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   2 I prescelti        
       Ora
  la stazione sembrava deserta. Nel vagone c’erano stati commenti ed
  imprecazioni, ma poi era di nuovo sceso il silenzio, a parte i gemiti
  dell’uomo che Ramón aveva colpito nella notte e che
  si era risvegliato, ma non riusciva ad alzarsi. Faceva abbastanza caldo,
  perché il sole era alto in cielo, ma ormai erano sulle montagne ed il calore
  non era soffocante. La notte avrebbero sofferto il freddo, a meno che non li
  mettessero nelle celle di punizione. Ramón sapeva
  che in alcune celle sotterranee le temperature erano altissime, per la
  presenza di rocce calde: il Cerro del Diablo era
  stato costruito su un vulcano, non più attivo.       Un
  inferno di freddo e caldo intollerabili. Toccava l’uno o l’altro. Bella
  scelta! Ma non sarebbe stata una scelta sua. Lui aveva finito di scegliere.        Li
  vide arrivare. Due capitani ed una ventina di soldati. Si allontanò dalla
  fessura.       Aprirono
  la porta e li fecero scendere, uno ad uno. Man mano che uno di loro metteva
  piede a terra, gli bloccavano i polsi con le manette.        Ramón osservò i capitani. Uno dei due, più piccolo e
  magro, dirigeva tutta l’operazione, continuando a vociferare: insultava i
  prigionieri che non si muovevano abbastanza in fretta, imprecava contro i
  soldati, che secondo lui erano lenti nel mettere le manette, due volte
  bestemmiò quando un prigioniero, ostacolato dalla catena ai piedi, inciampò
  nello scendere e cadde a terra, senza riuscire a rialzarsi subito.         L’altro
  capitano non diceva una parola e rimaneva defilato, ma l’attenzione di Ramón si fissò su di lui. Era alto, più di lui (e Ramón non era certo basso) e massiccio, un vero toro, con
  un grosso collo largo quasi come la testa. Aveva capelli e baffi grigi ed uno
  sguardo acuto, che metteva a disagio. Guardava i prigionieri man mano che
  scendevano e sembrava soppesarli.          
  Nel vagone era rimasto solo l’uomo che Ramón
  aveva colpito.       -
  E questo che cazzo ci fa?        Il
  capitano salì e guardò l’uomo.       -
  Cazzo, chi è stato a conciarlo così? Vi metto tutti in punizione.       Ramón fece un passo avanti.        -
  Sono stato io.       -
  Sei uno stronzo! Che cazzo pensavi di fare, pezzo di merda? Questa te la
  faccio pagare. Sangue, ti faccio cagare, sangue!       Il
  capitano continuava a strillare, ma Ramón non ci
  badava. Sentiva su di sé lo sguardo dell’altro capitano, che lo metteva a
  disagio. Non era tipo da sentirsi facilmente in soggezione, ma quello sguardo
  sembrava entrargli dentro, come se quell’uomo fosse in grado di leggere nella
  sua testa. 
       Il
  soldato a cui il capitano si era rivolto aveva appena fatto un passo, quando
  l’altro capitano parlò. Aveva una voce profonda, ma parlò piano. Disse solo:    
  - Quello lo prendo io, Gomez.       Il
  capitano Gomez rimase un attimo interdetto, poi annuì. Era evidente che non
  gli era nemmeno passato per la testa di discutere la decisione dell’altro.
  Anche se avevano lo stesso grado, quella non era stata una richiesta, era una
  decisione, che non si discuteva.       Gomez
  si limitò a chiedere:       -
  Quali altri vuoi?       Il
  capitano si limitò a fare un cenno con la testa, quattro volte. I
  soldati spinsero i quattro prigionieri accanto a Ramón. Il capitano non aveva scelto a caso: erano gli
  uomini più decisi, quelli che Ramón avrebbe scelto
  per un’azione. Non quelli che avrebbe scelto come amici, forse, ma su quel
  fottuto vagone molti soggetti con cui stringere amicizia certo non c’erano.       Gomez
  fece togliere le manette a due uomini, che si caricarono il prigioniero
  malconcio ed il gruppo si avviò, con le catene ai piedi, scortato dai
  soldati. Per un buon momento Ramón sentì Gomez che
  continuava ad imprecare e bestemmiare, poi il gruppo scomparve ad una curva
  della strada.       Alla
  stazione erano rimasti sei soldati ed il capitano. Questi fece cenno ad uno
  dei soldati, che estrasse da una sacca cinque pezzi di tela bianca. Il
  soldato si avvicinò ad uno dei prigionieri e aprì la tela: era una specie di
  cappuccio, che venne messo sulla testa del prigioniero. Uno dopo l’altro,
  tutti e cinque
  furono incappucciati. La tela era leggera e Ramón
  era in grado di vedere abbastanza bene. Non serviva per impedire loro di
  vedere dove andavano. E allora, per che cazzo serviva?       Perché
  gli altri non li vedessero, una volta arrivati al forte? Sì, doveva essere
  così, non c’era altra spiegazione. Ma perché gli altri non dovevano vederli?
  E perché gli avevano messo subito il cappuccio, senza aspettare di essere al
  forte?       Ramón non aveva una risposta da dare. Forse una risposta
  non c’era neppure. E se c’era, prima o poi l’avrebbe avuta, ma era
  probabile che quella fottuta risposta non gli
  piacesse
  per niente.       -
  In marcia, dobbiamo arrivare in un quarto d’ora.       Ramón non
  sapeva quanto fosse distante il Cerro del Diablo.
  Un quarto d’ora poteva essere un tempo ragionevole o una pura follia, un
  pretesto per metterli in punizione appena arrivavano. Lo avrebbe scoperto
  quanto prima. Entro un quarto d’ora.       Uscirono
  dalla stazione, ma non presero la strada che avevano seguito gli altri. Si
  inerpicarono lungo un sentiero che saliva ripido. Il terreno era fangoso,
  perché doveva essere piovuto nella notte, ed a tratti i piedi affondavano
  nella melma. Il fango rimaneva attaccato ai piedi, rallentando la marcia.
  Inoltre in parecchi tratti il sentiero era molto sdruccioloso ed era
  difficile rimanere in piedi.  
