I – Nel bordello 

II – L’emiro dell’Arram

III – L’asta

IV – L’assedio

V – I briganti

 

VI – Prigionieri

 

La notizia della morte di Barbath arriva come un fulmine a ciel sereno nell’accampamento di Salah ad-Din. Il sovrano aspettava il ritorno dell’emiro da un momento all’altro, visto che ormai aveva sbaragliato i briganti di Qasr al-Hashim. I dettagli atroci sulla sua morte vengono tenuti nascosti, per non scoraggiare gli uomini, ma qualche notizia circola. Il fatto che l’assassino sia riuscito a fuggire desta grande rabbia.

Salah ad-Din mette una taglia sulla sua testa: cinquecento dinar. È una somma enorme, ma anche senza ricompensa tutti sarebbero ben felici di scovare l’assassino: Barbath era molto amato. Il problema è che nessuno ha idea di dove si trovi.

 

Nell’accampamento cristiano la notizia si diffonde più tardi e a molti non dispiace sapere che il terribile Flagello è morto: un temibile nemico in meno.

Nessuno fa caso al guerriero che si unisce al contingente di Ludovico III di Turingia. Ludovico è un signore tedesco che ha scelto di raggiungere l’Oltremare in nave, invece di seguire la via di terra presa dall’esercito di Federico Barbarossa, suo zio: ha raggiunto Tiro partendo da Brindisi e poi si è unito alle truppe che assediano Acri. Un ufficiale di Ludovico valuta il nuovo arrivato, che appare forte e deciso, e lo inserisce tra gli uomini del suo signore: battaglie e malattie falcidiano i soldati e ogni combattente è ben accetto.

Gotthard cerca di evitare Ferdinando. Sa benissimo che prima o poi si ritroveranno, ma preferisce lasciar passare un po’ di tempo e intanto mettere a punto il suo piano per sbarazzarsi di lui e di Solomon.

Una settimana dopo il suo arrivo gli si presenta l’occasione di portare a termine una prima vendetta, durante una delle frequenti incursioni che fanno i saraceni, attaccando le difese del campo. Lo scontro si è spostato dai terrapieni e dalle trincee ai terreni intorno e ora si combatte nel bosco.

Gotthard vede Torstein che affronta due turchi. Gotthard si avvicina, costringendo uno dei due a staccarsi per difendersi. Il turco è ferito e Gotthard ha facilmente ragione di lui: lo colpisce a un braccio, facendogli cadere l’arma, poi gli infila la spada nel petto. L’uomo crolla.

Torstein intanto ha ucciso l’altro guerriero.

- Grazie, Gotthard. Non sapevo fossi qui.

- Sono arrivato qualche giorno fa.

Gotthard si guarda intorno. Non c’è nessuno vicino. Guarda alle spalle di Torstein e indica con un gesto:

- Merda! Ne arrivano quattro.

Torstein si volta. Gotthard gli infila la spada nella schiena, facendola uscire dal petto, poi la ritira. Torstein barcolla e la spada gli sfugge di mano. Si volta, guarda Gotthard, scintille di odio nei suoi occhi. Le sue mani afferrano il collo del tedesco e stringono. Nonostante la ferita mortale, la stretta è forte. Gotthard sente che il fiato gli manca. Immerge la spada nel ventre di Torstein. Questi emette una specie di grugnito e un po’ di sangue gli cola dalla bocca. Per un attimo la stretta si allenta, ma poi riprende. Gotthard si rende conto che sta per perdere i sensi e morire. Con le ultime forze estrae ancora la spada e la immerge nuovamente nel ventre dello svedese. Torstein barcolla, le mani perdono forza. Il gigante cade in ginocchio, china il capo e dalla bocca gli cola sangue. Poi crolla a terra.

Gotthard respira affannosamente. È sfuggito alla morte per pochissimo. Per uccidere Torstein ha rischiato troppo. Ma questo bastardo è morto.

 

Com’era prevedibile, un giorno Ferdinando incrocia Gotthard nel campo. 

- Gotthard! Sei riuscito a salvarti!

- Sì.

- Sei tu che hai ucciso Barbath, vero?

- Sì, così ho evitato di finire sul palo, come gli altri.

Ferdinando annuisce. Non ha altro da dirgli.

- Buon per te. Hai fatto bene ad ammazzare quello stronzo.

Detto questo, Ferdinando saluta e si allontana: non ha nessuna voglia di fermarsi a parlare con quest’uomo, di cui non ha stima. Neanche Gotthard ci tiene a rimanere con il conte, ma vuole vendicarsi di lui. Ha messo a punto un piano, ma non sarà facile realizzarlo. Deve riuscire a prendere contatti con i saraceni, senza farsi ammazzare, e deve trovare un complice, perché Ferdinando non si fiderebbe di lui, per cui gli sarebbe impossibile attirarlo in una trappola.

Gotthard si reca ogni tanto nel settore del campo dove lavorano le prostitute. Non può frequentarle regolarmente come gli piacerebbe, perché non possiede quasi nulla. Ogni tanto riesce a rubacchiare qualche cosa, quando si presenta l’opportunità. Un’altra occasione di guadagno è offerta dagli scontri con i saraceni: Gotthard si aggira tra i cadaveri e si impossessa di ciò che può prendere per rivenderlo.

Un giorno si trova ad aspettare il suo turno insieme a un siciliano, Giacomo. Decide di scambiare due parole con lui, nella lingua franca che usano i guerrieri di diverse nazionalità per intendersi.

- Che rottura di coglioni. Dover pure aspettare per scopare.

- Avessimo un po’ più di soldi… dalle puttane migliori non c’è tanta coda. E puoi rimanerci un po’, senza dover fottere di corsa.

- Eh, sì. Il problema sono proprio i soldi. Hai detto bene. I signori non hanno questo problema. Grossi porci, che possono fare tutto quello che vogliono.

- Sì, bastardi, come il signore che servivo. Tanto ricco quanto tirchio.

- Sì, più sono ricchi, più tengono chiusi i cordoni della borsa.

Gotthard abbassa la voce e prosegue:

- Mi verrebbe voglia di tagliare la gola a qualcuno di quei porci. E ne conosco uno che se lo meriterebbe proprio.

Giacomo annuisce.

- Se decidi di farlo, ti do una mano. Ma badiamo solo a non farci beccare.

Gotthard è soddisfatto della risposta. Non ritiene opportuno avanzare una proposta concreta: scoprirsi dopo un breve scambio non è consigliabile. Ma si fa dire da Giacomo dov’è la sua tenda e si ripromette di cercarlo.

Nei giorni successivi si parlano ancora due o tre volte. Gotthard conclude che Giacomo è la persona adatta per realizzare il suo piano. Prima di esporglielo però deve risolvere un altro problema: mettersi in contatto con qualche ufficiale turco. Non è facile, perché Gotthard non è un nobile che può mandare un messaggero al campo nemico e chiedere un colloquio, per trattare uno scambio di prigionieri o per altri motivi.

Un’occasione si presenta quando Gotthard scopre che quattro guerrieri musulmani saranno liberati in cambio di alcuni prigionieri cristiani.

Dice ai soldati di guardia che il suo signore lo ha mandato a parlare un momento con i prigionieri che stanno per essere scambiati. Nessuno dubita delle sue parole e lo lasciano entrare nella tenda dove sono tenuti i quattro uomini. Comunicare con loro si rivela subito un’impresa molto difficile: nessuno dei prigionieri, due turchi e due arabi, conosce le lingue che Gotthard è in grado di parlare e il tedesco conosce poche parole di arabo e nessuna di turco. Con grande fatica Gotthard, aiutandosi con i gesti e qualche termine che conosce, cerca di far passare il suo messaggio: deve comunicare qualche cosa di importante con un arabo che conosca la lingua dei franchi. Uno dei prigionieri, un giovane turco, sembra cogliere il senso del gesticolare di Gotthard. Il tedesco aggiunge che si troverà il giorno dopo in un bosco, vicino a una sorgente, a mezzogiorno.

Gotthard non sa se hanno capito. E sa che si tratta di una manovra azzardata, perché potrebbero decidere di catturarlo o di ammazzarlo, ma il desiderio di vendicarsi è troppo forte. 

Come previsto, i quattro vengono scambiati in giornata e il giorno dopo a mezzogiorno Gotthard si trova nel luogo indicato. Non si vede nessuno. Magari nessuno dei quattro ha capito il gesto con cui indicava il sole alto in cielo per dire che si sarebbero visti a mezzogiorno. “Domani” l’ha detto in arabo: è una delle poche parole che conosce, come “acqua” e bosco. Ma magari non hanno capito che si riferiva a quella sorgente, anche se ha cercato di descrivere il luogo con i gesti. Oppure hanno riferito la richiesta e nessuno ha ritenuto opportuno rispondere.

Infine appare un cavaliere che raggiunge la sorgente. Vede Gotthard e gli dice:

- Sei tu che hai chiesto un incontro?

- Sì, sono io.

- Dimmi che cosa vuoi.

L’uomo non è sceso da cavallo. Appare diffidente.

- Posso farvi catturare il brigante Ferdinando, che era a Jibrin, Qasr al-Hashim. So che c’è una ricompensa per chi cattura l’uomo che ha ucciso Barbath.

Il cavaliere scuote la testa:

- Non è stato Ferdinando, che non era più al castello. Questo lo sappiamo.

- Ma era uno dei briganti. E volete la sua testa, no?

- Sì, questo sì. Perché tu ce lo vuoi consegnare?

- Perché lo odio. E penso che per averlo siate disposti a pagare.

L’uomo riflette un momento, poi chiede:

- Quanto vuoi?

- Cinquanta dirham.

Non è una cifra da poco, ma non è neanche una richiesta eccessiva.

- Quando ce lo potresti consegnare?

- Domenica.

Si mettono d’accordo sull’ora e sul luogo.

 

Gotthard rientra nel campo. Si tratta ora di convincere Giacomo a fare da esca. Il siciliano non è nella tenda: dev’essere impegnato in qualche lavoro. Gotthard aspetta fino a sera. Dopo il pasto, lo raggiunge e gli dice che ha bisogno di parlargli. Lo porta tra gli scogli, in un punto in cui nessuno può sentirli. Il rumore del mare copre le loro voci.

Giacomo ha capito che Gotthard ha qualche cosa di importante da dirgli e, visti i discorsi fatti, sospetta che si tratti di far fuori qualche signore. L’idea non gli spiace: nei loro confronti prova solo disprezzo e se ammazzando uno di quei maiali è possibile mettere le mani su un po’ di denaro, ben venga.

- Senti, Giacomo, possiamo guadagnare cinquanta monete d’argento. Venticinque a testa. Che ne dici?

- Cazzo! Che cosa vuoi che dica? Che non vedo l’ora che finiscano nelle mie tasche.

- Te le devi guadagnare.

- Che cosa dobbiamo fare?

- Conosci Ferdinando da Siracusa?

- E chi non lo conosce, quello? Pare che sia il miglior stallone del mondo, ma va solo con gli uomini.

- Sì, è un finocchio. I saraceni sono disposti a pagare cinquanta dirham per avere la sua testa.

- Dobbiamo ammazzarlo? Non sarà facile.

- No, lo ammazzano loro, come vogliono. Dobbiamo portarlo in un certo posto, dove loro lo aspettano.

- E come ce lo portiamo?

- È un finocchio, te l’ho detto. Lo attirerai nella trappola facendogli credere che vuoi scopare con lui.

Giacomo è perplesso.

- Se qualche cosa va storto… dicono che ce l’abbia più grosso di un toro. Io non ho nessuna intenzione di farmelo mettere in culo.

Gotthard ride:

- Non succederà. Appena raggiungerete il posto giusto, i saraceni se lo prenderanno.

- Sarà… perché non lo fai tu?

- Perché mi conosce e mi detesta. E sa benissimo che io in culo non me lo faccio mettere. Non cadrebbe nella trappola.

Giacomo è un po’ perplesso, ma Gotthard insiste e alla fine riesce a convincerlo: venticinque monete d’argento sono sempre venticinque monete d’argento.

 

Il sabato Giacomo fa in modo di incontrare “casualmente” Ferdinando. Gli si rivolge direttamente nel dialetto del suo  paese, alle pendici dell’Etna.

- Voi siete il famoso Ferdinando da Siracusa, vero?

Ferdinando è stupito di sentire parlare siciliano.

- Sì. E tu chi sei?

- Mi chiamo Giacomo.

- Con chi sei venuto qui?

- Sono al servizio di Tancredi di Catania.

Giacomo fa una breve pausa e riprende:

- Ho sentito parlare molto di voi, conte.

Ferdinando ride.

- E che cosa hai sentito dire?

- Che siete un guerriero coraggioso. Che siete stato brigante. E anche altro…

Ferdinando guarda Giacomo, che non è niente male.

- Altro?

- Che siete il miglior stallone del mondo.

Ferdinando ripete la sua solita battuta:

- Non bisogna credere a tutto. Bisogna verificare. Vuoi controllare?

- Perché no?

- Vieni nella mia tenda.

- No, adesso non posso. Domani, durante la messa?

- Va bene. Ti aspetto nella mia tenda. Sai dov’è?

- No, nella vostra tenda no. Non voglio farmi vedere. Poi i miei compagni sparlano: sono delle malelingue. C’è un posto tranquillo, non lontano dal campo, nel bosco. Adesso che i saraceni hanno spostato l’accampamento è sicuro.

Ferdinando non è convinto.

- Stiamo più comodi da me.

- No, se vengo da voi, qualcuno mi vede. Voi siete un signore, non v’importa di quello che dice la gente, ma io sono un povero soldato…

- E va bene.

Si mettono d’accordo per incontrarsi poco fuori dal campo.

Gotthard ha raccomandato a Giacomo di non parlarne con nessuno, ma il siciliano è troppo contento. Salvatore, che è un amico, gli chiede:

- Come mai sei così allegro?

Giacomo ride:

- Non te lo posso dire.

- Eddai, dimmi. Sai che non lo vado a raccontare.

Salvatore in effetti non è uno che chiacchiera.

- Va bene. Te lo dico. Domani guadagno venticinque pezzi d’argento.

- E come fai?

- Vendo un toro.

- Ma mica possiedi un toro!

Giacomo ride.

- Non è mio, ma lo vendo lo stesso. Grazie a Gotthard, il tedesco.

- Non lo conosco.

- Sta con i tedeschi, quelli di Ludovico di Turingia. Domani io gli procuro il toro e lui mi dà venticinque monete. Di più non ti posso dire.

 

La domenica, all’ora in cui si celebra la grande messa, Ferdinando si allontana dal campo. Poco dopo arriva Giacomo. Insieme si dirigono verso il bosco.

- Ma dove cazzo mi porti? Non c’è nessuno, possiamo scopare dietro quei sassi.

- Preferisco essere sicuro.

Raggiungono il bosco.

Ferdinando afferra Giacomo.

- Adesso basta. Sono stufo di aspettare. Qui non ci vede nessuno.

Giacomo non fa in tempo a replicare. Ferdinando gli sta già calando i pantaloni.

- No. No!

Giacomo ha paura, ora. Non vuole farsi inculare. Ma Ferdinando lo spinge a terra e incomincia a spogliarsi: gli ci vuole un attimo per togliersi tunica e pantaloni e rimanere nudo, il grosso cazzo che già si tende. Giacomo si rialza, in preda al terrore. Cerca di fuggire, ma Ferdinando lo blocca.

- Porcoddio! Che cazzo ti prende, adesso? Non ti faccio mica male. Mi hai fatto venire tu qui.

- No! No!

Giacomo ha urlato. Ferdinando gli tappa la bocca. Adesso è irritato.

- Zitto, che non sappiamo chi c’è in giro.

Ferdinando non bada alla resistenza di Giacomo: l’ha fatto uscire dal campo per scopare e se adesso ha cambiato idea, cazzi suoi. Giacomo si divincola, ma Ferdinando è un Ercole e Giacomo si trova disteso a terra, i pantaloni lacerati.

