4 Per chi ha la testa dura I due soldati lo condussero
in un cortile che Ramón non conosceva, dove si
trovavano alcuni dei soliti pali: sembrava che al Cerro del Diablo ogni spazio fosse attrezzato per torturare o
umiliare i prigionieri. I
soldati si fermarono davanti ai pali, ma non lo legarono. Ramón
osservò i massicci tronchi squadrati: ognuno aveva una trave orizzontale sul
davanti, che certamente serviva per bloccare le braccia del condannato. Ramón non aveva paura, anche se un senso di
stanchezza lo assaliva. Che senso aveva l’esistenza che conduceva? Arrivarono due altri
soldati accompagnati dall’uomo massiccio che lo aveva umiliato al palo pochi
giorni prima. Era a torso nudo ed aveva un bastone ed una brocca piena.
L’uomo immerse il bastone nella brocca e poi lo avvicinò al viso di Ramón. Ramón lo guardò senza
capire: era un pezzo di legno, perfettamente levigato, con la punta
arrotondata, delle dimensioni di un grosso zucchino. L’uomo fece un cenno ed i
soldati, ridacchiando, costrinsero Ramón a piegarsi
in avanti. L’uomo gli passò dietro e Ramón intuì
che stava per subire una nuova umiliazione. Ed infatti contro il culo sentì
premere il bastone, che fu spinto lentamente, ma inesorabilmente, dentro di
lui. Ramón bestemmiò sottovoce. I soldati fecero rialzare Ramón e lo spinsero contro il palo, il bastone in culo.
Gli bloccarono le mani dietro la trave orizzontale ed i piedi alla base del
palo. Solo
quando fu del tutto bloccato, Ramón incominciò a
sentire un bruciore violento nel culo, che andava crescendo di minuto in
minuto. Non era il bastone in sé, che non era più grande di quel fottuto
cazzo di quel fottuto capitano che lo aveva inculato poco prima: doveva
essere la sostanza in cui il bastone era stato intinto, a provocare quel
bruciore che cresceva. Ramón cercò di non mostrare
il dolore crescente e mantenne lo sguardo fisso nel vuoto. L’uomo
che gli aveva infilato il bastone in culo gli si avvicinò. Immerse nel
secchio una spugnetta, che Ramón non aveva visto
prima, e gli prese in mano l’uccello, ancora turgido, ma non più rigido. Ramón sussultò vedendo che l’uomo gli avvicinava la
spugnetta alla cappella. Il tocco della spugnetta fu una carezza di
carta-vetro: mille aghi che trafiggevano la pelle e poi si trasformavano in
chiodi, che gli laceravano la carne. Il dolore lo fece guizzare e,
nell’inutile tentativo di sfuggire al suo carnefice, Ramón
si sollevò sulle punte dei piedi. Il dolore cresceva e gli sembrava che il
suo cazzo stesse ardendo. Ma mentre stringeva i denti per non urlare,
realizzò che il cazzo stava ergendosi, sempre più duro e più grande. Ramón aveva una buona attrezzatura, ma ora il cazzo
cresceva oltre ogni misura e la sofferenza era intollerabile. L’uomo imbevette nuovamente la spugnetta
nel liquido, gli afferrò con decisione il grosso cazzo teso e gli ripassò la
spugnetta sulla pelle. Il corpo di Ramón ebbe un
guizzo disperato e gli occhi gli si inumidirono. Sollevò la testa ed inarcò
il corpo, cercando di sfuggire al fuoco che gli consumava l’uccello, ma non
aveva via di scampo. Sapeva di che cosa si trattava: una sostanza ricavata da
una pianta della foresta, che gli uomini usavano per stimolare l’erezione. Ma
andava usata in piccolissime dosi e sempre con un’altra sostanza che ne
contrastava l’effetto urticante. Circolavano molte battute feroci su qualche
gringo che aveva voluto provare la famosa medicina per l’uccello senza sapere
bene come fare. Le barzellette avevano tutte finali molto divertenti, con il
gringo che si gettava in acqua e veniva addentato da un alligatore (in che
punto, non occorreva dirlo), ma ora nessuno di quei finali faceva ridere Ramón. Ramón si contorse ancora, incapace di controllarsi. I
soldati ghignavano e lo beffeggiavano: -
Allora, con un bastone in culo quasi godi, eh? -
Non ce l’hai mai avuto così duro, di’ la verità. Ti piace, eh, avere qualche
cosa di duro in culo? Ramón si morse il labbro inferiore per non urlare. Pensò
che sarebbe impazzito e desiderò di morire, per sfuggire a quella sofferenza. Infine
l’uomo che lo aveva nuovamente umiliato gettò la spugna nel secchio e si
asciugò le mani con uno straccio. Aveva finito la sua opera e contemplava
soddisfatto i risultati del suo lavoro. Davvero soddisfatto: il rigonfio dei
pantaloni non lasciava dubbi sulla quantità di divertimento che aveva
ricavato dalla sua prestazione. Ramón si accorse
dell’erezione dell’uomo, che d’altronde non la nascondeva, ma sembrava
esibirgliela, per mortificarlo ulteriormente. Mentalmente lo maledisse, ma
non era nella posizione per fare commenti. Molto
lentamente, il dolore si attenuò, divenendo tollerabile. Dopo un po’, i
soldati lo slegarono, lo fecero nuovamente chinare e gli estrassero dal culo
il bastone. Poi lo guidarono, attraverso due cortili, fino ad una scala che
scendeva. La
scala sembrava piuttosto lunga e Ramón faceva
fatica a scendere i gradini: il culo gli bruciava, l’uccello era dolorante e
ad ogni passo i coglioni sembravano accendersi. Quando furono al secondo
piano sotto terra, Ramón cominciò ad avvertire una
sensazione di calore, che, man mano che procedevano, diventava sempre più
forte.
