7. PARTE IV – A
TERRA, FINALMENTE
UN NUOVO LAVORO PER FELIPE
Giunto all’Havana, Felipe
prese una stanza in una locanda ed il giorno dopo si mise alla ricerca di un lavoro.
Aveva una grossa somma con sé, ma non voleva spendere il denaro di Michel, se
non era necessario, e poi non aveva nessuna intenzione di fare la cicala:
l’esperienza lo aveva reso una formica. O forse lo era di natura, perché in
realtà dall’esperienza a Port-Royal avrebbe dovuto
capire che era più saggio scegliere con cura il posto di lavoro, piuttosto
che gettarsi sul primo che trovava, per non intaccare il proprio gruzzolo. Come a Londra e a Port-Royal, Felipe si mise a girare per taverne ed osterie,
visto che aveva già lavorato come cameriere. Nella zona del porto gli
indicarono la Taverna del Rey. Felipe vi si
recò e la taverna gli fece un’ottima impressione: era un posto pulito e
tenuto con cura. Nulla a che vedere con il Marinaio ubriaco. Una serva
lo guidò dalla padrona e Felipe fu alquanto stupito di trovarsi di fronte una
ragazza che non aveva più di vent’anni. Ines Bastos
era molto carina: aveva tratti delicati, due occhi color nocciola, labbra
color corallo, un naso diritto e lunghi capelli neri. La dolcezza dei
lineamenti poteva far pensare ad una donna fragile, ma Felipe si accorse
subito, nel breve dialogo che ebbe con lei, che la situazione era ben
diversa: Ines era una donna forte e decisa. - Cerchi lavoro come
cameriere? Hai esperienza? - Sì, ho lavorato a lungo
in diverse osterie e locande di Londra e poi anche nelle colonie inglesi, a
Norfolk. Quella di Norfolk non era
precisamente un’osteria, ma in fondo si trattava sempre di un locale aperto
al pubblico, in cui occorreva servire i clienti e badare che non combinassero
guai. In fondo era solo una mezza bugia. Quanto al Marinaio ubriaco,
Felipe preferiva non citarlo. - Come mai in Inghilterra
e nelle colonie inglesi? - Rimasi orfano durante la
guerra in Spagna e mi trasferii a Londra. Poi decisi di venire in America, ma
dovetti lavorare per pagarmi il viaggio. Aveva detto la pura
verità, ma lo sguardo di Ines gli faceva capire che la sua spiegazione non le
bastava. Felipe si disse che doveva imparare ad essere più convincente. - Quindi parli l’inglese. - Anche il francese. Felipe si morse il labbro.
Non c’erano certamente molti francesi o inglesi a Cuba. Perché dirlo? - Sai leggere, scrivere,
fare di conto. Non era una domanda.
Felipe si sentiva a disagio. Gli sembrava che Ines capisse un po’ troppe
cose. Annuì. - E perché cerchi un
lavoro da cameriere? Felipe si disse che forse
era meglio lasciar perdere. Quella ragazza era troppo sveglia per i suoi
gusti. Forse era meglio che cercasse da un’altra parte, magari rivedendo il
modo di presentarsi. - Non so fare altro, non
ho mai imparato un altro lavoro. Era falso, aveva lavorato
comunque come maestro di lingue, ma non era il caso di parlarne. - Certo, con un’educazione
come la tua… Felipe cominciò a sentirsi
gelare, anche se la temperatura a Cuba, in quel mese di maggio, non era
precisamente bassa. Non disse nulla. - Senti, per me va bene.
Chiariamo solo una cosa. Io voglio un servitore maschio, perché in un locale
di questo genere gira gente di tutti i tipi e la presenza di un uomo intimorisce
un po’. Tu certamente sai anche usare un’arma e mi sembri un tipo deciso, per
cui per me va bene. Però io cerco un servitore, non un padrone. Questa
taverna la dirigo io. Se non ti va bene prendere ordini da una donna, è
meglio che tu esca subito, chiaro? Felipe sorrise. La
franchezza di Ines gli piaceva. - Chiarissimo. Faccio il
cameriere e nient’altro. - Così va bene. Felipe non fece domande e,
dopo aver ricevuto le ultime informazioni sul salario e sulla sistemazione,
si mise al lavoro. Nei giorni seguenti,
parlando con la cuoca e l’altra cameriera, scoprì che il padre di Ines, che
gestiva la taverna, era morto l’anno precedente e da allora Ines mandava
avanti la Taverna del Rey con l’aiuto di tre
servitori: la cuoca e due camerieri, un uomo e una donna. Di recente però il
cameriere, che da diversi anni lavorava lì, se n’era andato. In qualche modo
aveva sperato di sposare la padrona e diventare proprietario, ma aveva scelto
la tattica sbagliata: prima si era proposto ed era stato rifiutato; allora
aveva minacciato Ines di andarsene da un giorno all’altro se lei non l’avesse
sposato, ma l’unico risultato ottenuto era stato quello di farsi licenziare
su due piedi. ANGELI CUSTODI
Il lavoro alla taverna era
faticoso, soprattutto quando arrivava una nuova nave e la ciurma scendeva a
terra, ma tutto filava abbastanza liscio. Il locale non aveva una pessima
fama, come quella del Marinaio ubriaco, e i frequentatori abituali
erano persone ammodo, tenendo conto dei tempi, naturalmente. Tra i clienti
occasionali, c’era gente di tutti i tipi, come sempre, ma rispetto a quelli
che Felipe aveva avuto modo di frequentare negli ultimi mesi, sembravano
chierichetti. Felipe era ormai abituato
a muoversi tra gentaglia di ogni risma e non si spaventava facilmente: già di
natura non era pauroso e dopo l’esperienza con Barbanera e con il Gallego non
si faceva certo intimorire da un marinaio. Il suo modo di fare, deciso e
sicuro, di solito era più che sufficiente a calmare i bollenti spiriti di
qualche avventore attaccabrighe. C’erano gli ubriachi,
ovviamente, e le risse. Quella era la parte pericolosa del lavoro. Ed una
sera, appena una settimana dopo il suo arrivo, Felipe corse un serio rischio.
Alcuni marinai, appena
sbarcati, avevano alzato alquanto il gomito. Si erano poi messi a giocare a
carte, coprendosi a vicenda di improperi di ogni tipo. Ad un certo punto, due
di loro erano venuti alle mani: uno aveva afferrato l’altro per il bavero ed
il secondo gli aveva risposto con un pugno nello stomaco. Ne seguì una zuffa in
piena regola, cioè senza nessuna regola. Prima che Felipe arrivasse per
separarli, uno afferrò uno sgabello e cercò di colpire l’altro, che con un
calcio gli rovesciò il tavolo addosso, facendolo cadere. Felipe bloccò il marinaio
ancora in piedi, che si stava avventando sul compagno a terra, quando
Dolores, la cameriera, lanciò un urlo. Felipe voltò la testa,
sempre cercando di tenere fermo il marinaio, e vide la lama di un coltello
che calava su di lui: era un altro dei marinai, che aveva deciso di dare il
suo contributo alla zuffa. O forse lo spettacolo gli piaceva e non amava le
interruzioni pubblicitarie (o di altro tipo). Prima che Felipe riuscisse
a reagire, un uomo afferrò con la sinistra il polso dell’ubriaco,
bloccandogli la mano che stringeva il coltello. Con la destra gli mollò un
pugno nello stomaco. Sulla violenza di quel colpo non c’era da ingannarsi:
l’ubriaco emise appena un urlo strozzato e crollò al suolo privo di sensi. L’uomo diede un’occhiata
al marinaio, che certamente non si sarebbe ripreso tanto presto, poi agli
altri due, che la scena sembrava avere reso un po’ più sobri. Poi disse: - Scusate, ora devo
andare. Ed uscì dalla taverna. Quando la calma fu
ritornata, Ines si avvicinò a Felipe. - Che cosa strana! - Che cosa, la rissa?
Avevano bevuto. - No, voglio dire
quell’uomo. Viene ogni giorno. Sta sempre tutta la sera e non beve mai molto.
- Sì, è un cliente
abituale. - Sì, ma beve poco, non
parla con nessuno, sembra… Sembra che voglia tenere d’occhio la taverna. A Felipe l’idea che
qualcuno sorvegliasse il locale sembrava strana, ma effettivamente il
comportamento dell’uomo era un po’ anomalo: chi veniva spesso e rimaneva
tutta la sera, di solito beveva molto e faceva amicizia con gli altri
bevitori. - Domani sera lo ringrazio
e magari faccio due chiacchiere con lui, così forse, ne sappiamo qualche cosa
di più. L’indomani non poterono
chiedergli nulla: l’uomo non si ripresentò. Ma qualche sera dopo, Ines
osservò: - Hai notato quel tipo
nell’angolo? Felipe scosse la testa. - Che cos’ha di strano? - Niente, ma non l’avevo
mai visto prima. È arrivato la sera dopo la zuffa, quando quel marinaio ha
cercato di accoltellarti, e da allora viene sempre. Anche lui beve poco e
rimane tutta la sera. Quello che non è più tornato aveva incominciato a
venire dopo il tuo arrivo… - Non so che dire -, mentì
Felipe. In realtà, Felipe aveva
un’idea precisa su quegli angeli custodi. Era sicuro di sapere chi li mandava
e l’idea che in qualche modo Michel vegliasse su di lui, gli faceva un
immenso piacere. Ma il pensiero di Michel apriva ogni volta una voragine di
puro dolore. Ed era un pensiero che ritornava sempre, ogni giorno. E ogni
notte. SOGNI
Mai come in quel periodo
Felipe aveva sognato tanto. I sogni che affollavano le sue notti erano molto
diversi gli uni dagli altri, ma in tutti ritornava lo stesso personaggio: un
bell’uomo senza barba e senza capelli, con una cicatrice sul viso; un uomo
forte, con un largo torace su cui spiccava una leggera peluria bionda. Un uomo
ben dotato, che sempre appariva nudo e provocante, la cui sola vista
accendeva il desiderio di Felipe. A volte Felipe sognava di
essere insieme a Michel e di avere parecchi figli: in sogno si diceva che non
doveva più preoccuparsi, che aveva fatto quel che doveva e che ormai poteva
vivere con Michel per sempre. Erano sogni dolcissimi, ma il risveglio era
doloroso. Molti sogni erano di un
altro genere. Ad esempio sognava di
salire verso la coffa con Michel e di guardare dal basso quel bellissimo
culo. Era notte, ma la luna piena, come se fosse stata bassa sull’orizzonte,
illuminava in pieno quel culo, lasciando solo una striscia d’ombra tra le
natiche. Felipe vedeva Michel
scomparire nella coffa, ma quando arrivava, non c’era traccia di lui. Mentre
si guardava intorno, sentiva improvvisamente che le braccia di Michel lo
cingevano e si abbandonava a quella stretta. In piedi sulla coffa,
Felipe lasciava che Michel lo abbracciasse e sentiva il suo sperone premere
contro di lui e poi, con un movimento agile, infilarglisi dentro. Felipe
guardava le vele illuminate dalla luce biancastra della luna e tese dal
vento, guardava il corpo senza vita di Barba-di-capra che penzolava dal
braccio del pennone. E dentro di sé lo spiedo scavava, incendiando la carne. Michel spingeva, tanto che
Felipe aveva paura di cadere dalla coffa, ma il desiderio era più forte.
