I – Nel bordello 

II – L’emiro dell’Arram

III – L’asta

IV – L’assedio

 

 

Grazie ai rinforzi arrivati, Salah ad-Din ha potuto circondare i franchi che sotto il comando di Guido da Lusignano stanno assediando Akka, la città che i cristiani chiamano Acri. È una situazione insolita: i franchi assediano la città, senza peraltro riuscire a bloccare completamente l’accesso, e sono a loro volta assediati da Salah ad-Din. La guarnigione di Akka attende la liberazione dall’assedio, i cristiani la conquista della città, l’esercito musulmano una battaglia che dia la vittoria e apra la strada a nuove conquiste.

I due eserciti si fronteggiano e nel corso dell’autunno entrambi ricevono rinforzi. Ai musulmani si uniscono i contingenti arabi, turchi e curdi, richiesti dal sultano in tutta la Siria. Dalla Danimarca, dalla Germania, dalla Frisia, dall’Inghilterra, dalle Fiandre e dalla Francia giungono via mare numerosi soldati, guidati da nobili: sono le avanguardie degli eserciti che i sovrani stanno raccogliendo in Europa.

Salah ad-Din tiene sotto continua pressione le truppe cristiane, come ricorda l’agostiniano Riccardo, priore di Holy Trinity a Londra, nel suo L’itinerario dei pellegrini e le imprese di re Riccardo:

I Turchi erano una minaccia costante. Mentre i nostri sudavano scavando fossati, i Turchi li infastidivano con interminabili azioni di disturbo, dall'alba al tramonto. Cosi, mentre una metà lavorava, l'altra metà doveva difenderla dagli attacchi turchi... mentre l'aria era nera di una pioggia battente di dardi e frecce così numerosi da non poterli contare né stimare... Non pochi di loro morirono… per l'aria nauseante, inquinata dal puzzo dei cadaveri, consumati dalle notti di angoscia trascorse di guardia e sfiniti da altre privazioni e altri bisogni. Non c'era riposo, non c'era neppure il tempo per respirare. Gli operai nel fossato erano incalzati senza sosta dai Turchi che piombavano in continuazione su di loro con attacchi imprevisti.

 

Salah ad-Din affida a Barbath il comando nelle operazioni militari. Lo affianca Ubayd. Entrambi sono infaticabili, ma non riescono a scacciare i franchi dall’accampamento che hanno costruito sulla collina di Toron, Tell al-Fukhkhar.

Nei primi giorni Barbath e Ubayd sfidano spesso i franchi, nella speranza di giungere a uno scontro e sconfiggerli. Ma i franchi preferiscono rimanere trincerati nel loro accampamento e fortificarlo.

Ogni giorno gruppi di franchi escono dal lato dell’accampamento opposto a quello che fronteggia le truppe musulmane, per fare legna e procurarsi ciò di cui hanno bisogno. Quando i musulmani lo scoprono, decidono di tendere una trappola. Salah ad-Din affida il compito ad Adham, che ricorda come un guerriero valoroso e che ha visto combattere con grande coraggio nei giorni precedenti. Il successo dell’impresa dipende dalla sorpresa: se qualcuno avvistasse i soldati musulmani, per i franchi sarebbe facile intervenire numerosi e ucciderli tutti, prima che dall’accampamento di Salah ad-Din qualcuno possa arrivare in soccorso.

Il gruppo guidato da Adham si sposta di notte, in assoluto silenzio. Raggiunto il luogo scelto per l’agguato, un’ansa del fiume Belus, si stendono a dormire, lasciando solo due sentinelle. All’alba viene data la sveglia e i guerrieri si appostano, nascosti dove la vegetazione è più fitta.

I franchi incaricati dei rifornimenti di legna e acqua lasciano l’accampamento sotto la guida di Rinaldo di Sidone. Il cielo è coperto da nuvole scure e agli uomini non dispiace: dovendo abbattere alcuni alberi e raccogliere legna, preferiscono che la giornata non sia molto calda. Raggiungono l’ansa del fiume senza sospettare nulla e si mettono al lavoro: alcuni raccolgono l’acqua, altri tagliano alberi e arbusti per avere legna.