Quando infine arrivarono al fondo della scala, Ramón
si disse che dovevano essere almeno tre piani sotto il livello del cortile. Un
soldato aveva una torcia, che illuminava un lungo corridoio. Ramón notò che era stato scavato nella roccia e non
costruito: era un tunnel sotterraneo, forse parte dell’antica fortificazione
spagnola o forse addirittura della miniera: la miniera vera e propria era più
in basso, vicino alla stazione dove erano arrivati, ma Ramón
aveva sentito parlare di altri filoni lungo il fianco della montagna, scavati
in epoche diverse. Lì l’argento lo avevano cercato per secoli. Verso
il fondo del corridoio c’erano quattro sportelli bassi, bloccati da pesanti
spranghe di ferro. Un soldato tolse la sbarra ed aprì lo sportello. Alla luce
fioca della torcia apparve uno spazio tanto ridotto che Ramón
si chiese come sarebbe riuscito ad entrarci. Perché lì dentro lui doveva
entrare, questo lo sapeva benissimo. Quella era una delle celle di punizione
del Cerro del Diablo. -
Avanti, infilati dentro. Ramón si inginocchiò e guardò il bugigattolo davanti a
sé. Una volta dentro, non avrebbe potuto cambiare posizione in nessun modo.
Rifletté un attimo, mentre il soldato imprecava: -
Muoviti, stronzo! Entrò
con le gambe in avanti, che dovette ripiegare completamente perché i soldati
potessero chiudere la porta. Con il culo a terra e le gambe ripiegate, i suoi
piedi toccavano la parete di fondo e la schiena poggiava contro la porta. La
testa sfiorava il soffitto e, mettendo entrambe le braccia intorno alle
gambe, toccava le pareti con i gomiti. La
posizione era scomodissima, ma il peggio era la sensazione di soffocamento
che lo assalì. La roccia era tanto calda che sembrava di essere in un forno e
l’aria era irrespirabile. Bene,
stava facendo conoscenza con le famose celle di punizione del Cerro del Diablo. Erano all’altezza della loro fama. Il calore lo stordiva e lentamente Ramón scivolò in un sonno agitato, in cui si inseguivano
sogni angosciosi: la caserma bruciava e lui sapeva che dentro c’era Diego,
correva per salvarlo, ma il calore era tale che non riusciva più a muoversi,
sentiva Diego che gridava aiuto… Si
risvegliò con il cuore che batteva all’impazzata. Sentiva la gola ardere per
la sete ed il respiro gli mancava. E quando scivolò nel sonno, nuovamente
emersero fantasmi angosciosi. Stavano impiccando lui e Diego. Lui poteva
vedere, come se fosse stato uno spettatore: i soldati mettevano la corda al
collo di tutti e due, poi davano un calcio agli sgabelli su cui i loro piedi
poggiavano e loro due incominciavano ad agitarsi. Vedeva Diego che scalciava
appeso alla corda. Ora anche lui scalciava, disperatamente, non riusciva più
a respirare, non riusciva più. Stavano crepando tutti e due, la gola in
fiamme, il cazzo duro, una sensazione di calore intollerabile. Stavano
crepando, Diego smetteva di agitarsi… Diego era
morto, anche lui stava crepando…
Si svegliò di nuovo sconvolto, la gola in fiamme ed un cerchio alla
testa. Sì,
il Cerro del Diablo meritava davvero il suo nome.
In un fottuto posto del cazzo come quello, solo il diavolo poteva vivere. Una settimana in punizione Quando
vennero a prenderlo, stava dormendo, o forse agonizzando. Uscì a fatica dalla
cella, stordito, e dovette farsi forza per riuscire a salire le scale. Man
mano che si muoveva però, i muscoli, rimasti a lungo contratti,
riacquistarono un minimo di elasticità e la frescura dell’aria lo rinfrancò.