- E piantala, stronzo! Che tanto te lo metto in culo.

La resistenza di Giacomo peggiora la sua situazione. Divincolandosi, il giovane rende più difficile per Ferdinando inumidire l’apertura ed entrare piano. Il conte forza l’ingresso con una spinta decisa, inchiodando Giacomo al suolo.

Giacomo ha l’impressione che gli abbiano infilato una spada in culo.

La voce risuona improvvisa:

- Alzati!

Una dozzina di soldati saraceni sono comparsi e ora li circondano. Ferdinando bestemmia. Lascia Giacomo e si alza, il grosso cazzo duro, quasi verticale. Gli uomini lo afferrano e lo legano. Ferdinando vede che Giacomo non viene legato. Intuisce.

- Perché, bastardo?

La risposta arriva, ma non da parte di Giacomo. Ora che Ferdinando è stato legato, Gotthard si fa avanti.

- Pagano bene. Mi sbarazzo di un pezzo di merda come te e mi pagano pure. Davvero il massimo!

Ferdinando freme.

L’ufficiale che comanda gli uomini consegna a Gotthard una borsa con le monete, poi si allontana con i suoi uomini e il prigioniero.

Giacomo si asciuga le lacrime. Il culo gli fa male in modo atroce.

- Perché siete arrivati solo ora?

- Perché eravamo d’accordo che tu lo portassi alla quercia rossa. Eravamo là. Per fortuna abbiamo sentito le voci.

- Merda! Non so se riuscirò a camminare. Quel bastardo!

- Quel bastardo verrà impalato e pagherà.

Giacomo si rassetta. Ha i pantaloni strappati, ma potrà comprarsene un nuovo paio. Dice:

- Ora dividiamo.

- Certo, Giacomo!

In effetti Gotthard divide: i cinquanta dirham per sé, una dozzina di coltellate per Giacomo. Ne basterebbero di meno, ma l’esperienza con Barbath gli ha fatto scoprire il piacere di infierire su un corpo. È bello vedere la sofferenza e l’orrore sul viso di questo povero coglione, che credeva di arricchirsi. Proprio un coglione a credere che sarebbe rimasto in vita: se lo hanno visto allontanarsi dal campo con Ferdinando, di sicuro, non vedendo più il conte, lo cercheranno. E questo cagasotto avrebbe parlato. Adesso di certo non parlerà più.

Gotthard nasconde il cadavere tra i cespugli: preferisce che lo trovino il più tardi possibile.

 

Mentre lo portano all’accampamento Ferdinando si chiede che cosa sarà di lui. Lo impaleranno come brigante? Lo useranno per uno scambio di prigionieri? La seconda ipotesi è da scartare: Gotthard non lo avrebbe venduto, se non fosse stato sicuro della sua morte. Quel bastardo sa benissimo che il suo tradimento gli costerebbe la vita.

Ferdinando non ha paura di morire: ha compiuto cinquant’anni da poco e ha vissuto pienamente la sua vita. Da quando ha ritrovato Denis e Solomon non desidera più la morte, per quanto l’abbandono di Adham rimanga una ferita aperta, ma se è arrivato il suo turno, deve accettarlo. Ha rischiato la vita in combattimento e nella caccia per trent’anni. Avrebbe preferito essere ucciso in duello o sventrato da un cinghiale, ma nessuno sceglie il modo di morire, a meno che non si uccida. Forse se Nando si fosse deciso un giorno a finirlo, sarebbe stato meglio, anche se rivedere Denis e Solomon è stata una grande gioia. Ad angosciarlo è l’idea del palo, perché è una morte orrenda.

Al campo saraceno l’arrivo di Ferdinando viene accolto da esclamazioni di gioia. Molti lo conoscono di fama, altri si sono trovati ad affrontarlo in battaglia, qualcuno ha avuto modo di gustare il suo cazzo, non per libera scelta. Tutti gioiscono nel vedere questo colosso sfilare nudo tra i soldati. Saranno felici di assistere alla sua esecuzione, che vendicherà la morte di Barbath: non è stato Ferdinando a ucciderlo, ma era lui il capo dei briganti di Qasr al-Hashim.

Qualcuno gli grida un insulto, altri gli augurano una morte atroce. Non mancano le battute sul suo cazzo, che gli verrà tagliato e finirà in pasto ai cani. Ferdinando capisce l’arabo, ma cammina indifferente. I suoi occhi però cercano tra la gente che si assiepa un viso. Ma Adham non appare.

Ferdinando viene condotto davanti a Salah ad-Din. A parlargli non è il sultano, ma un suo funzionario.

- Ferdinando, eri a capo dei briganti di Qasr al-Hashim e verrai perciò giustiziato.

Il conte non mostra paura. Non dice nulla: che cosa potrebbe dire? L’uomo prosegue:

- Uno dei tuoi uomini ha ucciso il comandante Barbath: pagherai anche per questo.

Ferdinando scoppia a ridere. Tutti lo guardano stupiti.

- Perché ridi? I tormenti che patirai ti faranno passare la voglia di ridere.

Ferdinando scuote la testa.

- Rido perché l’uomo che ha ucciso Barbath è quello che avete appena ricompensato per la mia cattura.

- Cosa?

- È così: si chiama Gotthard e comandava il forte dopo la mia partenza. È stato lui a uccidere il vostro comandante. E voi l’avete pagato! Coglioni!

Le parole di Ferdinando hanno provocato sconcerto. Davvero l’assassino di Barbath è stato pagato?

Salah ad-Din dà ordine di portare il prigioniero in una tenda. Vuole indagare e capire se le cose sono davvero andate come ha detto Ferdinando. Nel campo ci sono alcuni degli uomini che erano nell’Arram quando Barbath è stato assassinato. Vengono chiamati e messi a confronto con coloro che hanno catturato il conte e visto Gotthard.

Non ci sono dubbi: Ferdinando ha detto la verità. Avrebbero potuto catturare l’assassino e invece hanno preso il conte, dando del denaro a un uomo su cui esiste una forte taglia.

 

Nel campo cristiano la scomparsa di Ferdinando viene notata perché il conte non si presenta a pranzo. Sul momento nessuno si preoccupa, ma nel pomeriggio Denis interroga le guardie che sorvegliano gli ingressi e scopre che l’amico si è allontanato in direzione di un bosco che si vede dall’accampamento. Poco dopo il conte è uscito Giacomo, ma anche lui non è tornato.

Denis e Nando organizzano le ricerche, che vengono sospese perché diventa buio.

 

Ferdinando ha le mani e i piedi legati. Le corde non bloccano completamente braccia e gambe, ma rendono più difficili i movimenti: non può pensare di scappare, ma può tenere in mano una scodella e camminare a piccoli passi.

Verso sera Ferdinando sente una voce che conosce bene. Si accorge che il suo cuore ha accelerato il battito.

Adham entra. Ha una lucerna in mano.

Ferdinando sorride. Di colpo si sente felice, come se non sapesse che lo attende una morte orrenda.

- Adham! Sono contento di vederti.

È vero. Vederlo è una gioia. Ferdinando vorrebbe che Adham non dicesse niente. Gli basta guardarlo.

Ferdinando fa un passo avanti. Adham non riesce a parlare.

Ferdinando gli prende il viso tra le mani e mormora:

- Lasciati baciare, ancora una volta, anche se non mi ami più.

Adham apre la bocca per parlare. Ferdinando pensa che voglia negarsi.

- Mi attende una morte orribile, Adham. Un bacio, non chiedo altro.

Adham annuisce. Si baciano. Un bacio delicato, appena uno sfiorarsi delle labbra. Ma Adham stringe Ferdinando tra le braccia e lo bacia di nuovo. Questa volta Ferdinando spinge la lingua a fondo nella bocca di Adham e quando la ritrae, è Adham ad avanzare la sua.

- Lascia che ti stringa, Adham.

Adham annuisce. Toglie le braccia con cui cinge Ferdinando e arretra leggermente, in modo che il conte possa sollevare le braccia legate con la corda e passargliele sopra la testa, per stringerlo e attirarlo a sé.

- Che bello, porcoddio! Che bello! Vale il palo. Poterti stringere ancora una volta nella vita. Che bello!

Adham ha le lacrime agli occhi. Non riesce a parlare. Sapeva di amare ancora Ferdinando, ma non pensava con questa intensità.

Ferdinando ha appoggiato la testa sulla spalla di Adham.

- Vorrei rimanere così fino a domani mattina.

Ride e aggiunge:

- Veramente, mi sta venendo un’altra voglia, ma…

Adham si sforza di parlare, sperando che nella sua voce non si senta lo strazio:

- Lo desidero anch’io, Ferdinando.

- Davvero? Posso prenderti un’ultima volta?

A Ferdinando non pare vero.

Adham scivola in ginocchio. Guarda il grande cazzo che già si sta riempiendo di sangue. Lo prende in bocca e lo succhia. Ferdinando geme, mentre accarezza l’amico sulla testa.

Poi Adham si mette a quattro zampe. Ferdinando guarda il culo dell’uomo che ama. Poggia le mani sulle natiche. Davvero può possedere Adham ancora una volta prima di morire? Non gli sembra possibile.

Ferdinando si stende su di lui e gli mordicchia il collo, la spalla, l’orecchio. Le sue mani gli accarezzano il viso, poi scivolano prima su un fianco, poi sull’altro, impacciate dalla corda.

Adham sente il cazzo premere contro il solco, forte e massiccio. È una sensazione che lo stordisce.

Ferdinando non ha fretta. Lo accarezza e gli tira i capelli, gli passa la lingua dietro l’orecchio e lungo il collo, poi si solleva e lo fa scivolare al suolo. Lo volta e si stende su di lui.

Adham lo lascia fare, non è in grado di reagire, lascia che quelle mani esperte lo accarezzino, lo stringano, gli torturino i capezzoli, strappandogli un gemito, gli arrotolino i capelli. Lascia che quelle labbra gli sfiorino gli occhi, la bocca, il torace, il ventre, il cazzo, le palle. Lascia che quei denti mordano i suoi capezzoli, una guancia, il cazzo.

Adham guarda Ferdinando, la bocca di Ferdinando, le sue mani, il suo corpo. Lo guarda e gli sembra di non vederlo. E il desiderio cresce, violento, incontenibile, riempiendo ogni angolo del suo corpo. Adham vuole che quelle mani, quella bocca, continuino il loro lavoro, senza fermarsi mai. Vuole che il cazzo di Ferdinando entri dentro di lui, come ha fatto tante volte.

Quando Ferdinando lo volta nuovamente, Adham mormora:

 -Sì!

Sente le mani di Ferdinando stringergli il culo, con forza, poi i denti di Ferdinando mordere, affondare nelle natiche, strappandogli piccoli gemiti; il corpo di Ferdinando sul suo, nuovamente la lingua sul collo, i denti che mordicchiano la nuca, il peso che scompare e la carezza bagnata della lingua lungo il solco tra le natiche, la pressione della lingua sull’apertura.

Solo ora Adham si rende conto che sta gemendo. Il cazzo di Ferdinando preme contro l’apertura, Adham geme più forte, impaziente, perché vuole sentirlo dentro di sé. Ferdinando gli morde con forza la spalla ed entra, con un movimento lento, ma inarrestabile. E Adham vorrebbe gridare.

Ferdinando è dentro di lui, ora. Adham sente un’onda di piacere investirlo. Grida, non sa che cosa ha urlato, sì, lo sa, ha gridato il nome di Ferdinando.

Ferdinando gli risponde sussurrandogli il suo nome nell’orecchio, poi la sua lingua torna a percorrergli il collo, la nuca.

Ed ora Ferdinando arretra il culo, il suo cazzo quasi esce, poi ritorna a penetrare nella carne che lo accoglie, fino in fondo. Ferdinando prende a spingere, lentamente. Non ha fretta e Adham sprofonda in un delirio senza fine.

Per quanto tempo dura il gioco dei loro corpi? Adham non saprebbe dire, il tempo è stato cancellato, rimane solo il gorgo del desiderio che infine lo trascina a fondo, fino al piacere assoluto che prova quando in entrambi il seme sgorga, dirompente ed incontenibile.

Ferdinando lo stringe con forza e si abbandona su di lui.

Adham vorrebbe rimanere così, in eterno, ma questa notte è l’ultima volta. Domani c’è solo la morte per Ferdinando e, Adham ora ne è consapevole, anche per lui.

E allora pensa che vorrebbe possedere Ferdinando, ancora una volta.

- Ferdinando…

- Dimmi.

- Vorrei prenderti.

- Va bene.

Ferdinando pensa che il cazzo di Adham preparerà la strada al palo, ma non lo dice: non vuole turbare il compagno.

Adham lo fa stendere a terra, a pancia in giù. Guarda i fianchi di Ferdinando, possenti, con un velo leggero di peluria scura. Accarezza le natiche con le mani, poi le percorre con la bocca, mordendo, leccando, baciando. Le sue dita scorrono lungo il solco, indugiano sull’apertura, che tra poco forzerà, premono un po’ e l’apertura cede. Bacia a lungo quel culo e poi sente che il desiderio è troppo forte.

Si stende sull’uomo che ama e, dolcemente, preme contro l’anello di carne, fino a che questo non si dilata e cede. È bello penetrare nella carne che lo accoglie. È bello sentire il calore del corpo di Ferdinando, sotto il proprio corpo e intorno al cazzo. È bello mormorargli nell’orecchio parole sconce che sono una dichiarazione d’amore.

Adham si lascia andare alla perfezione in questo momento, alla gioia di sentire Ferdinando che gli si abbandona, al piacere delle sensazioni violente che gli trasmette il corpo dell’uomo che ama.

I loro corpi, che si sono riconosciuti, trovano presto il ritmo giusto per questa cavalcata selvaggia, che li porta lontano. Adham perde ogni freno, spinge a fondo, trascinato da un desiderio che lo possiede tutto, da un piacere che sale vorticoso e infine esplode nelle viscere di Ferdinando e lo lascia stremato, abbandonato su quel corpo come su una zattera alla deriva.

Adham chiude gli occhi. Questa sera vale tutta la vita che non vivrà, perché la morte lo attende. Sa che non potrà vivere senza Ferdinando.

Infine Adham si stacca e si mette a sedere.

Ferdinando si mette di fronte a lui.

- Grazie, Adham. Rivederti, poterti amare ancora una volta, è stata la cosa più bella della mia vita. Grazie per questo.

Adham sa che ci sono parole che deve dire, che non può tenere per sé:

- Ti amo Ferdinando. Ho spesso pensato a te in quest’anno. E ho capito di amarti ancora.

Ferdinando tende le braccia e gli accarezza le guance. Adham sente la corda scivolargli sul viso.

- Potrei dire che muoio felice, Adham. Grazie di tutto.

Adham scuote la testa.

- No, non morirai.

- E come?

- Ti porto via.

- E come potresti fare?

- Dirò che devo portarti da Salah ad-Din. Ti faccio uscire dal campo, così puoi ritornare dai tuoi.

- E tu?

- Io torno indietro.

- No, Adham, non vengo. O ce ne andiamo insieme o va bene così.

- Per me sarebbe tradire.

- E rimanere qui ad attendere la morte per avermi liberato? A questo prezzo mai. Adham, io sono stato catturato a tradimento, non in battaglia. Posso capirti, so che sei leale. Ma io non intendo provocare la tua morte. E non intendo vivere senza di te. Per cui, se tu non vuoi fuggire con me, ci salutiamo qui. Non ho paura di morire, ma non posso tollerare l’idea che moriresti per salvarmi.

- E cosa potrei fare nel campo cristiano?

- Non rimaniamo nel campo cristiano. Ce ne andiamo, io e te, in Sicilia. Non ho motivi per combattere e non li hai neanche tu. Non combattiamo per noi, non abbiamo terre da conquistare.