Due uomini si allontanano dagli altri per abbattere alcune giovani querce. Alle loro spalle arrivano diversi guerrieri, che si muovono silenziosamente. Uno dei due viene colpito alla schiena da una lancia, che gli esce dal petto. L’altro se ne accorge e si volta. Maneggiando l’ascia come arma, spezza la lancia che stava per colpirlo, poi si lancia sul guerriero che voleva trafiggerlo e gli cala l’arma sul capo, dividendolo in due fino al collo. Gli altri però lo trapassano con le loro lance e l’uomo si abbatte al suolo, agonizzante.

Nessuno dei franchi che lavorano poco lontano si è accorto della morte dei compagni. Sono tutti indaffarati, quando i guerrieri turchi si lanciano su di loro. I franchi gettano i recipienti e gli strumenti di lavoro, per prendere le armi e difendersi, ma i musulmani sono più numerosi e diversi soldati cristiani vengono uccisi prima di essere riusciti a recuperare la spada.

La sproporzione numerica e l’effetto sorpresa portano a una rapida conclusione dello scontro: pochi minuti dopo l’attacco, tutti i cristiani giacciono a terra, morti o moribondi, ad eccezione del comandante.

Rinaldo aveva le armi con sé ed è riuscito a reagire, uccidendo tre attaccanti. Ora, avendo individuato in Adham il capo della spedizione, lo affronta. Sono entrambi forti guerrieri e il duello potrebbe durare a lungo, ma Erol, uno degli uomini di Adham, si avvicina alle spalle di Rinaldo e gli infila la lancia nella schiena, dove termina la corazza. La punta esce dal ventre. Il guerriero barcolla e cade in ginocchio. Guarda Adham e mormora:

- Infame!

Poi crolla a terra. Un fiotto di sangue gli esce dalla bocca.

Adham è furente e si controlla a fatica. Si rivolge a Erol:

- Se io fossi il comandante dell’esercito, ti ucciderei in questo istante.

Erol è disorientato dalla rabbia di Adham.

- Io… era un franco… non capisco.

- Combattevo un leale duello. Se mi avesse ucciso, sarebbe stato compito di tutti voi vendicarmi e ucciderlo, ma colpire alla schiena un uomo che sta duellando… è davvero una vergogna, che ricade su di me.

Adham non dice altro, perché il desiderio di uccidere Erol è troppo forte. Gli volta le spalle e dà gli ordini necessari:

- Rauf, Osman, Veli, decapitate tutti i franchi. Porteremo le loro teste al nostro sovrano. Voi altri, raccogliete tutto ciò che ha un valore.

Due carri, sei cavalli, diverse armi e l’armatura di Rinaldo sono il bottino della spedizione, che ha avuto pieno successo, ma Adham si sente umiliato. Quando combatteva con i suoi uomini, nessuno si sarebbe permesso di colpire un suo avversario alla schiena: sapevano tutti che il loro capo non l’avrebbe tollerato.

Tornano all’accampamento vittoriosi, ma il malumore di Adham è evidente. Si presenta a Salah ad-Din e riferisce che l’impresa ha avuto pieno successo. Mostra il bottino e le teste dei nemici. Salah ad-Din è molto soddisfatto: ha avuto la conferma del valore di Adham. Gli offre una veste d’onore e una parte del bottino, ma, cogliendo il suo stato d’animo, gli chiede:

- Guerriero, che cosa ti impedisce di gioire del successo dell’impresa?

Adham si inchina, esita un attimo, poi racconta:

- Perdonami, mio signore. Ho affrontato il capo della spedizione in leale duello. Combattevamo e quando ormai tutti gli altri franchi erano morti, uno dei guerrieri lo ha colpito alla schiena con la lancia, uccidendolo. Per me è stata una vergogna. Avrei preferito che colpisse me.

Salah ad-Din sorride e annuisce.

- Sei un animo nobile e leale, ma era un nemico e preferisco che sia stato ucciso lui. Se avesse avuto la meglio su di te, sarebbe ugualmente morto e io avrei un guerriero valoroso in meno.

Salah ad-Din congeda Adham e dà ordine che durante la notte le teste dei franchi uccisi vengano infilzate su pali visibili dall’accampamento dei franchi.

Il mattino seguente i franchi scoprono la fine dei loro compagni che non hanno visto rientrare: sapevano che di certo era successo loro qualche cosa, ma speravano che fossero stati catturati e che fosse possibile riscattarli.