La gola ardeva ancora, ma ora era in grado di respirare. Prima
di uscire, gli misero nuovamente le catene ai piedi, stringendole in modo che
poteva appena muoverli, e le manette ai polsi, dietro la schiena. Fuori
c’erano tre soldati che lo aspettavano. Uno, quello che lo aveva umiliato al
palo, aveva un secchio in mano ed un bicchiere. Ramón
notò che li aveva già visti e realizzò che in realtà in quei giorni aveva
visto sempre gli stessi soldati, in numero molto limitato. Quel cortile in
cui si trovava era affidato a quel capitano ed a pochi uomini. Gli altri
soldati probabilmente non sapevano nemmeno della sua esistenza. -
Allora, dopo una notte in cella d’isolamento, hai certamente sete. Vuoi bere? L’uomo
con il secchio sogghignava e Ramón capì
immediatamente che cosa c’era nel secchio. Non
rispose, ma l’uomo probabilmente lo aveva previsto, perché non se ne stupì.
Si limitò a dire ai soldati: -
Fatelo inginocchiare. Ramón non era in condizioni di opporsi e si trovò in
ginocchio davanti al suo aguzzino. Questi gli avvicinò il secchio al viso. Ramón sentì l’odore del piscio che riempiva a metà il
secchio. Strinse le labbra. Se contavano sulla sua collaborazione, avevano
sbagliato i conti. Ma
nessuno contava sulla sua collaborazione. Due soldati lo costrinsero a
mantenere la posizione, mentre un terzo immergeva il bicchiere nel secchio e
poi glielo portava alle labbra. Ramón mantenne la
bocca ben chiusa, ma il carnefice gli chiuse il naso con una mano e gli
strinse la gola con l’altra. Ramón aprì la bocca
per respirare e sentì il liquido ancora tiepido scendergli in gola. Sputò e
tossì, ma ormai aveva ingoiato buona parte del piscio. L’aguzzino gli parlò
nuovamente: -
Allora, il capitano ha detto quattro bicchieri. Bevi tu o te li facciamo bere
noi? Ramón non rispose e non aprì la bocca. Per
altre tre volte, Ramón fu forzato a bere. Poi i
soldati che lo tenevano lo lasciarono e l’aguzzino si avvicinò con il
secchio. Lo alzò sopra la sua testa e ne rovesciò interamente il contenuto su
di lui. Ramón scosse
la testa con violenza, cercando di scrollarsi di dosso il piscio che gli
aveva inondato i capelli ed ora gli colava sulla faccia. Il suo movimento
brusco provocò una serie di schizzi che raggiunsero le divise dei soldati. - Ehi, stronzo! Ci hai
sporcato le divise! Uno dei militari gli poggiò
uno stivale sulla schiena e lo spinse bruscamente a terra. Poi premette con
lo stivale, schiacciandogli la faccia sul pavimento, proprio sulla pozza di
piscio. Ramón cercò di liberarsi, ma l’unico
risultato fu che l’anfibio gli lacerò la pelle della guancia. Hierro sentiva l’odore acre del piscio ed
avrebbe voluto scuotersi e saltare addosso a quei quattro cani rognosi, che
ora lo deridevano: - Cosa fai? Ti piace annusare
il piscio, come i cani? Se non avessimo altri ordini, ti faremmo leccare per
terra, fino a quando il pavimento non è asciutto. - Questo ne vuole ancora,
non ne ha avuto abbastanza! - Gliene do un po’ io, togli il piede, Martinez. Appena il soldato tolse il piede, un
getto prese Ramón in pieno sulla faccia. Quando finalmente il soldato ebbe finito,
un altro parlò: - Bene, così hai fatto
anche la doccia e sei pronto per la corvée che ti spetta, quella delle
latrine. Gli
tolsero le catene e le manette e quattro soldati lo condussero, attraverso
diverse porte, in un piccolo cortile più in basso, dove si trovava una delle
latrine. In quel cortile non era passato, quando era arrivato al Cerro del Diablo: probabilmente era un cortile laterale. Non c’era
nessuno e Ramón pensò che dovevano aver dato ordine
di tenere lontano tutti i soldati. Nel
cortile, davanti alle latrine, c’era un carretto con una grande tinozza. Un
soldato gli porse un secchio, legato ad una corda. -
Devi svuotare la latrina e gettare tutto nella tinozza. Per
un attimo Ramón si chiese se non scagliarsi sul
soldato, cercare di strangolarlo e farsi così ammazzare. Ma si disse che
sarebbe stato cedere e che lui non voleva cedere, non intendeva dargliela
vinta. Prese
il secchio, entrò nella latrina e lo immerse, poi lo tirò su con la corda.
