2 I prescelti Il
treno era fermo da due ore, ormai. Dalla fessura avevano visto i soldati
scendere nella stazione e scomparire lungo la strada che saliva alla fortezza.
Dalla posizione in cui si trovava il loro vagone, il Cerro del Diablo non era visibile. Ramón
pensò che non aveva nessuna fretta di vedere quel fottuto posto del cazzo, in
cui sarebbe vissuto per un po’, probabilmente poco, e poi sarebbe morto, probabilmente
presto. Ora
la stazione sembrava deserta. Nel vagone c’erano stati commenti ed
imprecazioni, ma poi era di nuovo sceso il silenzio, a parte i gemiti
dell’uomo che Ramón aveva colpito nella notte e che
si era risvegliato, ma non riusciva ad alzarsi. Faceva abbastanza caldo,
perché il sole era alto in cielo, ma ormai erano sulle montagne ed il calore
non era soffocante. La notte avrebbero sofferto il freddo, a meno che non li
mettessero nelle celle di punizione. Ramón sapeva
che in alcune celle sotterranee le temperature erano altissime, per la
presenza di rocce calde: il Cerro del Diablo era
stato costruito su un vulcano, non più attivo. Un
inferno di freddo e caldo intollerabili. Toccava l’uno o l’altro. Bella
scelta! Ma non sarebbe stata una scelta sua. Lui aveva finito di scegliere. Li
vide arrivare. Due capitani ed una ventina di soldati. Si allontanò dalla
fessura. Aprirono
la porta e li fecero scendere, uno ad uno. Man mano che uno di loro metteva
piede a terra, gli bloccavano i polsi con le manette. Ramón osservò i capitani. Uno dei due, più piccolo e
magro, dirigeva tutta l’operazione, continuando a vociferare: insultava i
prigionieri che non si muovevano abbastanza in fretta, imprecava contro i
soldati, che secondo lui erano lenti nel mettere le manette, due volte
bestemmiò quando un prigioniero, ostacolato dalla catena ai piedi, inciampò
nello scendere e cadde a terra, senza riuscire a rialzarsi subito. L’altro
capitano non diceva una parola e rimaneva defilato, ma l’attenzione di Ramón si fissò su di lui. Era alto, più di lui (e Ramón non era certo basso) e massiccio, un vero toro, con
un grosso collo largo quasi come la testa. Aveva capelli e baffi grigi ed uno
sguardo acuto, che metteva a disagio. Guardava i prigionieri man mano che
scendevano e sembrava soppesarli.
Nel vagone era rimasto solo l’uomo che Ramón
aveva colpito. -
E questo che cazzo ci fa? Il
capitano salì e guardò l’uomo. -
Cazzo, chi è stato a conciarlo così? Vi metto tutti in punizione. Ramón fece un passo avanti. -
Sono stato io. -
Sei uno stronzo! Che cazzo pensavi di fare, pezzo di merda? Questa te la
faccio pagare. Sangue, ti faccio cagare, sangue! Il
capitano continuava a strillare, ma Ramón non ci
badava. Sentiva su di sé lo sguardo dell’altro capitano, che lo metteva a
disagio. Non era tipo da sentirsi facilmente in soggezione, ma quello sguardo
sembrava entrargli dentro, come se quell’uomo fosse in grado di leggere nella
sua testa. - Adesso ti carichi questo in spalle e
te lo porti su, coglione. E se rimani indietro ti do tutte le frustate che
non ti sei ancora preso. Toglietegli le manette. Avanti, coglione, muoviti. Il
soldato a cui il capitano si era rivolto aveva appena fatto un passo, quando
l’altro capitano parlò. Aveva una voce profonda, ma parlò piano. Disse solo:
- Quello lo prendo io, Gomez. Il
capitano Gomez rimase un attimo interdetto, poi annuì. Era evidente che non
gli era nemmeno passato per la testa di discutere la decisione dell’altro.
Anche se avevano lo stesso grado, quella non era stata una richiesta, era una
decisione, che non si discuteva. Gomez
si limitò a chiedere: -
Quali altri vuoi? Il
capitano si limitò a fare un cenno con la testa, quattro volte. I
soldati spinsero i quattro prigionieri accanto a Ramón. Il capitano non aveva scelto a caso: erano gli
uomini più decisi, quelli che Ramón avrebbe scelto
per un’azione. Non quelli che avrebbe scelto come amici, forse, ma su quel
fottuto vagone molti soggetti con cui stringere amicizia certo non c’erano. Gomez
fece togliere le manette a due uomini, che si caricarono il prigioniero
malconcio ed il gruppo si avviò, con le catene ai piedi, scortato dai
soldati. Per un buon momento Ramón sentì Gomez che
continuava ad imprecare e bestemmiare, poi il gruppo scomparve ad una curva
della strada. Alla
stazione erano rimasti sei soldati ed il capitano. Questi fece cenno ad uno
dei soldati, che estrasse da una sacca cinque pezzi di tela bianca. Il
soldato si avvicinò ad uno dei prigionieri e aprì la tela: era una specie di
cappuccio, che venne messo sulla testa del prigioniero. Uno dopo l’altro,
tutti e cinque
furono incappucciati. La tela era leggera e Ramón
era in grado di vedere abbastanza bene. Non serviva per impedire loro di
vedere dove andavano. E allora, per che cazzo serviva? Perché
gli altri non li vedessero, una volta arrivati al forte? Sì, doveva essere
così, non c’era altra spiegazione. Ma perché gli altri non dovevano vederli?
E perché gli avevano messo subito il cappuccio, senza aspettare di essere al
forte? Ramón non aveva una risposta da dare. Forse una risposta
non c’era neppure. E se c’era, prima o poi l’avrebbe avuta, ma era
probabile che quella fottuta risposta non gli
piacesse
per niente. -
In marcia, dobbiamo arrivare in un quarto d’ora. Ramón non
sapeva quanto fosse distante il Cerro del Diablo.
Un quarto d’ora poteva essere un tempo ragionevole o una pura follia, un
pretesto per metterli in punizione appena arrivavano. Lo avrebbe scoperto
quanto prima. Entro un quarto d’ora. Uscirono
dalla stazione, ma non presero la strada che avevano seguito gli altri. Si
inerpicarono lungo un sentiero che saliva ripido. Il terreno era fangoso,
perché doveva essere piovuto nella notte, ed a tratti i piedi affondavano
nella melma. Il fango rimaneva attaccato ai piedi, rallentando la marcia.