 

Gli scontri avvengono vicino all’accampamento cristiano, che è continuamente sotto tiro: i franchi si trovano a doversi sempre difendere. Invece il campo musulmano non subisce attacchi e chi non è impegnato in battaglia può trascorrere tranquillamente le sue giornate.

Barbath guida personalmente molte operazioni contro i franchi e combattere lo aiuta a tenere a bada le sue ossessioni. Lontano dall’Arram sta meglio. I fantasmi che lo assillano non sono spariti, ma hanno perso forza. Il desiderio è facilmente soddisfatto, perché tutti sanno che gli piacciono i giovani maschi e diversi guerrieri desiderano provare questo magnifico stallone: darsi al comandante dell’esercito non è certo una vergogna. Alcuni gli si avvicinano con qualche pretesto, per chiedergli un parere o anche solo per esprimere la loro grande ammirazione, e gli fanno capire di essere disponibili.

Di solito Barbath non si tira indietro e molto spesso la sera, nella sua tenda, fotte qualche bel giovane. Chi fa l’esperienza di solito vorrebbe riprovare, perché nei piaceri del giaciglio il comandante non ha rivali.

Perciò ogni giorno a Barbath si presenta qualche occasione. Ci sono due giovani con cui scopa più spesso: Khalid, che fa parte della guarnigione di Damasco ed è forse il più bel guerriero del campo, e Vahit, un turco, anch’esso molto bello e particolarmente esperto nei giochi del letto. Entrambi fanno in modo di trovarsi casualmente vicino alla tenda del comandante quando questi è presente, in modo che lui possa vederli e chiamarli.

Oggi è Khalid che passa davanti alla tenda mentre Barbath è sulla soglia e lo saluta.

- Buona giornata, comandante.

- Buona giornata a te, Khalid. Vieni da me questa sera?

Barbath è sempre molto diretto: non ama fingere.

Khalid sorride.

- Molto volentieri, comandante.

- Va bene, ci vediamo alla solita ora.

Khalid ritorna al quartiere dell’accampamento dove sono state montate le tende dei soldati di Damasco. Lo vede Hashim, il comandante.

- Khalid, vieni dentro. Devo parlarti.

Khalid segue il comandante nella tenda. Sa già benissimo che cosa vuole da lui.

Appena sono dentro, Hashim dice:

- Questa sera vieni da me, ché ho da parlarti.

Hashim non dice mai direttamente che vuole scopare.

Khalid si trova in imbarazzo.

- Mi spiace, ma il comandante Barbath mi ha chiamato. In serata devo passare da lui.

Hashim ha capito perché Khalid va da Barbath e sa che non può competere con lui, né per grado, né in battaglia, né a letto. La faccenda lo irrita alquanto.

- Merda, Khalid! Sei diventato proprio una troia! Vai con tutti!

Khalid è infastidito dall’insulto, ma non vuole irritare il proprio comandante. China il capo e non dice nulla.

Hashim riprende:

- Va bene, facciamo ora, tanto c’è tempo prima della preghiera. Spogliati.

Khalid obbedisce. Sono alcuni anni che Hashim lo prende, quando ne ha voglia. Non ha potuto dire di no la prima volta, in un momento in cui rischiava la propria vita, e ormai sarebbe assurdo negarsi. E in fondo non gli dispiace, anche se Hashim non gli trasmette certo le stesse sensazioni di Barbath o di Zeyd.

Khalid si mette sui cuscini. Sa che cosa piace al comandante, che non perde tempo in baci o carezze: è un uomo che va subito al sodo. Non ha molta fantasia, ma ha una buona dotazione e ci sa fare.

Hashim si è spogliato. Osserva il culo del giovane. Davvero un bel culo. Lo afferra con le mani e lo stringe. Poi, preso da un desiderio improvviso, assesta due morsi decisi, che strappano un gemito a Khalid. Divarica un po’ le natiche e osserva l’apertura. Sputa e sparge la saliva, mentre il cazzo gli si tende. Lo accarezza un momento, per farlo diventare bello duro, poi si inumidisce la cappella. Entra con decisione e Khalid sussulta, ma Hashim non ci bada: sa bene che il giovane è abituato a prenderselo in culo e non gli importa molto se il piacere, che di certo prova, si accompagna a un po’ di dolore. Spinge bene a fondo il cazzo e incomincia a fottere questo bel culo caldo che gli si offre.