Adham sa che Ferdinando ha ragione, ma non può farlo.

- Non posso, Ferdinando.

- E allora non importa, Adham. Finisce qui. Non ti amo certo di meno.

Adham è angosciato. Sa che cosa significa finire sul palo o sulla croce.

- Non posso tradire, ma ti ucciderò, Ferdinando. E poi mi ucciderò.

- No, non voglio che tu muoia.

Adham si alza e va a prendere il pugnale che ha con sé.

- No!

Adham si scaglia su Ferdinando, ma il dolore che lo schianta gli impedisce di colpire. Ferdinando gli blocca la mano armata e lo costringe a mollare l’arma.

Lo abbraccia ancora. Rimangono a lungo così.

Poi Ferdinando dice:

- Addio, Adham. È ora che tu vada. Grazie di tutto. Rivestiti.

Adham obbedisce, confuso, stordito dal dolore che lo divora.

Si baciano ancora. Adham si stacca e raccoglie il pugnale. Si chiede se non lanciarsi su Ferdinando e ucciderlo ora, ma gli mancano le forze. Esce, barcollando. Non sa dove sta andando.

 

Ferdinando viene portato davanti a Salah ad-Din, al cui cospetto un ufficiale pronuncia la condanna a morte per crocifissione: una fine atroce, ma forse meno terribile del palo.

- Sarai legato alla croce. Il terzo giorno verrai castrato.

Ferdinando si sente gelare. Sa che sulla croce un uomo sano e robusto come lui può resistere molti giorni, se gli viene data acqua da bere e se c’è un sostegno su cui appoggiarsi. In questo caso, se non lo fustigheranno o non gli faranno altre ferite, l’agonia sarà lunghissima.  Ha sentito di un uomo che è rimasto vivo per otto giorni.

La condanna viene eseguita subito.

Ferdinando è costretto a caricarsi sulla spalle la tavola di legno a cui saranno legate le braccia e a camminare fino a un rilievo, sul lato meridionale del campo. Il peso lo schiaccia e il calore del giorno lo fa sudare abbondantemente, ma ciò che lo attende è molto peggio. Moltissimi soldati si sono disposti lungo il percorso e sghignazzano e deridono quest’uomo, famoso tra i saraceni per il suo appetito sessuale e la sua eccezionale dotazione, che ora è bene in vista.

Il palo che verrà issato in verticale è steso a terra. Ha una sporgenza in legno all’altezza del cavallo, in modo che il condannato possa appoggiare il culo: questo permette di ridurre lo sforzo necessario per sollevarsi e respirare e in questo modo prolunga l’agonia.

Ferdinando viene steso a terra sul palo che fungerà da supporto. I due pali vengono uniti saldamente. I polsi e le caviglie del conte vengono legati e infine la croce è sollevata e messa in posizione.

Ferdinando guarda gli uomini che lo osservano e sghignazzano. Qualcuno lo maledice, molti lo dileggiano. A Ferdinando non importa. Pensa che ha avuto modo di amare ancora Adham, che il nero lo ama. Il pensiero gli dà forza. Lo cerca tra la folla, ma non lo vede. Meglio così.

Ben presto la respirazione diviene più difficile, a causa della posizione delle braccia, che dilata la cassa toracica. A tratti Ferdinando si solleva per riuscire a respirare meglio, poi torna ad appoggiare il culo sullo spunzone di legno.

Il disagio diviene più forte. Ferdinando suda abbondantemente: rivoli colano sul petto villoso, sul ventre, sulle gambe, scivolano fino a terra; i capelli sono fradici e il viso è coperto da una patina umida. Le labbra invece gli si seccano. Ogni tanto un soldato avvicina alla sua bocca una  stanga in legno in cima alla quale è stata legata una spugna imbevuta d’acqua.

Nel pomeriggio Ferdinando incomincia a sentire violenti dolori alle gambe, alle braccia, alle spalle. Al tormento del supplizio si aggiunge quello degli insetti che si depositano sul suo corpo e si infilano nella bocca che spalanca per respirare. Suggono il suo sudore, il suo sangue. Sono numerosi sul viso, nonostante Ferdinando scuota la testa per scacciarli, e su tutto il corpo. Formano una massa compatta sul cazzo e sui coglioni.

Solo la sera porta un po’ di refrigerio. I dolori alle braccia e alle gambe, alle spalle e alle anche sono violenti, ma ci sono meno insetti e il calore non è più così opprimente.

 

Al campo cristiano  le ricerche dei due uomini scomparsi sono riprese già il mattino, ma solo a metà pomeriggio viene trovato il cadavere di Giacomo. Di Ferdinando nessuna traccia. Nessuno sa spiegarsi che cosa possa essere successo. Che siano stati attaccati e Ferdinando sia stato portato via? Che il conte abbia ucciso il giovane in seguito a un litigio e si sia poi allontanato? Gli abiti di Ferdinando vengono ritrovati non lontano: difficile che si sia allontanato di sua volontà nudo.

Quando si scopre che Giacomo è stato assassinato, Salvatore chiede di parlare con il duca di Rougegarde, perché sa che è lui a occuparsi della ricerca. Accanto a Denis ci sono Nando e Solomon. Il siciliano racconta quanto sa:

- L’altro giorno Giacomo mi ha detto che avrebbe venduto un toro, per venticinque monete d’argento.

Denis intuisce il significato della frase di Giacomo.

- Non ti ha detto altro?

- Sì, per quello sono venuto: mi ha detto che le avrebbe guadagnate grazie a Gotthard, il tedesco.

Nando interviene:

- Quel figlio di puttana! È stato lui, di sicuro. Già a Jibrin ce l’aveva con mio zio. Bastardo!

Solomon annuisce:

- L’ha venduto ai saraceni. Che si vendicheranno su di lui della morte di Barbath.

Denis si rivolge a Salvatore:

- Ne hai parlato con qualcun altro?

- No. So che vi occupate voi di questa faccenda. Se questo Gotthard ha ammazzato il mio amico… deve morire.

- Perfetto. Lo cerchiamo subito.

- Giacomo mi aveva detto che sta con i tedeschi di Ludovico di Turingia.

Denis si presenta con Nando e quattro uomini nel settore dell’accampamento dove ci sono le tende di Ludovico. Parla brevemente con il signore, che manda a chiamare Gotthard.

Questi intuisce che possa esserci qualche problema, ma non può allontanarsi: gli uomini che Ludovico ha mandato a prenderlo non lo lascerebbero certo scappare. Viene portato nella tenda del suo signore e vedendo Denis e Nando intuisce di essere nei guai.

- Gotthard, tu eri d’accordo con il siciliano Giacomo per un affare in cui lui avrebbe guadagnato venticinque dirham.

Gotthard freme: quello stronzo di Giacomo ha parlato con qualcuno prima di morire. Fottuto bastardo!

- No… io… non ne so niente.

Ludovico fa un cenno ai suoi uomini, che si avvicinano a Gotthard e lo perquisiscono. Il tedesco ha con sé la borsa delle monete: è l’unico modo per essere sicuro che non gliela rubino. Ma in questo caso significa la morte.

- Cinquanta dirham. Come te li sei procurati?

Gotthard sa di essere perduto. Inventa:

- Li ho trovati su un saraceno morto in battaglia.

- E certo, adesso i guerrieri saraceni vanno in battaglia con cinquanta monete d’argento nella borsa!

Ludovico si rivolge a Denis:

- Non occorre altro. Prendetelo voi in custodia.

Gotthard viene legato saldamente.

Mentre si dirigono al settore dove sta Denis, Nando dice a Gotthard:

- Ti squarteremo, maledetto bastardo.

Solomon guarda Nando e scuote la testa.

- No, ho un’idea migliore.

 

 

Adham è rimasto quasi tutto il giorno nella sua tenda. Non ha voluto vedere l’uomo che ama crocifisso. Ha riflettuto a lungo e ha deciso il da farsi: intende uccidere Ferdinando e poi uccidersi.

Quando cala la notte, prende la spada ed esce. La luce di una falce di luna illumina molto debolmente l’accampamento. Raggiunge la collina. Si avvicina a Ferdinando che ha gli occhi chiusi ed è immerso in un torpore che non è vero e proprio sonno.

Difficile colpire al cuore l’uomo crocefisso, perché è troppo in alto. Adham avrebbe voluto ucciderlo con un colpo solo, ma non è possibile. Mentre sta per immergergli la spada nel ventre, per recidere un’arteria, due uomini lo bloccano: sono i soldati di guardia, che lo hanno visto avvicinarsi e quando ha sguainato la spada si sono avventati su di lui.

- Fermo!

Ferdinando scuote la testa. Ha sentito le voci, ma la stanchezza e il sonno lo stordiscono. Apre gli occhi, ma è troppo buio per distinguere e la vista è appannata. Richiude gli occhi.

 

Adham non oppone resistenza. Si lascia portare dall’ufficiale di guardia per la notte, che lo fa legare e mettere in una tenda sorvegliata.

Il mattino dopo, molto presto, quando il sovrano si è destato, Adham viene condotto in sua presenza.

- Che cosa volevi fare?

- Volevo uccidere Ferdinando, per mettere fine alla sua agonia.

- Violando così le decisioni del tuo signore! Un delitto che merita la morte.

Adham non desidera più vivere.

- Lo so.

L’indifferenza di Adham suscita l’ira di Salah ad-Din. Se si trattasse di un emiro o di uno sceicco, il sultano sarebbe più clemente, ma questo nero arrogante non è nulla: comanda alcuni uomini perché sono stati messi ai suoi ordini dal sovrano e osa ribellarsi?

- Crocifiggetelo accanto al brigante.

Adham è contento di questa punizione. Morire accanto a Ferdinando è tutto quello che può desiderare.

La croce viene preparata in fretta. La notizia non è circolata nel campo, dove molti ancora dormono, e solo quando Adham passa portando sulle spalle la trave, gli uomini scoprono che un comandante è stato condannato a morte per aver cercato di mettere fine all’agonia del prigioniero. Adham è un guerriero valoroso, ma molti non si stupiscono: è un nero, non bisogna fidarsi di questa gente. I neri vanno bene come eunuchi.

L’unico che potrebbe intervenire a difesa di Adham e forse far cambiare idea al sultano è lo sceicco Ubayd, ma non è presente: si è diretto verso nord con alcune truppe, perché è stato segnalato un piccolo contingente cristiano in arrivo da Tiro.

Ferdinando vede arrivare Adham che porta la trave. Capisce ciò che sta per succedere. Il dolore è atroce, più forte di quello fisico che ormai domina tutto il suo corpo.

Grida:

- No, Adham, no!

Adham lo guarda e sorride.

Quando anche Adham è stato issato, Ferdinando chiede:

- Perché?... Porcoddio… perché? Che cosa… è successo?

- Non ha importanza. Moriremo insieme, Ferdinando.

- No! No! Tu no!

 

Adham è stato crocifisso da meno di due ore, quando un uomo arriva a cavallo. Chiede di parlare con Ishan e, dopo un breve colloquio con il capo curdo, questi lo accompagna da Salah ad-Din.

- Sovrano, quest’uomo è Solomon, mio fratello ebreo. Viene dal campo degli infedeli per parlare con te.

Salah ad-Din non si stupisce che Ishan abbia un fratello ebreo: conosce gli usi della sua tribù e sa che è normale che un uomo ne adotti un altro come figlio o come fratello. Si chiede che cosa voglia quest’ebreo.

- Perché hai chiesto di parlare con me?

Solomon si inchina nuovamente, come ha fatto al suo ingresso, e dice:

- Sovrano, vengo a farti una proposta da parte dei cristiani. Mi hanno affidato un’ambasciata.

- Qual è la proposta che porti?

- Voi volete l’assassino del glorioso Barbath. I cristiani sono disposti a consegnarvelo.

La notizia è davvero ottima. Avere in mano quell’infame e poterlo giustiziare sarebbe splendido.

- È vivo?

- Sì, vivo.

- Darò loro i cinquecento dinar che ho promesso. Non vengo meno alla mia parola.

- No, non vogliono oro.

- E allora? Che cosa chiedono? Perché di certo quell’assassino non mi verrà donato.

- I due uomini che avete crocifisso. Vivi.

Solomon è venuto per proporre uno scambio tra Gotthard e Ferdinando, ma avendo scoperto che anche Adham è stato crocefisso, ha deciso di cercare di salvare anche lui.

Salah ad-Din corruga la fronte:

- Capisco il conte. Ma perché vi interessa il nubiano?

Solomon si aspettava la domanda. Non ha avuto molto tempo per preparare una risposta convincente, ma fa del suo meglio:

- Venne catturato in battaglia vicino ad Ashqelon dal duca Denis. Poi si allontanò con il conte Ferdinando, ma il duca lo rivuole al suo servizio.

La spiegazione non vale molto, ma a Salah ad-Din poco importa di Adham. Lo scambio proposto da Solomon gli sembra vantaggioso: l’assassino di Barbath è molto più importante di un brigante e un nero.

- Va bene, possiamo farlo.

- Allora ti chiedo di farli deporre subito dalla croce e lasciare che io verifichi le loro condizioni. Poi tornerò al campo cristiano, prenderò il prigioniero e verrò a consegnartelo oggi stesso. Allora mi darai i due condannati.

Salah ad-Din dà gli ordini necessari. I due uomini crocefissi vengono deposti dalle croci e portati in una tenda. Solomon va a verificare le loro condizioni.

Adham sta bene. È rimasto solo poche ore sulla croce. È indolenzito, fradicio di sudore e ha una sete terribile, ma non ci sono altri problemi: può alzarsi e camminare, muovere le braccia e le gambe.

Ferdinando è in tutt’altre condizioni. Non riesce a stare in piedi e ogni movimento degli arti gli provoca dolori violenti. Ci sono abrasioni e piccole ferite su tutta la schiena, sul culo e tra le cosce, dove il corpo sfregava contro il legno. A questo si aggiungono le punture degli insetti, che comunque sono poca cosa rispetto al resto. Parla a fatica:

- Porcoddio… Solomon… solo tu… come cazzo…

Solomon sorride:

- Ne parleremo, Ferdinando, quando saremo al campo cristiano. Ora devi riposare.

- Credo che morirò… presto… ma va bene… così… meglio che … su quella fottuta… croce.

Solomon gli poggia una mano sulla fronte.

- Vivrai. Vivrete tutti e due. Insieme.

Solomon ha ottenuto dal sultano l’assistenza di un medico, che cura le piccole ferite, per evitare che si infettino, verifica le condizioni del prigioniero e conclude che dovrebbe potersi riprendere.

Poi Solomon saluta Ferdinando e Adham e si allontana.

 

Gotthard viene caricato su un carro. Viene legato in modo che non possa in nessun modo saltare a terra. Solomon, Nando e altri due cavalieri accompagnano il carro, guidato da un soldato.

Gotthard pensa che lo portino al supplizio. Si chiede quale sorte possano avergli riservato. Probabilmente lo squarteranno. L’unica soddisfazione è sapere che ha ammazzato Torstein e consegnato quel bastardo di Ferdinando ai saraceni. Spera solo che lo abbiano impalato.

Con sgomento si accorge che stanno lasciando l’accampamento cristiano e dirigendosi verso quello saraceno.

- Figli di puttana, dove cazzo mi portate?!

Nando ghigna e ride:

- Credo che tu abbia indovinato.

- Ammazzatemi, bastardi!

- Ti vogliono vivo. Vogliono divertirsi con te.

Gotthard li maledice e si dibatte, senza riuscire a liberarsi. Il carro prosegue la sua strada.

 

Gotthard viene consegnato agli uomini di Salah ad-Din.

Ferdinando viene caricato sul carro. Ha dormito da quando Solomon se n’è andato e si sente molto meglio. Muovere braccia e gambe gli costa fatica e provoca fitte molto dolorose, ma riesce a farlo. Il medico che lo ha assistito conferma quanto ha già detto: non dovrebbero esserci danni permanenti. Ferdinando avrà solo bisogno di un po’ di tempo per riprendersi.