Inoltre in parecchi tratti il sentiero era molto sdruccioloso ed era
difficile rimanere in piedi.
Il capitano procedeva per primo, senza voltarsi mai indietro. Ramón si ritrovò quasi subito per secondo. Non si voltò a
vedere se gli altri lo seguivano: a parte il cappuccio, che limitava la sua
visuale, rimanere in piedi su quel terreno fangoso richiedeva tutta la sua
concentrazione. Il
capitano sembrava procedere come se fosse su una scala di cemento, senza
nessuno sforzo. Ramón gli tenne dietro, senza
lasciare che lo distanziasse, ma quando arrivò alla fine del sentiero era in
un lago di sudore, anche se non faceva molto caldo. Quando
furono giunti alla porta del forte, il capitano si voltò e lo guardò. A Ramón parve che annuisse, appena un cenno, come avesse
avuto una conferma di quanto si aspettava. Poi il capitano
guardò indietro, ma non c’era nessuno dietro di loro. Ci vollero diversi
minuti perché arrivassero i soldati e gli altri prigionieri. Uno doveva
essere caduto, perché anche attraverso il cappuccio Ramón
vide che era tutto inzaccherato. Superate
le imponenti fortificazioni esterne, entrarono nella caserma e continuarono a
salire: il forte era costruito lungo il pendio ed il posto dove erano diretti
si trovava evidentemente nella parte alta. Attraversarono un primo cortile,
molto ampio, in cui c’era un grande andirivieni di soldati. Sembrava una
caserma normale, in cui fervevano le attività del mattino, ed i soldati li
guardavano passare, ridacchiando. Una
porta sbarrata nella parte alta del cortile si aprì per farli accedere ad un
secondo cortile, meno vasto del primo e nettamente più inclinato. Anche qui
c’erano parecchi soldati, ma la situazione appariva diversa. Gli uomini, che
indossavano solo un paio di calzoni corti, spesso strappati, avevano le
catene ai piedi e formavano una lunga fila che si muoveva lentamente lungo la
salita. La lentezza non dipendeva dalla cattiva volontà degli uomini, né
dalla mancanza di stimoli esterni, perché era evidente che i prigionieri
facevano il massimo sforzo per procedere il più rapidamente possibile e tre
caporali, in posizioni diverse, non risparmiavano i colpi di frusta per
costringerli a mantenere il ritmo di marcia. Ma ogni uomo era gravato da un
blocco di pietra squadrato, che reggeva a fatica. Ramón
si disse che probabilmente servivano per qualche nuova costruzione: con
l’avvicinarsi della guerra, la posizione strategica di Cerro del Diablo diventava sempre più importante e di certo la
fortezza veniva ampliata e rinforzata, utilizzando come manodopera i soldati
inviati in punizione. Il
capitano ed il suo gruppo proseguirono parallelamente alla fila, diretti
anch’essi verso l’alto. A metà strada, Ramón capì
che in realtà gli uomini non stavano portando i blocchi da nessuna parte,
perché arrivati in cima al cortile semplicemente si voltavano indietro ed
incominciavano a scendere. Uno degli uomini che avevano iniziato a scendere,
squilibrato dal peso, inciampò nella propria catena e cadde rovinosamente.
Per sua fortuna, il blocco che trasportava finì a terra sul lato esterno
della fila, e si fermò, senza travolgere nessuno. Immediatamente
uno dei caporali fu su di lui ed incominciò a frustarlo con tutte le sue
forze. Il primo colpo prese il disgraziato in piena faccia e l’uomo subito
chinò il capo, per non offrire il viso ai nuovi colpi. Ramón non poté vedere altro, perché il suo gruppo
proseguì nella salita e giunse all’estremità superiore del cortile. Qui
trovarono un’altra porta chiusa, che si aprì per lasciarli entrare in un
terzo cortile, più piccolo ed anch’esso disposto in salita, ma con una minore
inclinazione. C’era una serie di pali sul lato destro del cortile ed ogni
palo era collegato al successivo da una trave posta in alto. Da una dozzina
di queste travi pendevano altrettanti corpi, tutti nudi, tutti con i segni
delle frustate sul corpo. Avanzarono
lentamente lungo la fila dei pali: il capitano voleva che avessero modo di
osservare con attenzione gli uomini appesi. Alcuni toccavano il suolo con i piedi,
ma molti altri erano sospesi ad una spanna da terra. Due avevano le braccia
legate dietro la schiena e la fune che li reggeva era attaccata ai loro
polsi: in quella posizione, con le spalle slogate, sembravano marionette
appese da un burattinaio inesperto. Sembravano entrambi incoscienti, come
pure diversi degli altri. Solo tre o quattro non erano svenuti e Ramón si disse che la loro sorte era la peggiore: guardò
le loro labbra screpolate dalla sete, i visi stravolti dal dolore e dalla
stanchezza, il sangue raggrumato sulle ferite, le mosche che si posavano
sulle lacerazioni della pelle, sul viso, sui genitali. Due di loro tremavano
in continuazione ed uno emetteva suoni indistinti, che erano forse un’inutile
richiesta di pietà. Ramón avvertì l’acre odore di
piscio e di merda e provò pena per l’umiliazione subita da quei poveretti. L’ultimo
uomo appeso non dava segni di vita e guardandone il viso rovesciato, con gli
occhi aperti, Ramón pensò che fosse morto. Se era
così, era senz’altro il più fortunato. Al
termine del cortile passarono attraverso altre tre porte sbarrate che
conducevano a passaggi coperti. Ad ogni porta un soldato bussava, un altro
soldato dall’interno guardava da uno spioncino e solo allora apriva. Alla
fine, dopo aver superato le diverse porte, arrivarono in un cortile più
piccolo dei precedenti e non inclinato. Lì si fermarono. Il
soldato che aveva messo loro i cappucci, li tolse. Ramón
diede una rapida occhiata intorno. Il cortile era stretto tra edifici
piuttosto alti, quasi tutti con sbarre alle poche finestre. Su
un lato c’erano quattro pali, a breve distanza l’uno dall’altro, sul lato
opposto un palo posto su una piattaforma. Lungo il muro di fondo, i segni di
molti proiettili. Quel muro doveva essere usato per le fucilazioni e Ramón si chiese se era lì che avevano fucilato il
generale González ed i suoi ministri, dopo l’ultimo
colpo di stato. Tutti sapevano che li avevano spediti al Cerro del Diablo e che di lì nessuno era tornato. Mentre
si poneva la domanda, il capitano parlò ad uno dei soldati: -
Provvedete a pulirli. Li
introdussero in uno stanzino, tolsero i cappucci, ma non le catene, e li
fecero passare in un angusto locale per le docce. Aprirono al massimo i getti
di acqua gelata. Ramón inclinò un po’ la testa, in
modo da riuscire a bere l’acqua. Ebbe tempo di bere a sazietà, perché li
lasciarono a lungo, tanto che Ramón, benché fosse
abituato all’acqua fredda, incominciò a rabbrividire. Uno degli uomini, non
reggendo più, cercò di scostarsi un po’ dal getto gelido, ma ricevette una
manganellata sulle costole. Ramón si sforzò di
rimanere fermo. Infine li fecero uscire. L’aria era
fresca, ma il sole li riscaldava. -
In ginocchio.