Hashim cavalca a lungo, con spinte decise, affondando ogni volta il cazzo fino a che i coglioni toccano il culo di Khalid e poi ritraendolo, in un movimento continuo.

- Hai un bel culo, Khalid. Un fodero perfetto e il mio cazzo è la spada adatta.

Khalid annuisce. Deve riconoscere che quella di Hashim è una bella spada, anche se Barbath ha una scimitarra di gran lunga più letale.

- Sì, comandante.

Hashim spinge ancora un po’, poi accelera il ritmo e viene. Si ritrae, si pulisce e si riveste. Non si preoccupa di far venire anche Khalid: tanto questa troia scoperà di nuovo in serata.

Khalid si rialza e si riveste anche lui. Saluta deferente e se ne va.

 

Intanto anche Vahit si presenta da Barbath, che lo saluta da lontano, senza chiamarlo. Vahit non si scoraggia così facilmente, per cui raggiunge il comandante e gli dice.

- Comandante, posso venire questa sera da te?

Barbath sorride e dice:

- Sai che ti vedo sempre volentieri, ma questa sera ho un ospite.

Vahit non demorde:

- Il fortunato è il bel Khalid?

Barbath si limita a rispondere:

- Sei curioso, Vahit.

- Te lo chiedo perché vedo che gira spesso qui intorno. È un bel giovane e non mi spiacerebbe se facessimo qualche cosa insieme, noi tre.

Barbath è solleticato dall’idea di fare qualche cosa in tre. Khalid ha una discreta esperienza e probabilmente ci starebbe. Sorride.

- Va bene. Vieni un po’ prima della solita ora. Se Khalid è d’accordo, possiamo divertirci tutti e tre, altrimenti, dovrai attendere. Certo che sei un bel maialino…

Vahit ride e risponde:

- Ma so che ti trovo disponibile.

Poi si allontana, soddisfatto.

 

Quando Khalid arriva, trova anche Vahit ad aspettarlo, accanto a Barbath.

- Khalid, credo che tu conosca Vahit.

- L’ho visto qualche volta.

- In effetti non passa inosservato, come te, d’altronde: siete due bei giovani.

Dopo un attimo di pausa, Barbath prosegue:

- Vahit viene a trovarmi ogni tanto, come fai tu. Questa sera gli ho detto che ero occupato, ma lui, sospettando che fossi tu il mio ospite, mi ha chiesto di poter partecipare, perché gli piacerebbe far conoscenza con te. Se sei d’accordo, possiamo farlo, altrimenti non c’è problema: Vahit ritorna alla sua tenda.

Khalid è tentato dall’idea, anche se è un po’ in imbarazzo. Rani lo ha preso davanti a Zeyd, ma non è stato uno scopare a tre: Zeyd guardava solo, o almeno, così ha pensato Khalid, che non si è accorto del movimento della mano dell’ufficiale.

- Io… non ho mai fatto… in tre… certo…

Vahit sorride e dice:

- Certo si può sempre provare, no? È interessante scoprire qualche cosa di nuovo.

Khalid sorride e annuisce.

- Sì, sono d’accordo.

Vahit gli si avvicina, gli pone due mani sui fianchi, lo avvicina a sé e lo bacia sulla bocca. Quando si stacca, dice:

- Sei davvero bellissimo, Khalid.

- Anche tu sei molto bello.

- In un modo diverso.

Barbath annuisce, mentre si avvicina e pone le braccia sulle loro spalle:

- Due bellezze diverse, un elegante cerbiatto e un giovane leone.

Vahit si rivolge a lui e dice:

- Due prede per l’infallibile cacciatore dalla grande mazza, che trafiggerà entrambe.

Vahit bacia Barbath sulla bocca, poi bacia ancora Khalid e intanto gli solleva la tunica. Barbath scioglie le cinture, poi infila le mani da dietro nei pantaloni dei due giovani e li abbassa. La sua destra scorre lungo il solco tra le natiche di Khalid, la sinistra cerca l’apertura di Vahit e a entrambi i giovani sfugge un gemito di piacere. Il dito medio delle due mani si intrufola, lentamente, prendendo possesso. La destra di Vahit accarezza i coglioni del comandante, mentre Khalid afferra il poderoso cazzo, che si tende. Rimangono un buon momento in piedi così, mentre i loro cazzi si irrigidiscono e i due giovani sentono muoversi dentro il culo un dito del comandante. Khalid chiude gli occhi, perché la sensazione è fortissima. Allora Barbath ritira il dito e dice:

- Mettiti sui cuscini. Vahit ti prenderà e io prenderò lui.