Adham sarebbe in grado di cavalcare, ma vuole stare accanto a Ferdinando. Gli sembra incredibile che siano entrambi vivi e liberi. E che siano di nuovo insieme. Eppure il carro si muove, lascia il campo musulmano e si dirige verso quello cristiano.

La sera Denis, Solomon, Nando, Adham e Ferdinando mangiano insieme, nella tenda del conte. Nando e Adham danno una mano a Ferdinando, porgendogli ciò di cui ha bisogno, ma il conte è in grado di portare alla bocca il cibo.

- Porcoddio, non è possibile. Questa mattina ero appeso a una croce e stavo crepando e adesso sono qui.

È Nando a rispondergli:

- Abbiamo avuto culo. Se Giacomo non avesse parlato con un amico, non saremmo mai riusciti a risalire a Gotthard.

Su richiesta di Ferdinando, il nipote spiega come hanno ricostruito quanto era successo.

- Quel maledetto bastardo!

Adham interviene:

- Avrà tutto quel che si merita, Ferdinando. Credo che la sua morte sarà orribile.

Nando riprende e conclude:

- Io già pregustavo di vederlo fare a pezzi, ma Solomon ha lanciato la sua proposta.

Ferdinando scuote la testa, ma si ferma subito, perché muovere il collo gli fa male.

- Solomon, è la seconda volta che mi salvi la vita.

- Hai incominciato tu, a salvarmi.

Chiacchierano ancora un buon momento. Denis vorrebbe che Ferdinando si riposasse, ma il conte è troppo euforico: è sfuggito a una morte tremenda e ha ritrovato Adham.

Il nero parla poco e Ferdinando ha capito i motivi della sua perplessità, per cui a un certo punto dice:

- Amici, Adham non può certo combattere contro quelli che fino a ieri erano i suoi compagni e anch’io ne ho abbastanza di questa guerra. Credo che partiremo presto.

Ferdinando si aspetta qualche obiezione, ma Denis risponde:

- Fate molto bene. Non ha senso che tu continui a combattere qui.

- Non credo che abbia senso neanche che lo faccia tu, ma non voglio impicciarmi di affari che non sono miei.

- La mia situazione è diversa, molto diversa.

Denis non aggiunge altro ed è Solomon a prendere la parola:

- Dove pensate di andare?

- Sicuramente un salto a Siracusa, per riportare a casa Nando e lasciare un po’ d’oro. E poi… vedremo. Potremmo comprarci una casa e vivere tranquilli per il resto dei nostri giorni.

Nando fa per dire qualche cosa, ma Solomon lo precede, rivolto a Ferdinando:

- Posso consigliarti Bellerivière? Anche se invitarti non spetta a me, ma al signore della contea, il duca qui vicino a me.

Denis ride:

- Confermo l’invito.

- Non conosco Bellerivière, ma potremmo davvero andarci, se non altro per salutare Pierre, Manrique e gli altri.

Solomon risponde:

- Non parlo di andarci in visita, parlo di stabilirvisi. Non conosco Siracusa, ma non credo che sia il posto adatto per te e Adham. Non avete amici potenti, non potete contare su nessuna protezione. Tu sei ricco Ferdinando, ma questo non basta a tutelarti e può invece suscitare invidia. Siracusa è una città commerciale, da quel che so, e ci saranno mercanti di diversa provenienza, ma certamente c’è molta diffidenza nei confronti dei neri. E per di più, a giudicare dalle voci che circolano, pare che siate due sodomiti.

Ferdinando ride:

- Porcoddio! Chi va dicendo cose simili di me? Buon per lui che faccio fatica a muovere le braccia e le gambe, perché potrei sfidarlo a duello! E se perde incularlo.

Ferdinando ride di nuovo. Adham chiede:

- Bellerivière è meglio?

- Nella contea la mentalità non è molto diversa, ma la piccola corte di Bellerivière è un mondo a parte: ci sono diverse persone vissute a lungo oltremare, abituate al contatto con altra gente, altri usi, a cominciare dal reggente, Pierre, nato e vissuto qui, e dal barone Jacques. Ci sono tanti che ti conoscono e hanno stima di te, Ferdinando, e anche di te, Adham. E fuori dalla cerchia degli amici, tutti sono abituati alla presenza di gente particolare. C’era persino un orafo ebreo, ma adesso è altrove. Tu e Adham stareste benissimo e avreste la protezione di un signore rispettato, oltre a tanti amici su cui contare.

Ferdinando guarda Adham:

- Che ne dici, Adham?

- Per me va bene. Credo che Solomon abbia ragione.

Adham sorride e aggiunge:

- Come sempre, d’altronde.

Ferdinando si rivolge al nipote:

- E tu, Nando?

Nando scuote la testa.

- Io rimango qui. Se deciderò di ritornare, credo che ti raggiungerò a Bellerivière, che mi sembra un posto molto più interessante di Siracusa e del nostro paese. Ma per il momento resto.

Ferdinando vorrebbe chiedergli il perché, ma preferisce non dire nulla ora. Gliene parlerà più tardi, quando non ci saranno altri.

Discutono ancora un momento. Denis conclude dicendo che scriverà a Pierre per avvisarlo. Ferdinando e Adham partiranno alla prima occasione che si presenterà, dopo che il conte si sarà ripreso completamente.

Infine la compagnia si scioglie.

 

Ferdinando si riprende in qualche giorno.

Nando si sente di troppo nella tenda, dove ora dorme anche Adham, e cerca un’altra sistemazione. Adesso si può dormire benissimo all’aperto e molti lo fanno, ma in caso di pioggia è bene avere un riparo. Gli offre ospitalità Unrod. Con lui Nando si trova bene. Con lo svedese trascorre alcune ore piacevoli, che soddisfano i bisogni del suo corpo.

 

Ubayd torna al campo. Scopre che Ferdinando è stato consegnato da un cristiano e crocifisso, che Adham ha cercato di ucciderlo e perciò è stato condannato a morte anche lui, ma che entrambi sono stati liberati in cambio dell’assassino di Barbath, il tedesco Gotthard. Di Ferdinando poco gli importa, ma la vicenda di Adham lo colpisce. In lui aveva trovato un amico. Gli spiace che se ne sia andato, ma è contento che non sia morto e che si sia riunito con l’uomo che ama.

Più tardi sale sulla collina dove è stato crocifisso Gotthard. Vuole vedere il cadavere di quest’uomo che ha ucciso Barbath: come moltissimi nel campo, prova per questo assassino un odio profondo.

Gotthard è guardato a vista da quattro soldati, anche se nessuno certamente intende toglierlo dalla croce per dargli sepoltura: cristiani e musulmani lo odiano allo stesso modo.

Gotthard è stato crocifisso con le braccia passate dietro l’asse orizzontale e un sostegno sotto il culo, in modo da permettergli di sopravvivere il più a lungo possibile. Gli sono stati cavati gli occhi e due strisce di sangue sono colate sul viso. Il cazzo è stato tagliato alla base e al suo posto c’è solo una ferita aperta, su cui si addensano mosche e tafani. I coglioni sono stati inchiodati al legno che serve come sostegno. Un’infinità di insetti è posata sul viso e su tutto il corpo.

Ubayd lo guarda e sorride: il brigante ha avuto quello che si meritava. Poi si rende conto che il corpo è percorso da un brivido e che la bocca si apre, mentre l’uomo solleva il capo, emettendo un lamento: Gotthard è ancora vivo. È stato crocifisso tre giorni fa, ma la sua agonia non si è ancora conclusa. Meglio così.

 

Ferdinando sta preparando la partenza. Con lui verranno quasi tutti i suoi uomini: non hanno motivi per rimanere a combattere.

Ferdinando parla con il nipote: vuole capire perché non intende partire.

- Nando, perché non vieni via con noi? Che cazzo stai a fare qui?

Nando sorride allo zio, poi guarda lontano. Scaccia un pensiero fastidioso e risponde:

- Zio, tu sei rimasto qui trent’anni: sei stato soldato, conte, brigante; hai combattuto, sei stato ferito, pure crocifisso; ti sei innamorato, hai sofferto e hai ritrovato l’uomo che ami. Hai vissuto la tua vita qui e ora puoi voltare pagina.

- Anche tu hai fatto un po’ di esperienze: poco come guerriero e come brigante, ma puoi vantarti di esserti prostituito in un bordello. Quello mi manca, porcoddio! L’avrei fatto volentieri.

Nando ride. Poi ritorna serio e dice:

- Non ho voglia di tornare a casa o a Bellerivière. Voglio vedere un po’ cosa succede.

Non fa cenno a Zeyd: sa che rimarrà un sogno irrealizzabile, un po’ come l’amore dello zio e di Baahir. Zeyd sicuramente non pensa più a lui, dopo tutto questo tempo. Non lo attende più.

 

Arriva infine il giorno della partenza. Come previsto, andranno prima a Siracusa, ma poi si trasferiranno a Bellerivière, per stabilirsi là.

Prima di salire sulla nave, Ferdinando e Adham salutano gli amici.

- Addio, Ferdinando.

- Arrivederci Denis. Vado a Bellerivière in attesa che tu arrivi. Se non ci raggiungerai, ce ne andremo. Stare là ha senso solo se ci sei tu.

- Conto di tornare anch’io, quando questa guerra sarà finita.

Denis saluta Adham, che è un po’ in disparte, e Ferdinando si avvicina a Solomon.

- Veglia su di lui, Solomon. Come hai sempre fatto.

- Mi trovo promosso ad angelo custode?

- Lo sei stato. Per lui, per me, anche per Adham. Grazie. E veglia anche su Nando. E su di te.

Ferdinando lo abbraccia e gli sussurra, pianissimo, all’orecchio:

- Perché almeno ancora una volta il tuo culo me lo vorrei gustare.

Solomon ride e dice:

- Stronzo!

Ma nonostante le battute sono tutti e due commossi. Hanno scoperto di volersi bene, davvero, nonostante siano diversissimi.

Denis e Solomon guardano partire la nave che porta via Ferdinando, Adham e gran parte degli uomini del conte. Unrod li raggiungerà in un secondo momento: per ora rimane a combattere.

Il battello si allontana e Denis dice:

- Sono contento che sia partito. Gli voglio bene, molto, e saperlo al sicuro mi tranquillizza. Sarei stato più contento se fossi partito anche tu.

Solomon lo guarda, perplesso.

- Non mi hai detto niente del genere.

- No, perché so benissimo che non saresti partito mai.

- Esatto.

- Però saperti al sicuro mi rasserenerebbe.

Solomon corruga la fronte e si volta verso Denis.

- Ma davvero vorresti che io me ne andassi? Incomincio a preoccuparmi.

- Averti qui è una gioia immensa. Soffrirei come un cane se tu fossi lontano. Eppure mi sentirei più tranquillo. Solomon… è un po’ come per Ferdinando. Tutti sanno che è un bestemmiatore e un sodomita e per di più c’è stata una condanna per tradimento, poi annullata. Se mi fosse successo qualche cosa mentre Ferdinando era qui, non ci sarebbe stato nessuno a proteggerlo. E in questo campo, con tutte le tensioni che ci sono, Ferdinando sarebbe stato un bersaglio: non abbastanza potente, senza nessun altro appoggio, facile da usare come capro espiatorio per i fallimenti altrui, come è successo dopo Hattin.

- Sì, hai ragione. E la stessa cosa pensi che valga anche per me, vero?

- Certamente, lo sai anche tu. Sei un ebreo. Molti si chiedono che cosa ci fa un orafo ebreo qui. Uno che va a parlare con il Saladino in persona, che riporta prigionieri e fa calare dalla croce condannati. Uno che deve avere contatti con il demonio.

Solomon sorride.

- Finché ci sei tu, non ho niente da temere. E il giorno in cui tu non ci fossi più, se decidessi di continuare a vivere, non lo farei qui. Rimango qui solo perché ci sei tu, lo sai.

- Lo so. Hai detto: “se decidessi di continuare a vivere”. Solomon, non potrei tollerare l’idea di essere causa della tua morte.

- Non saresti tu la causa. Comunque non ci pensare. Non voglio immaginarmelo.

- Solomon, io…

Solomon lo interrompe:

- Non dire nulla.

 

Il secondo inverno nel campo è un inferno. Più che gli attacchi, sono le malattie a far strage. Muore anche la regina Sibilla, con le due figlie. Guido da Lusignano, re in quanto marito di Sibilla, perde ogni diritto alla corona. Si accendono violenti contrasti e alla fine la corona passa a Corrado del Monferrato, che sposa l’erede naturale, Isabella. Tutti e due sono già sposati, Corrado forse ha preso moglie due volte, ma i matrimoni precedenti vengono annullati e l’esercito acclama un nuovo re.

Le malattie continuano a infierire e uccidono i fanti come i grandi signori, tra cui Federico VI di Svevia, figlio dell’imperatore Federico Barbarossa e capo di quanto rimane del grande esercito raccolto dal padre.

 

Ci sono diversi scontri, in cui spesso si distingue Rodrigo: l’accanimento con cui combatte gli ha procurato l’ammirazione degli altri, che ormai vedono in lui un eroe. I templari lo portano ad esempio e molti sono i giovani che vedono in lui un modello da imitare.

Non è solo il valore in battaglia a farlo apprezzare: Rodrigo vive in assoluta castità. Nessuno lo ha mai visto andare dalle prostitute e non ha certo rapporti con altri guerrieri: pur essendo così bello ed oggetto di desiderio da parte di tanti, uomini e donne, si mantiene puro. Tutti i templari hanno fatto voto di castità, ma di molti si sa che non lo rispettano, frequentando le prostitute o avendo rapporti con altri uomini.

La castità non costa a Rodrigo nessuno sforzo: l’idea di avere rapporti lo disgusta. L’esperienza del bordello lo ha segnato e se nei primi tempi dopo la sua liberazione sentiva ancora il desiderio, ora esso sembra essersi spento completamente. Gli capita, di rado, di venire la notte, ma non conserva memoria dei sogni durante cui viene. È contento che Ferdinando e i suoi uomini siano partiti. Nell’accampamento cristiano solo Nando e Unrod sanno che lui ha avuto rapporti con altri uomini, nel bordello e a Jibrin, ma i due guerrieri non hanno motivo per parlarne.

Rodrigo è sempre in prima linea ed è implacabile con i nemici. In ogni saraceno che uccide vede coloro che lo hanno preso al bordello e gli sembra ammazzandoli di cancellare un passato che gli pesa. Non gli è mai capitato di uccidere davvero uno di loro, ma gli piacerebbe farlo.

I musulmani lo chiamano Azrael: è il nome dell’angelo della morte e Rodrigo è bello come un angelo, ma dà la morte a chi lo incontra sul suo cammino.

 

Infine torna la primavera e a giugno, dopo due anni che le truppe cristiane assediano Acri, arrivano via mare Riccardo I, re d’Inghilterra, che verrà poi chiamato Cuor di leone, e Filippo, re di Francia, con i loro eserciti.  

I due sovrani prendono il comando delle operazioni, non senza contrasti tra di loro, e il loro arrivo segna una svolta nella guerra. Con le nuove truppe sono arrivati trabucchi, catapulte, scale d’assalto. I minatori lavorano per far crollare le mura e la pressione sulla città assediata aumenta, fino a divenire insostenibile. La guarnigione cerca di distruggere le torri d’assedio e le diverse macchine con frecce incendiarie, ma di giorno in giorno la situazione peggiora.

Salah ad-Din intensifica la pressione sulle truppe cristiane, con continui attacchi, che vengono respinti.