       Il
  capitano sembrava procedere come se fosse su una scala di cemento, senza
  nessuno sforzo. Ramón gli tenne dietro, senza
  lasciare che lo distanziasse, ma quando arrivò alla fine del sentiero era in
  un lago di sudore, anche se non faceva molto caldo.       Quando
  furono giunti alla porta del forte, il capitano si voltò e lo guardò. A Ramón parve che annuisse, appena un cenno, come avesse
  avuto una conferma di quanto si aspettava. Poi il capitano
  guardò indietro, ma non c’era nessuno dietro di loro. Ci vollero diversi
  minuti perché arrivassero i soldati e gli altri prigionieri. Uno doveva
  essere caduto, perché anche attraverso il cappuccio Ramón
  vide che era tutto inzaccherato.       Superate
  le imponenti fortificazioni esterne, entrarono nella caserma e continuarono a
  salire: il forte era costruito lungo il pendio ed il posto dove erano diretti
  si trovava evidentemente nella parte alta. Attraversarono un primo cortile,
  molto ampio, in cui c’era un grande andirivieni di soldati. Sembrava una
  caserma normale, in cui fervevano le attività del mattino, ed i soldati li
  guardavano passare, ridacchiando.       Una
  porta sbarrata nella parte alta del cortile si aprì per farli accedere ad un
  secondo cortile, meno vasto del primo e nettamente più inclinato. Anche qui
  c’erano parecchi soldati, ma la situazione appariva diversa. Gli uomini, che
  indossavano solo un paio di calzoni corti, spesso strappati, avevano le
  catene ai piedi e formavano una lunga fila che si muoveva lentamente lungo la
  salita. La lentezza non dipendeva dalla cattiva volontà degli uomini, né
  dalla mancanza di stimoli esterni, perché era evidente che i prigionieri
  facevano il massimo sforzo per procedere il più rapidamente possibile e tre
  caporali, in posizioni diverse, non risparmiavano i colpi di frusta per
  costringerli a mantenere il ritmo di marcia. Ma ogni uomo era gravato da un
  blocco di pietra squadrato, che reggeva a fatica. Ramón
  si disse che probabilmente servivano per qualche nuova costruzione: con
  l’avvicinarsi della guerra, la posizione strategica di Cerro del Diablo diventava sempre più importante e di certo la
  fortezza veniva ampliata e rinforzata, utilizzando come manodopera i soldati
  inviati in punizione.       Il
  capitano ed il suo gruppo proseguirono parallelamente alla fila, diretti
  anch’essi verso l’alto. A metà strada, Ramón capì
  che in realtà gli uomini non stavano portando i blocchi da nessuna parte,
  perché arrivati in cima al cortile semplicemente si voltavano indietro ed
  incominciavano a scendere. Uno degli uomini che avevano iniziato a scendere,
  squilibrato dal peso, inciampò nella propria catena e cadde rovinosamente.
  Per sua fortuna, il blocco che trasportava finì a terra sul lato esterno
  della fila, e si fermò, senza travolgere nessuno.        Immediatamente
  uno dei caporali fu su di lui ed incominciò a frustarlo con tutte le sue
  forze. Il primo colpo prese il disgraziato in piena faccia e l’uomo subito
  chinò il capo, per non offrire il viso ai nuovi colpi.         Ramón non poté vedere altro, perché il suo gruppo
  proseguì nella salita e giunse all’estremità superiore del cortile. Qui
  trovarono un’altra porta chiusa, che si aprì per lasciarli entrare in un
  terzo cortile, più piccolo ed anch’esso disposto in salita, ma con una minore
  inclinazione. C’era una serie di pali sul lato destro del cortile ed ogni
  palo era collegato al successivo da una trave posta in alto. Da una dozzina
  di queste travi pendevano altrettanti corpi, tutti nudi, tutti con i segni
  delle frustate sul corpo.       Avanzarono
  lentamente lungo la fila dei pali: il capitano voleva che avessero modo di
  osservare con attenzione gli uomini appesi. Alcuni toccavano il suolo con i piedi,
  ma molti altri erano sospesi ad una spanna da terra. Due avevano le braccia
  legate dietro la schiena e la fune che li reggeva era attaccata ai loro
  polsi: in quella posizione, con le spalle slogate, sembravano marionette
  appese da un burattinaio inesperto. Sembravano entrambi incoscienti, come
  pure diversi degli altri. Solo tre o quattro non erano svenuti e Ramón si disse che la loro sorte era la peggiore: guardò
  le loro labbra screpolate dalla sete, i visi stravolti dal dolore e dalla
  stanchezza, il sangue raggrumato sulle ferite, le mosche che si posavano
  sulle lacerazioni della pelle, sul viso, sui genitali. Due di loro tremavano
  in continuazione ed uno emetteva suoni indistinti, che erano forse un’inutile
  richiesta di pietà. Ramón avvertì l’acre odore di
  piscio e di merda e provò pena per l’umiliazione subita da quei poveretti.       L’ultimo
  uomo appeso non dava segni di vita e guardandone il viso rovesciato, con gli
  occhi aperti, Ramón pensò che fosse morto. Se era
  così, era senz’altro il più fortunato.       Al
  termine del cortile passarono attraverso altre tre porte sbarrate che
  conducevano a passaggi coperti. Ad ogni porta un soldato bussava, un altro
  soldato dall’interno guardava da uno spioncino e solo allora apriva.       Alla
  fine, dopo aver superato le diverse porte, arrivarono in un cortile più
  piccolo dei precedenti e non inclinato. Lì si fermarono.       Il
  soldato che aveva messo loro i cappucci, li tolse. Ramón
  diede una rapida occhiata intorno. Il cortile era stretto tra edifici
  piuttosto alti, quasi tutti con sbarre alle poche finestre. Su
  un lato c’erano quattro pali, a breve distanza l’uno dall’altro, sul lato
  opposto un palo posto su una piattaforma. Lungo il muro di fondo, i segni di
  molti proiettili. Quel muro doveva essere usato per le fucilazioni e Ramón si chiese se era lì che avevano fucilato il
  generale González ed i suoi ministri, dopo l’ultimo
  colpo di stato. Tutti sapevano che li avevano spediti al Cerro del Diablo e che di lì nessuno era tornato.       Mentre
  si poneva la domanda, il capitano parlò ad uno dei soldati:       -
  Provvedete a pulirli.       Li
  introdussero in uno stanzino, tolsero i cappucci, ma non le catene, e li
  fecero passare in un angusto locale per le docce. Aprirono al massimo i getti
  di acqua gelata. Ramón inclinò un po’ la testa, in
  modo da riuscire a bere l’acqua. Ebbe tempo di bere a sazietà, perché li
  lasciarono a lungo, tanto che Ramón, benché fosse
  abituato all’acqua fredda, incominciò a rabbrividire. Uno degli uomini, non
  reggendo più, cercò di scostarsi un po’ dal getto gelido, ma ricevette una
  manganellata sulle costole. Ramón si sforzò di
  rimanere fermo.       Infine li fecero uscire. L’aria era
  fresca, ma il sole li riscaldava.       -
  In ginocchio.      