Michel spingeva ed il piacere lo avviluppava, dal suo culo incendiato ai
coglioni, fino a che in un getto luccicante saliva al cielo. Felipe si risvegliava e la
sua mano scorreva sul ventre bagnato dal suo seme, sul membro ancora teso. Ed
un senso di smarrimento lo invadeva. Altre volte i sogni erano
più inquietanti e tra questi quello che ritornava con maggiore frequenza era
la visione di Michel col cappio intorno al collo che veniva issato, così come
aveva visto issare Barba-di-capra. Felipe lo guardava scalciare furiosamente,
mentre il cazzo gli diventava sempre più grande e più duro. E, per quanto
angoscioso fosse il sogno, Felipe sentiva il piacere invaderlo e non di rado
veniva prima che l’angoscia per la morte di Michel lo risvegliasse. Certi giorni, al
risveglio, Felipe si diceva che sarebbe vissuto molto più tranquillo, se non
avesse sognato sempre Michel. Ma non avrebbe voluto rinunciare a sognarlo per
nulla al mondo. PROGETTI DI FELIPE
Ora che finalmente era
sulla terra e non rischiava più di venire a contatto con i pirati, Felipe si
mise a pensare seriamente al proprio futuro. Lavorare alla taverna era
un’ottima occasione per conoscere un po’ l’ambiente, ma l’avrebbe lasciata
presto: non contava di rimanervi più di un mese o due. Poi avrebbe raggiunto
il Messico, come gli aveva consigliato Michel. Voleva vivere lontano dalle
isole e dal mare e non avere più nulla a che fare con i pirati. Ne aveva avuto
più che abbastanza con Barbanera ed il Gallego e poi il Sanguinario e… Il pensiero andò a Michel.
Lo rivide sulla Liberté, durante il loro
duello, con la spada sguainata; in cabina, con un’altra spada sguainata;
nella spiaggetta, dove si erano bagnati alla cascata, dopo che Michel l’aveva
lanciato in acqua; sulla coffa dell’albero di maestra. Risentì la sua voce,
grave, la sua risata allegra. Lo rivide la notte dell’addio ed un’angoscia
profonda lo invase. Sapeva di amarlo, come non
aveva mai amato. Probabilmente, come non avrebbe mai più amato. Ma doveva
dimenticarlo. Di sicuro ci sarebbe riuscito. Anche Michel si sarebbe
dimenticato di lui. Il pensiero gli procurò una nuova fitta. Doveva pensare ad altro,
pensare al proprio futuro. In Messico si sarebbe
cercato una moglie, non subito, avrebbe lasciato passare ancora qualche anno,
prima voleva trovare un lavoro decente, per assicurare un futuro ai suoi
figli. Quello del lavoro era un
problema. Avrebbe dovuto cercare di farsi assumere come segretario di qualche
nobile, ma non era facile. Trovare un impiego nell’amministrazione, al
servizio di qualche segreteria? Poteva essere un’idea, ma per uno come lui,
che non aveva nessuna conoscenza, né un nome da vantare (anzi: un nome da
nascondere), non era facile. Poteva arruolarsi, come
soldato. Se fosse riuscito a distinguersi, avrebbe ottenuto sul campo, con
maggior onore, quei gradi a cui la sua nobiltà gli avrebbe dato diritto. Ma
servire sotto il re di Spagna!? Il re che la sua famiglia non aveva voluto riconoscere
e che l’aveva condannata allo sterminio? Eppure era il suo re, ora. Di cambiare paese e di
servire il re d’Inghilterra o quello di Francia, non si parlava proprio: a
parte il fatto che avrebbe potuto trovarsi a combattere contro i suoi stessi
compatrioti, di fare il mercenario non aveva nessuna intenzione e poi i Llera dovevano rimanere spagnoli. D’altronde erano
passati oltre quattro anni e probabilmente nessuno più si ricordava
dell’esistenza di un Felipe Llera, che risultava
essere stato giustiziato per ordine del re. Nei domini spagnoli non aveva
nulla da temere, purché nessuno riconoscesse il pirata Spadaccino. Un lavoro migliore
l’avrebbe trovato, aveva affrontato difficoltà ben più gravi. E dopo il
lavoro, una moglie ed i figli. Ora il futuro non era così nero. Felipe aveva fatto una
bella serie di progetti, ma come al solito, complice il destino ed alcune
altre persone, non ne azzeccò una. PROGETTI SU FELIPE
Ines Bastos
osservava il suo cameriere. Felipe Llera lavorava
per lei da quasi un mese e Ines poteva dire di conoscerlo bene, ormai. Felipe
non era uno stupido, tutt’altro, ma, come per tutti gli uomini, era facile
scoprire di lui anche ciò che voleva nascondere, osservandolo e parlandogli
quando non stava in guardia. Felipe proveniva
certamente da una buona famiglia e aveva avuto un’educazione eccellente. Ma
aveva anche fatto il cameriere e si era abituato ad affrontare situazioni
difficili: la sicurezza con cui si muoveva non lasciava dubbi in proposito. Perché un uomo nato in una
famiglia benestante, forse nobile, lavorava come cameriere? La risposta
doveva trovarsi nella guerra che si era combattuta in Spagna per il trono,
tra il pretendente francese e quello austriaco. Felipe doveva essere stato
dalla parte dell’Austria e aveva dovuto fuggire, per salvarsi. Aveva lavorato in
Inghilterra e poi dovevano essere successe altre cose, nell’ultimo anno,
perché c’erano momenti in cui Felipe sembrava assente, perso in ricordi che gli
facevano male. E Felipe, per natura, non era un sognatore, non poteva
indugiare così spesso sul ricordo di una guerra finita cinque anni prima. Felipe sapeva stare al suo
posto, non cercava mai di fare da padrone. Era riservato, assolutamente
onesto, istruito, gentile, con ottime maniere, ma anche deciso e in grado di
gestire una situazione difficile. Felipe aveva molti aspetti
positivi e da alcuni giorni nella testa di Ines passavano certe idee… Non era innamorata di
Felipe, no, certamente. Per quanto lo stimasse molto, non lo amava. Ma amore
e matrimonio non dovevano andare insieme. La scelta di un marito era
una questione delicata. Ines non voleva un padrone, ma neppure un servitore.
Voleva un uomo che stesse al suo fianco, su cui contare. Un uomo che
meritasse la sua stima, la sua fiducia, il suo affetto, che potesse essere un
buon padre per i suoi figli. Stima, fiducia, affetto.
Non amore, no, certamente non amore. Chi ama è cieco e non sa scegliere. Per
l’amore… le era bastato don Pedro de Ulema. L’aveva sedotta e, se suo padre
non le avesse tolto i grilli dalla testa a forza di botte, sarebbe scappata
con lui. Per ritrovarsi dopo tre mesi in mezzo ad una strada, incinta, senza
che quel bastardo le desse una mano per aiutarla, come era successo a Dolores
Pineda. No, aveva bisogno di un
marito, scelto con cura, non di un innamorato. Con l’amore aveva chiuso. E Felipe era un uomo per
bene. Capace, coraggioso, onesto, rispettoso. Che cosa poteva volere di
più? Che cosa pensava Felipe?
Non l’avrebbe sposata per i soldi, no, certamente. Se avesse accettato,
l’avrebbe fatto perché gli andava bene. Certo, lei non era più vergine. E
c’era il rischio che Felipe la giudicasse una sgualdrina perché a sedici anni
si era data per amore. Eppure qualche cosa le diceva che Felipe aveva una
mentalità più aperta. Decise di sondare il
terreno. UNA PROPOSTA DI MATRIMONIO
E fu così che Felipe si
trovò spesso a parlare con la padrona, che si dimostrava molto gentile nei
suoi confronti. Nei momenti di morta Ines gli si rivolgeva per parlargli del
lavoro o della taverna o di qualche cliente abituale. E talvolta la
conversazione proseguiva su altri argomenti. Per quanto poco abituato a
parlare con le donne e spesso con la testa altrove (sulla Liberté,
per essere esatti, nella cabina del comandante, ma anche sulla coffa), Felipe
non era stupido e ad un certo punto colse le intenzioni di Ines. Ovviamente
le colse quando Ines decise di fargliele cogliere, ma gli rimase
l’impressione, tipicamente maschile, di aver compreso il gioco di Ines prima
che lei scoprisse le carte. La situazione evolveva in
modo diverso da come aveva previsto, il che, sia detto a suo onore, non lo
stupì: non essendo idiota, aveva incominciato ad intuire che i suoi progetti
di solito non si avveravano e che il modo in cui vedeva il proprio futuro
sembrava non corrispondere mai a quello che gli capitava. Felipe soppesò i pro ed i
contro. Ines non sembrava chiedergli amore: se così fosse stato, sarebbe
dovuto andarsene, perché non intendeva fingere. Ciò che interessava ad Ines,
si sentiva in grado di offrirglielo. Ines gli piaceva molto, come persona:
aveva un buon carattere, sapeva essere dolce, ma anche decisa, quando le
circostanze lo richiedevano. Fisicamente, Ines era
molto attraente e questo non guastava, visto che le inclinazioni di Felipe
erano di altro genere, come forse i lettori più acuti possono aver
sospettato. Felipe decise di stare al
gioco e nella loro conversazione comparvero mezze frasi, allusioni, domande e
risposte che stavano portando diritto diritto a una
proposta di matrimonio. Quando però Felipe stava per farla, Ines gli rivelò
di non essere più vergine. Gli raccontò che cosa era accaduto, senza
nascondere nulla, e gli chiese di riflettere, prima di prendere una
decisione: avrebbe rispettato la scelta di Felipe, qualunque essa fosse, ma
non era disponibile a sentirsi poi rinfacciare ciò che gli aveva rivelato. Del fatto che Ines non
fosse più vergine, Felipe non si preoccupò più di tanto. Suo padre non
l’avrebbe mai accettato, ma questo non aveva importanza: per mantenere fede
alla promessa fatta, aveva già sofferto abbastanza, non gli sembrava di dover
tenere conto anche dei pregiudizi della sua famiglia. Negli anni precedenti,
Felipe aveva avuto modo di vedere situazioni molto diverse e di ampliare i
propri orizzonti. La verginità della propria moglie non gli sembrava così
rilevante, rispetto alle caratteristiche positive di Ines. E poi, non è che
lui fosse proprio lo sposo modello: è vero che il senso dell’onore richiedeva
che la donna arrivasse illibata al matrimonio, mentre per il marito non era
importante; ma, per dirla senza peli sulla lingua, il marito modello non
possedeva un’approfondita conoscenza di cazzi e culi altrui. Felipe si disse che quel
matrimonio era una buona idea. E forse sposandosi avrebbe
ottenuto un altro risultato: si sarebbe tolto di testa Michel. Sì, certamente, avrebbe
finito per dimenticare Michel. Le cose sarebbero andate così. Ne era sicuro. C’è chi fatica ad imparare
dall’esperienza. UN AMICO
Il matrimonio fu fissato
per due settimane dopo: non c’era motivo per aspettare più a lungo. Furono
informate poche persone: i frequentatori abituali della taverna, alcuni
parenti lontani di Ines e la cameriera. Dopo la cerimonia si sarebbe
festeggiato nella taverna, alla buona. Il giorno prima delle
nozze, un venerdì mattina, nella taverna non c’era molta gente. Felipe stava
chiacchierando con un cliente, quando si sentì posare una mano sulla spalla.