 

Le comunicazioni tra la guarnigione di Acri e l’accampamento di Salah ad-Din avvengono soprattutto attraverso piccioni viaggiatori, ma gli uccelli non possono portare carichi e il sultano ha la necessità di mandare, oltre alle lettere con le istruzioni, anche oro per tutte le spese. Il compito è svolto da un abilissimo nuotatore, Isa, che di notte si tuffa in mare e raggiunge a nuoto la città. Le navi dei cristiani bloccano il porto, ma Isa si immerge e passa al di sotto di ogni battello, riemergendo dopo averlo superato. Il rischio è molto forte, ma Isa è un uomo coraggioso e non ha paura.

Una notte però, mentre si prepara ad immergersi con tre borse contenenti mille dinar e alcune lettere, una sentinella lo vede. Lo segnala a due arcieri, che rapidamente tendono gli archi e scagliano le frecce. Entrambe centrano il bersaglio. Isa sente il dolore violento alla schiena e capisce che è finita. Barcolla e cadendo fa in modo di finire in acqua: non vuole che i franchi si impadroniscano delle lettere e delle monete d’oro.

Due giorni dopo, la corrente spinge il suo cadavere a riva, ai piedi della città. Le sentinelle che lo avvistano avvertono il comandante, che lo fa recuperare. Alla cintura ha ancora l’oro e l’incerata con le lettere, per cui in città si dice che il nuotatore ha portato a termine il suo compito anche dopo morto.  

 

Intanto Salah ad-Din ha chiamato a raccolta tutti gli uomini disponibili: è un azzardo, perché le città e i castelli rimangono sguarniti, ma la caduta di Acri sarebbe un colpo troppo grave.

Un guerriero in cui Salah ad-Din ha piena fiducia è stato ferito in battaglia e ha perso il braccio destro, per cui non è più in grado di combattere, ma può sostituire Zeyd al comando della guarnigione di Damasco. Salah ad-Din perciò decide di accogliere la richiesta di Zeyd di essere richiamato là dove si combatte: un guerriero coraggioso sarà più utile di un uomo mutilato.

Zeyd è contento di lasciare infine Damasco. In questo periodo ha svolto il suo compito con la massima cura, ma l’essere lontano dai luoghi dove si combatteva gli è pesato.

Nando è solo un ricordo: sono ormai passati due anni. Ma è un ricordo ancora doloroso.

 

Quando Zeyd arriva con i soldati che ha portato con sé, la situazione della città assediata è ormai disperata. La guarnigione non è più in grado di sostenere i continui attacchi e la resa appare inevitabile.

I cristiani aumentano ogni giorno la pressione su Acri. Gli assediati resistono disperatamente, tanto che i crociati sono costretti a smantellare le fortificazioni della città: le catapulte battono in continuazione le mura, che pezzo dopo pezzo cedono. La guarnigione, stremata, deve dividersi tra la difesa delle mura e dei trinceramenti e il controllo del porto e delle navi. I cristiani, ormai molto numerosi, si avvicendano negli attacchi e chi cade viene facilmente sostituito: lo stesso non avviene per i difensori della città.

Salah ad-Din interviene con un massiccio attacco, per impedire che Akka, ormai allo stremo, cada. Il sultano guida personalmente i suoi uomini in battaglia, ma per la città assediata è solo una breve pausa, che non cambia la situazione.

Nella notte gli uomini della guarnigione inviano un piccione viaggiatore per comunicare con Salah ad-Din: lo informano che non sono più in grado di resistere e si arrenderanno, se il sovrano non riuscirà a spezzare l’assedio.

Il giorno seguente Salah ad-Din sferra un nuovo attacco, ma i fanti lo respingono con le balestre e le frecce. Alcuni saraceni riescono a raggiungere i trinceramenti dell’accampamento cristiano e per un momento sembra che riescano a penetrarvi, aprendo la strada al resto dell’esercito.

La trincea viene difesa dai guerrieri cristiani. Tra questi vi è Gunnarr che, salito sul parapetto, ricaccia indietro gli attaccanti. Il gigante svedese scaglia grossi sassi addosso ai musulmani che cercano di raggiungere il parapetto; quelli che gli sono a fianco gli porgono le pietre. Gli arcieri saraceni cercano di colpire Gunnarr. Un prima freccia lo prende di striscio alla testa, lacerandogli un orecchio. Un’altra lo colpisce alla spalla, ma lo svedese non sembra nemmeno accorgersene. Gli attaccanti raccolgono le pietre che Gunnarr scaglia e gliele lanciano addosso. Ne riceve due in petto e un’altra sul viso. Il sangue cola abbondante dal naso e dal labbro, ma Gunnar continua a scagliare pietre e grida:

- Bravi, fate bene a rendermi le pietre che mi servono! Adesso ve le restituisco.

E le lancia addosso agli assalitori. La sua forza taurina rende i proiettili micidiali e gli uomini colpiti alla testa spesso muoiono sul colpo. Il suo corpo è ricoperto di sangue e sudore, ma Gunnarr non demorde. Non smette neanche quando una freccia lo colpisce al ventre, strappandogli un urlo.

Poco dopo però un artificiere musulmano gli lancia una bottiglia incendiaria che lo prende in pieno. In un attimo il suo corpo arde. Gunnarr lascia cadere la pietra che aveva in mano, grida e si getta oltre il parapetto. È una torcia umana che precipita addosso all’artificiere e lo stringe in una morsa. Bruciano insieme, in un abbraccio mortale.

I difensori di Acri seguono con ansia crescente lo svolgimento della battaglia, cercando di respingere le truppe che si lanciano all’assalto della città. I franchi hanno accumulato materiale combustibile ai piedi del muro del bastione avanzato e quando lo incendiano, un pezzo del bastione crolla.

Alcuni attaccanti, guidati dal barone Philippe di Soissons, si lanciano attraverso la breccia e riescono a penetrare nelle fortificazioni. Dietro di loro Nando, Rodrigo e diversi guerrieri cercano di fare lo stesso, ma i difensori si concentrano dove è stata creata la breccia, impedendo agli altri cristiani di raggiungere quelli che sono entrati: il passaggio è stretto e può essere facilmente bloccato.

Nando, Rodrigo e gli altri sono costretti a ritirarsi, per cui i franchi che sono entrati si ritrovano isolati. Accerchiati dai soldati della guarnigione, vengono massacrati e gli ultimi sopravvissuti sono costretti ad arrendersi.

I soldati, esasperati dai continui attacchi, vogliono ammazzarli tutti. Il conte di Riverford dice:

- Risparmiateci la vita. Potete scambiarci con altri prigionieri. Diremo ai nostri compagni di ritirarci.

Philippe lo guarda, indignato:

- Vile!

Poi, rivolto ai guerrieri, dice:

- Potete ucciderci, ma non potete salvarvi. Acri tornerà in mano ai cristiani. Ormai non avete speranze.

La provocazione scatena una reazione rabbiosa. Diversi guerrieri si lanciano sui prigionieri. Uno immerge la spada nel petto di Philippe e quando questi cade a terra, gli cala l'arma sul collo, decapitandolo. Un altro uccide il conte di Riverford.

Il giorno dopo un’ambasciata dei franchi chiede di liberare i prigionieri, offrendo in cambio la possibilità di lasciare la città. La risposta arriva poco dopo: le teste di Philippe di Soissons, Riverford e degli altri cavalieri vengono lanciate dalle mura.

 

Per la guarnigione della città assediata non c’è più nessuna speranza. I continui attacchi fiaccano la resistenza e gli abitanti si dichiarano disposti ad arrendersi, se verranno risparmiati.

Saif ad-din al-Mashtub esce con un salvacondotto per parlare con Filippo di Francia e trattare la resa.

Dopo i convenevoli dice:

- Abbiamo preso in passato una quantità di vostre terre, conquistandole d'assalto, e quando gli abitanti ci hanno chiesto che venisse loro garantita la vita, l'abbiamo loro concessa e li abbiamo trasferiti onorevolmente al sicuro. Ora noi vogliamo arrenderci e consegnare questa città e ti chiediamo di assicurarci la vita salva.

La risposta di Filippo non è incoraggiante:

- Quelli che avete preso in passato erano nostri sudditi e tali siete anche voi. Vedrò il da farsi sul vostro conto.

Saif si irrita, ma cerca di intavolare una trattativa: non può pensare alla resa senza nessuna garanzia. Filippo però non sembra disponibile a trattare. Alla fine Saif, esasperato, dice:

- Noi non cederemo la città prima di essere tutti uccisi e nessuno di noi sarà ucciso prima di aver ucciso cinquanta dei vostri capi.

Saif torna in città e riferisce il fallimento della trattativa. La notizia crea sconforto tra la popolazione assediata e la notte alcuni della guarnigione, impauriti, salgono su una imbarcazione e riescono a lasciare la città, sfuggendo alle navi cristiane che bloccano l’ingresso del porto.

Salah ad-Din lancia altri attacchi per alleggerire la pressione dei cristiani su Acri, ma senza risultati significativi.

In uno di questi assalti viene catturato Abedin, sceicco di Barqah. Rodrigo viene a saperlo. Vorrebbe ucciderlo, ma sa che non può farlo: sono i re a poter decidere di sopprimere uno dei prigionieri e per chiedere la sua testa e ottenerla, Rodrigo dovrebbe raccontare cose che preferisce rimangano segrete. Si tiene alla larga dalle tende dove vengono tenuti i prigionieri, perché teme che lo sceicco possa riconoscerlo e svelare il suo passato, ma il saperlo nell’accampamento è fonte di continua tensione.

 

Nei giorni seguenti ci sono nuovi tentativi di trattare, perché ormai la guarnigione non è più in grado di difendere la città. Si arriva infine a un accordo: gli assediati avranno la vita salva, con le loro mogli e i loro figli, in cambio di un riscatto di 200.000 dinar, del rilascio di 1500 prigionieri cristiani e della restituzione della reliquia della Vera Croce. Il rispetto di queste condizioni dipende da Salah ad-Din, perché è lui ad avere in mano i prigionieri, la reliquia e l’oro necessario. Se i patti non saranno rispettati, gli uomini della guarnigione diventeranno schiavi.

Il sultano viene avvisato della trattativa. Vuole evitare a ogni costo che la guarnigione ceda. Vorrebbe mandare altro denaro e lettere per incoraggiare a resistere, ma dopo la morte di Isa non ci sono più mezzi per far arrivare l’oro.

Nell’accampamento musulmano si discute la situazione.

- La guarnigione sta cedendo. Sono stati decimati e ora mancano anche di oro. Se ne avessero, magari sarebbero più disposti a resistere.

Zeyd chiede:

- Non possiamo mandargli dell’oro?

- Come farlo arrivare? I franchi bloccano ogni via d’accesso. I piccioni viaggiatori non possono portare sacchi di monete. Avevamo un gran nuotatore, Isa, che si immergeva e nuotava sotto le navi degli infedeli per entrare nel porto, ma è stato scoperto e ucciso.

- Posso andare io.

- Tu?

- So nuotare molto bene. Se quello che serve adesso è un buon nuotatore, posso farlo io.

Zeyd si presenta dal sultano e si dichiara disponibile a raggiungere la città. Salah ad-Din è ben contento di aver trovato un uomo in grado di portare l’oro e le lettere.

Un colombo viaggiatore viene inviato per informare la guarnigione che mille dinar e alcune lettere verranno inviate. Non è detto in che modo avverrà la spedizione: se il colombo verrà abbattuto dai franchi, essi non troveranno nessuna indicazione sulle modalità del trasporto. Potrebbero pensare a un nuotatore, ma è solo una delle possibilità.

La sera Zeyd si avvicina di nascosto alla costa, cercando di non farsi scorgere dalle sentinelle cristiane. Indossa soltanto una fascia intorno ai fianchi e la cintura a cui sono attaccate due borse con i dinar e una incerata con la lettera di Salah ad-Din. Sa che la missione è molto rischiosa, perché non conosce il porto e il rischio di sbagliarsi nel buio e di finire affogato o ucciso dai franchi è forte, ma non ha paura.

Zeyd si immerge e nuota, il più silenziosamente possibile, verso le navi che controllano l’ingresso del porto. Quando arriva a fianco della prima nave può sentire le sentinelle parlare.

- Non hai sentito anche tu?

- Che cosa?

- Taci!

Zeyd rimane immobile. Devono averlo sentito.

C’è un momento di silenzio, poi l’uomo che ha parlato per primo dice:

- Mi era sembrato di sentire un rumore. Come se ci fosse qualcuno in acqua.

Zeyd aspetta ancora un momento, poi si immerge e passa sotto la nave. Riemergendo striscia contro la chiglia della nave e si ferisce alla schiena, ma è solo un taglio superficiale. Ci sono ancora due navi. Zeyd ne aggira una e si immerge sotto l’altra. Infine entra nel porto e nuota deciso verso un molo dove brilla una torcia. È stanco e infreddolito, anche se è estate e il mare non è freddo.

Sul molo lo aspettano due uomini, che hanno acceso una torcia per guidarlo. Lo aiutano a salire e gli danno un tessuto per asciugarsi. Poi lo accompagnano da Saif ad-din al-Mashtub.

Zeyd si inchina e dice:

- Ti porto un messaggio del nostro sovrano e l’oro necessario.

Saif scuote la testa.

- Troppo tardi. Abbiamo deciso di accettare le condizioni imposte dai franchi. Non siamo più in grado di resistere.

Zeyd apre la bocca per parlare, ma Saif lo blocca:

- Non è una decisione che prendo a cuore leggero, ma non abbiamo alternative.

Zeyd si inchina. Prende le borse e l’incerata e le consegna al comandante. Saif lo fa accompagnare nel dormitorio della guarnigione. Zeyd si stende su un giaciglio: ce ne sono diversi liberi, perché la guarnigione è stata decimata.

La sua missione è stata del tutto inutile e domani sarà prigioniero dei franchi.  Ha perso la libertà per niente, ma ha fatto il suo dovere. Per un momento il pensiero va a Nando: i briganti che hanno lasciato il castello avevano intenzione di raggiungere l’esercito che assediava Acri. Devono essere arrivati, perché Ferdinando combatteva con i cristiani. Nando sarà al campo dei franchi? E anche se lo fosse? Che cosa cambia?

 

 

Il giorno dopo la città si arrende. Nel campo musulmano nessuno si aspetta la resa, ma, come racconterà Bahà’ ad-Din nella sua biografia del sultano, a un tratto i Musulmani videro gli stendardi e le croci, i segni e i fuochi del nemico levarsi dalle mura della piazza: era il mezzogiorno del venerdì diciassette giumada secondo del 587 (12 luglio 1191). I Franchi alzarono tutti un sol grido, e grave fu il colpo per i Musulmani, e grande la loro afflizione: tutto il nostro campo risuonò di grida e lamenti, e pianti e singhiozzi. Il Marchese (Guglielmo del Monferrato) entrò in città con gli stendardi dei Re, e ne piantò uno sulla cittadella, uno sul minareto della Moschea maggiore, di venerdì, uno sulla Torre dei Templari e uno su quella del Combattimento, sostituendovi ovunque gli stendardi dell'Islam. I Musulmani furono tutti relegati in un quartiere della città.

Zeyd è imprigionato tra gli altri.

 

L’assedio è durato due anni. Per Salah ad-Din è un duro colpo: Acri era il principale deposito di armamenti e nel porto si trovano settanta galee. La sconfitta pesa anche sul piano della propaganda: la sua immagine di guerriero sempre vincitore ne viene offuscata.

I due anni necessari per la conquista di Acri sono però un monito per i crociati: riottenere Gerusalemme appare alquanto difficile. A rendere l’impresa ancora più problematica sono i contrasti tra i capi cristiani. Filippo di Francia parte poco dopo la conquista di Acri e Riccardo d’Inghilterra rimane solo al comando.

 

La vita dei soldati catturati è difficile: sono ammassati nel quartiere riservato loro e non possono uscirne, perché i franchi temono che possano ribellarsi o cercare di scappare; ricevono razioni minime di cibo, appena sufficienti per sopravvivere.