  L’urlo del sergente li prese di sorpresa. Uno dei prigionieri fu più
  lento ad ubbidire e subito su di lui si abbatté la frusta.         
  Il capitano uscì da uno degli edifici e li squadrò.       -
  Voi siete stati assegnati a quest’area. Da domani incominceremo una serie di
  esercitazioni. Adesso vi sarà dato da mangiare e da bere, poi sarete condotti
  nelle vostre stanze, da cui non potrete uscire fino a domani mattina, quando
  partiremo per la prima esercitazione.       Il
  capitano li guardò ancora un momento, poi aggiunse: 
       C’era
  un senso in alcuni di quei soprannomi: l’espressione feroce e subdola di
  Alligatore davvero faceva pensare ai grandi rettili che costituivano un
  pericolo mortale lungo i fiumi; Scimmia aveva braccia sproporzionatamente
  lunghe e Mulo era più grasso degli altri e apparentemente goffo, anche se
  certamente era un individuo pericoloso. Ramón non
  avrebbe saputo spiegare il proprio soprannome, forse era solo un modo per
  umiliarlo.       Dopo
  queste parole, il capitano entrò in uno degli edifici del cortile. I soldati
  li accompagnarono in un locale e li fecero sedere intorno ad un tavolo.
  Tolsero loro le manette e i cinque poterono finalmente calmare
  la fame e la sete che li tormentavano dal giorno prima. Nessuno parlò durante
  il pasto e nella stanza rimasero sempre quattro soldati, che non li persero
  di vista un minuto.       Poi
  li condussero nelle stanze. Incominciarono a farli entrare uno per volta,
  chiudendo poi la porta alle loro spalle con un unico giro di chiave: anche se
  fossero usciti, non sarebbero di certo andati molto lontano.        Avevano
  appena fatto entrare il secondo, Mulo, quando arrivò un soldato: 
       Ramón notò che il sergente non appariva contento della
  chiamata, ma quello che lo colpì, fu vederlo lanciare un’occhiata ad
  Alligatore. Poi il sergente Baroja uscì e i soldati
  fecero entrare Coyote nella terza cella e Ramón
  nella quarta. Ramón sentì lo scatto della chiave
  nella serratura, ma avvertì qualche cosa che non lo convinceva. Era come se
  il movimento fosse stato bloccato.       Rimase
  in ascolto e presto sentì chiudere la porta dell’ultima cella, quella in cui
  era rinchiuso Alligatore. Lo scatto della serratura fu completo.       Bah,
  poteva darsi che la serratura della sua cella fosse difettosa, ma questo non
  gli avrebbe davvero portato nessun vantaggio. Anche se fosse riuscito a
  forzarla, una volta fuori, che avrebbe potuto fare?    
  Ramón esaminò la sua “stanza”. Per definire
  quei buchi stanze bisognava avere la faccia come il culo. Il locale in cui lo
  avevano messo era lungo due metri, alto altrettanto e largo poco più di un
  metro: ci stava giusto un tavolaccio di legno per dormire ed il bugliolo. In
  alto c’era una finestrella che dava su un muro: benché fosse ancora giorno,
  la “stanza” era immersa nella penombra. A Fuenteroja
  locali di quel tipo erano celle di punizione, non stanze. Ramón
  si disse che quella stanza non era così brutta, per il Cerro del Diablo: probabilmente avrebbe conosciuto di peggio.           
  In questo non si sbagliava.       
  Comunque, almeno era da solo: evidentemente non volevano che loro
  cinque comunicassero gli uni con gli altri. Non avrebbe dovuto passare la
  notte a guardarsi dagli altri. Ed avrebbe potuto riposare tranquillo.       In
  questo, invece, si sbagliava. Scambio di cella
        Ramón si stese sul tavolaccio. Faceva abbastanza freddo,
  non c’era nessuna coperta e lui era ancora nudo, ma la temperatura non
  sarebbe scesa troppo, perché dalla finestrella entrava ben poca aria. Sarebbe
  riuscito a dormire. Ne aveva bisogno.       
  Pensò un momento alla strana accoglienza, al capitano, ai cappucci, a
  quella stanza. Non riusciva a capire che significato avesse tutto ciò. Si
  trovavano nell’area più interna del forte, che forse era riservata ai
  condannati a morte. Lo erano anche loro? Forse.      
  Cercò di impedirsi di pensare al passato, ma il ricordo di Diego
  ritornò con forza: lo rivide al campo di tiro, dove la sua mira incredibile
  sbalordiva tutti; durante l’addestramento, deciso a non cedere mai, a non
  mostrarsi debole davanti al suo sergente; nella scuderia, mentre si spogliava.
  Ed il corpo gli si incendiò.       
  Cercò di scacciare il pensiero di Diego. Si alzò e decise di fare un
  po’ di esercizio prima di mettersi a dormire: in quell’inferno mantenersi in
  forma era una questione di vita o di morte. Lo spazio non era davvero molto
  ma Ramón si distese sul pavimento ed incominciò a
  fare flessioni sulle braccia. Erano tre giorni che di fatto non era più
  riuscito a fare esercizi ed il movimento gli diede un senso di benessere.
  Lentamente, molto lentamente, anche l’erezione perse forza. Dopo le flessioni a due braccia, passò a quelle con un braccio solo. A quel punto però, mentre si sollevava sul destro, il suo sguardo fu attirato da una massa scura che sporgeva sul lato inferiore della cuccetta, nell’angolo più lontano e più buio. Strisciò sotto la cuccetta e toccò con le dita l’oggetto. Era una busta scura, dello stesso colore del legno, fissata con alcuni chiodi.      
  Facendo molta attenzione a non lacerarla, Ramón
  la staccò e poi l’aprì. Dentro c’era un pugnale, una lunga lama acuminata, in
  grado di spaccare il cuore ad un uomo. Ramón fissò
  il pugnale esterrefatto: era stato messo lì deliberatamente, ma da chi,
  perché?       