Si voltò e vide un bell’uomo, con i capelli molto corti e la barba, che gli
sorrideva. Anche se l’acconciatura era diversa, non gli fu difficile
riconoscere Pierre-Pedro. - Pedro! Che piacere
vederti. In realtà le sensazioni di
Felipe nel rivedere Pedro erano assai più complesse. Era contento di
rivederlo, perché dopo la conversazione avuta con lui sulla nave, lo
considerava un amico e gli aveva anche parlato della sua situazione e dei
suoi progetti. Era felice di vedere un uomo che era rimasto più a lungo con
Michel e che poteva dargli notizie di lui. Ma vedere Pedro risvegliava troppi
ricordi ed in quel momento quei ricordi di una breve stagione felice, ormai
trascorsa, erano dolorosi. Felipe vide che Ines
osservava Pedro con curiosità e non si stupì: sapeva benissimo che Ines si
poneva domande sul suo passato, anche se rispettava la sua scelta di non
parlarne. Ma sapeva anche di poter contare pienamente su Pedro e quindi si
disse che il suo amico non avrebbe mai raccontato nulla ad Ines. Naturalmente, aveva tratto
le conclusioni sbagliate dalle premesse giuste. Dopo aver presentato la
promessa sposa ed il suo ex-compagno, Felipe portò Pedro in un angolo
appartato e si misero a parlare. - Come mai qui? - Tu sai che non ho scelto
la vita del pirata. Lo sono diventato per gratitudine nei confronti di Testapelata e perché non avevo davvero molte alternative.
Testapelata stesso mi ha consigliato di cercare di
rifarmi una vita. Ormai la situazione diventa ogni giorno più difficile: la
caccia ai pirati è sempre più spietata. Ed ovviamente la preda più ambita è Testapelata. Felipe sentì un brivido
corrergli lungo la schiena e non riuscì a proferire parola. - Molti uomini
dell’equipaggio hanno lasciato la nave, sistemandosi in posti diversi. Di
recente anche la Madre de Dios è stata
abbandonata, in un’ultima impresa di cui forse hai sentito parlare. Felipe scosse il capo. - Te la racconterò.
Un’impresa come solo Testapelata è in grado di
concepire e poi compiere. Felipe riuscì infine ad
aprire la bocca: - Come sta? Pedro lo guardò un
momento, come incerto. - Non è più lo stesso,
Felipe. - Che cosa intendi dire? - Ha perso tutta la sua
allegria. Quando non è impegnato in qualche impresa, a volte trascorre ore da
solo nella sua cabina o nella coffa, senza scambiare due parole con
nessuno. Felipe non chiese, non
voleva sapere perché Michel era così triste. Lo sapeva benissimo e non voleva
sentirselo dire. Cambiò argomento: - Parlami di te. Che
progetti hai? - Voglio rifarmi una vita.
Per un po’ starò qui all’Havana. Come vedi, ho tagliato i capelli molto corti,
mi sono fatto crescere la barba e spero che nessuno mi riconosca. D’altronde
sono passati tre anni da quando venni riconosciuto e tira un’aria diversa:
nessuno cerca più i vecchi ribelli. - Allora domani sarai
presente al mio matrimonio. - Molto volentieri,
Felipe. Non hai perso tempo a realizzare i tuoi progetti! Felipe scosse la testa. Ma
aveva davanti l’immagine di Michel e si sentiva stringere dall’angoscia. - Sono felice che tu sia
qui, Pedro. Avevo bisogno di qualcuno con cui parlare liberamente! Pedro fu presente alle
nozze e nei primi due mesi venne spesso alla taverna, due o tre volte per
settimana, a volte solo per chiacchierare un momento, a volte fermandosi più
a lungo. Dopo il terzo mese però diradò le sue visite, che divennero anche
molto brevi. Felipe non capì i motivi
di quel cambiamento. Prese per buone le scuse di Pedro, relative al lavoro ed
a vari impegni, ma non lo convinsero pienamente. Se avesse guardato Ines,
che era incinta, e Pedro, nei rari momenti in cui erano vicini, avrebbe forse
intuito, anche se l’intuito non è una dote molto sviluppata negli uomini. MORTE DI TESTAPELATA
Alonso entrò nella taverna
tutto allegro. Quella sera gli avrebbero offerto tutti da bere, perché aveva
notizie. E che notizie! Era appena tornato da una spedizione contro Testapelata, che aveva infine portato alla cattura di
quel figlio di puttana. Nella taverna riconobbe
Carlos e si diresse verso di lui. Non appena lo vide, Carlos gli gridò: - Allora, Alonso, di
ritorno? Com’è andata la spedizione contro Testapelata?
Avete preso aria e fumo, come al solito? Squadrò Carlos. Scosse la
testa e disse ad alta voce, in modo che tutti sentissero. - Questa volta non abbiamo
preso vento. Abbiamo preso Testapelata! - Preso, Testapelata? Nella taverna tutti lo
guardavano. - Preso vivo ed ammazzato
sul posto. Testapelata ormai sarà nella pancia di
Satana, come merita. Tutti gli erano intorno.
Volevano sentire il racconto della cattura e della morte di Testapelata. Sulla cattura, Alonso aveva poco da dire,
perché lui era rimasto a terra, sull’isola, dove avevano impiccato i pirati
catturati prima del capo. Ma quanto alla morte, era in prima fila. - Lo abbiamo spogliato,
nudo come era nato. - Di’, è vero che ce
l’aveva enorme? - Sì, enorme, come un
asino. Mai visto uno con un cazzo così. Era bene in mostra, perché lo abbiamo
legato con le braccia e le gambe allargate, bello stretto, che non poteva
muoversi. - E poi? - Gli abbiamo fatto un
taglio nella pancia, mica un taglio grande, appena il necessario per
infilarci le dita. Poi Palos gli ha infilato una mano dentro la pancia ed ha
preso un pezzo di budella con due dita. Ha tirato fuori con delicatezza, non
voleva mica far finire subito il divertimento. Ha legato il budello con una
corda e ha arrotolato la corda su un bastone. Ha posato il bastone su un
sostegno. Alonso si fermò e guardò
l’uditorio che pendeva dalle sue labbra. Era piacevole raccontare quando
tutti non volevano perdersi una sillaba. - Poi Palos ha
incominciato a girare il bastone, arrotolando la corda, così le budella hanno
iniziato ad uscire. Era uno spasso vedere che le budella venivano fuori dal
taglio, mentre il sangue colava per terra. E ad un certo punto, quando ormai
le budella avevano cominciato ad attorcigliarsi intorno al bastone, Testapelata ha incominciato ad urlare. Alonso ripensò all’urlo di
Testapelata, un urlo che non aveva più niente di
umano. Lo aveva fatto sobbalzare, ma poi gli era piaciuto. Era bello vedere
quel maschio crepare, urlando di dolore. - Cristo, sbudellato! - Che fine orribile! - Quella che si meritava!
Era un pirata! - Sì, ma meno peggio di
certi ufficiali di qui… - Non dire cazzate,
Moreno. Alonso riprese: - Quando ha urlato,
abbiamo tutti riso. Avreste dovuto sentire come urlava quel figlio di
puttana. Non ha più smesso di urlare. Be’, no, poi ha smesso, eh sì, gli è
mancato il fiato. Ma era ancora vivo. Agitava disperatamente la testa, dalla
bocca gli usciva del sangue, ma non riusciva più a dire niente. - È morto così? - Non subito. Palos continuava
a tirar fuori le budella, ma ormai c’era poco da tirare, tanto che le budella
si sono rotte. Lui ha fatto un salto, legato com’era, ed è crollato. Era
finalmente crepato. E noi ci siamo liberati di un pirata fottuto. Alonso aveva finito. Si
guardò intorno, soddisfatto dell’effetto che aveva prodotto. Tutti gli
avventori discutevano ad alta voce, ridevano, sghignazzavano, brindavano alla
morte dell’ultimo dei pirati. I commenti si incrociavano. Qualcuno ordinava
da bere, molti volevano saperne di più, gli chiedevano di ripetere, di
aggiungere qualche dettaglio. Tutti volevano offrirgli da bere. Il padrone della taverna
però era bianco come un morto. Doveva essere uno di quelli che si spaventano
a vedere la propria ombra. Quello un pirata non doveva averlo mai visto in
vita sua. Sarebbe schiattato di paura! RIMPIANTI
Man mano che il marinaio
proseguiva nel suo racconto, Felipe si rendeva conto che faticava a stare in
piedi. Ben presto dovette sedersi. Pallido come un cadavere, non
badava a nulla, non si accorgeva dei clienti della taverna che aspettavano di
essere serviti. Pensava solo a Michel. Che Michel fosse morto, lo faceva
soffrire in modo atroce, ma che fosse finito in quel modo, non riusciva ad
accettarlo. Era orrendo. Si alzò, barcollando, ma
non fece neppure in tempo ad arrivare al bancone: cominciò a vomitare. Sentì i commenti di alcuni
clienti: - Impressionabile, il
tipo! - Questi che stanno a
terra, non sanno che cosa significa avere a che fare con i pirati. Comodo fare
l’oste. Incontrare gente come Barbanera o il Gallego o Testapelata,
c’era da morire. Felipe si disse che almeno
i clienti non avevano sospettato il vero motivo del suo malessere. Intanto la
discussione continuava. - Il Gallego e Barbanera
erano davvero mostri. Ma Testapelata… tra chi ha
avuto a che fare con lui, sono più quelli che ne dicono bene di quelli che ne
dicono male, molti di più… Felipe riuscì a dire ad
Ines che non si sentiva bene e che saliva a riposare un momento. Salì le scale a fatica, appoggiandosi
alla parete. Arrivò in camera. Cadde a
terra, in ginocchio, la testa appoggiata al muro, e incominciò a piangere. Perché non era rimasto con
Michel? Forse l’avrebbe salvato o, almeno, sarebbe morto con lui. Che senso
aveva la sua vita, senza Michel? Sarebbe diventato padre, un Llera stava per nascere, ma avrebbe preferito morire,
subito. Quella notte Felipe non
dormì. Rimase a guardare il soffitto, mentre le lacrime gli scendevano lungo
il viso. Michel era morto. Michel. L’uomo più generoso che avesse mai
conosciuto. Michel aveva fatto una fine orribile. Pensava che sarebbe stato
impiccato, ma la sua morte era stata molto, molto peggiore. Non avrebbe mai più
rivisto Michel. Mai più. Si alzò alle prime luci
dell’alba. Era ridotto ad uno straccio, ma scese subito nella taverna. Aveva
bisogno di lavorare, di impegnarsi in qualche cosa. Se fosse rimasto ancora a
letto, a pensare a Michel, sarebbe impazzito. Continuava a pensarci, vedeva
il suo sorriso mentre controllava i conti, sentiva la sua voce mentre
spillava il vino ed a tratti si perdeva, un boccale di vino in mano, sordo a
tutto. UNA FACCIA NOTA
Ines non disse niente e
Felipe ne fu ben contento. Si rendeva conto che Ines doveva aver capito che
il suo malessere non era fisico, ma una delle sue numerose doti era proprio
la discrezione. Felipe avrebbe voluto non
avere un attimo di pace, ma di mattina non c’erano mai molti clienti. Era
costretto ad inventarsi lavori per non rimanere con le mani in mano ed il
cervello in azione. Nella tarda mattinata,
Ines richiamò la sua attenzione su un avventore. - C’è uno che ti guarda
fisso. Lo conosci? Felipe si scosse e chiese: - Dove? - Il tavolo giù al fondo,