Ovviamente, per svuotarlo nella tinozza, dovette prendere il fondo del
secchio con una mano, ma non aveva importanza, tanto si sarebbe sporcato
comunque. Ed
in effetti fu così. Il secchio, immerso ogni volta nella latrina, colava in
continuazione e ben presto ebbe le braccia, le gambe ed il ventre pieni di
schizzi. Un
solo soldato lo accompagnava nella latrina, per controllare l’operazione.
Quando infine il secchio incominciò a risalire quasi vuoto, il soldato disse: -
Va bene, può bastare. Uscirono
nel cortile. Uno
dei soldati, con una smorfia di disgusto in faccia, gli si avvicinò e gli
porse la corda che univa le due stanghe del carretto. -
Muoviti, devi andare a svuotarlo. Ramón lo guardò un attimo negli occhi, poi si passò la
corda sul petto e guardò interrogativamente il caporale. Questi si avviò e Ramón lo seguì, trascinando a fatica il carretto, lungo
un ripido passaggio in salita che correva tra due muri. La fatica lo faceva
sudare e la corda gli sfregava la pelle del torace, ma riuscì a procedere
senza fermarsi. Mentre arrancava lungo la salita si disse che almeno quella
corvée aveva un vantaggio: si sarebbe certo preso il tifo o il colera e
sarebbe uscito da quella situazione. Con i piedi in avanti, in una bara di
legno, ma sarebbe uscito. Arrivarono
in cima alla salita, dove nel muro si apriva una specie di finestra. Un
soldato tolse la barriera di legno ed abbassò le stanghe del carro, poi fece
segno a Ramón di procedere. Ramón tirò il carro fino a che fu esattamente davanti
alla finestra, poi spinse la tinozza verso il bordo del carro e la inclinò,
versandone il contenuto oltre la finestra. Mentre lo faceva vide il panorama:
un abisso vertiginoso si apriva da quel lato. Non si stupì, perché sapeva che
la montagna su cui sorgeva la fortezza era molto scoscesa su tre lati e per
questo nessuno era mai riuscito ad espugnare Cerro del Diablo.
Per un attimo pensò di lanciarsi nel vuoto e di farla finita. Ma nuovamente
si disse che non voleva cedere. Lasciarono
il carretto e ritornarono alla latrina. Ramón
dovette pulire il pavimento della latrina ed il cortile, togliendo la merda
che era caduta al suolo durante l’operazione.
Poi un soldato l’accompagnò alle docce. -
Lavati bene, mi raccomando. La
raccomandazione lo stupì: non ne capiva il motivo. Probabilmente il capitano
voleva divertirsi ancora un po’ con lui e perciò voleva che rimanesse in vita.
Non lavarsi bene, sarebbe stato un modo sicuro di beccarsi qualche cosa. Si
lavò con cura e si accorse che il soldato lo fissava con attenzione. In
particolare lo sguardo del soldato, quando pensava che Ramón
non se ne accorgesse, scendeva in un punto preciso. Ramón
non ci badò. La
doccia restituì a Ramón l’energia che la notte gli
aveva tolto e quando gli portarono da mangiare e da bere (acqua!) tirò il
fiato. Aveva
appena finito, quando due soldati vennero a prenderlo. Gli misero un
cappuccio in testa e lo portarono in un altro cortile, attraverso un lungo
percorso interno al forte. Attraversò di nuovo due dei cortili che aveva
visto il primo giorno e rivide la fila dei prigionieri che salivano e
scendevano ed altri uomini appesi ai pali. Alla
fine raggiunsero un piccolo cortile, dove al centro troneggiava una grande
macina. Guardando le catene attaccate ai pali che muovevano la macina, Ramón capì immediatamente: avrebbe dovuto muovere la
macina, spingendo. Non era il solo, c’erano già altri tre uomini, senza
cappuccio. Gli
tolsero il cappuccio, gli misero le manette ai polsi ed un colpo di frusta,
vibrato con forza sulla sua schiena, segnò l’inizio della corvée. La
macina era pesante ed avrebbe richiesto il lavoro di più persone. E poi, che
motivo c’era per macinare il grano in quel modo, invece di far arrivare la
farina, visto che di sicuro non c’erano coltivazioni di grano in quell’area?
