente amarognolo, dello sborro di Michel. Cominciò a
  succhiare, con lentezza. Stringeva il culo di Michel tra le mani, ma non
  c’era altro contatto tra i loro corpi: Michel era ancora legato. Felipe sentì nella sua
  bocca che il sesso di Michel acquistava consistenza sempre maggiore, che
  nuovamente si tendeva, che ora era una spada sguainata, puntata verso l’alto.
   Felipe continuò a
  succhiare. Michel non l’avvertì che stava per venire, ma Felipe non si stupì.
  Michel capiva che cosa stava provando, che cosa voleva, probabilmente meglio
  di quanto non lo capisse lui stesso. Accolse con gioia la piccola scarica e
  non lasciò la sua preda fino a quando non fu sicuro di averne estratto tutta
  la linfa. Poi slegò le braccia di
  Michel. Prima che potesse riporre la corda, Michel lo abbracciò e lo baciò
  sulla bocca. Rimasero a lungo così, in silenzio. Poi Michel si sciolse
  dall’abbraccio. Si fermò ancora a guardare il corpo di Barba-di-capra. - Sì, a volte penso che
  vorrei morire così, essere impiccato mentre tutta la ciurma mi guarda e ride,
  mi piglia per il culo perché scalcio e la faccia mi diventa rossa come un
  pomodoro e… Michel tacque. Felipe non
  disse nulla. Non aveva parole. Mise un braccio intorno alle spalle di Michel
  e rimasero a lungo così. UNA NAVE BIANCA
  
 Il giorno successivo
  Michel fece tagliare la corda che reggeva Barba-di-capra ed il corpo della
  spia venne gettato in mare. Ma anche nelle notti seguenti Michel si alzò
  spesso e andò a mettersi sul ponte, assorto in pensieri. In qualche modo Felipe
  avvertiva la mancanza di Michel al suo fianco, perché ogni volta si
  svegliava, si alzava e lo raggiungeva. Lo guardava un momento, poi lo
  abbracciava, senza parlare. E rimanevano così, fino a che Michel non decideva
  di ritornare nella cabina. Arrivò infine la sera del
  loro ultimo giorno insieme, quando Michel annunciò a Felipe che il giorno
  dopo sarebbe sbarcato. Quella notte, mentre
  stavano immobili sul ponte, Felipe scorse con la coda dell’occhio qualche
  cosa alla sua sinistra. Si voltò e vide, a forse un miglio di distanza, una
  grande nave che avanzava verso di loro. Le vele, tutte spiegate, erano
  bianchissime: sembrava che raccogliessero tutta la luce lunare, perché il
  loro candore era abbacinante e la nave, per quanto ancora lontana, era
  perfettamente visibile.  Felipe si stupì: come mai
  la vedetta non aveva annunciato il vascello? Non poteva non averlo visto
  dalla coffa, se lo vedeva lui, dal ponte. Quel veliero veniva proprio nella
  loro direzione e li avrebbe raggiunti in pochi minuti. - Michel, un veliero, là. Michel si voltò di scatto
  e fissò la nave, che avanzava speditamente e già appariva più grande. Non
  disse nulla. Felipe non capiva perché Michel non reagisse, non desse ordini. - Michel, non bisogna… Michel scosse la testa.  Rimasero a guardare il vascello,
  che avanzava rapido, ad una velocità che stupì Felipe: il vento doveva essere
  fortissimo, le vele erano tese al punto che sembrava potessero lacerarsi.
  Eppure sulla Liberté il vento era solo una
  brezza. Ormai la nave era
  vicinissima e puntava diritto contro il fianco della Liberté.
  Felipe poteva distinguere le ombre degli uomini sul ponte. E con stupore si
  accorse che non solo le vele, ma l’intero vascello era bianco: tutta la
  chiglia della nave era di un bianco non meno abbagliante delle vele. Ora il vascello stava per
  speronarli e al timone Felipe vide un uomo, molto alto, a torso nudo, i
  capelli lunghi sulle spalle, uno sguardo fiero, un sorriso sul volto. Felipe trattenne il fiato,
  preparandosi all’urto ormai inevitabile, paralizzato dalla paura, senza
  riuscire a spiegarsi l’impassibilità di Michel. Ma la nave non li speronò.