  Pensò allo sguardo tra Alligatore ed il sergente Baroja.
  Che quella cella fosse destinata ad Alligatore? Il pugnale era per lui? Che
  uso avrebbe dovuto farne?       
  Rimise il pugnale al suo posto, badando di non lasciare nessuna
  traccia: il destinatario doveva pensare che nessuno lo aveva toccato.       
  Si avvicinò alla porta e si mise in ascolto. Non si sentiva nessun
  rumore. Provò a bussare, ma non rispose nessuno. Allora fece pressione sulla
  porta. Non successe nulla.        
  Esitò un attimo. Se avesse dato un colpo più deciso, aprendo la porta,
  e nel corridoio ci fosse stata una sentinella, lui era fottuto, semplicemente
  fottuto: un tentativo di fuga a Cerro del Diablo si
  pagava con la vita. Ma Ramón voleva verificare.       
  Diede una spallata alla porta, decisa. La porta cedette. Ramón controllò che nel corridoio non ci fosse nessuno.
  Per fortuna, alla debole luce delle lampade che pendevano dal soffitto, non
  si vedeva anima viva. Nessuno sembrava aver sentito nulla. Ramón controllò la serratura: il catenaccio non era
  avanzato completamente e controllando la cavità in cui avrebbe dovuto
  scorrere, Ramón ne comprese il motivo. La cavità
  era stata bloccata da un pezzo di metallo.       
  Tutto era stato preparato perché un prigioniero avesse un’arma mortale
  e potesse uscire: per uccidere, su questo non aveva dubbi. Il prigioniero
  doveva essere Alligatore e chi aveva predisposto tutto era il sergente Baroja. Ma perché? Qual era la vittima designata? E
  perché far ricorso a un meccanismo così tortuoso? Chi aveva organizzato tutto
  questo, doveva prevedere che il capitano avrebbe scelto Alligatore.
  Alligatore era un tipo deciso, come gli altri che il capitano aveva scelto, ma… E se fosse stato il capitano a far mettere quel
  pugnale? Un omicidio compiuto nella parte più interna del forte, un
  prigioniero appena arrivato che in qualche modo si procura un pugnale ed
  uccide chi incontra. Nessuno avrebbe sospettato che non c’era nulla di
  casuale in quell’incontro…           
  Ramón non era in grado di darsi risposte più
  precise.       
  Ed ora? La cosa più saggia sarebbe stata far finta di niente, ma Ramón non era abituato a far finta di niente.        
  Cercò di estrarre dalla cavità il pezzo di metallo che impediva al
  catenaccio di scorrere fino in fondo, ma non 
  ci riuscì. Allora scivolò nuovamente sotto il tavolaccio, riprese il
  pugnale e con la punta estrasse facilmente il blocco. Chiuse la porta e,
  facendo passare la lama del pugnale tra il battente della porta ed il muro,
  spinse in avanti il catenaccio, bloccando parzialmente la porta: più o meno
  era chiusa come prima del suo intervento, quindi nessuno avrebbe dovuto
  accorgersi che lui aveva aperto e poi richiuso la porta. Poi rimise per la
  seconda volta il pugnale al suo posto, con un’attenzione maniacale ad ogni
  dettaglio, benché ormai fosse quasi completamente buio.          
  Aveva un’idea. Non sapeva se sarebbe stato in grado di realizzarla, ma
  ci avrebbe provato.       
  Si distese sul tavolaccio, il blocco di metallo in mano, e chiuse gli
  occhi. Poteva dormire. Tanto, se volevano che quel pugnale arrivasse in mano a
  chi di dovere, dovevano venire in quella cella.              
  I passi nel corridoio risuonarono dopo circa un’ora. La porta
  dell’ultima cella venne aperta:           
  - Tu, fuori, muoviti!       
  Ramón sapeva che avrebbero fatto uscire
  anche lui, per effettuare lo scambio. Ed infatti, pochi secondi dopo, la
  porta si aprì e nella stanza ormai buia entrò la fioca luce proveniente dal
  corridoio.           
  - Anche tu, fuori, muoviti!  
 Come aveva previsto, era il
  sergente Baroja. Aveva in mano una frusta. - Voi due, stronzi, che
  cazzo avete combinato? Entrambi risposero: - Nulla signor sergente! - Avete cercato di
  comunicare battendo contro il muro, stronzi, si sono sentiti i colpi. Ramón sapeva che era tutta una scena, ma
  sapeva anche che doveva rispondere, perché i due non capissero che aveva
  mangiato la foglia. - Signor sergente, non ho battuto… La frustata sul torace lo
  fece tacere. Se l’aspettava e non era neppure stata molto forte. Faceva parte
  della scena, di cui lui era solo una comparsa. Gli attori principali erano
  gli altri due. O almeno lo credevano, perché lui contava di fare il terzo
  incomodo. - Non mi
  dire che sono un bugiardo, stronzo!                                        - No, signor sergente! Ramón tacque e Baroja,
  avendo concluso che ormai la piccola recita era più che sufficiente per quel
  coglione di Maiale, proseguì: - Avanti, Maiale, torna in
  cella. Nel dirlo Baroja si piazzò nel corridoio, in modo che Ramón potesse dirigersi solo nella cella dove prima stava
  Alligatore. Sì, aveva calcolato giusto. Aveva bisogno di un attimo
  per realizzare l’ultima parte del piano. Quando fu esattamente sulla
  soglia, mentre la destra scivolava verso il muro, all’altezza della serratura,
  si volse al sergente e gli disse: - In questa, signor
  sergente? Baroja lo guardò sprezzante: - Perché, fa qualche
  differenza? Hai lasciato i tuoi effetti personali nell’altra o ti eri già
  preparato il letto? - Come vuole, signor
  sergente. Ramón aveva ormai inserito il blocco di
  metallo nella cavità della serratura ed entrò. La porta venne chiusa alle
  sue spalle e la serratura scattò, ma non completamente. Baroja
  se ne sarebbe accorto? Era probabile che non ci badasse, per lui il
  prigioniero Maiale contava meno del due di picche. Ramón rimase in attesa. Sentì che anche
  l’altra porta veniva chiusa, ma la serratura scattava liberamente. Sentì una
  bestemmia soffocata di Baroja, poi più nulla.  Baroja si era accorto che il catenaccio non era rimasto bloccato, ma non poteva sospettarne il motivo. Aveva certamente rimediato, facendolo scorrere all’indietro.           Bene, ora non rimaneva che aspettare,
  senza cedere al sonno.        Un assassino a Cerro del Diablo
  Dovevano essere passate due
  ore o poco più, quando Ramón sentì che la porta
  della cella vicina veniva aperta. Aspettò un momento, poi spinse con forza il
  pesante battente di legno e passò nel corridoio. In un attimo lo percorse
  fino all’uscio. Era un gioco molto
  pericoloso: non doveva farsi vedere da Alligatore, ma non doveva perderlo di
  vista; era nudo e disarmato ed il suo avversario era un assassino con un
  pugnale, per cui uccidere una o due volte non faceva nessuna differenza. Nel cortile vide un’ombra
  dirigersi verso una porta sul fondo. Corse, tenendosi lungo il muro, dove il
  buio era più fitto, fino a quella porta. Alligatore non la chiuse – ma era
  davvero Alligatore? Magari stava seguendo l’ombra sbagliata! Ramón si infilò oltre la porta rapidamente: era
  completamente buio, ma poco più in là l’ombra divenne di colpo meno fitta.