L’urlo del sergente li prese di sorpresa. Uno dei prigionieri fu più
lento ad ubbidire e subito su di lui si abbatté la frusta.
Il capitano uscì da uno degli edifici e li squadrò. -
Voi siete stati assegnati a quest’area. Da domani incominceremo una serie di
esercitazioni. Adesso vi sarà dato da mangiare e da bere, poi sarete condotti
nelle vostre stanze, da cui non potrete uscire fino a domani mattina, quando
partiremo per la prima esercitazione. Il
capitano li guardò ancora un momento, poi aggiunse: - Da questo momento, voi non avete più
un nome. Scordatevi di averne mai avuto uno. Se qualcuno sarà sorpreso a dire
il proprio nome o a chiamare un altro per nome, sarà punito. Tu sei
Alligatore;
tu, Coyote; tu, Mulo; tu, Scimmia e tu
– e qui si rivolse a Ramón – Maiale. C’era
un senso in alcuni di quei soprannomi: l’espressione feroce e subdola di
Alligatore davvero faceva pensare ai grandi rettili che costituivano un
pericolo mortale lungo i fiumi; Scimmia aveva braccia sproporzionatamente
lunghe e Mulo era più grasso degli altri e apparentemente goffo, anche se
certamente era un individuo pericoloso. Ramón non
avrebbe saputo spiegare il proprio soprannome, forse era solo un modo per
umiliarlo. Dopo
queste parole, il capitano entrò in uno degli edifici del cortile. I soldati
li accompagnarono in un locale e li fecero sedere intorno ad un tavolo.
Tolsero loro le manette e i cinque poterono finalmente calmare
la fame e la sete che li tormentavano dal giorno prima. Nessuno parlò durante
il pasto e nella stanza rimasero sempre quattro soldati, che non li persero
di vista un minuto. Poi
li condussero nelle stanze. Incominciarono a farli entrare uno per volta,
chiudendo poi la porta alle loro spalle con un unico giro di chiave: anche se
fossero usciti, non sarebbero di certo andati molto lontano. Avevano
appena fatto entrare il secondo, Mulo, quando arrivò un soldato: -
Sergente Baroja, il capitano la vuole subito. Ramón notò che il sergente non appariva contento della
chiamata, ma quello che lo colpì, fu vederlo lanciare un’occhiata ad
Alligatore. Poi il sergente Baroja uscì e i soldati
fecero entrare Coyote nella terza cella e Ramón
nella quarta. Ramón sentì lo scatto della chiave
nella serratura, ma avvertì qualche cosa che non lo convinceva. Era come se
il movimento fosse stato bloccato. Rimase
in ascolto e presto sentì chiudere la porta dell’ultima cella, quella in cui
era rinchiuso Alligatore. Lo scatto della serratura fu completo. Bah,
poteva darsi che la serratura della sua cella fosse difettosa, ma questo non
gli avrebbe davvero portato nessun vantaggio. Anche se fosse riuscito a
forzarla, una volta fuori, che avrebbe potuto fare?
Ramón esaminò la sua “stanza”. Per definire
quei buchi stanze bisognava avere la faccia come il culo. Il locale in cui lo
avevano messo era lungo due metri, alto altrettanto e largo poco più di un
metro: ci stava giusto un tavolaccio di legno per dormire ed il bugliolo. In
alto c’era una finestrella che dava su un muro: benché fosse ancora giorno,
la “stanza” era immersa nella penombra. A Fuenteroja
locali di quel tipo erano celle di punizione, non stanze. Ramón
si disse che quella stanza non era così brutta, per il Cerro del Diablo: probabilmente avrebbe conosciuto di peggio.
In questo non si sbagliava.
Comunque, almeno era da solo: evidentemente non volevano che loro
cinque comunicassero gli uni con gli altri. Non avrebbe dovuto passare la
notte a guardarsi dagli altri. Ed avrebbe potuto riposare tranquillo. In
questo, invece, si sbagliava. Scambio di cella
Ramón si stese sul tavolaccio. Faceva abbastanza freddo,
non c’era nessuna coperta e lui era ancora nudo, ma la temperatura non
sarebbe scesa troppo, perché dalla finestrella entrava ben poca aria. Sarebbe
riuscito a dormire. Ne aveva bisogno.
Pensò un momento alla strana accoglienza, al capitano, ai cappucci, a
quella stanza. Non riusciva a capire che significato avesse tutto ciò. Si
trovavano nell’area più interna del forte, che forse era riservata ai
condannati a morte. Lo erano anche loro? Forse.
Cercò di impedirsi di pensare al passato, ma il ricordo di Diego
ritornò con forza: lo rivide al campo di tiro, dove la sua mira incredibile
sbalordiva tutti; durante l’addestramento, deciso a non cedere mai, a non
mostrarsi debole davanti al suo sergente; nella scuderia, mentre si spogliava.
Ed il corpo gli si incendiò.
Cercò di scacciare il pensiero di Diego. Si alzò e decise di fare un
po’ di esercizio prima di mettersi a dormire: in quell’inferno mantenersi in
forma era una questione di vita o di morte. Lo spazio non era davvero molto
ma Ramón si distese sul pavimento ed incominciò a
fare flessioni sulle braccia. Erano tre giorni che di fatto non era più
riuscito a fare esercizi ed il movimento gli diede un senso di benessere.
Lentamente, molto lentamente, anche l’erezione perse forza. Dopo le flessioni a due braccia, passò a quelle con un braccio solo. A quel punto però, mentre si sollevava sul destro, il suo sguardo fu attirato da una massa scura che sporgeva sul lato inferiore della cuccetta, nell’angolo più lontano e più buio. Strisciò sotto la cuccetta e toccò con le dita l’oggetto. Era una busta scura, dello stesso colore del legno, fissata con alcuni chiodi.