  Poco prima dell’urto, si sollevò, staccandosi dalla superficie del mare e
  librandosi nell’aria. Passò sopra di loro e mentre passava, Felipe la vide
  dissolversi lentamente, fino a che non rimase una nebbia confusa, che in
  breve si dileguò completamente. Felipe si disse che aveva
  avuto un’allucinazione. Stava impazzendo? - Michel, ma tu l’hai
  vista? Michel annuì, rimanendo in
  silenzio. - Ci stava speronando, ma
  è passata sopra di noi… poi si è dissolta. Michel,
  dimmi che non sono pazzo. Michel scosse la testa.  - Ho spesso pensato di
  esserlo io, Felipe. Sono sempre stato il solo a vederla. Avevo quattordici
  anni quando la vidi per la prima volta, la notte prima della morte di Amedeo.
  Quella nave si avvicinò alla nostra, affiancandola, senza che nessuno la
  vedesse e l’uomo al timone mi chiese di portargli dell’acqua per bere. Io lo
  feci. Poi ritornai sulla nostra fregata e quando mi voltai, per guardare
  ancora il vascello, era scomparso. La voce di Michel
  diventava sempre più cupa mentre continuava. - Ho visto quella nave
  altre due volte: la notte prima della partenza di Long John e la notte prima
  del tradimento di Pedro... Michel tacque e Felipe non
  si sentì di interrompere quel silenzio. Aspettò che Michel riprendesse: - Molti ne parlano, dicono
  che sia un olandese maledetto, condannato a girare in eterno per i mari per
  aver sfidato Dio.. Michel rimase un attimo in
  silenzio.  - Molti dicono di averla
  vista, ma quando è apparsa a me, nessun altro l’ha mai vista. È la prima
  volta che un altro la vede insieme a me. Non so che cosa significhi, ma mi ha
  sempre annunciato la separazione o la morte di ... Michel tacque e Felipe si
  sentì schiacciato dall’angoscia che avvertiva in lui. Poi Michel riprese: - Non l’avevo mai visto sorridere… L’hai visto, vero, l’uomo al timone?  Felipe cercò la voce per
  parlare: - Sì, un bell’uomo, forte.
  Sorrideva. Michel chinò il capo. Poi
  lo rialzò e guardò in alto, nella direzione in cui era scomparsa la nave.
  Rimase immobile in silenzio un buon momento, poi, sempre senza parlare, si
  diresse in cabina. Felipe lo seguì, senza
  trovare parole. Ma, quando furono in cabina, lo abbracciò forte ed anche quando
  si coricarono, continuò a tenerlo stretto. L’avrebbe dovuto lasciare il
  giorno dopo, ma almeno voleva sentirlo accanto sé. Si addormentò
  stringendolo. UN ADDIO
  
 Il giorno dopo, verso
  sera, avvistarono il profilo di un’isola. Felipe si disse che doveva essere
  Giamaica, perché quando lo aveva liberato, Michel gli aveva detto che lo
  avrebbe lasciato a Port-Royal. Per tutto il giorno,
  ogni volta che il pensiero del distacco imminente gli ritornava in testa,
  aveva sentito l’angoscia opprimerlo, ma l’aveva tenuta a bada. Ora, che
  finalmente vedeva la terra, come aveva desiderato, sentì che l’angoscia
  traboccava e lo soffocava. Si rese conto di avere le lacrime agli occhi e per
  un buon momento tacque, temendo di non riuscire a controllare la propria voce. Quando fu sicuro di poter
  parlare senza tradire l’emozione, Felipe chiese a Michel, in piedi di fianco
  a lui: - È Giamaica, vero? La voce di Michel gli
  sembrò quasi cupa: - No, è Cuba. Felipe si voltò
  stupefatto. - Cuba? Ma… - Mi hai detto che vuoi
  andare a Cuba, no? Poche navi vanno dalla Giamaica a Cuba ed il viaggio è
  pericoloso, con tutti i pirati che circolano in questi mari, come quel
  fottuto Testapelata. Ho pensato che era meglio se
  arrivavi direttamente a Cuba. Non siamo molto lontani dall’Havana. Questa
  notte sbarchiamo e domani mattina partirai con un uomo di fiducia. Domani
  sera sarai all’Havana. Felipe era senza parole.