  Alligatore doveva aver aperto un’altra porta ed infatti Ramón
  lo vide sgusciare oltre la striscia meno scura. Ramón
  fu subito alla porta.  Stare così vicino era una
  follia, ma Alligatore andava ad uccidere e se voleva impedirglielo, Ramón non poteva arrivare un minuto dopo.  La porta dava in un altro
  cortile e, neppure due metri davanti a lui, Ramón
  poté vedere la sagoma di Alligatore ferma in una rientranza del muro, in
  ombra.  Poco più in là, davanti ad
  una porta, un soldato di guardia stava appoggiato al muro.  Rimasero un buon momento
  così, tutti e tre ai propri posti: la sentinella, convinta di essere sola,
  Alligatore, sicuro che nessuno lo vedesse, e Ramón,
  che vedeva tutti e due. Faceva un freddo cane, ma in quel momento c’era altro
  a cui badare.  Poi la sentinella
  incominciò a muoversi e si spostò, prima nella direzione opposta alla loro,
  poi verso il punto in cui si trovava Alligatore. Alligatore avrebbe colpito
  non appena la sentinella gli avesse voltato le spalle, per tornare verso la
  porta che sorvegliava. Quando vide che la
  sentinella girava su di sé, Ramón scattò in avanti.
  Alligatore si slanciò un attimo dopo, il  - Fermo!  Con la destra Ramón bloccò la mano che stringeva il pugnale e con la
  sinistra avvolse Alligatore in una stretta vigorosa, mentre il suo slancio
  trascinava entrambi al suolo. Alligatore era robusto, ma Ramón
  era più forte e lo aveva preso del tutto di sorpresa. Alligatore cercò
  disperatamente di liberarsi dalla stretta di Ramón,
  ma la partita era persa. - È inutile che ti agiti! In quel momento una luce
  molto vivida li illuminò: una torcia elettrica era puntata su di loro. Non
  solo una torcia elettrica: nel cerchio di luce si vedeva anche la canna di un
  fucile. - Va a chiamare gli altri,
  Mendez. La voce era quella del
  capitano e Ramón non si stupì: era lui la vittima
  designata. Il capitano afferrò il
  polso di Alligatore, che ancora stringeva il pugnale, poi la luce si spense. - Molla il pugnale o ti
  spezzo il polso. Alligatore non ubbidì, ma
  subito Ramón lo sentì emettere un gemito ed avvertì
  lo scricchiolio delle ossa che cedevano. Il pugnale venne preso senza fatica
  dal capitano. - Tienilo ancora fermo,
  Maiale. Tre uomini stavano già
  arrivando. Su ordine del capitano, afferrarono Alligatore, lo portarono
  dentro l’edificio da cui era uscito il capitano e gli misero le manette ai
  polsi, dietro la schiena: non doveva più essere in grado di usare il polso
  destro, comunque, anche se l’avesse avuto libero. Nel corridoio illuminato Ramón vide che il capitano era in pigiama, ma aveva una
  pistola e la torcia. - Bene, Alligatore, credo
  che tu abbia molte cose da spiegare. Alligatore teneva la bocca
  serrata. Il capitano proseguì: - E ti assicuro che me le spiegherai,
  tutte. Poi il capitano si rivolse
  a due uomini: - Portatelo nella stanza
  tre. E che non vi scappi: non deve riuscire ad ammazzarsi. Ramón pensò che effettivamente a quel punto
  per Alligatore la cosa migliore sarebbe stato riuscire ad ammazzarsi, ma i
  due soldati che lo trascinavano via erano massicci e forti e certamente non
  gli avrebbero permesso di tentare nulla. Il capitano poi si rivolse
  al terzo soldato: - Va’ a chiamare il
  sergente Baroja. Ramón guardò il capitano e scosse la testa.
  Non voleva parlare di fronte al soldato ed alla sentinella, ma si rendeva
  conto che Baroja era un traditore ed era l’ultima
  persona che doveva essere avvisata. Il capitano vide il
  movimento e nei suoi occhi passò un lampo. Fingendo di ripensarci, rettificò
  l’ordine: - No, chiama il sergente Texido. Poi mandò fuori la
  sentinella, chiuse la porta e fece entrare Ramón in
  una stanzetta con una branda, una scrivania, due sedie ed un lavandino in un
  angolo. - Raccontami tutto,
  dall’inizio e senza fretta, senza tralasciare nessun dettaglio. Ramón ubbidì e raccontò, senza nascondere
  nulla di ciò che aveva visto, sentito o intuito. Alla fine il capitano gli
  pose ancora alcune domande, per verificare la coerenza delle sue
  affermazioni.   Quando Ramón
  ebbe finito, il capitano disse: - So che non hai mentito.
  Lasciare la propria cella la notte costa la vita, ma in questo caso non sarai
  punito.  “Troppo buono” – pensò Ramón – “in fondo ti ho solo salvato la vita! O almeno ho
  salvato quella della sentinella, perché sorprendere nel sonno uno come te dev’essere impossibile.” - Non ti aspettare nemmeno
  un premio, perché non l’avrai. Ramón l’aveva sospettato: a Cerro del Diablo la distribuzione dei premi doveva avvenire sempre
  il 29 di febbraio (30 negli anni bisestili). - Questa notte dormirai qui. Non uscire dalla stanza per nessun motivo. Se hai bisogno di qualche cosa, chiama la sentinella. Ramón si disse che se non altro aveva
  guadagnato una sistemazione decisamente migliore. Valeva per poche ore, ma
  almeno poteva dormire tranquillo. Non avrebbe dormito molto. Ringraziamenti
  Il capitano era appena
  uscito, quando entrò la sentinella. Era piuttosto giovane, ben piantato, con
  una faccia larga ed un bel sorriso cordiale. - Volevo ringraziarti. Mi
  hai salvato la vita. - Devi stare più attento.