vicino alla finestra. Felipe guardò in quella direzione
ed il suo sguardo incrociò quello di un uomo sui venticinque anni, capelli ed
occhi scuri. L’uomo abbassò lo sguardo. Sì, lo conosceva. Dove
aveva già visto quell’uomo? Felipe cercò di
concentrarsi, ma il pensiero tornava a Michel. Quando guardò nuovamente verso
il tavolo, l’uomo se n’era andato. Chi era quell’uomo? Dove
lo aveva visto? Non se ne ricordava, ma
non aveva importanza. Nulla aveva importanza. Michel era morto. Solo quando, meno di
un’ora dopo, l’uomo tornò con due soldati, Felipe si ricordò. Vedendo le
divise, gli venne in mente chi era: Virgen María, il compagno di Barba-di-capra, il traditore che
era riuscito a scappare. E quando capì chi era l’uomo, seppe anche che presto
avrebbe raggiunto Michel. I due soldati erano già
davanti a lui e sulla porta ne erano comparsi altri due. Non si stupì quando
uno di loro gli disse: - Spadaccino, sei in
arresto. Felipe si lasciò condurre
via senza opporre la minima resistenza, sotto lo sguardo allibito della
cameriera. Ines per fortuna in quel momento non c’era, era di sopra. UN AMICO, UN TRADITORE
Seduto accanto al letto,
Pedro guardava Ines riposare. Era ormai notte fonda. Tutto era accaduto in
fretta, molto in fretta. Non aveva avuto il tempo di pensare. Arrivando, a sera,
aveva trovato la taverna chiusa. Aveva bussato all’uscio ed aveva penato non
poco per convincere la cameriera ad avvisare Ines della sua presenza: la
padrona aveva dato ordine di non far entrare nessuno. Quando l’aveva visto, Ines
gli aveva raccontato dell’arresto di Felipe. Ed era scoppiata a piangere. In
quel pianto c’erano mille cose ed erano venute fuori tutte, come se Ines non
fosse più stata capace di fermarsi, dopo aver incominciato a confidarsi: la
paura per quello che l’aspettava, con Felipe in prigione ed una gravidanza
ormai avviata; i dubbi sul passato di Felipe; la freddezza di Felipe, gentile
e sempre rispettoso nei suoi confronti, ma non attratto da lei; la
solitudine. Se Pedro non fosse stato
innamorato di Ines, se non si fosse innamorato di lei quasi immediatamente,
quando aveva incominciato a frequentare la casa, forse quello sfogo non
avrebbe avuto conseguenze. Ma le domande di Ines avevano forzato Pedro a dare
risposte e la disperazione di Ines lo aveva spinto a confessare ciò che si
era ripromesso di tenere segreto. E ora era lì, accanto al
letto in cui dormiva Ines, che la guardava. Osservava il viso infine
pacificato dal sonno, le labbra socchiuse, quelle labbra che aveva baciato
infinite volte nelle ore precedenti, il candore della pelle, la curva morbida
dei seni. Si alzò e si voltò. Doveva concentrarsi e
studiare il da farsi. Aveva tradito il suo migliore amico, che aveva piena
fiducia in lui. Eppure non si sentiva in colpa. Sapeva di amare Ines e sapeva
che Felipe non l’amava. Felipe amava Michel, con un’intensità che escludeva
ogni altro amore. Felipe aveva sposato Ines per tener fede alla promessa
fatta a suo padre, per non sentirsi in colpa per essere sopravvissuto. Felipe era in prigione.
Doveva avvisare Testapelata. Se non era morto.
Correva voce che fosse morto sbudellato. E Pedro provò angoscia all’idea che
quell’uomo, che ammirava come nessun altro al mondo, potesse aver davvero
trovato una fine così orribile. Ma non gli sembrava probabile, in quella
storia troppe cose non quadravano: il luogo stesso in cui dicevano fosse
avvenuta la cattura, troppo lontano dall’area percorsa abitualmente da Testapelata; il tradimento di alcuni dei suoi uomini, che
Pedro riteneva impossibile; la descrizione che ne davano i soldati spagnoli,
piuttosto diversa da quella di Michel. Certo, se Testapelata era morto, c’era poco da fare. Ma avrebbe
fatto tutto quello che poteva, anche a costo della vita. Adesso doveva andare da
Trujillo, subito. Aveva già perso tempo. Doveva andare dal loro uomo all’Havana.
Pedro sorrise. Non per il riferimento al romanzo di Greene, che doveva ancora
essere scritto. Sorrise perché pensando a Trujillo gli veniva sempre da
dirsi: “il nostro uomo all’Havana”, anche se lui non era più un pirata ed ora
viveva nella città. Ma Trujillo continuava ad essere il punto di riferimento. Era un’idea di Testapelata, quella, e, come tutte le idee di Testapelata, eccellente: coloro che lasciavano la nave,
se erano fidati e capaci, rimanevano in contatto con lui, attraverso una rete
di comunicazioni che non presentava rischi. Fornivano informazioni utili,
ospitavano coloro che lasciavano la pirateria, assicuravano un rifugio per
chi era ricercato, anticipavano denaro a chi ne aveva bisogno. Ognuno si
assumeva solo i rischi che si sentiva di correre. Molti l’avrebbero fatto
comunque, per riconoscenza nei confronti di Testapelata.
Ma per tutti, c’era un buon guadagno: ogni informazione, ogni aiuto, veniva
ricompensato. E Testapelata non era certo tirchio. Pedro sorrise. Non aveva
mai incontrato un uomo generoso come Testapelata. Ora doveva avvisare
Trujillo. Se Testapelata era vivo, Trujillo era in
grado di raggiungerlo. Certo, non in tempi brevi. Pedro maledì l’epoca
arretrata in cui viveva, senza Internet, la televisione satellitare ed i
telefoni cellulari triband. Tra cavalli e velieri,
ritrovare un pirata che veleggiava per i Caraibi cercando di tenersi lontano
dalle navi militari spagnole, non era né rapido, né sicuro. Ma Trujillo ce
l’avrebbe fatta, se solo Testapelata era vivo. Pedro si voltò e guardò
Ines. Amava Ines ed Ines amava lui, glielo aveva confessato poche ore prima.
Ma tra di loro c’era Felipe e lui doveva fare tutto il possibile per
salvarlo. IN PRIGIONE
La prigionia di Felipe
trascorse in fretta e non fu nemmeno molto pesante. Rispetto a tanti altri,
Felipe godeva di una condizione invidiabile: Ines foraggiava le guardie e gli
faceva arrivare cibo decente. Aveva una cella piccola, ma non doveva
condividerla con nessuno e non era nei sotterranei: in alto c’era una finestra,
ovviamente sbarrata da una grata, da cui entrava la luce del giorno. I
soldati, che a quell’epoca con i prigionieri non erano teneri, come invece
notoriamente divennero in seguito, lo trattavano sempre bene e gli era
concesso di camminare nel cortile della prigione ogni giorno. Spesso non gli
mettevano nemmeno i ferri ai piedi ed alle mani. Tutta quella grazia non
poteva dipendere solo dalle mance di Ines. Felipe avrebbe sospettato un
intervento di Michel, se Testapelata fosse stato
ancora vivo: ma ormai Testapelata non poteva né
corrompere, né minacciare, a meno che non lo facesse un suo uomo per lui, ad
esempio Pedro. Ma tutto questo non aveva
realmente importanza. Felipe aveva perso ogni volontà di vivere. Aveva
rinunciato a Michel lasciando la Liberté, ma
finché Michel era stato vivo, aveva sempre nutrito in un cantuccio della sua
testa, la speranza di rivederlo. Ora che lo sapeva morto, non gli importava
più di nulla. Le sue condizioni fisiche
erano assai migliori di quelle degli altri detenuti, ma il suo morale era a
terra. Il pensiero di Ines era il
suo cruccio principale. A morire era rassegnato, aveva sfiorato la morte
tante volte e non era colpa sua se il destino si era accanito su di lui. Non
poteva rimproverarsi nulla, tranne forse di non avere seguito il consiglio di
Michel, andandosene da Cuba il più presto possibile. Ma il pensiero di Ines lo
tormentava. L’aveva messa in una bella situazione: incinta e vedova, per di
più vedova di un pirata. L’unica consolazione era quella di lasciarle una
buona somma: per quanto Ines potesse aver speso per spingere le guardie a
trattarlo bene, le rimaneva certamente una somma consistente e questo
l’avrebbe aiutata ad allevare il piccolo. Anche il pensiero del piccolo
lo affliggeva: sarebbe cresciuto senza padre, lui non avrebbe potuto
proteggerlo, educarlo, aiutarlo. Si augurò che Ines trovasse un buon marito,
che avesse la capacità e la volontà di fare da padre per il piccolo. Il processo fu subito
concluso. Non fu neanche un vero e proprio processo: i marinai della Santiago
e della Madre de Dios presenti all’Havana
confermarono l’accusa di Virgen María,
al secolo Ferdinando Lopez. Felipe raccontò la verità: che era stato
imbarcato a forza sulla Black Gull, non
aveva mai partecipato a nessuna azione ed era stato accolto sulla Liberté solo perché aveva aiutato Testapelata, senza nemmeno sapere chi fosse. Non sarebbe stato creduto
comunque, ma in ogni caso Virgen María sapeva benissimo che Felipe aveva preso parte ad
un’azione con Testapelata e sapeva qual era stato
il suo ruolo. Su questo, Felipe non aveva niente da dire a sua discolpa. La descrizione delle
sofferenze inflitte a Hembrado, Ruiz
e Vella quasi gli strappò un sorriso ed il suo silenzio su quell’episodio non
fece una gran bella impressione sulla corte, che peraltro aveva già deciso
per la colpevolezza e fissato la sentenza. Fu ovviamente condannato a
morte. Pochi giorni prima
dell’esecuzione, Felipe scoprì dai discorsi dei suoi carcerieri che l’esecuzione
sarebbe avvenuta non mediante strangolamento, né fucilazione, come era
abituale, ma per impiccagione: una scelta insolita, meno frequente nelle
colonie spagnole. Ma il grande spettacolo si sarebbe svolto sulla pubblica
piazza, sotto gli occhi di tutta la città, in modo che la sua ultima danza
fosse ben visibile. Poi il suo cadavere sarebbe stato lasciato appeso a
lungo. Questa esecuzione sarebbe servita come esempio: a Felipe spettava
l’onore di costituire un monito per gli ultimi pirati dei Caraibi. Ed in effetti, la sua
condanna a morte spinse qualcuno a rinunciare alla pirateria. I GUSTI DEL BOIA
Il mattino seguente entrò
nella cella un uomo che Felipe non aveva mai visto. Si stupì: i suoi
carcerieri erano sempre gli stessi. L’uomo era sui quarant’anni
ed era a torso nudo, come Felipe stesso. Aveva un ventre prominente, che
debordava dai pantaloni, costringendoli ad abbassarsi ben al di sotto della
vita. Il torace, il ventre e le braccia erano piuttosto pelosi e l’uomo dava
un’impressione di forza e di brutalità. - Ti impiccheremo
dopodomani, in piazza. In modo che tutta l’Havana possa vederti. Felipe non rispose. Che
cosa si può rispondere ad una comunicazione di questo genere? - Io sono il boia. Allora Felipe guardò
l’uomo con interesse. Quell’uomo lo avrebbe ucciso, due giorni dopo. Quelle
grosse mani pelose gli avrebbero stretto il cappio intorno al collo. - Che tipo di nodo vuoi?