Khalid annuisce e si mette a quattro zampe, con alcuni cuscini sotto il petto. Vahit si inginocchia dietro di lui, gli poggia le mani sul culo, divarica un po’ le natiche e passa la lingua lungo il solco, indugiando sull’apertura. Lo fa più volte. Khalid geme. Barbath li guarda, sorridendo.

Vahit preme con la lingua, che sembra volersi infilare nel buco, poi si solleva, si inumidisce la cappella e si appoggia su Khalid. Lentamente spinge il suo cazzo ben a fondo nel culo del giovane, poi si ritrae e affonda di nuovo la mazza. Barbath si mette dietro di lui, premendogli il cazzo contro l’apertura. Vahit geme: come sempre piacere e dolore si mescolano, ma il piacere è più forte.

Barbath avanza e si ferma. Vahit incomincia a muovere il culo avanti e indietro. Quando arretra si infilza sul magnifico cazzo del comandante, quando avanza è il suo cazzo a trafiggere il culo di Khalid.

Vahit procede con lentezza: vuole che questo piacere duri il più a lungo possibile. Il primo a venire è Khalid, a cui sfugge un gemito. Poco dopo è il turno di Vahit, che si abbandona sul corpo del giovane soldato. Infine Barbath imprime alcune spinte vigorose e viene.

Sono tutti e tre appagati.

 

Barbath vorrebbe dimenticare completamente Ferdinando. Di giorno ci riesce: intorno a lui nessuno parla del brigante lontano e ci sono sempre molte cose da fare, che lo tengono occupato. La notte però Ferdinando gli appare più volte in sogno. Allora, anche se ha avuto un rapporto la sera stessa, il desiderio si accende violento.

Nei sogni rivede spesso il suo ultimo incontro con il brigante. E quando Ferdinando lo incula con una spinta secca o quando, dopo averlo stuprato, si fa pulire e succhiare il cazzo, Barbath viene nel sonno. A turbarlo profondamente è proprio il fatto di provare un piacere violento nel rivivere la sua umiliazione. Quando questo succede, Barbath si sveglia irritato e solo i mille impegni durante la giornata finiscono per distrarlo e rendergli la serenità.

 

Qualche giorno dopo l’incursione guidata da Adham, sono i cristiani a prendere l’iniziativa, attaccando l’esercito di Salah ad-Din: Guido da Lusignano ha avuto notizia che i turchi attendono truppe dall’Egitto e spera di mettere in fuga il nemico prima che arrivino i rinforzi attesi. L’esercito cristiano si è notevolmente rafforzato grazie all’arrivo di diversi soldati, tra cui quelli di Guglielmo del Monferrato.

È una battaglia feroce che a un certo punto sembra volgere al peggio per i saraceni, costretti ad arretrare. A sud le truppe guidate da Barbath riescono a reggere l’urto della cavalleria franca, ma a nord la situazione precipita. A guidare i franchi in questo settore è Gilles di Monségur, un cavaliere che ha combattuto a lungo con i templari, senza prendere i voti. Si è già distinto negli scontri precedenti e i turchi lo temono. Molti vengono uccisi e parecchi si danno alla fuga, quando l’intervento di Ubayd e di Adham porta a un rovesciamento della situazione.

Ubayd guida un contingente numeroso, in parte proveniente da al-Hamra, in parte costituito da truppe che Salah ad-Din gli ha affidato. Anche Adham è alla guida di alcuni guerrieri, un drappello piccolo, ma agguerrito, che il sultano ha messo sotto la sua autorità. Il loro arrivo rianima coloro che erano sul punto di darsi alla fuga e la battaglia riprende. I franchi, che avevano visto la vittoria a portata di mano, si scagliano contro i due condottieri, ma non riescono a tener loro testa.

Ubayd si trova ad affrontare Gilles. Ubayd è un grande guerriero, ma Gilles non è meno forte. Il duello prosegue a lungo, mentre intorno a loro i turchi riprendono terreno.