  Se sei di guardia non puoi distrarti. - Lo so, hai ragione, ma
  siamo nel cuore del forte, non pensavo… Non ero
  abbastanza attento, lo so… Ci fu un momento di
  silenzio. Ramón non sapeva che cosa dire, per quel
  che lo riguardava la conversazione era finita, ma il soldato non sembrava
  molto intenzionato ad andarsene. - Non ti chiedo come hai
  fatto ad essere lì al momento giusto, perché se il capitano scopre che ho
  fatto domande, mi manda in cella di punizione per un mese! Ramón annuì. Era meglio, per tutti e due, che
  lui non raccontasse nulla dell’accaduto, di questo era assolutamente sicuro.
  La sentinella avrebbe dovuto tenersi la sua curiosità e lo stesso valeva per Ramón, che di cose da chiedere ne avrebbe avute davvero
  tante. Gli sarebbe piaciuto sapere quello che stava avvenendo e poi avere
  informazioni sul capitano, sul forte, ma questo sarebbe stato pericoloso per
  entrambi. A Cerro del Diablo c’era poco da
  scherzare. Il soldato parlò ancora: - Hai bisogno di qualche
  cosa?  Il soldato continuava a
  fissarlo e Ramón incominciò a pensare che forse
  l’uomo intendeva ringraziarlo non solo a parole. - No, grazie. Non ho
  bisogno che tu mi aiuti a spogliarmi… Il soldato rise alla
  battuta, ma non si mosse. Ramón aveva bisogno di dormire: nelle due
  notti precedenti aveva dormito troppo poco ed ormai aveva chiaro in testa che
  le giornate a Cerro del Diablo non dovevano essere
  di tutto riposo (e le notti neanche, se il buon giorno si vede dal mattino…). Stava per dire che si sarebbe steso, quando il
  soldato parlò: - Qui le notti sono fredde.
  E tu sei andato in giro nudo. Stenditi che ti porto qualche cosa di caldo. - Grazie Ramón annuì e si stese sul letto. Guardò il
  soldato che incominciò rapidamente a spogliarsi. Che cos’era “qualche cosa di
  caldo”? I suoi abiti? Non ci sarebbe entrato. Il soldato era di fianco al
  letto. - Una bella coperta calda è
  quello che ci vuole.  Si sedette sul suo ventre
  ed incominciò ad accarezzargli energicamente il torace. La sensazione di
  calore era piacevole e quel peso sul ventre lo era ancora di più, tanto che
  l’uccello incominciò ad alzare il capo. Il soldato si chinò su di
  lui ed incominciò a passargli la lingua intorno ai capezzoli. Ramón lo guardò sbalordito, ma a stupirlo ancora di più
  fu l’immediato ergersi dei suoi capezzoli, che scattarono sull’attenti come
  un soldato ben addestrato all’arrivo del generale.  Il soldato allora ne prese
  uno in bocca ed incominciò a succhiare, come se avesse davvero potuto
  ricavarne latte. Poi ripeté l’operazione con l’altro, ma prima di lasciarlo,
  diede un morso leggero e poi uno più forte. 
 - Voltati sulla pancia! La richiesta riscosse Ramón. - Pensi mica di mettermelo in
  culo?! - Ma no, che dici, ti
  riscaldo solo la schiena.       Bah!
  Ramón sapeva che non c’avrebbe messo molto a
  sbarazzarsi del soldato, se quel tizio avesse cercato di fare quanto non
  doveva.  Si voltò a pancia in giù e
  sentì il calore del corpo del soldato che aderiva al suo, poi di nuovo la
  lingua che gli scorreva dietro le orecchie, sul collo e poi scendeva lungo la
  colonna vertebrale.  Giunta al termine della
  colonna, la lingua non si fermò, ma scese decisa nell’incavo tra le cosce. Un
  uomo gli stava leccando il culo! Ramón si disse che
  era una cosa davvero schifosa, ma la sensazione era tutt’altro che
  spiacevole, la sensazione era maledettamente piacevole e sotto il ventre gli
  sembrava che il cazzo volesse esplodere. Il soldato non si fermò
  neppure quando arrivò all’apertura nascosta, anzi, vi indugiò a lungo,
  accarezzando con la lingua. Poi, dopo un attimo di
  pausa, Ramón sentì un piccolo morso al culo, un
  secondo, un terzo. Non era spiacevole, no, nemmeno quello, ma l’uomo doveva
  essere pazzo. Come si poteva fare una cosa del genere?! Sì, doveva essere
  pazzo. Ma l’eccitazione non calava, il cazzo era una colonna di cemento
  arroventata. - Voltati sulla schiena! Ramón ubbidì, avendo rinunciato ad ogni
  volontà, ed osservò il soldato che, dopo essersi inumidito con cura il buco
  del culo, gli prendeva il grande palo, lo sollevava e, lentamente, si
  impalava sulla sua carne. Ramón chiuse gli occhi, perché il piacere lo
  sopraffece. Poi li riaprì ed osservò, forse disgustato, forse affascinato,
  certamente eccitato, il suppliziato alzarsi ed abbassarsi sul suo palo, che
  appariva e poi scompariva completamente nel culo. Poi non fu più in grado di
  vedere, perché il piacere lo travolse. Il soldato continuò il suo
  movimento fino a che Ramón non fu costretto a dire: - Basta! Allora, rimanendo inclinato
  all’indietro, stringendo ancora in culo la lancia che lo aveva trapassato, il
  soldato incominciò ad accarezzarsi, fino a che venne. Poi si alzò, uscì a pulirsi
  al lavandino e si rivestì.  Gli sorrise, gli disse
  ancora: - Grazie. Uscì, chiudendo dietro di
  sé la porta. Prima di addormentarsi il
  soldato semplice Ramón Hierro
  si chiese in che cazzo di posto era finito. Ma a questa domanda non aveva una
  risposta. La gara
        Era
  riuscito a dormire bene. D’altronde, la stanchezza accumulata gli avrebbe
  permesso di dormire anche appeso per le braccia al soffitto.       Alle
  otto lo riportarono nel cortile, dove rivide i suoi compagni di prigionia,