Era una domanda stupida: il senso era sempre lo stesso, lo stesso di portare
blocchi di pietra in cima ad un pendio e poi riportarli giù, di svuotare a
mano una latrina, intasata forse da anni, invece di sbloccarla o costruirne
una nuova, di usare uomini e non muli per far girare la macina. Il senso era
sempre lo stesso: umiliare e punire. Man
mano che procedeva, Ramón sentiva la fatica
crescere. Era molto forte, ma aveva dormito male e gli sembrava che il peso
della macina andasse aumentando ad ogni giro. Le mani che poggiava sul legno
erano sudate e scivolavano, ma non c’era altro modo di spingere. Le braccia e
le spalle incominciarono a dolergli. Ben
presto si accorse che i suoi compagni di lavoro stavano cedendo, nonostante
le frustate che ricevevano, ed il peso gravava sempre più su di lui. Il
sudore che gli colava sulla faccia gli annebbiava la vista. Era esausto. Vide
che era arrivato qualcun altro, ma non ci badò, finché non sentì una voce che
diceva: -
Basta. Cambio turno. Quelle
parole gli allargarono il cuore. Si fermò e respirò a fondo. Guardò il sole
alto in cielo e si disse che probabilmente erano passate quattro ore. I
soldati liberarono dalle catene i tre uomini che avevano mosso la macina con
lui ed attaccarono al loro posto altri tre prigionieri. Ramón
guardò i soldati che avevano completato l’operazione, chiedendosi perché non
lo avessero slegato. I
soldati capirono, perché uno ghignò e gli disse: -
Tu prosegui. Per te doppio turno. La
frustata che lo prese in pieno sulla schiena segnò la ripresa del lavoro.
Chiuse gli occhi e riprese a spingere. All’inizio
si accorse che i nuovi venuti si muovevano con maggiore energia dei due
precedenti e si disse che sarebbe riuscito a reggere. Con il passare del
tempo però, nuovamente il ritmo degli altri tre rallentò e Ramón sprofondò in un inferno di fatica. Il sudore che
gli gocciolava sulla faccia lo accecava e doveva continuamente spostare le
mani per riuscire a far presa sul legno, ormai impregnato del suo sudore. La
pelle del palmo delle mani gli bruciava. Si
disse che non ce l’avrebbe mai fatta. Ricevette
due frustate, che gli ricordarono che non poteva rallentare il ritmo. Barcollava,
ma continuava a spingere come un automa. Infine
sentì le parole del sorvegliante: -
Fine turno. Ramón cadde in ginocchio, sfinito, le mani ancora
incatenate al legno della macina. I soldati lo slegarono, gli misero
nuovamente il cappuccio in testa e lo ricondussero alla fortezza. Il
cappuccio, intriso di sudore, gli aderiva alla faccia ed ostacolava la
respirazione. La stanchezza gli ottundeva i sensi e due volte incespicò. Gli
permisero di sedersi a mangiare. Notò che la cena che gli davano era
relativamente abbondante: evidentemente non volevano che esaurisse le sue
forze subito. Poi
lo condussero di nuovo nella cella di punizione. I
giorni successivi passarono tutti nello stesso modo. Solo il terzo giorno ci
fu un cambiamento. Il soldato che lo accompagnava alle docce, quando si fu
ben lavato, gli disse a voce bassa: -
Vieni avanti, ma non chiudere la doccia. Ramón ubbidì e si allontanò dal getto. Il soldato si
inginocchiò davanti a lui e gli prese in bocca il sesso. Incominciò a
leccarlo e poi a succhiarlo con avidità, fino a che l’uccello non si
inturgidì. Allora il soldato allontanò la bocca e lo fissò, come affascinato.
Poi gli afferrò a piene mani il culo, affondando le dita nella carne, in una
presa vigorosa che solleticò piacevolmente Ramón.
Le dita stringevano e lo sguardo dell’uomo passava dall’uccello proteso in
avanti al viso di Ramón. La sensazione al culo era
piacevole, maledettamente piacevole, e l’uccello di Ramón
si stava mettendo sull’attenti. L’uomo sorrise e si avventò sulla preda, con
un tale entusiasmo che per un attimo Ramón temette
che l’uomo volesse davvero cibarsi della sua arma. Ma
i denti stuzzicarono senza mordere, la lingua accarezzò, le labbra avvolsero,
la lingua si mise a punzecchiare con colpetti leggeri, le mani avvolgevano le
natiche ed a tratti le artigliavano, poi la destra passò sul davanti, soppesò
le palle di Ramón (ed il brivido dell’ex-sergente
non fu solo di piacere: l’area era ancora un po’ dolorante), poi la bocca
mollò la presa e Ramón avvertì un senso di
mancanza. Ma la lingua scendeva. Accarezzava la mazza nodosa, poi risaliva e
la bocca nuovamente avvolse la sua preda. L’uomo
riprese la sua attività, ad un ritmo sempre più veloce, mentre infilava la
mano destra nei pantaloni. La sinistra continuò ad accarezzare, stringere,
pizzicare e solleticare il culo di Ramón, che
chiuse gli occhi e si abbandonò a quella sensazione. Non esisteva nulla se
non quel calore che si accendeva nel suo corpo, che dal sesso irradiava
dentro di lui, regalandogli un attimo di piacere. Si
sforzò di cancellare ogni ricordo, ma quando infine il piacere esplose in
lampi accecanti, l’immagine di Diego si impose con forza. Il
giorno dopo il soldato non c’era e Ramón non lo
rivide più. A testa alta Da
quanto tempo durava quella vita assurda? Mentre emergeva dal buco nella
roccia in cui trascorreva le notti, Ramón si rese
conto che doveva aver perso il conto dei giorni. Sette od otto,
probabilmente. Quanto sarebbe durata? Quando finalmente il suo fisico avrebbe
ceduto? Al
termine della scala, quando uscirono nel cortile, vide che accanto ai soliti
soldati c’era il capitano. Lo accompagnarono ai pali, dove era legato Mulo. Ramón non lo aveva più visto da quando era in punizione. Il
capitano gli porse la frusta. Non disse nulla, ma non era necessario: doveva
frustare Mulo, riconoscendo così la sua sconfitta. Solo in quel modo sarebbe
uscito dall’inferno di quei giorni. Guardò
la frusta che il capitano gli porgeva. Non voleva frustare un uomo per il
divertimento del capitano, ma non era quello, non era solo quello: non aveva
nessuna intenzione di cedere. Preferiva crepare, che lo facessero pure
affogare nella merda, che lo schiantassero, non gliene fregava un cazzo.