Gilles riesce infine a far cadere la spada di mano a Ubayd. Non gli piace uccidere un uomo disarmato, ma sa che deve abbatterlo, perché colpendo questo valente condottiero, che i saraceni chiamano il Leone, provocherebbe lo sbandamento dei suoi guerrieri. Alza la spada, ma Adham ha visto il pericolo che corre il Leone e attacca Gilles, costringendolo a difendersi e impedendogli di uccidere Ubayd. I franchi intanto si stanno ritirando e nella confusione che segue, i due contendenti vengono separati.

Ubayd e Adham incalzano i fuggitivi, ma Gilles e altri cavalieri, tra cui il giovane Robert, cugino di Gilles, difendono i fanti in fuga, impedendo che vengano massacrati.

Un contingente turco cerca di bloccare la ritirata dei franchi, frapponendosi tra le truppe che arretrano e l’accampamento. Le truppe cristiane si trovano tra due fuochi, ma Gilles e Robert riescono ad aprire un varco, attraverso cui i franchi possono ritirarsi nel loro accampamento, mentre l’attacco lanciato dai saraceni viene fermato dall’energica difesa. I cristiani sono stati sconfitti e hanno subito pesanti perdite, ma hanno conservato le loro posizioni.

 

Sul campo sono rimasti moltissimi morti. Salah ad-Din ordina di raccogliere le salme dei musulmani, per dare loro sepoltura, e di gettare nel Belus i cadaveri degli infedeli: per i cristiani il fiume è l’unica fonte di acqua potabile e i corpi in decomposizione la renderanno inutilizzabile per un po’.

Raccogliere i morti e gettarli nel fiume è un lavoro lungo e faticoso, che impegna parecchi uomini. Le salme degli infedeli vengono spogliate di tutto ciò che può essere utilizzato e poi trascinate fino al corso d’acqua. Gli uomini addetti a questo compito lavorano in gruppi di quattro. A un certo punto, quando gli uomini di una delle squadre incominciano a spogliare un cristiano, sentono un gemito e l’uomo apre gli occhi: è vivo. Si tratta di Sancho, un gigante con la faccia sfigurata da una grande cicatrice sul lato destro e un occhio solo.

Sancho ha combattuto valorosamente, ma è stato attaccato alle spalle. La spada è girata in mano al guerriero che lo ha colpito, per cui ha preso Sancho di piatto, alla nuca. Lo ha stordito, senza ucciderlo e senza nemmeno ferirlo: è solo svenuto.

Uno dei guerrieri dice:

- Facciamo che finirlo e buttarlo ai pesci con gli altri.

Con suo stupore l’uomo risponde, in un arabo fluente:

- Perché vuoi uccidermi? Sono forte e puoi vendermi al mercato degli schiavi. Se mi ammazzi, non ne ricaverai niente.

- Chi sei?

- Mi chiamo Sancho e vengo dalla Castiglia.

Un altro degli uomini chiede:

- Com’è che parli così bene l’arabo?

- Mi avete già catturato qualche anno fa e sono stato vostro schiavo… fino a che non sono stato riscattato.

Sancho mente: non è stato riscattato, ma è scappato. Preferisce non dire che di essere fuggito: potrebbero considerarlo poco affidabile e decidere di ammazzarlo.

L’ufficiale che sovrintende al lavoro arriva. Gli uomini gli spiegano la situazione e Sancho perora la sua causa: per quanto non sia contento di ritornare schiavo, la considera un’opzione preferibile alla morte. Per morire c’è sempre tempo.

L’ufficiale decide:

- Portatelo dal comandante Barbath.

L’ufficiale fa parte del piccolo contingente che proviene dall’Arram e Barbath è il suo signore.

Sancho viene portato dal comandante, che non ha tempo di occuparsi di lui, per il momento. Rimane perciò insieme ad alcuni altri prigionieri.

 

I cristiani catturati nel combattimento sono davvero molti. Quando si sono arresi hanno dovuto consegnare le armi e adesso, dopo essere stati riuniti nel campo turco, i cavalieri vengono spogliati anche dell’armatura. Con grande sorpresa, si scopre che tra di loro ci sono anche tre donne. Intorno a loro si accalca una folla di curiosi, che vogliono vedere queste guerriere.