Poiché le condizioni poste per rimettere in libertà i difensori di Acri dipendono da Salah ad-Din, si aprono trattative per lo scambio dei prigionieri. Alcuni franchi catturati vengono restituiti, ma non sono quelli che re Riccardo si aspettava. Il sultano tergiversa, ma Riccardo non ha intenzione di perdere tempo: vuole procedere con la riconquista, sfruttando il momento favorevole e lo sconforto provocato tra i musulmani dalla caduta di Acri. 

Di fronte  ai continui rinvii da parte di Salah ad-Din, comunica ai comandanti dell’esercito la sua intenzione di far uccidere tutti i prigionieri musulmani.

Denis si sente gelare. Lo sgomenta l’idea di questo massacro: i prigionieri si sono consegnati dopo che è stata promessa loro la vita.

- Maestà, i patti erano che se il Saladino non avesse consegnato quanto pattuito, sarebbero rimasti prigionieri, non che sarebbero stati uccisi.

Riccardo sa bene chi è Denis e ha già avuto modo di notare il valore e l’intelligenza di questo straordinario guerriero.

- Duca, non possiamo certo lasciare qui migliaia di prigionieri: dovrei lasciare anche molti uomini per sorvegliarli, per non parlare di tutti i problemi di rifornimento. Il Saladino sta cercando di farci perdere tempo, costringendoci a rimanere qui mentre trattiamo. Deve capire che non scherziamo. Se pensa di prenderci in giro, si sbaglia.

Denis sa che Riccardo ha ragione, ma il venire meno ai patti gli sembra orrendo. Fa un ultimo tentativo:

- Maestà, questo significa che i nostri uomini prigionieri dei saraceni saranno tutti massacrati.

- Lo so. Ma non ci sono alternative. D’altronde Saladino non ha reso i prigionieri che aveva promesso di restituire già dieci giorni fa. Ne ha consegnati altri, ma ha tenuto la Vera Croce e non ha versato neanche una moneta. Noi non possiamo rimanere ad attendere che si decida.

La sera nel campo cristiano si discute dell’esecuzione dei prigionieri. Non è mai successo che venissero massacrati così tanti uomini: sono circa 2600 musulmani. Non possono essere affidati a pochi boia, perché sono troppo numerosi. Verranno perciò radunati in una vallata e uccisi dai soldati. Alcuni sono molto contenti di poter fare strage dei nemici senza correre nessun rischio; qualcuno pensa che si divertirà a far soffrire quei figli di puttana. Ad altri invece ripugna questo massacro di uomini inermi. Non è obbligatorio partecipare: ci saranno comunque fanti e cavalieri a sufficienza per portare a termine il compito.

Nando non intende prendere parte alla carneficina, che gli sembra indegna. Ha scoperto che gli piace uccidere in battaglia, ma non ama farlo a sangue freddo.

Il giorno dopo vede passare i prigionieri condotti al macello. Si lasciano guidare, docili: non si aspettano certo di essere uccisi, perché non era previsto dall’accordo stipulato al momento della resa.

Nando li guarda, disgustato all’idea di quanto sta per accadere. Sono nemici, ma questo massacro a sangue freddo gli fa orrore.

E mentre li guarda, gli sembra che il cuore gli si fermi: tra i prigionieri che vanno alla morte ha visto Zeyd. Nando trema, poi si slancia in avanti e lo raggiunge.

- Zeyd!

Zeyd si ferma e lo guarda. Prova una fitta.

- Nando!

Non sanno che cosa dire. Per un attimo hanno entrambi dimenticato la loro situazione. A ricordarglielo è un cavaliere, il conte di Druyé, che si rivolge a Nando:

- Togliti. Nessuno di loro può fermarsi.

Nando lo guarda, smarrito:

- Aspettate! Devo parlare con quest’uomo.

- Ti ho detto di toglierti!

Il conte di Druyé ha sguainato la spada. Se questo stronzo non ubbidisce, una bella piattonata lo manderà nel mondo dei sogni e lo toglierà di mezzo per un po’.

- No, aspettate, devo parlare…

Il Conte alza la spada. Nando fa un salto indietro. Sa di non avere nessuna autorità: è un soldato come tanti altri, non può imporsi al conte, che sta eseguendo gli ordini del re.

Zeyd non ha detto nulla. Non sa che cosa dire. I ricordi sono affiorati impetuosi e un sentimento che credeva spento è riemerso.

Un soldato spinge via Zeyd. Nando sa che c’è un’unica possibilità di salvarlo. Corre verso le tende, fino a quella di Denis. Ma il duca di Rougegarde non c’è. Nando chiede dove si trova. È chiaramente sconvolto e gli altri soldati, che sono affezionati a questo guerriero generoso, si mettono a cercare il duca.

A Nando pare di impazzire: a ogni minuto che passa, le possibilità di salvare Zeyd diminuiscono. Infine Denis arriva: uno dei suoi uomini lo ha trovato a colloquio con altri nobili e, avendo visto la disperazione di Nando, si è fatto avanti e gli ha detto che la sua presenza era richiesta con urgenza.

Nando dice che vuole salvare un prigioniero. Denis vede che è angosciato. Non gli interessa conoscere le ragioni: prima cercherà di salvare l’uomo, poi vedrà di capire che cosa è successo. Salgono entrambi a cavallo e raggiungono la piana, dove il massacro è già incominciato.

Come scriverà più tardi Bahà’ ad-Din:

Nel pomeriggio del martedì ventisette ragiab (20 agosto), il re e tutto l'esercito franco, fanti e cavalieri e turcopuli, cavalcarono sino ai pozzi che sono sotto Tell al-'Ayadiyya, dove avevano prima spedito le loro tende, e marciarono sino a occupare il centro della pianura tra Tell Kaisàn e al-′Ayadiyya, mentre gli esploratori sultanali si erano ritirati appunto a Tell Kaisàn. Addussero quindi quei prigionieri musulmani di cui Dio aveva predestinato quel  giorno il martirio, oltre tremila uomini avvinti; si buttarono loro addosso come un sol uomo, e li ammazzarono a freddo, a colpi di spada e lancia.

Trovare un uomo tra oltre duemila è un’impresa disperata. Nando cavalca, guardandosi intorno, Denis lo segue: non conosce il prigioniero che Nando vuole salvare. Nando procede a fianco della massa di musulmani, tra cui si aggirano i soldati, che colpiscono con le spade e le lance. Nella piana risuonano urla di dolore, preghiere, suppliche, maledizioni e rantoli, a cui si mescolano le bestemmie e le grida di trionfo dei soldati che scannano i prigionieri, felici di poter uccidere senza rischi questi nemici che per due anni li hanno tenuti in scacco.

Nando è giunto a un’estremità dell’area dove sono radunati i prigionieri, senza vedere Zeyd. Passa dall’altra parte, in preda a un’angoscia crescente, perché il massacro procede e i cadaveri sono sempre più numerosi. Il terreno è ricoperto di sangue, di corpi che ancora si contorcono, di cadaveri, di teste mozzate.

Infine Nando vede Zeyd, vicino a un gruppo di prigionieri che vengono uccisi. Non è possibile procedere a cavallo, perché il terreno è ingombro di cadaveri. Nando salta a terra e si lancia verso Zeyd. Denis lo segue.

Un soldato ha alzato la spada per decapitare Zeyd. Nando si para di fronte al prigioniero e grida:

- No!

Anche Denis urla di fermarsi, ma il soldato ormai sta calando la spada.

 

Il macello continua. Tra i molti che stanno massacrando i prigionieri inermi vi è Rodrigo. È intenzionato a uccidere personalmente Abedin, lo sceicco di Barqah. Ha fatto in modo di vedere dove si trova e quando il massacro incomincia si dirige immediatamente verso di lui. Abedin lo guarda, ma non lo riconosce: sono passati oltre due anni dalla sera in cui lo ha preso al bordello e Rodrigo indossa l’elmo.

- Adesso paghi, bastardo infedele.

Abedin non capisce le parole, ma sa che lo attende la morte: ha già visto uccidere intorno a lui e sa che non può sottrarsi. Non ha paura di morire, ma vorrebbe potersi difendere.

Rodrigo vuole far soffrire quest’uomo che odia. Lo colpisce al ventre con forza. Abedin grida e si piega in due. Quando Rodrigo ritira la spada, barcolla, ma riesce a non cadere. Un secondo colpo lo prende al basso ventre. Abedin emette un altro grido, strozzato, e cade a terra. Rodrigo si guarda intorno: il massacro procede e nessuno bada a lui. Rodrigo abbassa i pantaloni di Abedin e gli preme la spada contro l’apertura. La spinge dentro con forza. Abedin lancia un ultimo grido.

- Hai avuto quello che ti meritavi, pezzo di merda!

Rodrigo abbandona lo sceicco rantolante e si avventa sugli altri prigionieri ancora in vita. Colpisce con ferocia, insensibile alla fatica.

Man mano che il tempo passa, le grida si spengono. I prigionieri sono ormai quasi tutti morti, i soldati stanchi. Alcuni di loro passano tra i corpi e infilano la lancia in quelli che ancora danno segno di vita. Infine sulla piana cala il silenzio. I soldati cristiani si allontanano, soddisfatti. Rodrigo è interamente coperto di sangue, ma si sente bene.

Quando i musulmani, avvisati del massacro, arrivano sul posto, trovano una distesa di cadaveri.

 

Nella tenda di Denis c’è silenzio. Zeyd è seduto a terra e guarda Nando, disteso accanto a lui. Non pensa a nulla. A tratti nel vuoto della sua mente riappaiono immagini del massacro a cui ha assistito, rivede l’intervento di Nando e del duca, la spada che calava sull’uomo che lo proteggeva con il suo corpo.

Nando apre gli occhi. Ha un gran mal di testa e gli ci vuole un attimo per connettere e capire dove si trova. Si mette a sedere di scatto e gli sembra che la testa gli scoppi.

Sente la voce di Denis:

- Rimani disteso, Nando, hai preso una botta tremenda e devi stare a riposo.

Nando afferra una mano di Zeyd e si stende nuovamente.

- Sei davvero qui, Zeyd?

- Sono qui, grazie a te, Nando.

Nando stringe la mano forte. Gli fa male, ma non se ne rende conto e a Zeyd non importa.

- Che cosa… come…

Denis ha capito la domanda inespressa e spiega:

- Il soldato che stava per uccidere Zeyd non ha fatto in tempo a fermarsi, ma è riuscito a girare la spada e ridurre la forza del colpo, così ti ha dato una botta molto forte, ma di piatto e non di taglio, per cui non ti ha decapitato: ti è andata molto bene. Io ho liberato Zeyd, che insieme al soldato ti ha portato fino al cavallo. Ti abbiamo caricato sulla sella e trasportato qui.

Nando volta la testa, piano, verso l’amico e dice:

- Zeyd.

- Sono qui, Nando.

 

Nando rimane tutto il giorno disteso. Zeyd è accanto a lui e non potrebbe andarsene: Nando gli tiene la mano. Parlano molto poco: Nando è ancora stordito e non è nelle condizioni per affrontare una conversazione.

Le sue condizioni vanno migliorando nel corso della giornata e in serata Nando si trasferisce nella sua tenda. Zeyd dorme accanto a lui.

Il mattino dopo Nando si è ripreso. Denis gli fa portare la colazione nella tenda. Ha parlato con re Riccardo, dicendogli che ha sottratto al massacro un prigioniero nei cui confronti uno dei suoi uomini aveva un debito di riconoscenza. Al re poco importa di un singolo prigioniero e gli dice, come Denis ha previsto, che può farne ciò che vuole.

Che cosa fare di Zeyd o, meglio, che cosa possono fare Zeyd e Nando è un problema complesso, che solo loro due possono cercare di risolvere.

Dopo che hanno mangiato, si guardano. Sanno entrambi che è il momento di parlare.

Zeyd dice:

- Grazie per avermi salvato la vita, Nando, anche se metterti in mezzo, tra me e il soldato, è stata una follia. Se ti avesse ucciso, non me lo sarei mai perdonato.

Nando sorride:

- Se avesse ucciso te, non mi sarei mai perdonato di averti lasciato andare a morire.

C’è un momento di silenzio. Per entrambi non è facile parlare. È Nando a farlo:

- Ho pensato molto a te, in questi due anni.

- Anch’io ho pensato a te.

Di nuovo tacciono, timorosi di proseguire.

- Pensavo che mi avessi dimenticato.

- No, di certo. Ma non sapevo come ritrovarti.

- Quando Abdallah mi mandò da te, sembravi quasi infastidito.

Zeyd scuote la testa.

- Ero molto turbato. Il nostro incontro… era stato qualche cosa… non avevo mai provato nulla del genere. Non mi ero mai offerto, prima. E non l’ho mai più fatto, dopo.

- Neppure io, Zeyd.

Rimangono muti a guardarsi. Nando alza una mano e accarezza la guancia di Zeyd, ma non osa spingersi oltre: gli ha salvato la vita, rischiando la propria, e non vuole dare l’impressione di richiedere una ricompensa.

Zeyd appoggia una mano su quella che Nando ha posato sulla sua guancia.

- Nando, quel giorno, quando ti vidi davanti a me, non sapevo come muovermi. Io avrei voluto abbracciarti, ma tu eri venuto a parlare con il comandante della guarnigione, non con Zeyd.

- È vero. Non sarei venuto, se Abdallah non mi avesse mandato. Tu non ti eri più fatto vivo.

- Avevo un ruolo e tu eri uno schiavo. Non volevo che qualcuno pensasse… non sapevo come muovermi. Sono stato un coglione, lo so, me ne rendo conto. Me lo sono detto spesso, in questi anni.

Nando sorride.

- Senti, che ne diresti di ricominciare dal punto dove eravamo arrivati? Non il nostro ultimo incontro, che è stato un disastro, ma quello prima.

Zeyd sorride.

- Mi sembra una bella idea.

Con un rapido movimento, Nando prende due cuscini, se li mette sotto la pancia e si mette a quattro zampe:

- Prepara la strada e prendimi, Zeyd.

Zeyd incomincia ad accarezzargli il culo. Due volte passa il pollice della destra lungo il solco, indugiando un attimo sull’apertura. Poi le mani stringono con forza, facendo un po’ male. Zeyd avvicina la bocca e morde il culo di Nando, piccoli morsi leggeri. Poi Nando sente le dita di Zeyd accarezzare l’apertura e dilatarla. Le dita si infilano dentro, spargendo un po’ di saliva. Nando sorride: Zeyd ci sa fare.

Le mani di Zeyd si posano sulla schiena di Nando, scivolano di lato, scendono fino al petto. E intanto Nando sente la poderosa mazza dell’ufficiale premere contro l’apertura e con grande lentezza farsi strada dentro di lui.

Zeyd avanza piano, ma inesorabile, fino in fondo.

Le mani di Zeyd scorrono lungo la schiena, stringono il culo, ora carezze delicate, ora una morsa ferrea. E il cazzo superbo si muove avanti e indietro, implacabile, dilatando le viscere di Nando, regalandogli un piacere che cresce a ogni minuto.

Zeyd procede, instancabile, come se le sue forze fossero inesauribili. Nando sente ondate di piacere salire dal suo culo e diffondersi in tutto il corpo. E infine Zeyd viene, dentro di lui, con un’ultima serie di spinte vigorose.

È stato splendido. Nando vuole provare ancora.

- Rimani dentro di me.

Zeyd obbedisce.

Dopo un po’ il cazzo riprende consistenza. È bellissimo sentirlo crescere dentro il culo, sempre più grande e più duro. La nuova cavalcata dura ancora più a lungo della prima. A Nando a tratti sembra di perdere ogni contatto con la realtà, mentre il piacere cresce e lo travolge.

Rimangono distesi, abbracciati. Poi Zeyd si stacca.

- Grazie, Nando.