  Sapeva benissimo che avvicinarsi a Cuba e soprattutto all’Havana era
  pericoloso per Testapelata ed il suo equipaggio: se
  li avessero presi avrebbero fatto la fine di quelli della Black
  Gull. E sapeva benissimo che quel rischio
  Michel lo correva per lui, per lui che non avrebbe mai più rivisto. Nuovamente l’angoscia lo
  assalì, mentre mormorava: - Grazie, Michel. Non riuscì a dire altro.
  Se avesse parlato, si sarebbe messo a piangere. - Vieni, Felipe. Andiamo
  in cabina. È ora di prepararci. Non c’è tempo da perdere: la nave deve
  rimanere in queste acque il meno possibile. Appena furono in cabina,
  Michel gli porse una borsa ed una spessa cintura di cuoio. - Prendi queste. Felipe ubbidì. La cintura
  era molto pesante, Felipe non riusciva a capire come potesse pesare così
  tanto. Inoltre non sembrava per nulla comoda. Perché Michel gli dava una
  cintura di quel tipo? Era forse il frutto di qualche impresa particolare?
  Aveva un valore affettivo per lui? Non lo sapeva, ma non aveva importanza:
  era un dono di Michel e perciò gli era caro. L’avrebbe conservata come un
  ricordo del pirata Testapelata. Nella borsa c’erano
  diverse monete. Felipe era in imbarazzo all’idea di ricevere del denaro che
  non avrebbe mai potuto rendere. E doppiamente in imbarazzo, perché a dargli
  quel denaro era Michel, nei cui confronti si sentiva già tanto in debito. E
  soprattutto, anche se non avrebbe saputo formularlo chiaramente, perché dopo
  quello che c’era stato tra lui e Michel, accettare del denaro gli sembrava
  avvilente.  - Ma … - Non puoi ripartire da
  zero. Hai bisogno di denaro. Nella borsa ce n’è abbastanza. Se te la dovessero
  rubare, apri la cintura. È piena di monete d’oro. Allora Felipe capì perché
  la cintura pesava così tanto: doveva contenere una quantità d’oro sufficiente
  a comprare mezza Havana (non il sigaro, la città).  Scosse il capo, a disagio.
  Cercò di spiegare, impantanandosi nelle parole: - Michel, io non posso
  accettare del denaro da te, non da te… - Perché è denaro di un
  pirata? Felipe rimase a bocca
  aperta, mortificato. Non era quello che pensava! Scosse la testa con forza. - No, Michel. È che mi hai
  già dato tanto… Io Michel si avvicinò e lo
  baciò sulla bocca. Poi si staccò e lo guardò negli occhi.  - Lascia che ti dia
  qualche cosa. Non posso fare altro per te. E di quel denaro non so che fare.
  Ne ho molto di più di quello che mi serve. Felipe annuì. - Sì, ma… Era inutile parlare. Non
  avrebbe convinto Michel. Lo avrebbe solo ferito. E non voleva farlo. Non
  Michel. - Fa’ attenzione, Felipe.
  I marinai spagnoli della Santiago e della Madre de Dios ti hanno visto e alcuni potrebbero riconoscerti,
  se ti incontrano. Sarebbe meglio che tu raggiungessi il Messico. Felipe soffriva. Sentiva
  crescere il dolore per quella separazione che si avvicinava. Si disse che
  voleva bene a Michel perché in quel mondo di farabutti e figli di puttana, il
  corsaro Testapelata era un uomo giusto e generoso.