Facendo molta attenzione a non lacerarla, Ramón
la staccò e poi l’aprì. Dentro c’era un pugnale, una lunga lama acuminata, in
grado di spaccare il cuore ad un uomo. Ramón fissò
il pugnale esterrefatto: era stato messo lì deliberatamente, ma da chi,
perché?
Pensò allo sguardo tra Alligatore ed il sergente Baroja.
Che quella cella fosse destinata ad Alligatore? Il pugnale era per lui? Che
uso avrebbe dovuto farne?
Rimise il pugnale al suo posto, badando di non lasciare nessuna
traccia: il destinatario doveva pensare che nessuno lo aveva toccato.
Si avvicinò alla porta e si mise in ascolto. Non si sentiva nessun
rumore. Provò a bussare, ma non rispose nessuno. Allora fece pressione sulla
porta. Non successe nulla.
Esitò un attimo. Se avesse dato un colpo più deciso, aprendo la porta,
e nel corridoio ci fosse stata una sentinella, lui era fottuto, semplicemente
fottuto: un tentativo di fuga a Cerro del Diablo si
pagava con la vita. Ma Ramón voleva verificare.
Diede una spallata alla porta, decisa. La porta cedette. Ramón controllò che nel corridoio non ci fosse nessuno.
Per fortuna, alla debole luce delle lampade che pendevano dal soffitto, non
si vedeva anima viva. Nessuno sembrava aver sentito nulla. Ramón controllò la serratura: il catenaccio non era
avanzato completamente e controllando la cavità in cui avrebbe dovuto
scorrere, Ramón ne comprese il motivo. La cavità
era stata bloccata da un pezzo di metallo.
Tutto era stato preparato perché un prigioniero avesse un’arma mortale
e potesse uscire: per uccidere, su questo non aveva dubbi. Il prigioniero
doveva essere Alligatore e chi aveva predisposto tutto era il sergente Baroja. Ma perché? Qual era la vittima designata? E
perché far ricorso a un meccanismo così tortuoso? Chi aveva organizzato tutto
questo, doveva prevedere che il capitano avrebbe scelto Alligatore.
Alligatore era un tipo deciso, come gli altri che il capitano aveva scelto, ma… E se fosse stato il capitano a far mettere quel
pugnale? Un omicidio compiuto nella parte più interna del forte, un
prigioniero appena arrivato che in qualche modo si procura un pugnale ed
uccide chi incontra. Nessuno avrebbe sospettato che non c’era nulla di
casuale in quell’incontro…
Ramón non era in grado di darsi risposte più
precise.
Ed ora? La cosa più saggia sarebbe stata far finta di niente, ma Ramón non era abituato a far finta di niente.
Cercò di estrarre dalla cavità il pezzo di metallo che impediva al
catenaccio di scorrere fino in fondo, ma non
ci riuscì. Allora scivolò nuovamente sotto il tavolaccio, riprese il
pugnale e con la punta estrasse facilmente il blocco. Chiuse la porta e,
facendo passare la lama del pugnale tra il battente della porta ed il muro,
spinse in avanti il catenaccio, bloccando parzialmente la porta: più o meno
era chiusa come prima del suo intervento, quindi nessuno avrebbe dovuto
accorgersi che lui aveva aperto e poi richiuso la porta. Poi rimise per la
seconda volta il pugnale al suo posto, con un’attenzione maniacale ad ogni
dettaglio, benché ormai fosse quasi completamente buio.
Aveva un’idea. Non sapeva se sarebbe stato in grado di realizzarla, ma
ci avrebbe provato.
Si distese sul tavolaccio, il blocco di metallo in mano, e chiuse gli
occhi. Poteva dormire. Tanto, se volevano che quel pugnale arrivasse in mano a
chi di dovere, dovevano venire in quella cella.
I passi nel corridoio risuonarono dopo circa un’ora. La porta
dell’ultima cella venne aperta:
- Tu, fuori, muoviti!
Ramón sapeva che avrebbero fatto uscire
anche lui, per effettuare lo scambio. Ed infatti, pochi secondi dopo, la
porta si aprì e nella stanza ormai buia entrò la fioca luce proveniente dal
corridoio.
- Anche tu, fuori, muoviti! Ramón ubbidì. Nella destra teneva il blocco di
metallo, cercando di nasconderlo. Come aveva previsto, era il
sergente Baroja. Aveva in mano una frusta. - Voi due, stronzi, che
cazzo avete combinato? Entrambi risposero: - Nulla signor sergente! - Avete cercato di
comunicare battendo contro il muro, stronzi, si sono sentiti i colpi. Ramón sapeva che era tutta una scena, ma
sapeva anche che doveva rispondere, perché i due non capissero che aveva
mangiato la foglia. - Signor sergente, non ho battuto… La frustata sul torace lo
fece tacere. Se l’aspettava e non era neppure stata molto forte. Faceva parte
della scena, di cui lui era solo una comparsa. Gli attori principali erano
gli altri due. O almeno lo credevano, perché lui contava di fare il terzo
incomodo. - Non mi
dire che sono un bugiardo, stronzo! - No, signor sergente! Ramón tacque e Baroja,
avendo concluso che ormai la piccola recita era più che sufficiente per quel
coglione di Maiale, proseguì: - Avanti, Maiale, torna in
cella. Nel dirlo Baroja si piazzò nel corridoio, in modo che Ramón potesse dirigersi solo nella cella dove prima stava
Alligatore. Sì, aveva calcolato giusto. Aveva bisogno di un attimo
per realizzare l’ultima parte del piano. Quando fu esattamente sulla
soglia, mentre la destra scivolava verso il muro, all’altezza della serratura,
si volse al sergente e gli disse: - In questa, signor
sergente? Baroja lo guardò sprezzante: - Perché, fa qualche
differenza? Hai lasciato i tuoi effetti personali nell’altra o ti eri già
preparato il letto? - Come vuole, signor
sergente. Ramón aveva ormai inserito il blocco di
metallo nella cavità della serratura ed entrò. La porta venne chiusa alle
sue spalle e la serratura scattò, ma non completamente. Baroja
se ne sarebbe accorto? Era probabile che non ci badasse, per lui il
prigioniero Maiale contava meno del due di picche. Ramón rimase in attesa. Sentì che anche
l’altra porta veniva chiusa, ma la serratura scattava liberamente. Sentì una
bestemmia soffocata di Baroja, poi più nulla. Baroja si era accorto che il catenaccio non era rimasto bloccato, ma non poteva sospettarne il motivo. Aveva certamente rimediato, facendolo scorrere all’indietro. Bene, ora non rimaneva che aspettare,
senza cedere al sonno. Un assassino a Cerro del Diablo
Dovevano essere passate due
ore o poco più, quando Ramón sentì che la porta
della cella vicina veniva aperta. Aspettò un momento, poi spinse con forza il
pesante battente di legno e passò nel corridoio. In un attimo lo percorse
fino all’uscio. Era un gioco molto
pericoloso: non doveva farsi vedere da Alligatore, ma non doveva perderlo di
vista; era nudo e disarmato ed il suo avversario era un assassino con un
pugnale, per cui uccidere una o due volte non faceva nessuna differenza. Nel cortile vide un’ombra
dirigersi verso una porta sul fondo. Corse, tenendosi lungo il muro, dove il
buio era più fitto, fino a quella porta. Alligatore non la chiuse – ma era
davvero Alligatore? Magari stava seguendo l’ombra sbagliata! Ramón si infilò oltre la porta rapidamente: era
completamente buio, ma poco più in là l’ombra divenne di colpo meno fitta.