  Alligatore escluso, ovviamente. Ramón non aveva
  manette, ma gli altri erano di nuovo con le mani bloccate dietro la schiena.  Ramón osservò un tavolo, che la sera prima non
  c’era. Sul ripiano erano state messe delle sfere metalliche. Ogni sfera aveva
  un anello di ferro attraverso cui passava una cinghia, ma Ramón
  non riusciva a capire quale uso potessero avere quegli oggetti.  Mentre stava osservandoli,
  il capitano uscì da una delle porte. Era nudo e Ramón
  rimase sbalordito: come era possibile che il capitano si mostrasse così,
  davanti ai soldati? Quanto a loro, più che soldati in punizione, erano
  prigionieri e la loro vita non valeva un cazzo, ma c’erano anche diversi
  soldati della guarnigione ed un capitano deve conservare un certo decoro di
  fronte ai suoi subordinati.       -
  Questa mattina faremo una prova di resistenza.        Poi
  il capitano si rivolse ai soldati ed incominciò a dare istruzioni: - A Coyote, il peso da
  tre; a Scimmia, anche; a Mulo, il peso da due.  Ramón non capì immediatamente, ma i soldati si misero subito in azione. Ognuno di loro prese uno dei pesi e si mise di fronte al prigioniero indicato, poi passò la cinghia intorno all’attaccatura dei testicoli, stringendola, in modo che la sfera fosse ben fissata. Poiché la cinghia era lunga una ventina di centimetri, la sfera pendeva al di sotto dello scroto.       Ramón si disse che non doveva essere piacevole. Non
  capiva però perché il capitano non avesse dato nessuna indicazione per lui.        Intanto
  il capitano aveva preso un peso più grande degli altri e se lo stava
  mettendo. Ramón capì perché il capitano era nudo e
  si chiese che razza di uomo fosse quello.  In quel momento il capitano
  si rivolse a lui:       -
  Quanto a te, Maiale, puoi scegliere il peso che vuoi.       Ramón sapeva benissimo il senso di quelle parole: non era
  una ricompensa per quello che aveva fatto, era una sfida e lui non aveva
  nessuna intenzione di tirarsi indietro. Scelse un peso uguale a quello del
  capitano, il più grosso tra quelli sul tavolo. Un soldato glielo fissò, poi
  bloccò anche a lui le mani dietro la schiena.       -
  Dobbiamo fare dieci volte il giro degli spalti, salendo da quella scala e
  scendendo da quell’altra.       Il
  capitano indicò con il dito il percorso, poi aggiunse:  - Dovete fare il più in
  fretta possibile.       Ramón si disse che con quel peso attaccato ai coglioni,
  un solo giro sarebbe stato più che sufficiente per fare urlare di dolore
  Ercole. Dieci giri… pensavano di mandarli
  nell’harem di qualche sultano, come eunuchi?       Il
  capitano partì. Si muoveva con rapidità e sicurezza, anche se teneva le mani
  dietro la schiena, e Ramón decise che gli sarebbe
  stato dietro. Fece un passo in avanti, ma con troppo slancio: il dolore fu
  tale che dovette trattenersi per non gemere. Doveva muoversi senza scatti,
  perché altrimenti avrebbe fatto oscillare la sfera, moltiplicandone il peso.        Stringendo
  i denti proseguì, ma le scale si rivelarono subito un altro ostacolo
  terribile: ogni gradino era una scossa e gli pareva che un artiglio gli
  stringesse i coglioni per strapparglieli.        Il
  capitano procedeva sicuro e Ramón cercò di
  studiarne il passo, per imitarlo e ridurre il dolore. Quando il capitano
  arrivò in cima alla scala, a Ramón mancavano sette
  gradini. Cercò di accelerare, ma si rese conto che non era in grado di
  procedere più speditamente.        Sugli
  spalti riuscì a proseguire con maggiore rapidità, evitando che la distanza
  che lo separava dal capitano aumentasse ancora. Il dolore che saliva dai
  testicoli era sordo, ma continuo, ed andava aumentando di intensità.        Scendere
  le scale fu peggio che salirle e Ramón pensò che
  dieci giri erano un’impresa impossibile. Ma il capitano proseguiva con lo
  stesso ritmo implacabile e Ramón lo seguiva.        A
  metà del secondo giro, vide che gli altri prigionieri erano rimasti alquanto
  indietro: uno, Mulo, era addirittura ancora ai piedi della scala. Non era una
  grande consolazione, perché il suo punto di riferimento era il capitano:
  sapeva benissimo che l’avergli lasciato scegliere il peso era una sfida e lui
  l’aveva raccolta. Ora doveva portarla avanti.       Aveva
  ormai preso il ritmo giusto ed imparato a controllare il movimento delle
  gambe lungo le scale, in modo da ridurre al minimo le oscillazioni della
  sfera, ma il dolore continuava a crescere e Ramón
  si chiese se sarebbe riuscito a tollerarlo. Alla fine del terzo giro avevano
  superato Mulo, ma la distanza tra lui ed il capitano era aumentata.       Dal
  quarto giro in poi, il dolore che saliva dai testicoli lo avvolse
  completamente, stordendolo, ma continuò la sua marcia.       Al
  sesto giro il capitano e Ramón superarono anche gli
  altri tre
  prigionieri. Il capitano aveva ormai un mezzo giro di vantaggio ed il dolore
  era intollerabile. Ramón si rese conto che se
  avesse continuato a perdere terreno, il capitano lo avrebbe doppiato. Strinse
  i denti e, ignorando il dolore sempre più forte, si impose di non rallentare
  il passo.  
       Quando
  stava finendo il nono giro, si rese conto che il capitano era alle sue
  spalle. Non voleva cedere, si rifiutava di accettare quella sconfitta.