- Grazie a te, Zeyd. È stato bellissimo.

- Ora però devi prendermi tu.

Nando sorride.

- Non è necessario, se non lo vuoi.

- Lo voglio. Il patto era che riprendessimo da dove ci eravamo lasciati, no?

- Va bene, sai che lo desidero, ma devi lasciarmi un momento di riposo. Sono venuto due volte.

Parlano di che cosa hanno fatto nei due anni in cui sono rimasti lontano. Zeyd non ha molto da raccontare, a parte la missione che lo ha portato dentro Acri proprio subito prima della resa: sul periodo a Damasco c’è poco da dire. A una domanda di Nando su Aslan risponde che l’assassino di Abdallah non è mai stato trovato. Degli altri prostituti del bordello non ha notizie: nessuno ha avuto a che fare con la legge, a parte uno che è scappato dal suo padrone, ma Nando lo conosceva appena.

Nando invece racconta dell’asta, del suo ritorno a Jibrin, dell’arrivo di Solomon, del viaggio attraverso i territori saraceni travestiti da lebbrosi.

- Questo Solomon ha avuto un’idea geniale.

- Direi di sì.

Nando prosegue la sua storia, raccontando ancora dell’arrivo, della crocifissione dello zio e della sua liberazione, grazie all’intervento di Solomon.

- Di nuovo Solomon! Mi piacerebbe conoscerlo.

- Avrai modo di farlo. Sta qui, con il duca.

 Nando conclude il suo racconto con la partenza di Ferdinando e Adham.

- Adesso però mi prendi tu.

Nando sorride.

- Volentieri.

Nando ha imparato come far godere un uomo. I mesi trascorsi nel bordello sono stati una buona scuola.

Zeyd si mette com’era messo Nando prima. Nando si inginocchia. Posa le mani sul culo di Zeyd, lo accarezza con movimenti lenti, poi stringe la carne forte, affondando le dita.

Nando passa la lingua sul solco, più volte, poi la destra avvolge con delicatezza i coglioni dell’ufficiale, mentre la sinistra giocherella con l’apertura. Nando sparge un po’ di saliva, poi spinge dentro prima un dito, successivamente un secondo. Sente che la carne cede a fatica.

Dopo aver preparato con cura il terreno, Nando avanza la sua arma e con lentezza infilza Zeyd. L’ufficiale ha un guizzo, ma non si sottrae. Lascia che Nando lo trafigga, immergendo la sua arma fino in fondo.

Nando porta la destra più in alto, ad accarezzare il cazzo di Zeyd, mentre prende a muoversi avanti e indietro, affondando il cazzo nel culo dell’ufficiale e poi ritraendolo.

Nando cavalca a lungo e sente che il corpo di Zeyd si abbandona completamente al piacere che questa cavalcata gli trasmette.

Con la destra Nando continua a lavorare il cazzo e i coglioni di Zeyd, fino a che sente che l’ufficiale è ormai sul punto di venire. Allora spinge con più forza e mentre viene dentro il culo di Zeyd, sente che il cazzo dell’amico vibra dello stesso piacere e il seme si spande sui cuscini.

Poi si separano e si puliscono. Si siedono e riprendono a parlare.

- Vorrei che rimanessimo insieme, Zeyd.

- Se il duca mi darà a te come schiavo, possiamo farlo.

- Non voglio che tu sia mio schiavo, Zeyd. Voglio che tu sia libero.

- Se tornassi libero, dovrei riunirmi all’esercito del mio signore. Rimanere qui sarebbe tradire.

Nando non aveva riflettuto a questi aspetti. Si chiede che cosa fare.

- E allora?

- Non lo so, Nando.

Nando è amareggiato.

- Si direbbe che non ti interessi molto rimanere con me.

- Nando! È quello che desidero. Ma senza tradire.

Nando è perplesso. Che cosa potrebbero fare? Certamente Denis sarebbe disponibile a regalargli Zeyd e lui potrebbe portarlo a Siracusa o a Bellerivière. Ma che vita sarebbe per lui, arabo e musulmano in un paese cristiano? Anche Adham è musulmano e per di più nero, ma è l’uomo di suo zio e Ferdinando è conte. Ma Zeyd vorrebbe vivere a Bellerivière, lontano dalla sua gente, in una terra ostile?

- Che cosa vorresti fare, Zeyd? Che cosa ti piacerebbe, se potessi scegliere?

- Vorrei vivere con te, da qualche parte in Siria.

- Ma se il duca ti libererà, tornerai a unirti alle truppe musulmane.

- È il mio dovere.

- E io? Che cosa posso fare? Ti seguo e divento il tuo schiavo cristiano?

- No! Dopo quanto è successo qualunque cristiano nelle mani dell’esercito rischia di essere messo a morte.

- E allora?

- Non lo so.

Nando si stende e chiude gli occhi. Ora è triste e amareggiato. Non vede nessuna via d’uscita. Ha ritrovato Zeyd, ha scoperto di essere riamato, ma gli sembra che non ci sia nessuna strada aperta per loro. Non vuole perderlo di nuovo.

Zeyd china il capo. Guarda l’uomo che ama, ne coglie la sofferenza e prova uno scoramento profondo.

Nando ha un’idea e si rimette a sedere.

- Vediamo che cosa può suggerirci il duca.

Zeyd annuisce.

- Certo! E magari anche questo Solomon, che sono curioso di conoscere.

Si vestono e raggiungono la tenda di Denis, che non c’è. Solomon dice loro che è in riunione con gli altri comandanti e che è meglio combinare per il pomeriggio. Stabiliscono un’ora per vedersi, poi Nando e Zeyd si allontanano. Camminano per il campo e scendono fino al mare. Si raccontano ancora qualche episodio di questi anni in cui non si sono più visti, poi parlano delle loro vite precedenti. Non sanno quasi nulla l’uno dell’altro e desiderano conoscersi.

Dopo che si sono parlati, Nando chiede:

- Ci bagniamo, Zeyd?

- Volentieri.

Si spogliano e si immergono. Nuotano, senza allontanarsi troppo dalla riva, per evitare che dalle navi ancorate al largo qualcuno li scambi per spie. Tornano verso riva. Si spruzzano e giocano come due ragazzi, godendo del sole, dell’acqua, dei loro corpi. Per un momento la guerra è lontana e non pensano al futuro.

 

Nel pomeriggio si ritrovano nella tenda del duca, dove c’è anche Solomon.

Nando e Zeyd non sanno bene da che parte incominciare. È Nando a parlare, in arabo, in modo che tutti possano capirsi. Zeyd comprende abbastanza anche la lingua dei franchi, ma nel periodo al bordello Nando ha imparato bene l’arabo e Solomon e Denis lo parlano perfettamente.

- Duca, io e Zeyd vorremmo stare insieme.

- Per me, come desiderate.

- Ma io non vorrei che fosse schiavo.

- Posso liberarlo.

Zeyd interviene:

- Ti ringrazio, duca. Ma devo dirti che, se tu mi liberi, io tornerò a combattere per il mio signore. Non posso certo tirarmi indietro ora che la guerra infuria.

Solomon si rivolge direttamente a Zeyd:

- Zeyd, escludo che il duca liberi un prigioniero permettendogli di riprendere a combattere contro di lui, a meno che non ci sia uno scambio, ma non mi risulta che qualcuno abbia richiesto la tua liberazione offrendo in cambio qualche cavaliere cristiano.

Denis non dice nulla. È curioso di vedere dove intende arrivare Solomon.

Zeyd è disorientato.

- Certo, capisco bene. Ma il duca ha detto che poteva liberarmi e mi sembrava corretto avvisarlo. Io sono un suddito di Salah ad-Din e devo obbedirgli.

Solomon fa un cenno di assenso.

- Il duca può liberarti, se lo decide, ma a precise condizioni. In primo luogo potrebbe richiedere che tu ti impegni a non combattere più contro i cristiani finché lui sarà qui oltremare. Secondo me è necessaria un’altra condizione, ma la vediamo dopo.

Denis asseconda Solomon:

- Di certo non potrei lasciarti libero di riprendere a combattere contro di noi.

Solomon sorride e riprende:

- Nel caso il duca decidesse di porre questa prima condizione che ho detto, tu dovresti andare a parlare al tuo signore e dirgli che il duca è disposto a renderti la libertà, purché tu rinunci a combattere. Se non te lo concedesse tu, che sei un uomo leale, torneresti qui.

- Senz’altro.

- Se il sultano non accetterà le condizioni poste per la tua liberazione, potresti diventare schiavo di Nando, se il duca ti donerà a lui. In questo caso avete due possibilità, se rimanere insieme è per voi così importante. Potete stabilirvi a Tiro o ad Antiochia, in qualche città sotto controllo dei franchi, dove Nando, che è un forte guerriero, potrebbe farsi assoldare come guardia e tu, Zeyd, potresti trovare lavoro presso qualche ricco arabo.

Zeyd annuisce. La proposta non è entusiasmante, ma può apparire comunque una via d’uscita.

- In realtà so solo combattere e lottare.

Nando sorride. Vorrebbe aggiungere “e scopare” e lo farebbe, se ci fosse solo Solomon con loro, ma Denis lo mette in soggezione: lo conosce poco ed è il duca, il guerriero cristiano più famoso oltremare. Con Solomon c’è una maggiore intimità. Hanno lottato e anche scopato due volte.

Solomon riprende:

- L’altra possibilità sarebbe quella di partire per Bellerivière, anche se capisco che per te, Zeyd sarebbe difficile lasciare la tua terra e trasferirti in un paese in cui non conosci nessuno, si pratica un’altra religione e i musulmani sono guardati con grande diffidenza, se non con odio. Lì il conte Pierre ti prenderebbe al suo servizio.

Zeyd è perplesso: l’idea di trovarsi lontano dalla terra dove è sempre vissuto, tra stranieri che odiano i musulmani, non lo entusiasma.

Solomon prosegue.

- Se invece Salah ad-Din, che sa essere generoso, accettasse le condizioni poste dal duca, il discorso è diverso.

- In questo caso credo che mi rimanderebbe a Damasco.

Solomon annuisce.

- Potrebbe, ma tu vuoi rimanere con Nando, no?

- Sì, assolutamente.

- Allora non so se Damasco sia il posto giusto. A Damasco Nando potrebbe essere solo un tuo schiavo, a meno che non decida di convertirsi: credo che sarebbe disposto a farlo, vero, Nando?

A Nando poco o nulla importa della religione, per cui convertirsi non sarebbe un problema. Risponde, senza esitare:

- Sì, certo.

- Ma in ogni caso ci sono diversi problemi. Da quel che ci avete raccontato, troppe persone lo conoscono e sanno che era schiavo in un bordello. E questo sarebbe un problema anche per te, temo, soprattutto se il tuo sovrano ti confermasse come comandante della guarnigione: la gente sparlerebbe di te e di lui.

- Questo è vero. Ma non posso oppormi alla volontà del mio signore.

- Senza dubbio e per questo ho parlato di una seconda condizione che il tuo signore deve soddisfare perché tu possa riottenere la libertà: che ti sciolga da ogni obbligo di servizio nei suoi confronti.

Interviene Nando, che fino a ora ha solo risposto alla domanda di Solomon.

- E in questo caso, che cosa proponi, Solomon? Perché di sicuro tu hai un’idea in testa. O forse, più che un’idea, un piano completo. Certe volte ho l’impressione che la tua testa funzioni a una velocità diversa da quella di noi altri. A eccezione del duca, naturalmente.

Denis ride.

- No, Nando, non faccio eccezione e condivido la tua impressione. Forse sul campo di battaglia Solomon, non avendo esperienza, non saprebbe essere altrettanto rapido ed efficace nel prendere le decisioni, ma dove si combattono battaglie di altro tipo, ha formulato un piano completo quando gli altri stanno ancora cercando di capire i termini del problema. È un uomo che è meglio non avere come nemico, come i suoi nemici hanno avuto modo di scoprire.

Solomon sorride e dice:

- Non ho un piano, ma qualche possibilità.

- E allora secondo te dove potremmo andare? Che cosa potremmo fare?

- Siete due guerrieri e avrebbe senso che sfruttaste la vostra capacità di usare le armi. Potreste diventare guardie al servizio di qualche signore. C’è una sola città in cui ci sono guardie cristiane e musulmane. Si tratta di Rougegarde o al-Hamra, la perla di questa terra infelice, terra sacra per tre fedi che le impediscono di conoscere la pace. Le guardie della città sono, fin dai tempi del duca Denis, uomini di entrambe le religioni, perché così tutti i cittadini si sentono tutelati. Ci sono dei rischi: prima o poi qualcuno riconoscerà in Nando uno dei briganti di Jibrin, ma se il signore concede il perdono, non sarà un problema.

- Dovrei quindi rivolgermi a Ubayd al-Asad e chiedergli se è disposto a prenderci come guardie? Lo conosco appena.

- Potrebbe essere una soluzione. Ma forse c’è una via migliore.

- E sarebbe?

- Andiamo a Rougegarde e ve la mostrerò.

Denis si tende. Si rivolge a Solomon e gli dice:

- Guillaume?

- Sì.

Nando osserva:

- Direi che hai pensato a tutto.

Poi si rivolge a Denis:

- Duca, però mi siete sembrato… un po’ contrariato davanti alla proposta.

- È vero. L’idea di Solomon è ottima, è senz’altro la migliore. La persona di cui parla di sicuro vi assumerebbe e al suo ritorno a Rougegarde Ubayd non avrebbe motivo per non confermare la decisione, a meno che voi non combinaste qualche guaio.

- E allora qual è il problema?

- Accompagnarvi a Rougegarde lo espone a dei rischi. Muoversi in questo periodo di guerra presenta diversi pericoli.

Solomon sorride e dice:

- Me la so cavare. E sarò accompagnato da due valorosi guerrieri.

È Nando a rispondere:

- Che tu sia in grado di cavartela, lo so, l’ho visto. Ma capisco la preoccupazione del duca e non vorrei che tu corressi dei rischi a causa nostra.

- I rischi non sono così grandi. A seconda di chi incontriamo, parlerà l’uno o l’altro di voi, oltre a me, e ce la caveremo. Adesso però Zeyd devi ottenere dal tuo sovrano la sua autorizzazione.

È Nando a chiedere:

- E se la negasse?

- Non credo che lo faccia. Vediamo insieme come presentare le condizioni nel modo migliore.

Discutono ancora un buon momento, per definire i dettagli.

Prima di separarsi, Zeyd si rivolge a Denis:

- Duca, mio padre mi disse che sarei stato per sempre debitore nei vostri confronti. Come se non bastasse il debito che già avevo, mi avete salvato la vita. Non posso che ringraziarvi e dirvi che potete disporre della mia vita. Se mai vi servirà.

 

Il giorno seguente Zeyd viene accompagnato fin quasi al campo musulmano.

Percorre l’ultimo tratto da solo e quando ormai è in vista delle tende, scorge ai margini di un avvallamento del terreno alcuni corpi. Si avvicina. L’avvallamento è pieno di cadaveri. L’abbigliamento indica che si tratta di cristiani, uccisi senza dubbio per rappresaglia dopo il massacro dei prigionieri musulmani. I corpi senza testa sono innumerevoli. Parecchi cadaveri sono stati mutilati.

Zeyd china la testa. È un guerriero, ma lo spettacolo che vede gli fa orrore, come gli ha fatto orrore il massacro dei suoi compagni, a cui è sfuggito grazie a Nando e al duca.

Raggiunge il campo e chiede di parlare con Salah ad-Din. Deve aspettare un’ora, ma poi viene ricevuto.

- Sono felice di vederti, Zeyd ibn Baahir. Temevo che fossi morto, ucciso mentre cercavi di portare il messaggio o durante la conquista o nell’osceno massacro dei nostri confratelli.