Alligatore doveva aver aperto un’altra porta ed infatti Ramón
lo vide sgusciare oltre la striscia meno scura. Ramón
fu subito alla porta. Stare così vicino era una
follia, ma Alligatore andava ad uccidere e se voleva impedirglielo, Ramón non poteva arrivare un minuto dopo. La porta dava in un altro
cortile e, neppure due metri davanti a lui, Ramón
poté vedere la sagoma di Alligatore ferma in una rientranza del muro, in
ombra. Poco più in là, davanti ad
una porta, un soldato di guardia stava appoggiato al muro. Rimasero un buon momento
così, tutti e tre ai propri posti: la sentinella, convinta di essere sola,
Alligatore, sicuro che nessuno lo vedesse, e Ramón,
che vedeva tutti e due. Faceva un freddo cane, ma in quel momento c’era altro
a cui badare. Poi la sentinella
incominciò a muoversi e si spostò, prima nella direzione opposta alla loro,
poi verso il punto in cui si trovava Alligatore. Alligatore avrebbe colpito
non appena la sentinella gli avesse voltato le spalle, per tornare verso la
porta che sorvegliava. Quando vide che la
sentinella girava su di sé, Ramón scattò in avanti.
Alligatore si slanciò un attimo dopo, il pugnale sollevato, ma Ramón
gli fu addosso, gridando: - Fermo! Con la destra Ramón bloccò la mano che stringeva il pugnale e con la
sinistra avvolse Alligatore in una stretta vigorosa, mentre il suo slancio
trascinava entrambi al suolo. Alligatore era robusto, ma Ramón
era più forte e lo aveva preso del tutto di sorpresa. Alligatore cercò
disperatamente di liberarsi dalla stretta di Ramón,
ma la partita era persa. - È inutile che ti agiti! In quel momento una luce
molto vivida li illuminò: una torcia elettrica era puntata su di loro. Non
solo una torcia elettrica: nel cerchio di luce si vedeva anche la canna di un
fucile. - Va a chiamare gli altri,
Mendez. La voce era quella del
capitano e Ramón non si stupì: era lui la vittima
designata. Il capitano afferrò il
polso di Alligatore, che ancora stringeva il pugnale, poi la luce si spense. - Molla il pugnale o ti
spezzo il polso. Alligatore non ubbidì, ma
subito Ramón lo sentì emettere un gemito ed avvertì
lo scricchiolio delle ossa che cedevano. Il pugnale venne preso senza fatica
dal capitano. - Tienilo ancora fermo,
Maiale. Tre uomini stavano già
arrivando. Su ordine del capitano, afferrarono Alligatore, lo portarono
dentro l’edificio da cui era uscito il capitano e gli misero le manette ai
polsi, dietro la schiena: non doveva più essere in grado di usare il polso
destro, comunque, anche se l’avesse avuto libero. Nel corridoio illuminato Ramón vide che il capitano era in pigiama, ma aveva una
pistola e la torcia. - Bene, Alligatore, credo
che tu abbia molte cose da spiegare. Alligatore teneva la bocca
serrata. Il capitano proseguì: - E ti assicuro che me le spiegherai,
tutte. Poi il capitano si rivolse
a due uomini: - Portatelo nella stanza
tre. E che non vi scappi: non deve riuscire ad ammazzarsi. Ramón pensò che effettivamente a quel punto
per Alligatore la cosa migliore sarebbe stato riuscire ad ammazzarsi, ma i
due soldati che lo trascinavano via erano massicci e forti e certamente non
gli avrebbero permesso di tentare nulla. Il capitano poi si rivolse
al terzo soldato: - Va’ a chiamare il
sergente Baroja. Ramón guardò il capitano e scosse la testa.
Non voleva parlare di fronte al soldato ed alla sentinella, ma si rendeva
conto che Baroja era un traditore ed era l’ultima
persona che doveva essere avvisata. Il capitano vide il
movimento e nei suoi occhi passò un lampo. Fingendo di ripensarci, rettificò
l’ordine: - No, chiama il sergente Texido. Poi mandò fuori la
sentinella, chiuse la porta e fece entrare Ramón in
una stanzetta con una branda, una scrivania, due sedie ed un lavandino in un
angolo. - Raccontami tutto,
dall’inizio e senza fretta, senza tralasciare nessun dettaglio. Ramón ubbidì e raccontò, senza nascondere
nulla di ciò che aveva visto, sentito o intuito. Alla fine il capitano gli
pose ancora alcune domande, per verificare la coerenza delle sue
affermazioni. Quando Ramón
ebbe finito, il capitano disse: - So che non hai mentito.
Lasciare la propria cella la notte costa la vita, ma in questo caso non sarai
punito. “Troppo buono” – pensò Ramón – “in fondo ti ho solo salvato la vita! O almeno ho
salvato quella della sentinella, perché sorprendere nel sonno uno come te dev’essere impossibile.” - Non ti aspettare nemmeno
un premio, perché non l’avrai. Ramón l’aveva sospettato: a Cerro del Diablo la distribuzione dei premi doveva avvenire sempre
il 29 di febbraio (30 negli anni bisestili). - Questa notte dormirai qui. Non uscire dalla stanza per nessun motivo. Se hai bisogno di qualche cosa, chiama la sentinella. Ramón si disse che se non altro aveva
guadagnato una sistemazione decisamente migliore. Valeva per poche ore, ma
almeno poteva dormire tranquillo. Non avrebbe dormito molto. Ringraziamenti
Il capitano era appena
uscito, quando entrò la sentinella. Era piuttosto giovane, ben piantato, con
una faccia larga ed un bel sorriso cordiale. - Volevo ringraziarti. Mi
hai salvato la vita. - Devi stare più attento.