  Accelerò il passo, mentre la vista gli si annebbiava per il dolore.       Riuscì
  a scendere le scale e ad incominciare il decimo giro senza che il capitano lo
  raggiungesse. Il capitano doveva essersi fermato al termine del decimo giro, ma
  Ramón non rallentò il passo. Voleva finire, finire
  prima che il dolore lo facesse impazzire. Vide a terra uno dei suoi compagni
  di prigionia, incapace di proseguire. Non poteva fare nulla. Passò oltre.       Completò
  il giro e si fermò davanti al tavolo, dove il capitano si era già tolto la
  sfera.       Un
  soldato gli si avvicinò, ma quando le sue mani incominciarono ad armeggiare
  intorno alla cinghia, il contatto un po’ rude sembrò a Ramón
  una sferzata. Si morse il labbro per non urlare.       Infine
  il soldato completò l’opera ed il dolore arretrò, senza scomparire. Era un
  po’ come se l’elefante che gli aveva poggiato la zampa sui coglioni, ora
  l’avesse tolta. Non che adesso lui stesse bene, ma almeno la zampa non pesava
  più.       Ramón attese che anche gli altri arrivassero. Ci misero
  molto tempo e Ramón fu ben contento di poter
  riprendere un po’ il fiato.       Mulo
  si fermò senza completare i dieci giri. Davanti al tavolo crollò a terra.       -
  Non ce la faccio, capitano, non ce la faccio. Il peso mi sta staccando i
  coglioni.       Il
  capitano fece un cenno ed uno dei soldati tolse al prigioniero il peso. - Legatelo ai pali.       Due
  soldati trascinarono il prigioniero per il cortile, mettendolo poi tra due
  pali. Gli fissarono la gamba destra ad un palo, poi gli tolsero le manette e
  fissarono il braccio destro in alto, allo stesso palo. L’altro braccio e la
  gamba corrispondente furono fissati al palo vicino. I soldati si erano mossi
  con grande rapidità ed efficienza: di certo erano abituati a quel tipo di
  operazione.  Ora Mulo formava una grande
  X. Ramón lo guardò. L’uomo aveva la sacca dei
  testicoli gonfia, di colore bluastro. Doveva aver avuto un grosso versamento
  di sangue.        -
  Voi quattro,
  mettetevi dietro al prigioniero.        Ramón e gli altri tre si misero in posizione. Il
  capitano voleva che loro assistessero a quella punizione assurda, perché
  capissero che non potevano mai cedere? Probabilmente era così.       Il
  capitano aveva una frusta in mano. La porse a Ramón.
   - Incomincia tu. Cinque
  frustate al culo.       Ramón prese automaticamente la frusta. Guardò la propria
  mano che stringeva la frusta, guardò la schiena dell’uomo davanti a lui. Non
  aveva nessun senso, quell’uomo aveva ceduto perché non ce la faceva più.        Sapeva
  quello che gli sarebbe costato un rifiuto, ma frustare Mulo sarebbe stata
  un’infamia. Allungò la mano, tendendo la frusta al capitano.       -
  No,
  signor capitano.             Il
  capitano lo fissò negli occhi e Ramón resse il suo
  sguardo. In quegli occhi che lo fissavano, Ramón
  non riusciva a leggere, ma il capitano poteva fargli quello che voleva,
  crepare un po’ prima o un po’ dopo, poco cambiava.          Il
  capitano riprese la frusta, poi si rivolse a due soldati:       -
  Legate anche lui.       Ramón si lasciò condurre nello spazio tra due pali vicini
  ed in breve si ritrovò con le gambe e le braccia ben divaricate, fissate ai
  pali.       Dietro
  di lui, sentì il capitano ripetere:       -
  Incomincia tu. Dieci frustate al culo.       Il
  primo colpo non fu violento. Il prigioniero a cui era stata affidata la
  frusta non ci sapeva fare.       -
  Più forte o finisci anche tu ai pali.       Il
  secondo colpo fu più deciso ed il dolore più forte, ma Ramón
  era in grado di resistere: quella fustigazione era molto meno dolorosa di
  quella subita a Fuenteroja.        Dopo
  il quarto colpo però, sentì il dolore crescere e concentrarsi nella parte
  bassa del culo. Il prigioniero che lo stava frustando, sembrava colpire
  sempre nella stessa area, per inesperienza o deliberatamente. Ad un certo
  punto, al nono colpo, Ramón sentì che la pelle si
  spaccava, ma riuscì a controllarsi. Il colpo successivo, il decimo, quasi gli
  strappò un urlo, perché colpì la carne scoperta dalla frustata precedente.       -
  Dieci colpi alla schiena.       Questo
  doveva essere un altro prigioniero, che colpì
  subito con decisione. Le frustate erano più dolorose, ma colpivano in punti
  diversi e il dolore non si accumulava, ma si distribuiva.       -
  Va bene. Adesso quest’altro. Cinque colpi.       Mulo
  ebbe dieci colpi in tutto.       Intanto
  qualcuno aveva portato un secchio e Ramón sentì
  sulla schiena una spugna ruvida e umida che sfregava contro le ferite. L’uomo
  che la maneggiava la muoveva energicamente e quando passò sulla ferita al
  culo, Ramón si dovette nuovamente mordere il labbro
  inferiore per non urlare. Sentì un po’ di sangue colargli dal labbro.        Poi
  il capitano diede ordine di riportare i prigionieri nelle loro celle.       Nella
  sua cella, Ramón cercò di sdraiarsi sulla pancia,
  ma il dolore ai testicoli era troppo forte. Di sedersi, neanche pensarci.
  Rimase in piedi, quasi divertito di quella situazione assurda.         Anche a tavola Ramón
  rimase in piedi, ma nessuno lo prese in giro: non aveva la faccia di uno che
  si può prendere per il culo solo perché ha il culo a strisce. Coyote gli disse:       -
  Mi spiace, ma se non lo facevo, frustava anche me.       Mulo
  aggiunse:       -
  Sei stato un coglione, non mi hai frustato tu, lo hanno fatto loro, se non lo
  facevano loro, lo facevano i soldati. O pensi che quello cambia idea?       Ramón sapeva benissimo che era inutile spiegargli che non
  lo aveva fatto per lui, ma per sé. Mangiò senza dire una parola.       La
  notte riuscì a trovare una posizione accettabile, sdraiandosi sul fianco
  destro. Ripensò alla giornata, ma non riusciva a dare un senso al
  comportamento del capitano. Quell’uomo li stava mettendo alla prova ed in
  particolare stava mettendo alla prova Ramón. Ma
  perché, con che scopo? Non sembrava divertirsi a punirli, come invece spesso
  succedeva con alcuni ufficiali a Fuenteroja.        Il
  pensiero di Fuenteroja portò con sé il ricordo di
  Diego e Ramón sentì nuovamente la fitta che provava
  ogni volta.   |