Un nodo che ti spezzi l’osso del collo non appena salti? O un nodo che ti
lasci una ventina di minuti ad agitarti ed a cagarti addosso? Felipe non comprendeva che
cosa volesse il boia. Che senso aveva quella domanda? Nessuno voleva un nodo
che prolungasse la sofferenza. Chi voleva crepare in un’agonia atroce? - Perché se vuoi un nodo che
ti mandi al creatore senza dare troppi calci, devi collaborare con me. Abbassò i pantaloni ed il
senso della collaborazione richiesta divenne evidente, perché apparve il
grosso cazzo teso, con una cappella rosseggiante che si protendeva verso
Felipe. - Allora, mi dai il culo o
la bocca? Felipe non disse nulla.
Non aveva nessuna intenzione di stare al gioco, anche se sapeva benissimo che
il boia, se lo voleva, poteva prenderlo con la forza. - Allora? Felipe scrollò le spalle. - Bada, ti prenderò lo stesso.
Felipe continuò a tacere. Il boia lo spinse contro
il muro e lo voltò, senza che Felipe opponesse resistenza. Gli calò i
pantaloni con un gesto deciso. Avvertì la pressione dello
spiedo che prima si appoggiava sul solco del suo culo, poi ne cercava l’apertura.
Non cercò di resistere, per evitare una sofferenza a cui non teneva. L’arma trovò l’ingresso e
si introdusse senza incontrare difficoltà, malgrado la scarsa lubrificazione.
Felipe avvertì un dolore forte, ma anche la piacevole sensazione di essere
nuovamente, per l’ultima volta, riempito. Riempito di carne, una carne calda
e soda, che si muoveva con decisione, che forzava, facendosi strada, che
penetrava sempre più avanti e accendeva nel corpo di Felipe vibrazioni note,
mai dimenticate. Felipe si disse che c’era
una continuità tra il modo in cui l’America l’aveva accolto e quello in cui
gli diceva addio: prima ancora che lui mettesse piede sul continente,
Barbanera lo aveva violentato; subito prima che i suoi piedi si sollevassero
dal continente, quanto bastava per farla finita, il boia lo inculava. In
mezzo c’erano stati quelli della Black Gull
ed un marinaio spagnolo. L’unico che non gliel’aveva mai messo in culo era
Michel, l’unico che Felipe aveva davvero desiderato. Il pensiero di Michel provocò
la solita fitta, ma il suo corpo seguiva un altro percorso, separato dalla
sua mente, e le spinte violente con cui il boia concluse la conquista della
cittadella, misero completamente sull’attenti il volenteroso soldatino di
Felipe. Quando Felipe si voltò, il
boia si accorse che Felipe aveva partecipato assai più di quanto avesse
pensato. - Vedo che non ti è
dispiaciuto. Ti do una mano? Il ghigno del boia gli
diede fastidio. Fastidio che avesse visto. Ma non poteva negare. No, non voleva che fosse
il boia a farlo venire, anche se davvero fosse stato disposto a farlo. Non
voleva venire. Sputò in faccia al boia.
Il boia si passò il dorso della mano sulla guancia, lo stesso gesto che
Michel aveva fatto al Pendón del Rey, nella cella di Pedro. Poi abbassò la mano, la chiuse
a pugno e colpì Felipe allo stomaco, come Ruiz
aveva fatto con Pedro. Le forze gli mancarono e
Felipe si afflosciò al suolo. Alzando la testa, vide che
il boia lo guardava. Non sorrideva più. Abbassò il capo ed aspettò
che il boia se ne andasse, lasciandolo in pace. Ma l’uomo rimaneva immobile
davanti a lui, senza neppure tirarsi su i pantaloni. Alzò ancora la testa. Il
boia era ancora lì. E d’improvviso un getto di piscio lo prese in faccia. Quando il boia se ne fu
andato, Felipe aspettò un po’. Poi chiamò un carceriere e gli chiese di
portargli dell’acqua per lavarsi. UNA VISITA IN CARCERE
Era l’ultimo giorno prima
dell’esecuzione. Felipe pensava che
l’indomani sarebbe morto, come era morto Michel. Non avrebbe più rivisto né Michel,
né Pedro, né Ines. Non avrebbe mai visto il figlio che doveva ancora nascere. Chiediamo scusa al lettore
perspicace, ma quanto a previsioni per il futuro… beh, Felipe non era proprio
un indovino. Infatti, mentre arrivava a
queste belle conclusioni, la porta della cella si aprì e, preceduto da due
soldati, apparve un uomo. L’uomo che era apparso
aveva la barba ed i capelli, entrambi di un biondo grano, ma li portava molto
corti. L’uomo che era apparso
aveva due occhi di un azzurro intensissimo. L’uomo che era apparso
aveva un viso molto bello, con una lunga cicatrice sul lato sinistro. L’uomo che era apparso
aveva un nome che Felipe conosceva benissimo. Felipe spalancò la bocca
per urlare quel nome, ma si trattenne. Non sapeva qual era la situazione,
temeva di tradirlo. Fissava Michel che
scendeva la scala, senza distogliere lo sguardo: gli sembrava che se lo
avesse perso di vista un attimo solo, se anche soltanto avesse sbattuto le
palpebre, Michel sarebbe scomparso, si sarebbe rivelato un’allucinazione. Sì,
forse aveva davvero le allucinazioni. Michel. Michel davanti a lui. Michel!
Qualche cosa esplose, una gioia incontenibile. Michel! Continuava a fissarlo a
bocca aperta. Michel arrivò davanti a
lui, sorridente. - Sono contento di
rivederti, Felipe. Allora Felipe parlò, ma
tutto quello che riuscì a dire fu: - Michel, Michel, Michel! - Sono venuto a tirarti
fuori. - A tirarmi fuori? - Sì, a portarti via. O ci
tieni proprio a finire impiccato? Non mi dire che crepi d’invidia per i tuoi
compagni della Black Gull, che vuoi finire
anche tu con il cazzo duro e la lingua di fuori. Felipe non capiva. Come
poteva Michel, un pirata, liberarlo? Avrebbe potuto farlo attaccando la
fortezza, ma Michel aveva soltanto una spada. - Ma come è possibile? - Niente di più semplice,
ma ora andiamo. Inutile fare aspettare questi cortesi gentiluomini. I due soldati, due ceffi
che certamente nulla avevano del gentiluomo, stavano già liberando Felipe
delle catene. Con l’impressione di
vivere in un sogno, e sperando vivamente di non risvegliarsi, Felipe seguì
Michel ed i due uomini attraverso corridoi e cortili, fino al grande portone
d’ingresso, dove la sua scorta si fermò, lasciandolo uscire. IL LIBERO CITTADINO MICHEL
Soltanto quando furono
fuori dalla fortezza, sotto la luce rovente del sole, Felipe cominciò a fare
i conti con la realtà. La prima frase che riuscì a formulare non fu
propriamente molto profonda, anche se indubbiamente esatta: - Michel, sei vivo! Michel lo guardò un po’
perplesso. - Certo che sono vivo. Non
sono un fantasma. Felipe sorrise. Il cuore
aveva preso un ritmo che avrebbe preoccupato qualunque cardiologo, ma Felipe
non ci badò. - Ma mi avevano detto che
eri morto. Al ricordo del racconto
ascoltato nella taverna, Felipe sentì di nuovo un brivido, anche se Michel
era lì, davanti a lui, vivo e vegeto, perfettamente sano e bellissimo. Michel annuì. - Sì, so di questa
faccenda. Avevo già sentito parlare di quel tipo. Quel coglione si era fatto
tagliare i capelli e la barba e si spacciava per me, da almeno due anni.
Agiva di solito lungo la costa inglese, dove io non mi spingo mai. Lo hanno
beccato e fatto fuori con la fantasia che gli spagnoli sanno usare. Solo alla fine della
frase, Felipe comprese che doveva trattarsi dell’uomo che lui aveva visto nel
bordello a Norfolk. Come aveva potuto pensare che fosse Testapelata,
quella bestia? Sgombrato il campo dal
dubbio che Michel fosse un’allucinazione, altri interrogativi incominciarono
ad affiorare, mentre Felipe seguiva Michel per la strada. - Ma come hai fatto,
Michel, come è possibile? Come mi hai tirato fuori? - Felipe, tu sai che io ho
fatto un favore non trascurabile al governatore di questa città. Aveva un
grosso debito. Quando ho saputo che eri prigioniero, sono venuto a
presentargli il conto: due figli, due perdoni. Lui ha storto un po’ il naso,
ci teneva ad avere un pirata da impiccare, ma è un gentiluomo ed ha saldato
il debito. - Che fortuna che tu abbia
saputo che volevano impiccarmi. - Fortuna un cazzo, Felipe.
Non è stato un caso. Ho qui un uomo di fiducia che aveva il compito di
vegliare su di te, se avessi avuto bisogno di qualche cosa. Doveva pensare a
toglierti dai guai, ma i guai erano troppo grossi, non si trattava solo più
di un ubriaco, allora mi ha avvisato e sono arrivato. Ho rischiato di non
farcela, il processo è stato rapidissimo, ma anche questa volta sono arrivato
al pelo. Sempre così con te, Felipe. E Michel, che si era fermato in mezzo alla
strada, gli sorrise, quel sorriso splendido di Michel, il più bel sorriso del
mondo. - Adesso però non puoi più
contare sulla clemenza del governatore. Se ti catturano… Felipe non completò la
frase. Non se la sentiva. - Io ho finito con questa
vita, Felipe. Mi piace l’avventura, ma non è che ci tenga a fare il pirata.
Ed ormai non è più tempo di pirati e corsari: ogni giorno ne impiccano a
bizzeffe, non fanno più comodo a nessuno, qui. Ho avuto il perdono, per te,
per me e per i miei uomini che lasceranno questo mestiere. Adesso basta con
questa vita. Farò il piantatore, a Saint-Domingue. UNA PROPOSTA
Avevano raggiunto un
angolo tranquillo ed ora erano fermi l’uno davanti all’altro. Michel glielo disse di
punto in bianco, senza dargli il tempo di prepararsi: - Vuoi venire via con me,
Felipe? Felipe non se lo
aspettava, anche se non era la prima volta che gli faceva quella proposta. E
tutto il suo corpo, tutto il suo cuore, tutta la sua testa gridavano di sì.