Potevano andare tutti a farsi fottere. Non
prese la frusta, ma sibilò, con una voce bassa, in cui tremava una furia
appena contenuta: -
No, signor capitano. Il
capitano non mostrò nessuna sorpresa, annuì appena: si sarebbe piuttosto
detto che era soddisfatto, che Ramón aveva
confermato le sue previsioni. -
Vieni con me. Si
diresse in un angolo del cortile dove, contro un muro, erano accatastati otto
sacchi di sabbia, in due pile di quattro. -
Vediamo che cosa sei capace di fare. Il
capitano gli porse di nuovo la frusta. Ramón non capiva il senso di quella sfida, ma prese la
frusta: sentiva un desiderio incontenibile di colpire, distruggere,
annientare. Doveva sfogare in qualche modo la rabbia che gli covava dentro. Soppesò
la frusta, mosse due volte il polso per verificare come rispondeva ai
comandi, poi alzò il braccio e vibrò un colpo, con tutta la sua forza, su uno
dei sacchi. Lasciò che la frusta colpisse il sacco e poi, mentre era ancora
sulla tela, con uno scatto del braccio, la fece strisciare sul sacco,
lacerandolo. Un po’ di sabbia uscì dallo squarcio nella tela. Ramón colpì di nuovo, con la stessa violenza, spaccando
completamente il sacco. In
un crescendo di rabbia, quasi stesse distruggendo tutto ciò che l’opprimeva,
abbatté la frusta due volte su ogni sacco ed infallibilmente, uno dopo
l’altro, i sacchi si lacerarono, mentre la sabbia volava nell’aria,
sollevandosi ad ogni colpo. Quando
tutti i sacchi furono lacerati, Ramón non si fermò,
ma continuò a colpire, con foga sempre maggiore, e la catasta si trasformò in
una pila informe di sabbia. Una nuvola giallastra avvolgeva il gruppo di
soldati, ma Ramón non sembrava neppure
accorgersene: in preda ad una furia cieca, alzava la frusta e la faceva
piombare sui sacchi, senza sentire la stanchezza, senza badare al sudore che
scorreva a rivoli sul suo corpo. Sembrava che nulla e nessuno avrebbe potuto
fermarlo, ma il capitano parlò: -
Basta! Era
stato appena un sussurro, ma Ramón si fermò,
immediatamente. Solo in quel momento avvertì il calore che gli arrossava il
viso ed il corpo, la tensione, la fatica. Guardò il capitano negli occhi e
per un istante pensò di colpirlo, con quella frusta, come aveva colpito i
sacchi. Prima che i soldati fossero riusciti a fermarlo, lo avrebbe sfigurato
per sempre. Ma
Ramón Hierro era un
soldato. Senza una parola, porse la frusta al capitano. Era pronto a
ridiscendere all’inferno. Il
capitano prese la frusta, senza distogliere lo sguardo dagli occhi di Ramón. Poi, continuando a guardarlo, disse: -
Castellanos, portalo nella stanza interna. Un
soldato si fece avanti e disse a Ramón: -
Seguimi. Poi
si avviò verso un passaggio coperto, su un lato del cortile. Di lì arrivarono
in un cortile più piccolo, superarono una delle innumerevoli porte sbarrate
di quell’inferno, ed infine entrarono in un edificio. Il soldato lo guidò
lungo un corridoio fino ad una porta. Aprì la porta e Ramón
vide una stanza, piuttosto ampia, con una branda, un tavolo e due sedie. Su
una parete si apriva una finestra. -
Dall’altro lato del corridoio c’è la doccia ed il cesso. Da mangiare te lo
portano tra mezz’ora. Non devi uscire dalla stanza, se non per andare al
cesso o alla doccia. Ramón guardò il soldato. Avrebbe voluto chiedere, ma
sapeva che il soldato non gli avrebbe risposto. Di certo tutto era stato
preparato, il soldato aveva già ricevuto le istruzioni prima, in qualche modo
il capitano aveva previsto che cosa sarebbe successo. Che
cosa significava? Non avrebbe saputo dirlo. Non doveva farsi illusioni: forse
il capitano gli permetteva di respirare un attimo, solo perché non si
abituasse all’inferno, per riuscire a piegarlo meglio. Perché quello che il
capitano voleva era piegarlo, o spezzarlo. Non aveva importanza, tanto
valeva approfittarne. Si fece una lunga doccia, gustando la sensazione
dell’acqua che gli scorreva lungo il corpo. Poi si asciugò e ritornò nella