  Ma non era solo quello. E lo sapeva benissimo, anche se non voleva chiamare
  le cose con il loro nome. Quel sentimento che si portava dentro, non voleva
  riconoscerlo. Era completamente buio
  quando Michel fece calare la barca. Vi salirono in quattro: Michel, Felipe, Petit-Jean ed il Marsigliese. C’era un silenzio di tomba
  sulla scialuppa. Felipe si sentiva sprofondare nell’angoscia, Michel era cupo
  ed anche i due uomini, cogliendo l’umore del capo, rimasero zitti per tutto
  il tempo. Sbarcarono sulla costa,
  tirarono la scialuppa in secco e si diressero senza esitare lungo un sentiero
  che Michel doveva conoscere bene, ma Felipe riusciva a malapena a distinguere
  alla luce della luna. Dopo una mezz’ora di buon
  passo arrivarono ad un paese. Michel non prese la strada, ma tagliò per i
  campi, fino a raggiungere una casetta un po’ più grande delle altre. Bussò
  due volte ad una finestra. Aspettò un attimo, poi bussò altre tre volte e si
  spostò verso la porta posteriore. La porta venne aperta
  quasi subito. Un uomo massiccio comparve sulla soglia. Felipe non riusciva a
  scorgerne il viso, perché quel lato della casa non era illuminato dalla luna. - Entrate, don Miguel. Michel e Felipe entrarono.
  Petit-Jean e il Marsigliese rimasero fuori, contro
  il muro della casa. Se qualcuno fosse passato, non li avrebbe visti. Ma se
  qualcuno fosse passato, loro l’avrebbero visto. La porta venne chiusa e
  Felipe sentì l’uomo armeggiare nel buio. Poco dopo la fiamma di una candela
  illuminò debolmente il locale. - Tutto bene, Pablo? Pablo era un uomo alto e
  ben piantato, con folti baffi, ma senza barba. Aveva un viso largo e
  sorridente. - Sì, don Miguel. In che
  cosa il vostro servo può esservi utile?         - Ho bisogno che questo
  giovane raggiunga l’Havana domani, senza che gli accada niente. Bada, non
  deve correre rischi.  - Non ne correrà nessuno. Michel diede una borsa a
  Pablo, che abbozzò un rifiuto, ma venne bloccato con un cenno. - Ora lasciami solo con
  lui, Pablo. Pablo annuì ed uscì. Felipe si sentiva
  malissimo. Il momento era arrivato. Stava per dire addio a Michel. Addio per
  sempre. Michel lo guardò e poi
  disse: - Non vuoi rimanere con
  me, Felipe? Felipe sentì che il cuore
  dava un tuffo. Tutto il suo corpo e tutto il suo cuore gli gridavano di sì,
  che quello che voleva dalla vita era l’uomo davanti a lui, che null’altro
  contava. Ma il cervello gli diceva che doveva continuare il nome della
  famiglia, generare altri piccoli Llera.  Felipe scosse la testa,
  senza parlare. Non se la sentiva di parlare. Michel abbassò il capo e
  respirò a fondo. Poi gli porse la spada. - Tieni, Felipe. Felipe non prese l’arma. - La tua spada? Ma mi hai
  detto che ci tieni moltissimo… - Sì, è per questo che
  voglio che la tenga tu. La spada era bellissima,
  ma non poteva accettare. Sapeva che Michel era attaccato a quella lama. - No, Michel, non è
  possibile. - Se ti importa qualche
  cosa di me, prendila. Se non te ne frega niente, allora come non detto. Felipe guardò negli occhi
  Michel, quegli occhi che nell’ombra poteva appena vedere. Non prendendo la
  spada l’avrebbe ferito.  - Grazie, Michel. Michel si avvicinò a lui,
  lo baciò ancora sulla bocca, un bacio lieve, e già era fuori dalla porta.  Felipe rimase nella
  stanza, alla luce della candela. Solo quando Pablo entrò si rese conto che
  stava piangendo.  Più tardi, steso nel letto
  che Pablo gli aveva preparato, Felipe ripensò ai quindici giorni trascorsi
  sulla Liberté. E pianse ancora. Sei mesi dopo, mentre
  aspettava di essere impiccato all’Havana, Felipe si disse che l’unico periodo
  davvero felice da quando aveva lasciato la Spagna, forse il periodo più
  felice di tutta la sua vita, erano stati quei quindici giorni sulla Liberté. Quindici giorni: gli sembrava
  impossibile, a ripensarci, che fosse stato così poco. Come aveva potuto
  raggiungere un tale grado di intimità con Michel in un periodo così breve? E
  non parlava dell’intimità che esisteva tra i loro corpi Quei quindici giorni
  erano stati il paradiso.  Ma quei quindici giorni erano
  volati.  |