Ma qualche cosa diceva invece di no e Felipe, con uno strazio indicibile,
ubbidì a quella voce: - No, non posso… Si interruppe perché la
coscienza della sua situazione emerse con violenza ed il dolore divenne
intollerabile. Pensò che avrebbe preferito morire. Michel lo guardò. - Se è per tua moglie, non
credo… Non proseguì. Felipe non
gli chiese che cosa volesse dire. Sommerso dall’angoscia, pensava che Michel
non gli avrebbe mai più proposto di rimanere con lui. E non voleva altro
dalla vita. Michel distolse lo
sguardo. Disse solo: - Mi sei mancato, Felipe… Se avesse potuto
scegliere, Felipe avrebbe preferito essere in cella ad aspettare la morte,
piuttosto di vedere soffrire Michel, soffrire per causa sua. La morte sarebbe
stata una liberazione. Cercando di liberarsi dall’angoscia in cui
sprofondava, trovò le parole sbagliate: - Non sono l’unico,
Michel. Non mi dire che in questi mesi non hai mai scopato. In un attimo,
l’espressione di Michel cambiò. Il viso alterato dalla rabbia, gli rispose: - Sì, ci sono stati altri.
Ho scopato come ho pisciato: quando ne avevo bisogno. Continuerò a farlo. Con
te era un’altra cosa, ma se non l’hai capito, allora è inutile che te lo
dica. Michel si voltò e cominciò
ad allontanarsi rapidamente. Felipe scoprì che il
dolore non aveva limiti, perché la sua sofferenza aumentò. Con fatica trovò
la voce per urlare: - Michel! Michel non si voltò.
Proseguì diritto, ignorando l’urlo di Felipe. Felipe si slanciò di corsa e lo
raggiunse. Gli mise una mano sulla spalla. Michel si voltò come se fosse
stato morso da un serpente. - Che cosa vuoi ancora? C’era rabbia in quella
voce. E sofferenza. Una sofferenza che doveva essere pari alla sua. - Michel, non possiamo
separarci così. Non così. La voce di Michel era
beffarda, ora, ma non riusciva a nascondere il dolore: - Cosa vuoi, che scopiamo
ancora una volta? Non era quello. Era anche
quello. Voleva stringere ancora una volta Michel. Sarebbe stato infelice per
tutta la vita, ma almeno voleva fare l’amore con lui ancora una volta. - Sì, Michel. - No, neanche se ti degni
di fartelo mettere in culo. No. Non ne vale la pena. Per un momento la voce
cambiò, mentre Michel diceva: - Quello che volevo da te
era altro… Non proseguì la frase, si
voltò e riprese a camminare, rapidamente. No, non poteva lasciarlo
andare via in quel modo. Non poteva separarsi da Michel, non così. Mentre lo pensava, Felipe
realizzò con sgomento che Michel era scomparso dietro un angolo. Felipe corse
disperatamente fino al punto in cui Michel aveva svoltato e ne vide la
sagoma, già parecchio distante. Gli corse dietro, urtando una bancarella
nella corsa. Non sentì nemmeno gli improperi che il venditore gli gridava
dietro. UNA BELLA BOTTA
Michel era fermo in uno
spiazzo, il corpo appoggiato al muro di una casa, il viso rivolto verso il
mare. Felipe si avvicinò
rapidamente, ma Michel non sembrò accorgersi di lui. Ora, di fianco a lui,
Felipe poteva vederne il viso. Un viso stravolto dalla disperazione. Lo vide
passarsi il dorso della mano sulla guancia e si rese conto che stava
asciugandosi una lacrima. Rimase paralizzato dall’intensità di quella
sofferenza, dal proprio dolore che ora lo azzannava. Si avvicinò. Gli posò una mano sulla
spalla. Michel sussultò. - Michel. Michel non si voltò. La
sua voce tradiva rabbia. - Vattene! - Michel, ascoltami. Senza guardarlo, Michel vibrò
un colpo furioso, con il braccio teso. Fu una randellata, che lo prese alla
sprovvista, abbattendosi su di lui e sbilanciandolo. Non riuscì a riprendere
l’equilibrio e cadde, battendo con violenza la testa contro il muro. Sentì il
dolore acuto al capo. Gli sfuggì un gemito e vide Michel che si voltava, ma
in un attimo il mondo scomparve. Riemerse dal vuoto, un
vago dolore alla testa, il viso di Michel vicino al suo, ma lo sguardo
davanti a sé. Non capì immediatamente. Gli ci volle un momento per mettere a
fuoco. Era tra le braccia di Michel, che lo stava trasportando da qualche
parte. Era tra le braccia di Michel e null’altro contava. Doveva essere rimasto
svenuto un minuto o poco più. Riuscì a dire: - Michel! Al sentire la sua voce,
Michel chinò il capo e lo fissò: - Felipe, grazie al Cielo.
Felipe approfittò
bassamente della situazione, certo di non ricevere un rifiuto: - Non mi lasciare, Michel. Michel scosse il capo,
senza dire nulla. Riprese a muoversi e Felipe si abbandonò tra le sue
braccia. Intanto Michel aveva spalancato una porta con un calcio ed era
entrato in una locanda. Felipe lasciò che Michel
spiegasse in due parole che voleva una camera ed un dottore, immediatamente,
e non si stupì che i suoi ordini venissero immediatamente eseguiti. A Michel
non occorreva essere sulla Liberté per farsi
obbedire: c’era nel suo aspetto, nel suo tono, qualche cosa che si imponeva. Michel adagiò Felipe su un
letto e gli tolse le scarpe. In realtà il nostro eroe era ormai perfettamente
in grado di alzarsi, ma non aveva nessuna intenzione di farlo: prima voleva
essere sicuro che Michel non si allontanasse. E poi, che cosa poteva
chiedere di meglio dalla vita, che vedere Michel seduto sul letto accanto a
lui, che gli accarezzava una guancia? Il medico arrivò subito e
Felipe smise di fare il moribondo, mettendosi a sedere senza difficoltà. La diagnosi fu esatta
(cosa alquanto rara a quei tempi): - Nulla di grave, direi,
solo una bella botta, ma è meglio che rimanga disteso per un po’. Magari le
faccio un salasso… Non finì la frase, perché
Michel lo bloccò, pagò il compenso dovuto e lo spinse fuori. Felipe chiarì subito,
rimettendosi disteso sul letto: - Non puoi lasciarmi in
questo stato. Michel scosse la testa,
sorridendo. - Farabutto, mi hai fatto
prendere uno spavento… - Già, adesso mi dirai che
è colpa mia! RINGRAZIAMENTI
Michel gli accarezzava con
la punta delle dita il viso. La sua mano scorreva, leggera, sul naso, sulle
sopracciglia, sulla fronte, sulle labbra. - Sei bellissimo, Felipe. Non era vero, e questo
Felipe lo sapeva benissimo. Ma per Michel era vero ed anche questo Felipe lo
sapeva. - Spogliami, Michel! La mano di Michel si
fermò. - Il dottore ha detto… - … di rimanere disteso.
Non conto di alzarmi. Dai, non farmi aspettare. Negli occhi di Michel
scintillava qualche cosa. Ed un sorriso beffardo gli apparve sulle labbra. - Sempre impaziente, eh?
Non hai imparato nulla. - Mi è mancato il maestro,
ma adesso che ce l’ho a portata, voglio qualche lezione. Michel avvicinò la sua
faccia a quella di Felipe, che a quel punto si aspettava di ricevere un
bacio. Michel però rimase così a fissarlo, molto serio. Poi, con un nuovo
ghigno beffardo, disse: - Prima lezione, che credo
di averti già dato: l’attesa è essenziale. La fretta fa fare tutto male. Le
cose vanno fatte lentamente, curando ogni dettaglio. E mentre parlava, le mani
di Michel gli sfiorarono la camicia, ne sollevarono un lembo, si infilarono
sotto. Si muovevano lentissime, mettendo Felipe in uno stato di tensione
sempre maggiore. Anche la sua arma si stava tendendo, al contatto con quelle
dita, alla vicinanza di quel viso. Le mani di Michel
sfioravano il suo ventre, risalivano ai suoi capezzoli, sollevando con sé la
camicia. Ed il suo viso rimaneva ad una spanna da quello di Felipe, che,
effettivamente impaziente, lo afferrò con le mani e lo costrinse ad
abbassarsi, baciandolo sulla bocca. Michel non oppose
resistenza, ma la sua bocca non si aprì, non immediatamente, almeno. Solo
dopo che le loro labbra si furono incontrate e che la lingua di Felipe ebbe
fatto il primo tentativo di riprendere i contatti con la sorella, Michel aprì
la bocca ed accolse l’ospite desiderato. Una stretta vigorosa ai
capezzoli fece sussultare Felipe e la lingua di Michel ne approfittò per
farsi avanti. Felipe la sentì invadere la sua bocca e si abbandonò
completamente a quell’invasione, che però ebbe termine bruscamente. Prima ancora che Felipe
avesse capito, un morso al capezzolo destro gli strappò un gemito, ma la
lingua percorse con delicatezza l’areola e poi scese lungo il torace, fino a
infilarsi nell’ombelico. Qui indugiò a lungo, per
poi risalire verso l’altro capezzolo, che ebbe la sua parte di umide carezze
ed anche un piccolo morso. Felipe era talmente
concentrato nell’assaporare il tocco leggero di quella lingua, che non si
rese nemmeno conto che le mani di Michel gli avevano abbassato i pantaloni,
mettendo allo scoperto una picca tesa al massimo. La lingua di Michel scese
nuovamente sul ventre, ma non sfiorò neppure la picca, torturando l’impaziente
Felipe. La lingua scorreva, scivolava di lato, risaliva. Poi si staccò e
Michel rimase a guardare Felipe. E allora Felipe fece ciò
che aveva deciso di fare: si sfilò la camicia, ormai attorcigliata intorno al
collo, e i pantaloni già abbassati. Li gettò a terra e, sotto lo sguardo di
Michel, si voltò a pancia in giù, allargando le gambe. Aggiunse: - Solo per ringraziarti di
avermi liberato! Che fosse una bugia,
sarebbe stato evidente persino ai muri, che non erano più rigidi dell’arma di
Felipe. Michel non disse nulla.
Felipe lo vide spogliarsi ed ammirò quel corpo che accendeva il suo desiderio
come nessun altro. Anche Michel aveva l’arma già in tiro. Ingenuamente Felipe si aspettava un
rapido ingresso dell’arma, che avrebbe posto fine al tormento del suo corpo.