Se sei di guardia non puoi distrarti. - Lo so, hai ragione, ma
siamo nel cuore del forte, non pensavo… Non ero
abbastanza attento, lo so… Ci fu un momento di
silenzio. Ramón non sapeva che cosa dire, per quel
che lo riguardava la conversazione era finita, ma il soldato non sembrava
molto intenzionato ad andarsene. - Non ti chiedo come hai
fatto ad essere lì al momento giusto, perché se il capitano scopre che ho
fatto domande, mi manda in cella di punizione per un mese! Ramón annuì. Era meglio, per tutti e due, che
lui non raccontasse nulla dell’accaduto, di questo era assolutamente sicuro.
La sentinella avrebbe dovuto tenersi la sua curiosità e lo stesso valeva per Ramón, che di cose da chiedere ne avrebbe avute davvero
tante. Gli sarebbe piaciuto sapere quello che stava avvenendo e poi avere
informazioni sul capitano, sul forte, ma questo sarebbe stato pericoloso per
entrambi. A Cerro del Diablo c’era poco da
scherzare. Il soldato parlò ancora: - Hai bisogno di qualche
cosa? Il soldato continuava a
fissarlo e Ramón incominciò a pensare che forse
l’uomo intendeva ringraziarlo non solo a parole. - No, grazie. Non ho
bisogno che tu mi aiuti a spogliarmi… Il soldato rise alla
battuta, ma non si mosse. Ramón aveva bisogno di dormire: nelle due
notti precedenti aveva dormito troppo poco ed ormai aveva chiaro in testa che
le giornate a Cerro del Diablo non dovevano essere
di tutto riposo (e le notti neanche, se il buon giorno si vede dal mattino…). Stava per dire che si sarebbe steso, quando il
soldato parlò: - Qui le notti sono fredde.
E tu sei andato in giro nudo. Stenditi che ti porto qualche cosa di caldo. - Grazie Ramón annuì e si stese sul letto. Guardò il
soldato che incominciò rapidamente a spogliarsi. Che cos’era “qualche cosa di
caldo”? I suoi abiti? Non ci sarebbe entrato. Il soldato era di fianco al
letto. - Una bella coperta calda è
quello che ci vuole. Si sedette sul suo ventre
ed incominciò ad accarezzargli energicamente il torace. La sensazione di
calore era piacevole e quel peso sul ventre lo era ancora di più, tanto che
l’uccello incominciò ad alzare il capo. Il soldato si chinò su di
lui ed incominciò a passargli la lingua intorno ai capezzoli. Ramón lo guardò sbalordito, ma a stupirlo ancora di più
fu l’immediato ergersi dei suoi capezzoli, che scattarono sull’attenti come
un soldato ben addestrato all’arrivo del generale. Il soldato allora ne prese
uno in bocca ed incominciò a succhiare, come se avesse davvero potuto
ricavarne latte. Poi ripeté l’operazione con l’altro, ma prima di lasciarlo,
diede un morso leggero e poi uno più forte. Ramón era senza parole. Per lui il sesso (tra
due uomini o, anche se non ne aveva conoscenza pratica, tra un uomo ed una
donna) era una cosa molto semplice: si infilava il cazzo a fondo in un bel
buco caldo, fino a che si veniva; in alternativa una sega. Qualche carezza,
se proprio ci si voleva davvero bene, come lui e Diego. Sapeva che si poteva
fare con la bocca e la notte precedente lo aveva provato, ma che poi si
potessero fare anche cose come… come percorrere il
torace con la lingua, scendere fino all’ombelico, entrarci con la punta,
scendere ancora fino al tizzone ardente che batteva sul ventre (certe cose
avevano un certo effetto), scorrere lungo l’asta, dalla cappella alla base,
scivolare sui coglioni, poi risalire... Il soldato si muoveva con sicurezza e
Ramón sentiva che quella lingua era un cerino che
passava su una catasta di ramoscelli secchi. - Voltati sulla pancia! La richiesta riscosse Ramón. - Pensi mica di mettermelo in
culo?! - Ma no, che dici, ti
riscaldo solo la schiena. Bah!
Ramón sapeva che non c’avrebbe messo molto a
sbarazzarsi del soldato, se quel tizio avesse cercato di fare quanto non
doveva. Si voltò a pancia in giù e
sentì il calore del corpo del soldato che aderiva al suo, poi di nuovo la
lingua che gli scorreva dietro le orecchie, sul collo e poi scendeva lungo la
colonna vertebrale. Giunta al termine della
colonna, la lingua non si fermò, ma scese decisa nell’incavo tra le cosce. Un
uomo gli stava leccando il culo! Ramón si disse che
era una cosa davvero schifosa, ma la sensazione era tutt’altro che
spiacevole, la sensazione era maledettamente piacevole e sotto il ventre gli
sembrava che il cazzo volesse esplodere. Il soldato non si fermò
neppure quando arrivò all’apertura nascosta, anzi, vi indugiò a lungo,
accarezzando con la lingua. Poi, dopo un attimo di
pausa, Ramón sentì un piccolo morso al culo, un
secondo, un terzo. Non era spiacevole, no, nemmeno quello, ma l’uomo doveva
essere pazzo. Come si poteva fare una cosa del genere?! Sì, doveva essere
pazzo. Ma l’eccitazione non calava, il cazzo era una colonna di cemento
arroventata. - Voltati sulla schiena! Ramón ubbidì, avendo rinunciato ad ogni
volontà, ed osservò il soldato che, dopo essersi inumidito con cura il buco
del culo, gli prendeva il grande palo, lo sollevava e, lentamente, si
impalava sulla sua carne. Ramón chiuse gli occhi, perché il piacere lo
sopraffece. Poi li riaprì ed osservò, forse disgustato, forse affascinato,
certamente eccitato, il suppliziato alzarsi ed abbassarsi sul suo palo, che
appariva e poi scompariva completamente nel culo. Poi non fu più in grado di
vedere, perché il piacere lo travolse. Il soldato continuò il suo
movimento fino a che Ramón non fu costretto a dire: - Basta! Allora, rimanendo inclinato
all’indietro, stringendo ancora in culo la lancia che lo aveva trapassato, il
soldato incominciò ad accarezzarsi, fino a che venne. Poi si alzò, uscì a pulirsi
al lavandino e si rivestì. Gli sorrise, gli disse
ancora: - Grazie. Uscì, chiudendo dietro di
sé la porta. Prima di addormentarsi il
soldato semplice Ramón Hierro