stanza. Guardò dalla finestra e vide che dava su un altro cortile, molto
piccolo, stretto tra alte pareti senza finestre. Il sole non raggiungeva il
suolo polveroso. Quella fortezza era un labirinto di muraglie, edifici,
cortili e passaggi. Ci avevano messo secoli per costruirla ed ognuno, dai
primi spagnoli fino agli ultimi governi, avevano aggiunto, ingrandito e
rafforzato. Il lavoro di centinaia di anni per realizzare l’inferno. Ramón si stese sul letto ed immediatamente si
addormentò. Lo
svegliarono poco dopo, portando la colazione. Dopo aver mangiato però, Ramón si stese e di nuovo si addormentò. Aveva troppo
sonno arretrato: nelle celle di punizione del Cerro del Diablo
il sonno era un delirio che non ritemprava, ma sfiniva. La fine di Ramón Hierro Il
mattino dopo, lo portarono in un ufficio. Il capitano era seduto alla
scrivania e quando Ramón entrò lo guardò appena. Ramón rimase in piedi un buon momento, mentre il capitano
sistemava alcune carte. Infine
il capitano si rivolse a lui, fissandolo negli occhi. -
Bene, oggi sarai sottoposto ad una nuova prova, di resistenza. I soldati
andranno avanti fino a che tu non crepi o non gli dici di fermarsi. Tu potrai
interrompere la prova in qualsiasi momento, dicendo “basta”. Il
capitano si interruppe un attimo, come per invitarlo a concentrarsi su quello
che stava per dire, poi completò: -
Tu non dire mai “basta”. Così la finiamo con questa menata. -
Come vuole, signor capitano. Non
sapeva in che cosa consistesse quella prova. Pensò che probabilmente la
“menata” che sarebbe finita era la sua vita, ma andava bene così. Perché
quella non era vita. Attraverso
una scala, scesero in un locale sotterraneo, una grande stanza a volta, priva
di finestre, in cui c’erano tre soldati. Al centro della stanza c’erano due
grandi blocchi di pietra, con delle catene fissate al suolo. Non era
difficile immaginare che su quei blocchi venivano incatenati i prigionieri,
per qualche tortura. Non sapeva quale supplizio fosse, ma lo avrebbe scoperto
presto, molto presto. Si
guardò intorno, cercando gli strumenti che avrebbero utilizzato per
torturarlo, ma non vide nulla, se non altri blocchi di pietra, squadrati, di
dimensioni diverse, ma tutti più piccoli dei due al centro della stanza. Non
poteva però scorgere che cosa c’era al fondo della sala, perché le luci della
volta rischiaravano male la parete d’ingresso e quella opposta, lasciandole
in ombra. Come
aveva intuito, lo fecero distendere su un blocco di pietra e gli bloccarono
le caviglie ed i polsi con catene, in modo che non potesse muoverli. Rimase
disteso a guardare il soffitto per qualche minuto, fino a che sentì delle
urla e volse la testa verso la porta. Le urla si avvicinavano: un rosario di
bestemmie ed insulti, che sembrava rinnovarsi in continuazione, tirando giù
dal cielo tutti i santi e schizzando fango su ogni grado della gerarchia
militare. La
voce ora era molto vicina e sulla porta comparve un uomo tra due soldati,
seguito da altri due soldati ed un ufficiale con un camice, probabilmente un
medico. Quando
il prigioniero fu più vicino e Ramón poté vederlo
alla luce, lo riconobbe: era l’uomo che aveva stordito sul treno e che era
rimasto svenuto sul pavimento del vagone per tutta la notte. Continuava a
bestemmiare ed insultare e cercava di liberarsi, ma con le mani legate dietro
la schiena, la catena ai piedi e due soldati ai fianchi, non aveva certo
molte possibilità di opporsi. Lo
portarono al blocco di pietra di fianco a quello su cui giaceva Ramón, lo sollevarono di peso e lo stesero. -
Bastardi, figli di puttana, bastardi, lasciatemi! Ramón si chiese qual era il senso di quelle urla, che non
avrebbero certamente impedito ai soldati di fare quello che dovevano. Molto
rapidamente, le due caviglie vennero fissate alle catene, poi i soldati
liberarono le mani del prigioniero, che cercò di divincolarsi e di colpirli.