Ma era una delle sue innumerevoli previsioni sbagliate. Michel si inginocchiò
tra le sue gambe e poi si distese su di lui, ma senza penetrarlo. Invece gli
morse un orecchio e poi incominciò a passargli la lingua nell’orecchio e sul
collo, facendolo rabbrividire di piacere. Gli morse una spalla e gli
leccò nuovamente il collo. Poi si sollevò e Felipe sentì la sua lingua sul
culo. Michel alternava morsi e carezze umide. Ad un certo punto gli strinse
il culo con le mani, facendolo gemere, e la lingua cominciò a spingersi
vigorosamente tra le natiche, avanti e indietro lungo il solco, premendo
sull’apertura. Per Felipe l’attesa era
una tortura. Inebriante, splendida, ma ormai quasi insostenibile. Eppure
Michel continuava, mordendo, leccando, accarezzandolo con le mani,
stringendogli la carne. Ed a Felipe pareva di non essere più sulla Terra, ma
di librarsi nello spazio, mentre nel suo ventre si apriva un vortice che lo
attraeva. Il vortice era sempre più
forte ed a Felipe parve di perdere ogni contatto con la realtà, finché sentì
l’arma trionfante di Michel entrare in lui ed allora il vortice lo inghiottì
completamente e Felipe venne, nel più forte orgasmo di tutta la sua vita. Le spinte si attenuarono e
Felipe ritornò sulla Terra, ma lo sperone che ora aveva dentro gli stava
incendiando le viscere. La sensazione di essere riempito, la coscienza di
avere Michel dentro di sé, la pressione di quella massa calda, tutto lo
stordiva. Sentiva un vago dolore, ma era soprattutto un piacere, sempre più
forte, che lo stava invadendo, usciva da lui, lo sommergeva, ritornava dentro
di lui, in un punto preciso, in cui le spinte di Michel appiccavano il fuoco
al suo corpo. Una nuova ondata di piacere gli cresceva dentro, un’ondata a
cui la sua arma partecipava solo in modo marginale, perché era lo spiedo che
l’infilzava a creare quell’onda ed il suo culo era l’epicentro del terremoto
che lo squassava. Aveva goduto con
Barbanera, aveva provato piacere con altri, ma non aveva mai pensato che il
piacere potesse essere così intenso. Gli parve di venire dentro, che il suo
culo, che il suo ventre, stessero venendo e nuovamente gemette. Ma il piacere non si
spense dopo aver raggiungo il vertice. Proseguì, meno forte, per poi
riprendere, mentre anche la sua picca era ormai tesa. La doppia sensazione,
che saliva dal suo culo e dal suo cazzo era troppo forte per essere
tollerata. Felipe pensò davvero, per un attimo, di essere sul punto di
morire. Prima che la tempesta del suo corpo esplodesse, urlò il nome di
Michel. Poi il suo corpo divenne
piacere, puro piacere, violento ed insopportabile, splendido e feroce. Sentì,
confusamente, che il suo seme si spandeva e che quello di Michel lo irrorava,
che il suo culo si contraeva attorno all’arma che lo trapassava. E quasi
svenne. UN ALTRO ADDIO
Rimasero a lungo
abbracciati. Felipe era esausto, come un naufrago. Sapeva che in quel momento
era in balia di Michel: non era in grado di opporglisi, stando così, stretto
tra le sue braccia. Ed aveva paura. Ma Michel era troppo
generoso per approfittare della debolezza del suo avversario. Lo baciò sul
collo, poi si alzò e si rivestì. Felipe lo imitò. Temeva che Michel
ripetesse la sua proposta, ma ora che i loro corpi si erano separati, si
sentiva in grado di resistere. Poi capì che Michel non l’avrebbe più
ripetuta: era troppo sensibile per non capire che l’avrebbe fatto soffrire
ancora di più. Quando Michel parlò, era
evidente la fatica che gli costavano le parole. - Felipe, ci lasciamo qui.
Se mai avrai bisogno di qualche cosa, rivolgiti ad Eufrasio Trujillo,
l’orefice vicino al Castillo de la Fuerza. Di lui
puoi fidarti come di me stesso. Puoi chiedergli denaro, uomini, se ti
troverai in pericolo, tutto quello che vuoi. Puoi chiedergli di mettersi in
contatto con me. Lui sa dove io andrò. Il “ci lasciamo qui” di
Michel era stato un macigno, che era caduto dalla cima di un monte ed aveva
polverizzato Felipe. Non trovò parole per rispondere. - E se un giorno cambierai
idea... Trujillo ti fornirà il denaro per il viaggio e tutto quello che ti
può servire. Ti aspetterò, Felipe. Michel chinò la testa.
Felipe capì che aveva cercato di non dirlo, ma non ce l’aveva fatta. Michel
rialzò la testa e lo fissò negli occhi. E Felipe pensò che non esistevano al
mondo due occhi come quelli. - Felipe, dimmi che un
giorno potresti venire. La disperazione che lesse
nello sguardo di Michel gli restituì il dono della parola. - Michel, non desidero
nulla di più al mondo. Se potrò, verrò da te. Michel sorrise, un sorriso
triste, ma sincero. - Allora ti aspetto. Non
importa quando è. So aspettare. Felipe si rese conto di
soffrire di nuovo, per sé e per Michel, e non riusciva a tollerare quella
sofferenza. Ma avrebbe dovuto imparare a conviverci. - Mi spiace, Michel.
Vorrei dirti che lascio tutto e vengo via con te. È quello che vorrei fare.
Ma non posso. Sono fatto così. - Probabilmente non ti
amerei, se non fossi fatto così. Addio. elipe avrebbe voluto baciarlo, ma Michel era
già fuori dalla porta. Felipe si sedette sul
letto. Aveva voglia di piangere. Sapeva che con quell’idea dei figli e della
promessa aveva fatto un’immensa cazzata, rendendo infelici se stesso, Michel
e Ines, cioè tutti quelli di cui gli importava al mondo: l’unico che non
aveva reso infelice era Pedro. Su questo punto i lettori,
meglio informati di Felipe, hanno probabilmente un’idea diversa. Felipe tornò a casa, dove
Ines era già stata informata da Pedro della sua liberazione. Non sembrava un
uomo che due giorni prima dell’esecuzione viene liberato e può riprendere
senza nessun rischio la sua vita di prima: sembrava piuttosto uno che è
appena stato condannato all’ergastolo. Qualche sera dopo, alla
taverna, Felipe sentì dire che l’uomo che per lui rimaneva Virgen María era stato trovato
impiccato. Non era stato un suicidio: la vittima aveva le mani legate dietro
la schiena. Le indagini non portarono a nulla. Nella taverna, qualcuno
pensava che fosse stato Felipe, direttamente o mandando un sicario. Felipe
negava, ma sapeva che non era del tutto estraneo a quella morte. Pur non
avendo nessun elemento per dirlo, Felipe sapeva con assoluta certezza che era
stato Michel a giustiziare un uomo che aveva tradito, dandogli la morte che
aveva meritato. SOPRAVVIVERE
Felipe trascorse i mesi che
seguirono, fino al parto di Ines, in uno stato di torpore. Si lasciava
vivere, svolgendo la sua parte di cameriere, marito della padrona e futuro
padre, come meglio poteva, ma senza realmente partecipare. Aveva la testa
altrove, certo, ma non era solo quello: si sentiva come un giocattolo a cui
si fosse rotta la molla. Felipe viveva giorno per giorno, cercando di dare un
senso alla sua vita attraverso le mille piccole incombenze quotidiane. Ma
nulla di ciò che faceva aveva realmente senso. Ed a tratti veniva a galla una
disperazione totale, che lo sommergeva. Cominciò a bere. Ed a bere
troppo. Lo sapeva. Se lo diceva ogni sera. Ma solo qualche bicchiere gli dava
la forza di reggere. Sapeva che, se avesse continuato così, sarebbe presto
diventato un ubriacone. In certi momenti,
soprattutto quando non c’era molta gente, sentiva il bisogno violento di
uscire dalla taverna, di andarsene in giro: non riusciva a rimanere inattivo. Allora avvisava Ines ed
usciva, camminando freneticamente, senza nemmeno sapere dove andava. Spesso
finiva ai margini della città, tra vicoli ed orti dove non passava quasi mai
nessuno. Un giorno, passando per
una stradina deserta, vide un uomo che pisciava nel suo campicello. Dal punto
in cui era, poteva vederlo benissimo. Si fermò a guardarlo. Si disse che
erano due mesi che non vedeva un cazzo. L’uomo aveva un bel cazzo. Il tipo si accorse che
Felipe lo stava fissando, lo guardò e sorrise. Mancavano diversi denti in
quella bocca. Felipe non si mosse,
continuando a guardare l’uomo. Questi aveva finito di pisciare, ma, vedendo
Felipe che lo fissava, non ritirò il cazzo nei pantaloni. Fece invece cenno a
Felipe, che spinse il cancello ed entrò nel campo. L’uomo lo guidò in una
capanna, con un’unica stanza minuscola, usata come ripostiglio per gli
attrezzi. Gli prese una mano e
l’avvicinò al suo cazzo. Felipe cominciò a fargli una sega. Quando l’ebbe
duro, voltò Felipe e lo fece appoggiare su una cassa, al suolo. Gli calò i
pantaloni e l’infilzò senza fare complimenti. Felipe pensò a Michel, si
disse che Michel lo stava stringendo, che Michel era dentro di lui, che
Michel lo stava inculando. Vennero insieme. Questi non aveva detto una
parola, ma quando Felipe si rivestì, gli disse: - Quando hai voglia di
prendertelo in culo, vieni da me. Hai un bel culo. Lo fotto sempre
volentieri, uno come te. Felipe annuì, troppo
stanco e disgustato di sé e del mondo per parlare. Non tornò mai da
quell’uomo, ma altre due volte si fece inculare da sconosciuti, uno dei quali
lo colpì e gli prese anche quei pochi soldi che aveva con sé, senza che
Felipe reagisse in nessun modo. Pedro cercava di stargli
al fianco, di scuoterlo dall’apatia in cui sprofondava. Senza la sua
presenza, forse Felipe sarebbe davvero diventato un ubriacone. Così rimase
solo un automa triste, rassegnato a vivere senza gioia. UN PICCOLO LLERA, ANZI DUE
La fine della gravidanza
di Ines si avvicinava ed Ines era ben contenta: il suo pancione era cresciuto
a dismisura e muoversi in quelle condizioni era sempre più penoso. E poi la fine
della gravidanza avrebbe portato alla fine di quella situazione assurda in
cui loro tre si erano cacciati. Felipe, che come uomo non
era molto attento a questi dettagli, non si stupiva delle dimensioni della
pancia di sua moglie. Perciò quando la cameriera disse che probabilmente
erano due gemelli, cadde dalle nuvole. Ines no, naturalmente: lo aveva già
pensato, tanto più che sua madre aveva una sorella gemella. Ines ebbe un parto non
facile, perché in effetti lei e Felipe avevano fatto le cose in grande: gli
eredi dei Llera erano proprio due, un maschio ed
una femmina. Il nome della femmina fu scelto da Ines, che la chiamò Isabel.
Quello del maschio fu scelto da Felipe, che lo chiamò Miguel. Fu il primo
nome che gli venne in mente e si rifiutò di cercarne un altro, perché era
perfetto. Era il nome del principe degli angeli, no? La nascita dei due bambini
fu per Felipe uno scossone salutare. Vedere quei due piccoli esseri lo fece
uscire dall’apatia in cui era sprofondato, anche se certamente non gli rese
l’allegria. Per amore dei due bambini
smise completamente di bere: i due piccoli Llera
non avrebbero avuto un padre ubriacone. Ricominciò a fare
progetti. Avrebbe ripreso ad avere rapporti con Ines, avrebbero avuto altri
figli. Ed avrebbe cercato di essere un buon padre per tutti loro. La sua vita
sarebbe stata quella di un locandiere onesto, impegnato nell’educazione dei
figli e nell’assicurare loro un futuro dignitoso. Un giorno a Miguel avrebbe
raccontato la vera storia della sua famiglia e forse Miguel avrebbe potuto
riottenere il suo titolo. Felipe si disse anche che non avrebbe mai più avuto
rapporti con uomini. E soprattutto si sarebbe tolto dalla testa Michel,
eccetera, eccetera, eccetera. Anche altri però stavano
facendo progetti. E, come al solito, sapevano farli meglio di Felipe (non che
ci volesse molto…). Bisogna però dire che nei
confronti dei due gemelli, nei loro primi tre mesi di vita, Felipe fu davvero
un padre modello, molto attento e sempre disponibile: voleva bene ad entrambi
nello stesso modo ed era ben felice di stringerli tra le braccia, di
cullarli, di parlare loro. In seguito… vediamo subito che cosa successe. UNA SEPARAZIONE NON INDOLORE
Erano passati tre mesi
dalla nascita dei due bambini ed Ines si era perfettamente ristabilita. In
compenso loro due non avevano ripreso i rapporti, come Felipe si era
ripromesso, ma, chissà come mai, a Felipe sembrava sempre che non fosse
ancora ora o che quella sera Ines non fosse ben disposta o si sentiva stanco
o … Insomma, un motivo c’era sempre. Di Ines, Felipe aveva
sempre apprezzato la schiettezza ed anche quella sera Ines fu molto sincera e
diretta: non era abituata a menare il can per l’aia (attività in cui Felipe
davvero eccelleva, almeno nel suo matrimonio). - Questo matrimonio è stato
un errore, per tutti e due. A te non piacciono le donne e mi hai sposata solo
per avere un figlio. Io credevo che non mi sarei più innamorata e che avremmo
potuto intenderci benissimo, ma ho sbagliato su tutti e due i fronti. Felipe ammirò la lucidità
con cui Ines aveva chiarito la situazione. - Felipe, intendo
andarmene. Con Pedro. Felipe rimase stupefatto.