si chiese in che cazzo di posto era finito. Ma a questa domanda non aveva una
risposta. La gara
Era
riuscito a dormire bene. D’altronde, la stanchezza accumulata gli avrebbe
permesso di dormire anche appeso per le braccia al soffitto. Alle
otto lo riportarono nel cortile, dove rivide i suoi compagni di prigionia,
Alligatore escluso, ovviamente. Ramón non aveva
manette, ma gli altri erano di nuovo con le mani bloccate dietro la schiena. Ramón osservò un tavolo, che la sera prima non
c’era. Sul ripiano erano state messe delle sfere metalliche. Ogni sfera aveva
un anello di ferro attraverso cui passava una cinghia, ma Ramón
non riusciva a capire quale uso potessero avere quegli oggetti. Mentre stava osservandoli,
il capitano uscì da una delle porte. Era nudo e Ramón
rimase sbalordito: come era possibile che il capitano si mostrasse così,
davanti ai soldati? Quanto a loro, più che soldati in punizione, erano
prigionieri e la loro vita non valeva un cazzo, ma c’erano anche diversi
soldati della guarnigione ed un capitano deve conservare un certo decoro di
fronte ai suoi subordinati. -
Questa mattina faremo una prova di resistenza. Poi
il capitano si rivolse ai soldati ed incominciò a dare istruzioni: - A Coyote, il peso da
tre; a Scimmia, anche; a Mulo, il peso da due. Ramón non capì immediatamente, ma i soldati si misero subito in azione. Ognuno di loro prese uno dei pesi e si mise di fronte al prigioniero indicato, poi passò la cinghia intorno all’attaccatura dei testicoli, stringendola, in modo che la sfera fosse ben fissata. Poiché la cinghia era lunga una ventina di centimetri, la sfera pendeva al di sotto dello scroto. Ramón si disse che non doveva essere piacevole. Non
capiva però perché il capitano non avesse dato nessuna indicazione per lui. Intanto
il capitano aveva preso un peso più grande degli altri e se lo stava
mettendo. Ramón capì perché il capitano era nudo e
si chiese che razza di uomo fosse quello. In quel momento il capitano
si rivolse a lui: -
Quanto a te, Maiale, puoi scegliere il peso che vuoi. Ramón sapeva benissimo il senso di quelle parole: non era
una ricompensa per quello che aveva fatto, era una sfida e lui non aveva
nessuna intenzione di tirarsi indietro. Scelse un peso uguale a quello del
capitano, il più grosso tra quelli sul tavolo. Un soldato glielo fissò, poi
bloccò anche a lui le mani dietro la schiena. -
Dobbiamo fare dieci volte il giro degli spalti, salendo da quella scala e
scendendo da quell’altra. Il
capitano indicò con il dito il percorso, poi aggiunse: - Dovete fare il più in
fretta possibile. Ramón si disse che con quel peso attaccato ai coglioni,
un solo giro sarebbe stato più che sufficiente per fare urlare di dolore
Ercole. Dieci giri… pensavano di mandarli
nell’harem di qualche sultano, come eunuchi? Il
capitano partì. Si muoveva con rapidità e sicurezza, anche se teneva le mani
dietro la schiena, e Ramón decise che gli sarebbe
stato dietro. Fece un passo in avanti, ma con troppo slancio: il dolore fu
tale che dovette trattenersi per non gemere. Doveva muoversi senza scatti,
perché altrimenti avrebbe fatto oscillare la sfera, moltiplicandone il peso. Stringendo
i denti proseguì, ma le scale si rivelarono subito un altro ostacolo
terribile: ogni gradino era una scossa e gli pareva che un artiglio gli
stringesse i coglioni per strapparglieli. Il
capitano procedeva sicuro e Ramón cercò di
studiarne il passo, per imitarlo e ridurre il dolore. Quando il capitano
arrivò in cima alla scala, a Ramón mancavano sette
gradini. Cercò di accelerare, ma si rese conto che non era in grado di
procedere più speditamente. Sugli
spalti riuscì a proseguire con maggiore rapidità, evitando che la distanza
che lo separava dal capitano aumentasse ancora. Il dolore che saliva dai
testicoli era sordo, ma continuo, ed andava aumentando di intensità. Scendere
le scale fu peggio che salirle e Ramón pensò che
dieci giri erano un’impresa impossibile. Ma il capitano proseguiva con lo
stesso ritmo implacabile e Ramón lo seguiva. A
metà del secondo giro, vide che gli altri prigionieri erano rimasti alquanto
indietro: uno, Mulo, era addirittura ancora ai piedi della scala. Non era una
grande consolazione, perché il suo punto di riferimento era il capitano:
sapeva benissimo che l’avergli lasciato scegliere il peso era una sfida e lui
l’aveva raccolta. Ora doveva portarla avanti. Aveva
ormai preso il ritmo giusto ed imparato a controllare il movimento delle
gambe lungo le scale, in modo da ridurre al minimo le oscillazioni della
sfera, ma il dolore continuava a crescere e Ramón
si chiese se sarebbe riuscito a tollerarlo. Alla fine del terzo giro avevano
superato Mulo, ma la distanza tra lui ed il capitano era aumentata. Dal
quarto giro in poi, il dolore che saliva dai testicoli lo avvolse
completamente, stordendolo, ma continuò la sua marcia. Al
sesto giro il capitano e Ramón superarono anche gli
altri tre
prigionieri. Il capitano aveva ormai un mezzo giro di vantaggio ed il dolore
era intollerabile. Ramón si rese conto che se
avesse continuato a perdere terreno, il capitano lo avrebbe doppiato. Strinse
i denti e, ignorando il dolore sempre più forte, si impose di non rallentare
il passo. Camminava ormai come un automa, mentre
il sudore gli gocciolava sul viso e su tutto il corpo. Solo la volontà gli
permetteva di andare avanti. Gli pareva, molto vagamente, di aver superato
nuovamente gli altri prigionieri o forse solo uno di loro, ma non avrebbe
saputo affermarlo con certezza. Sapeva solo che mancavano ancora due giri e
che non vedeva più dov’era il capitano. Quando
stava finendo il nono giro, si rese conto che il capitano era alle sue
spalle. Non voleva cedere, si rifiutava di accettare quella sconfitta.