Dovettero mettersi in quattro per tenerlo fermo e bloccargli le braccia nelle
catene. Ora
erano entrambi distesi, in attesa di quello che sarebbe seguito. Ramón vide che due soldati prendevano uno dei blocchi
squadrati accatastati contro la parete e lo portavano verso il prigioniero al
suo fianco. I due soldati sollevarono, con una certa fatica, il blocco e lo
poggiarono sul torace del prigioniero, la cui voce si spense in un grido
soffocato. I
due soldati presero un secondo blocco e lo portarono dove era disteso Ramón. Lo sollevarono e lo passarono sopra il suo torace.
Poi lo abbassarono su di lui. Ramón avvertì il peso
che lo schiacciava, premendo la cassa toracica e rendendo difficoltoso il
respiro. Non riusciva più ad immettere molta aria nei polmoni e presto
incominciò a sentire un dolore sordo che sembrava bruciargli dentro. I
soldati andarono a prendere ognuno un altro blocco, più piccolo del primo, e
li poggiarono sul torace dell’altro prigioniero, che ormai gemeva appena. I
blocchi erano perfettamente squadrati, come se li avessero sagomati per
utilizzarli nella costruzione di una casa o di un muro. I
due soldati presero altri due blocchi e si avvicinarono a Ramón.
Ramón li fissò, impassibile. Uno dei due soldati lo
guardò e, senza distogliere gli occhi dai suoi, poggiò il blocco sopra quello
che già gravava sul torace di Ramón. Ramón sentì il peso che lo opprimeva crescere
e, anche se il blocco era molto più leggero del primo, la sensazione di
soffocamento aumentò. Il soldato arretrò ed allora l’altro si fece avanti con
il suo blocco. Anche lui lo guardava, come se si aspettasse un “basta”, ma Ramón tacque. Il capitano gli aveva detto di non cedere e
lui non avrebbe ceduto. Avvertì nuovamente
l’aumento di pressione e si rese conto che respirare diventava sempre più
difficile. Gli sembrava che i polmoni stessero prendendo fuoco. Vide i due soldati andare a
prendere un altro blocco, grande come il primo. Ramón
si tese: non avrebbe potuto sopportare quel peso. I due soldati si diressero
verso l’altro prigioniero, che li guardava ad occhi sbarrati. Sollevarono con
un certo sforzo il grande blocco e lo poggiarono sopra gli altri. Ramón sentì il rantolo del prigioniero, che
voltò la testa di lato di scatto. Dalla bocca uscì sangue. Ramón non ebbe bisogno di aspettare che l’ufficiale
tastasse il polso del prigioniero per sapere che era morto. I soldati andarono a
prendere un nuovo blocco e Ramón vide che aveva le
stesse dimensioni di quello che aveva ucciso l’altro prigioniero. Sapeva che,
per quanto forte, non avrebbe potuto resistere a quel peso: già ora riusciva appena
ad introdurre un po’ d’aria nei polmoni. I due soldati trasportarono
il blocco sopra Ramón, lo sollevarono sopra gli altri
blocchi e lo guardarono, aspettando che lui dicesse loro di fermarsi. Ramón guardò la volta della stanza e strinse le labbra.
Non li avrebbe fermati, avrebbe ubbidito fino in fondo a quell’uomo che lo
aveva torturato, umiliato, inculato e ora lo faceva morire. Si era impegnato
a non dire mai “basta” e avrebbe mantenuto la sua parola, come aveva sempre
fatto in vita sua. Era un modo idiota di
morire, ma la vita che conduceva non aveva un senso. Si allontanò da quella
stanza, dal masso che stava per calare su di lui e pensò a Diego. Lo amava e
l’unica cosa che davvero rimpiangeva nella vita era di non averlo capito
prima. I due soldati abbassarono
il masso. Quel pomeriggio venne
scavata una fossa nello spazio tra la prima e la seconda cinta di mura esterne,
dove venivano sepolti i prigionieri di cui nessuno reclamava il cadavere. Un
corpo massiccio avvolto in un lenzuolo venne calato nella terra: i
prigionieri non avevano diritto a bare. Subito dopo la sepoltura,
un telegramma fu inviato ad un ufficio del ministero. Il
soldato Ramón Hierro è
deceduto oggi a causa di infarto cardiaco durante un’esercitazione e il
cadavere è stato sepolto immediatamente. |