Che Ines volesse andarsene, lo capiva benissimo, ma con Pedro! Non l’aveva
mai sospettato. Pedro era amico suo. Certo, era molto assiduo. Amava le donne,
certo. Era molto attento nei confronti di Ines. Negli ultimi tempi li aveva
visti spesso parlare insieme. Una volta o due la conversazione si era
interrotta quando lui si era avvicinato… Felipe, poiché non era idiota, si
rese conto di essere stato un perfetto idiota a non accorgersene prima. Il
fatto che Pedro fosse stato sleale nei suoi confronti lo stupì e lo
amareggiò, ma Ines proseguì il discorso, fugando i dubbi di Felipe: - Pedro voleva parlartene
da tempo, ma gli ho chiesto di aspettare. Preferivo discutere io con te,
prima. Felipe annuì. Stava
lentamente prendendo atto di ciò che avveniva e delle sue conseguenze. L’idea
che quel matrimonio si sciogliesse era un sollievo. In un lampo pensò che
avrebbe potuto ritrovare Michel e dentro di lui si riaccese una fiamma che
credeva spenta per sempre. Ma al pensiero di Michel, una domanda gli salì
alle labbra: - E i bambini? Felipe non intendeva
rinunciare ai bambini, ma sapeva benissimo che neppure Ines sarebbe stata
disposta a lasciarli. Ines sospirò. - Non è facile per nessuno
dei due. Felipe annuì. - Ines, io… Non sapeva come
continuare. Fu Ines a riprendere il discorso. - La cosa migliore è
questa: Isabel verrà con me e Miguel con te, così avrai il figlio che ti
sentivi obbligato ad avere. Felipe tremò, perché non
gli sembrava possibile riuscire ad avere capra e cavoli (per inciso: è vero
che i bambini notoriamente nascono sotto i cavoli, ma Testapelata
non sarebbe stato contento di sentirsi dare della capra da Felipe; tutto
sommato però avrebbe accettato, pur di avere Felipe con sé, sotto di sé,
dentro di sé, ecc.). Il pensiero di lasciare la
piccola Isabel lo faceva soffrire, ma il dolore di quella separazione veniva
smorzato dalla prospettiva di tenere con sé Miguel e di ritrovare Michel. Non
pensava che Ines avrebbe accettato di separarsi da Miguel. In realtà non lo aveva
pensato neanche Ines, ma si era resa conto che quella soluzione era l’unica
che tenesse conto delle esigenze di entrambi. E anche di quelle di Pedro,
come Ines aveva capito nelle settimane precedenti, mentre maturavano la
decisione: Pedro avrebbe accettato di dare il suo nome ad un figlio maschio
che non era suo, ma lo avrebbe fatto malvolentieri. - Grazie, Ines. Mi spiace,
so di non essere stato un buon marito. - Anche a me spiace,
Felipe. Tu saresti stato davvero un buon marito, ma… Rimasero un momento in
silenzio. Avevano parlato molto francamente, ma ora si sentivano entrambi in
imbarazzo. - Ines, sono io che me ne
devo andare. La taverna è tua e sono io che sono fuori posto, qui. Me ne
andrò in ogni caso. Ines scosse la testa. - Non posso rimanere qui.
Tutti sanno che sono tua moglie e non la moglie di Pedro. E io voglio una
vita normale per me e per i miei figli. Pedro mi ha raccontato molte cose.
Non sarà difficile stabilirsi altrove ed io risulterò essere sua moglie, i
nostri figli non avranno motivo di vergognarsi. Ines fece una pausa, poi
riprese: - Da tempo i Montalvo volevano comprare la locanda. Ne abbiamo
parlato. Domani firmeremo il contratto. Da domani sei libero. Devi però
procurarti una balia per Miguel. Felipe era frastornato,
ma, man mano che si rendeva conto della situazione, sempre più felice. E
sempre più conscio di non essere stato proprio un marito modello. Guardò Ines
e le disse ancora, un po’ mortificato: - Scusami. PARTENZA
Il mattino dopo, molto
presto, Felipe si alzò. La vendita era prevista per mezzogiorno e per
quell’ora doveva essere di ritorno, perché era necessaria anche la sua firma.
Ma per quell’ora, Felipe voleva aver già sistemato tutto. Doveva fare in
fretta, perché voleva partire il più presto possibile. Voleva raggiungere
Michel. Michel. Michel! Sulla porta lo aspettava
Pedro. Felipe colse la tensione sul suo viso. Anche lui era a disagio ed
anche per lui non era stato facile. D’impulso lo abbracciò, stretto. Pedro
rimase un attimo interdetto, poi ricambiò quell’abbraccio. - Perdonami, Felipe. Mi
sono sentito un verme, nasconderti la verità mi è pesato moltissimo. - Non ti preoccupare,
Pedro. È stata la cosa migliore, ha risolto questa situazione assurda in cui
mi ero cacciato. Mi spiace solo che non ci rivedremo più! Dopo la solita previsione felipesca, parlarono ancora un buon momento, poi Pedro
salì da Ines per aiutarla a preparare tutto e Felipe andò a caccia di una
balia. Il mercato degli schiavi
offriva di tutto, in quei tempi in cui i negrieri viaggiavano indisturbati (a
parte quando incrociavano Testapelata, ma questa è
un’altra faccenda). Uno dei mercanti aveva
pochi denti in bocca, ma una balia in vendita. La fece vedere a Felipe: era
una donna giovane, forte, che appariva perfettamente sana e pulita. Aveva in
braccio un bambino che doveva avere pochi mesi in più di Miguel. - Lei è fortunato: le
balie sono rare e perciò costose. Questa negra è un’ottima balia, con molto
latte. Le balie costano care, anche perché perdiamo il bambino. Dobbiamo
ammazzarlo: senza il latte materno muore. Felipe rabbrividì all’idea
che un bambino sarebbe morto perché Miguel fosse nutrito: non se ne parlava
neanche! La donna, che evidentemente parlava lo spagnolo ed aveva seguito la
discussione, si gettò ai piedi di Felipe, gridando: - Non me lo uccidete. Ho
tanto latte. Posso allattare due bambini. Comprate anche lui! Il mercante la afferrò per
i capelli e la tirò indietro con uno strattone. - Sta’ zitta, troia! Felipe intervenne subito. - No, va bene così. La
piglio con il bambino. Il mercante sorrise: - Benissimo, ottimo
investimento, un negretto che crescerà docile e potrà imparare a servire in
casa fin da bambino. È incredibile quanto docili siano i negri allevati fin
da piccoli. Sono un vero tesoro. Certamente, essendo così preziosi, hanno un
certo costo. Felipe guardò un attimo il
mercante e scoppiò a ridere: - Ma non dovevate
ammazzarlo, senza la madre? - Sì, ma ora che è con la
madre, è uno schiavo in più. Felipe era troppo allegro
per preoccuparsi più di un tanto. Contrattarono il prezzo e Felipe disse che
sarebbe passato nel pomeriggio a prendere la schiava ed il figlio. Lasciò un
acconto, riservandosi di pagare quando avesse ritirato la schiava. Raggiunse la bottega
dell’orefice Trujillo. Non c’era mai stato, ma era passato davanti diverse
volte, pensando che quell’uomo era in grado di metterlo in contatto con
Michel. Ed ogni volta quel pensiero gli aveva procurato una fitta al cuore.
Ora gli dava una gioia infinita. Appena lo vide entrare, un
signore sui cinquant’anni, con i capelli grigi, si alzò dal banco e gli
disse: - Sono contento di
rivederla, signor Llera. Venga con me, è tutto pronto. Felipe seguì Trujillo nel
retrobottega, sbalordito. Trujillo non lo aveva mai visto, almeno così
pensava Felipe. Come aveva fatto a riconoscerlo? Poi Felipe si disse che
Trujillo era un uomo di Michel e che quindi niente era impossibile. - Di partenza, allora? Felipe decise che non era
il caso di cercare di capire come l’uomo potesse sapere. Non aveva
importanza. Annuì. - Bene. Quando intende
partire? - Il più presto possibile. - Dovrei riuscire a
procurarle un passaggio per questa sera. Felipe annaspò. - Questa sera? Non intendeva così presto! - Sì, non va bene? Non ha
ancora trovato la balia? Felipe guardò Trujillo,
vagamente inquieto, ma aveva saggiamente rinunciato a capire. Rifletté un
attimo sulla sua situazione: in fondo, una volta presa la schiava, non ci
avrebbe messo molto a fare i bagagli. Per quello che possedeva! - Sì, ma siamo in tre: io,
una schiava che serve da balia e mio figlio, che ha tre mesi. No, ci sono due
bambini, uno bianco ed uno nero. - Va benissimo. Lei, la
schiava, due bambini e l’uomo che l’accompagnerà fino a Saint-Domingue. - Ma non c’è nessun uomo
che… - La persona che paga il
viaggio vuole essere sicura che non ci siano problemi durante il tragitto.
Quindi qualcuno l’accompagnerà. Ha bisogno di altro? - No, credo di no. Oggi
passo a ritirare la schiava. - Vuole che ci occupiamo
noi di ritirare la sua schiava? Gliela facciamo trovare già sulla nave. Era una buona idea, in
fondo: avrebbe avuto più tempo per occuparsi delle ultime faccende da
sbrigare. - Va bene. L’ho presa da Castroviejo. Le mando i soldi… - No, non c’è da pagare.
Ci pensiamo noi. - Ma… - Ordini superiori. Felipe aveva già sentito
quella frase, in un altro momento cruciale della sua vita. E la persona che
dava gli ordini era la stessa. Sorrise. Aggiunse solo: - Mi raccomando, voglio
anche il bambino. - Certamente. Tornando a casa Felipe
veleggiava a mezzo metro dal suolo. Avrebbe rivisto Michel. Quella sera
sarebbe partito per raggiungere Michel. Michel, il suo principe degli angeli.
Per un attimo fu assalito
da un dubbio. Erano passati circa sette mesi da quando aveva visto Michel
l’ultima volta. In sette mesi potevano succedere molte cose. In sette mesi si
poteva anche… Il pensiero era troppo
disturbante. Felipe preferì escluderlo dal suo cervello. |