Accelerò il passo, mentre la vista gli si annebbiava per il dolore. Riuscì
a scendere le scale e ad incominciare il decimo giro senza che il capitano lo
raggiungesse. Il capitano doveva essersi fermato al termine del decimo giro, ma
Ramón non rallentò il passo. Voleva finire, finire
prima che il dolore lo facesse impazzire. Vide a terra uno dei suoi compagni
di prigionia, incapace di proseguire. Non poteva fare nulla. Passò oltre. Completò
il giro e si fermò davanti al tavolo, dove il capitano si era già tolto la
sfera. Un
soldato gli si avvicinò, ma quando le sue mani incominciarono ad armeggiare
intorno alla cinghia, il contatto un po’ rude sembrò a Ramón
una sferzata. Si morse il labbro per non urlare. Infine
il soldato completò l’opera ed il dolore arretrò, senza scomparire. Era un
po’ come se l’elefante che gli aveva poggiato la zampa sui coglioni, ora
l’avesse tolta. Non che adesso lui stesse bene, ma almeno la zampa non pesava
più. Ramón attese che anche gli altri arrivassero. Ci misero
molto tempo e Ramón fu ben contento di poter
riprendere un po’ il fiato. Mulo
si fermò senza completare i dieci giri. Davanti al tavolo crollò a terra. -
Non ce la faccio, capitano, non ce la faccio. Il peso mi sta staccando i
coglioni. Il
capitano fece un cenno ed uno dei soldati tolse al prigioniero il peso. - Legatelo ai pali. Due
soldati trascinarono il prigioniero per il cortile, mettendolo poi tra due
pali. Gli fissarono la gamba destra ad un palo, poi gli tolsero le manette e
fissarono il braccio destro in alto, allo stesso palo. L’altro braccio e la
gamba corrispondente furono fissati al palo vicino. I soldati si erano mossi
con grande rapidità ed efficienza: di certo erano abituati a quel tipo di
operazione. Ora Mulo formava una grande
X. Ramón lo guardò. L’uomo aveva la sacca dei
testicoli gonfia, di colore bluastro. Doveva aver avuto un grosso versamento
di sangue. -
Voi quattro,
mettetevi dietro al prigioniero. Ramón e gli altri tre si misero in posizione. Il
capitano voleva che loro assistessero a quella punizione assurda, perché
capissero che non potevano mai cedere? Probabilmente era così. Il
capitano aveva una frusta in mano. La porse a Ramón.
- Incomincia tu. Cinque
frustate al culo. Ramón prese automaticamente la frusta. Guardò la propria
mano che stringeva la frusta, guardò la schiena dell’uomo davanti a lui. Non
aveva nessun senso, quell’uomo aveva ceduto perché non ce la faceva più. Sapeva
quello che gli sarebbe costato un rifiuto, ma frustare Mulo sarebbe stata
un’infamia. Allungò la mano, tendendo la frusta al capitano. -
No,
signor capitano. Il
capitano lo fissò negli occhi e Ramón resse il suo
sguardo. In quegli occhi che lo fissavano, Ramón
non riusciva a leggere, ma il capitano poteva fargli quello che voleva,
crepare un po’ prima o un po’ dopo, poco cambiava. Il
capitano riprese la frusta, poi si rivolse a due soldati: -
Legate anche lui. Ramón si lasciò condurre nello spazio tra due pali vicini
ed in breve si ritrovò con le gambe e le braccia ben divaricate, fissate ai
pali. Dietro
di lui, sentì il capitano ripetere: -
Incomincia tu. Dieci frustate al culo. Il
primo colpo non fu violento. Il prigioniero a cui era stata affidata la
frusta non ci sapeva fare. -
Più forte o finisci anche tu ai pali. Il
secondo colpo fu più deciso ed il dolore più forte, ma Ramón
era in grado di resistere: quella fustigazione era molto meno dolorosa di
quella subita a Fuenteroja. Dopo
il quarto colpo però, sentì il dolore crescere e concentrarsi nella parte
bassa del culo. Il prigioniero che lo stava frustando, sembrava colpire
sempre nella stessa area, per inesperienza o deliberatamente. Ad un certo
punto, al nono colpo, Ramón sentì che la pelle si
spaccava, ma riuscì a controllarsi. Il colpo successivo, il decimo, quasi gli
strappò un urlo, perché colpì la carne scoperta dalla frustata precedente. -
Dieci colpi alla schiena. Questo
doveva essere un altro prigioniero, che colpì
subito con decisione. Le frustate erano più dolorose, ma colpivano in punti
diversi e il dolore non si accumulava, ma si distribuiva. -
Va bene. Adesso quest’altro. Cinque colpi. Mulo
ebbe dieci colpi in tutto. Intanto
qualcuno aveva portato un secchio e Ramón sentì
sulla schiena una spugna ruvida e umida che sfregava contro le ferite. L’uomo
che la maneggiava la muoveva energicamente e quando passò sulla ferita al
culo, Ramón si dovette nuovamente mordere il labbro
inferiore per non urlare. Sentì un po’ di sangue colargli dal labbro. Poi
il capitano diede ordine di riportare i prigionieri nelle loro celle. Nella
sua cella, Ramón cercò di sdraiarsi sulla pancia,
ma il dolore ai testicoli era troppo forte. Di sedersi, neanche pensarci.
Rimase in piedi, quasi divertito di quella situazione assurda. Anche a tavola Ramón
rimase in piedi, ma nessuno lo prese in giro: non aveva la faccia di uno che
si può prendere per il culo solo perché ha il culo a strisce. Coyote gli disse: -
Mi spiace, ma se non lo facevo, frustava anche me. Mulo
aggiunse: -
Sei stato un coglione, non mi hai frustato tu, lo hanno fatto loro, se non lo
facevano loro, lo facevano i soldati. O pensi che quello cambia idea? Ramón sapeva benissimo che era inutile spiegargli che non
lo aveva fatto per lui, ma per sé. Mangiò senza dire una parola. La
notte riuscì a trovare una posizione accettabile, sdraiandosi sul fianco
destro. Ripensò alla giornata, ma non riusciva a dare un senso al
comportamento del capitano. Quell’uomo li stava mettendo alla prova ed in
particolare stava mettendo alla prova Ramón. Ma
perché, con che scopo? Non sembrava divertirsi a punirli, come invece spesso
succedeva con alcuni ufficiali a Fuenteroja. Il
pensiero di Fuenteroja portò con sé il ricordo di
Diego e Ramón sentì nuovamente la fitta che provava
ogni volta. |