- Sovrano, ho portato il messaggio, ma ormai avevano deciso di arrendersi. Sono stato catturato e condotto sulla collina per essere ucciso anch’io, ma mi salvarono un cristiano che avevo conosciuto a Damasco e il duca Denis.

Salah ad-Din annuisce.

- Il duca è un uomo saggio e generoso. Mi stupisco che abbia accettato un’azione così infame.

- È stata una decisione del re inglese. Il duca non ha partecipato, ma quando lo schiavo cristiano lo ha chiamato, è venuto e mi ha salvato.

- E poi ti ha liberato?

- No, sovrano. Non sono libero. Sono schiavo del duca. Dopo quanto è successo, il duca pone due condizioni per liberarmi. Dipendono da te: se le accetterai, tornerò libero, altrimenti rimarrò suo schiavo.

- Dimmi quali sono queste condizioni. Mi hai servito fedelmente in battaglia e a Damasco tutti hanno tessuto le tue lodi. Sarei contento di farti riottenere la libertà.

- Il duca non vuole che io riprenda le armi contro di lui, per cui non potrò tornare a combattere fino a che non sarà ripartito.

- Non è certo una richiesta eccessiva. E la seconda?

- Il duca vuole che io mi congedi dal tuo servizio, fino alla sua partenza.

Salah ad-Din è un po’ perplesso di fronte a questa seconda richiesta, meno comprensibile della prima, ma rifiutarsi porterebbe allo stesso risultato e Zeyd rimarrebbe schiavo.

- Va bene, mi spiace perdere un valoroso guerriero e un ottimo comandante, ma se tu rimanessi schiavo, ti perderei comunque.

- Ti ringrazio per la tua generosità, sovrano. Spero che un giorno potrò tornare a combattere ai tuoi ordini.

 

Zeyd ritorna al campo cristiano. Mentre cammina pensa che una fase della sua vita è finita. Non tornerà più a Damasco, se non forse in visita, ma rimane nella sua terra: non è un prezzo troppo alto da pagare per avere al suo fianco Nando. L’uomo che ama paga un prezzo più alto, rinunciando a tornare tra i suoi.

Solomon e Denis hanno fatto preparare tutto e il giorno seguente Zeyd parte con Nando e Solomon.

Al momento della partenza Denis è angosciato. Avverte un presentimento di morte.

- Vorrei che tu non partissi, Solomon.

Solomon abbraccia Denis, poi dice:

- Ferdinando mi ha chiesto di vegliare su Nando e devo dire che sono affezionato a lui e anche a Zeyd, benché non lo conosca.

- Sì, sei sempre pronto a rischiare per gli altri, tu. Ma non vorrei…

Denis scuote la testa e non dice altro. Solomon lo accarezza e gli dice:

- Ritornerò. Ho la pelle dura.

Denis annuisce, ma in cuore sente un macigno che lo schiaccia. Anche lui si prepara a partire: re Riccardo intende dirigersi verso Giaffa.

 

Solomon, Nando e Zeyd raggiungono al-Hamra senza problemi. Nessuno alla locanda della Luna piena, dove prende alloggio, si aspettava di rivederlo così presto, ma ne sono tutti contenti. Solomon non intende fermarsi molto, perché ha colto l’ansia di Denis: vuole ritornare presto.

Il mattino del giorno successivo al suo arrivo si reca a palazzo e chiede di parlare con Guillaume.

Guillaume è ben contento di rivederlo. Chiede notizie di Denis e poi Solomon presenta la sua richiesta:

- Sono venuto a chiederti un favore.

- Senz’altro, se posso.

- Sono venuti con me due guerrieri. Uno è Zeyd ibn Baahir, che è stato comandante della guarnigione di Damasco.

- Lo conosco di fama. Pensavo che stesse combattendo con Salah ad-Din.

- Sì, ma è stato catturato ed è scampato al massacro dei prigionieri grazie all’intervento di Denis, che se lo è fatto donare da re Riccardo e poi lo ha liberato, a condizione che non combattesse più e lasciasse il servizio del sultano.

Guillaume è un po’ perplesso sulla seconda condizione, ma aspetta un chiarimento, che Solomon gli darà.

- L’altro è Nando, nipote di Ferdinando, che è stato un anno con i briganti, anche se non ha mai partecipato alle imprese della banda. Poi è diventato schiavo in un bordello a Damasco. Zeyd e Nando sono molto legati e sono venuto a chiederti se è possibile che tu li prenda nella guarnigione della città, in attesa del ritorno di Ubayd. Se ritieni di non poterlo o volerlo fare, cercherò un’altra sistemazione per loro.

- Avere Zeyd nella guarnigione è un’ottima cosa e ti ringrazio per questa proposta, che è sicuramente vantaggiosa per la città. Non credo che ci siano problemi a prenderlo come ufficiale. Nando potrà essere solo un soldato.

- Certamente. Qualcuno prima o poi lo riconoscerà come uno dei briganti di Jibrin, ma ormai che il castello è stato espugnato e la banda sterminata, credo che Ubayd possa concedere il perdono… se gliene parli tu.

- Lo farò.

Guillaume sorride e aggiunge:

- È già il terzo brigante che devo proteggere…

Solomon si finge offeso:

- Ma come! Ti porto il comandante della guarnigione di Damasco e tu critichi il suo compagno per qualche peccatuccio di gioventù. Quanto a Sancho e Maher poi, sono solo due schiavi fuggitivi, non due briganti. Sei davvero…

Solomon non completa la frase. Sorride e dice:

- So che sto approfittando di te e della tua generosità, ma davvero sono tutti e quattro brave persone.

- Lo so, altrimenti non ti saresti rivolto a me per loro.

La decisione dovrà essere confermata da Ubayd, ma sanno entrambi che lo sceicco non dirà di no.

Dopo aver parlato con Guillaume, Solomon passa da Immanuel, per vedere se è soddisfatto dei due uomini che ha assunto: Sancho e Maher gli hanno detto di trovarsi bene, ma Solomon vuole essere sicuro che anche il loro datore di lavoro sia soddisfatto, perché si sente responsabile.

Immanuel gli conferma che i due lavorano bene. Solomon definisce con lui alcune altre faccende, poi lo saluta.

Zeyd e Nando prendono servizio il giorno seguente. Zeyd, in quanto ufficiale, ha una sua camera. Nando ha diritto a un posto in camerata, ma di solito dorme con il compagno.

Al momento di partire, Solomon parla con Nando.

- Bene, Nando. Io spero che tutto qui funzioni. Se ci fossero dei problemi, alla Locanda della Luna piena troverai degli amici pronti a darti una mano. E se dovessi decidere che non vuoi più stare qui, a Bellerivière saresti accolto a braccia aperte. Ah, un’ultima cosa: se avessi bisogno di soldi…

Nando fa per interromperlo, perché tra l’oro che gli ha fatto avere Aslan e la sua parte del bottino, ha più di quello che gli serve, ma Solomon lo ferma con un gesto e prosegue:

- So che ne hai in abbondanza, voi briganti siete ricchi. Ma non si può mai sapere che cosa succederà: il denaro può scomparire. Se mai dovessi raggiungere i territori franchi e di lì passare in Francia, ti servirà una bella somma, a maggior ragione se foste in due. Immanuel te la potrà anticipare. È un amico mio. Adesso ti spiego come trovarlo. Io l’ho già avvisato.

Nando ascolta le istruzioni, poi sorride e dice:

- C’è qualche cosa a cui non hai pensato?

- Certamente, ma non avendoci pensato, non so quale sia.

- Secondo me non c’è. Che dirti, Solomon? Grazie. Non credo che ci rivedremo più, ma in ogni caso ti sarò sempre grato per tutto quello che hai fatto.

- La guerra continuerà. Non credo che si concluderà molto presto. E allora magari avrò ancora occasione di tornare a Rougegarde, la chiamo ancora così, anche se non dovrei. Qui c’è una parte di me.

 

Poco dopo la partenza di Solomon, Nando e Zeyd, anche l’esercito cristiano si muove, diretto a sud, verso Giaffa. La flotta segue l’esercito al largo, garantendo i rifornimenti. Salah ad-Din ha fatto fare terra bruciata davanti alle truppe cristiane: i soldati avanzano tra campi devastati dal fuoco e fortezze distrutte, continuamente sotto attacco da parte dei turchi. Salah ad-Din è disposto a tutto pur di fermare l’avanzata cristiana: non può permettersi di perdere tutta la costa.

Dopo il fallimento di un’ulteriore trattativa, Riccardo decide di affrontare il nemico. Lo scontro avviene ad Asruf.

Salah ad-Din fa ricorso alla tattica più volte sperimentata con successo: la cavalleria leggera turca attraverso una continua serie di attacchi cerca di provocare la cavalleria cristiana, spingendola a un contrattacco disordinato. Se la manovra riuscirà a rompere lo schieramento crociato, i franchi si troveranno esposti all’azione degli arcieri a cavallo, rapidissimi e micidiali, in grado di fare una strage.

Denis e gli altri comandanti hanno informato re Riccardo della manovra a cui ricorrono spesso arabi e turchi, per cui, in base agli ordini ricevuti, l’esercito cristiano resiste a lungo, senza cedere alle provocazioni.

A un certo punto gli Ospitalieri, ormai allo stremo, caricano e la cavalleria francese li segue, così che l’intero fianco destro si muove all’attacco. Denis consiglia a Riccardo di attaccare subito in massa, evitando che coloro che si sono lanciati in avanti vengano accerchiati e massacrati. L’esercito avanza compatto, costringendo i turchi sulla difensiva. Lo scontro diventa violentissimo.

Rodrigo come sempre è tra quelli che combattono in prima fila e fa strage degli avversari. Una gioia feroce lo riempie quando abbatte un nemico e vede cadere il corpo senza vita. Colpisce e uccide, senza pensare a nulla. Non si rende conto che il suo impeto lo ha portato a staccarsi dai compagni e quando si avvede che i turchi lo hanno circondato, è troppo tardi: si trova attorniato dai nemici. Non ha paura e non gli importa nemmeno di morire: solo uccidere i nemici dà senso alla sua vita. Gli intimano di arrendersi, ma Rodrigo continua a combattere. Viene colpito, più volte. Riesce ancora a trafiggere un guerriero, prima che un colpo violento quasi gli stacchi la testa dal collo. Il giovane barcolla e cade. Uno dei fanti, Vahit, gli taglia il capo, che viene infilzato su una lancia: Azrael è morto. I turchi si accaniscono sul suo corpo, infilzandolo con le lance là dove non è protetto dall’armatura.

Riorganizzato l’esercito, Riccardo guida un nuovo attacco su un lato, mentre Denis conduce le truppe dal lato opposto. L’arrivo del Cane con gli occhi azzurri diffonde il panico, costringendo i turchi ad arretrare: il cadavere di Rodrigo rimane a terra. Vahit cerca di portare via la testa, issata su una lancia: è un trofeo di cui vantarsi, poiché Azrael era temuto e odiato da tutti. Il turco però non riesce a muoversi abbastanza in fretta. Lo svedese Unrod lo raggiunge e lo decapita con un sol colpo. La testa rotola a terra di lato e il corpo crolla in avanti, facendo cadere anche la lancia.

I nuovi attacchi costringono infine i turchi a lasciare il campo.

L’esito favorevole della battaglia non è risolutivo: l’esercito turco non è stato annientato, come era successo a quello cristiano a Hattin. La vittoria però non è priva di significato: mostra che Salah ad-Din non è invincibile e che non è in grado di fermare l’avanzata di Riccardo. Conferma il timore che i musulmani nutrono nei confronti di Denis d’Aguilard e semina sconforto nell’esercito del sultano.

Mentre le vittorie del sultano gli avevano permesso di offrire terre e bottino ai suoi uomini, ora non ha più nulla da dare e il malcontento serpeggia: sono in molti a combattere nella speranza di un guadagno e l’idea di rischiare la vita per nulla induce alcuni ad allontanarsi.

 

La vittoria permette a Riccardo di muoversi più liberamente e di prendere l’iniziativa. L’esercito cristiano raggiunge Giaffa, dove si ferma: di qui potrà dirigersi a est, verso Gerusalemme, o a sud, lungo la costa, verso Ascalona e l’Egitto. Re Riccardo discute con Denis e con gli altri comandanti delle diverse possibilità.

Denis partecipa alle riunioni, ascolta, propone. Non gli sfugge che tra i vari signori esistono contrasti profondi e che anche i rapporti tra re Riccardo e il nuovo re di Gerusalemme, Guglielmo del Monferrato, non sono buoni. Tutto ciò ostacola il successo della spedizione.

Ma la sua preoccupazione principale, il pensiero che spesso lo tiene sveglio la notte e che lo sfinisce è un altro: Solomon non torna. Denis è sempre più preoccupato. Non è facile muoversi in un territorio dove infuria la guerra. I due eserciti si sono spostati da Acri a Giaffa e per raggiungere le truppe cristiane era necessario aggirare quelle turche: una manovra estremamente pericolosa.

Sono ormai passate tre settimane e, anche considerando che Solomon si sia fermato quattro o cinque giorni a Rougegarde, sarebbe dovuto essere di ritorno da tempo.

Verso il tramonto Denis sale spesso sulle mura e guarda verso l’entroterra. Rimane a lungo fermo, nella speranza di vedere un cavaliere dirigersi verso la porta della città. C’è un certo viavai di gente, ma nessuno corrisponde all’immagine che Denis porta dentro di sé.

Una sera si accorge che Unrod gli si è avvicinato. Lo svedese è rimasto al suo servizio, anche se intende raggiungere Ferdinando a Bellerivière quando la guerra sarà finita: ama la vita libera del conte e dei suoi uomini.

Unrod sorride e dice:

- Arriverà, duca. È in grado di cavarsela in qualsiasi situazione.

Denis lo guarda, stupito. Non pensava che Unrod sospettasse il legame che lo unisce a Solomon, ma lo svedese è stato a Jibrin ed è un buon osservatore.

Non finge di non aver capito di chi si parla. Risponde:

- Lo spero, ma i giorni passano e con la guerra in corso circolare per queste terre è quanto mai pericoloso.

- Sì, ma è un uomo prudente, saggio e pieno di risorse. È riuscito a portare oltre venti briganti cristiani, condannati a essere impalati, attraverso il territorio arabo, senza nessun problema. Sa badare a se stesso. Non arriva perché cercare di passare ora sarebbe troppo pericoloso, ma arriverà.

Denis non ha la stessa sicurezza, ma sentire le parole di Unrod calma un po’ le sue ansie. Si limita a dire:

- Grazie, Unrod.

Denis parla spesso con re Riccardo, che ha individuato in lui l’interlocutore più affidabile. Discutono di come sia meglio procedere. L’obiettivo è naturalmente Gerusalemme: la spedizione oltremare è partita per riconquistare la città santa. Impadronirsene è possibile, anche se non facile, ma come tenerla? Riccardo valuta soluzioni diplomatiche, accanto a quelle militari. Denis condivide i suoi dubbi. Conquistare la città santa è possibile, ma mantenerla richiederebbe forze che non ci sono.

Ogni giorno il duca sale sulle mura. Con il passare dei giorni la speranza che Solomon ritorni si affievolisce. Denis si sente schiacciato da un peso che non riesce più a reggere, ma rifiuta di cedere alla disperazione.

 

Una sera, poco prima che il sole tramonti in mare, Denis sale sulle mura a guardare ancora verso le montagne. È salito da poco quando avverte una presenza dietro di sé.

- Sono qui, Denis.

Denis chiude gli occhi. Ha paura di voltarsi, quasi teme di scoprire di essersi sbagliato, che non sia di Solomon la voce che ha udito, una voce che riconoscerebbe tra mille.

Solomon si avvicina. Ora è di fianco a lui. Mette una mano su quella che Denis tiene appoggiata al parapetto. Denis guarda la mano e si accorge di non vederla bene: dagli occhi stanno scendendo le lacrime.

 

 

VII – Il banchetto

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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