L’attenzione però si sposta, perché tra i diversi cavalieri cristiani c’è il gran Maestro dei Templari, Gerardo di Ridefort, che era già stato preso prigioniero a Hattin e rilasciato da Salah ad-Din. Questa volta il sultano non ha nessuna intenzione di liberarlo: vuole invece dare un esempio rivolto a quei cavalieri franchi che sono caduti nelle sue mani a Hattin e poi hanno ripreso le armi contro di lui. Dà quindi ordine che il templare venga decapitato. Due uomini costringono Gerardo a inginocchiarsi e il boia gli taglia la testa con un unico colpo, mentre l’uomo recita una preghiera.

 

Adham e Ubayd assistono alla scena, insieme a tanti altri. Quando si allontanano, Ubayd dice:

- Grazie, Adham. Mi hai salvato la vita. Senza di te, sarei uno dei tanti cadaveri che ora i nostri uomini stanno raccogliendo.

- Sono contento di essere riuscito a intervenire per tempo.

- Ti sarò debitore per sempre.

Adham ride:

- Magari mi salverai tu la vita uno di questi giorni. Così saremo pari.

Poco dopo Salah ad-Din convoca Adham: ha deciso di mettere sotto la sua guida un contingente egiziano, il cui comandante è morto nell’ultimo scontro. Il nero si trova così a entrare nel consiglio di guerra allargato, quello di cui fanno parte tutti i comandanti. Non partecipa invece alle riunioni del consiglio ristretto, a cui intervengono solo una dozzina di comandanti: Taki ad-Din, nipote di Salah ad-Din; Barbath, che è il braccio destro del sultano; Hashim, che è il comandante della guarnigione di Damasco, anche se ora il suo compito è svolto da Zeyd; gli emiri e sceicchi delle principali città siriane, come Ubayd, di al-Hamra, e Abedin, di Barqah; i capitribù che hanno raccolto numerosi guerrieri, come il curdo Ishan.

Barbath non è contento quando scopre che Adham è diventato uno dei comandanti: non vuole avere a che fare con lui. Fino a ora ha cercato di evitarlo il più possibile e il nero, essendosi accorto dell’ostilità del comandante, si è tenuto alla larga. Finché Adham era agli ordini di Barbath, il comandante poteva ignorarlo, affidando a qualcuno degli ufficiali il compito di comunicare con lui. Adesso però si troveranno insieme nelle riunioni, che si tengono spesso.

Barbath torna alla sua tenda di cattivo umore.

 

Il giorno dopo al mattino vede il nuovo prigioniero cristiano. È davvero molto alto e grande. Per certi versi gli ricorda Ferdinando, anche se i tratti somatici sono del tutto diversi, per non parlare della cicatrice che lo deturpa. Barbath si dice che deciderà con calma se venderlo o tenerlo come uomo di fatica.

La sera Khalid e Vahit non si presentano. Il primo è stato richiesto da Hashim, il secondo è rimasto ferito a una gamba e avrà bisogno di stare a riposo per un po’.

Barbath ha voglia di scopare, ma non intende mettersi a cercare. Vede Sancho che sistema una tenda agli ordini di uno degli ufficiali e pensa che potrebbe fotterlo. Il corpo grande e forte assomiglia molto a quello di Ferdinando. Si dice subito che è una stupidaggine, ma il desiderio si è acceso, violento. Dopo cena Barbath dà ordine di portare il prigioniero nella tenda.

Sancho entra. Sa di avere di fronte il comandante dell’esercito, il braccio destro del Saladino. Barbath è seduto su un tappeto. Sancho rimane in piedi davanti a lui. C’è solo una lanterna, che illumina debolmente l’interno della tenda. È posta accanto al comandante, ma leggermente indietro, per cui ne rischiara solo il lato destro, lasciando il resto nell’ombra.

- Mi dicono che parli bene l’arabo.

- Abbastanza, comandante.

- Come mai?

- Sono stato prigioniero per due anni.

- Quando ti catturarono?

- Quando il vostro sovrano assediò Ashqelon. Mi presero in una scorreria e fui portato ad Amman prima della battaglia finale.

- E com’è che tornasti libero?

Sancho ripete le menzogne che ha raccontato quando l’hanno trovato:

- Mi riscattarono due anni dopo.

Barbath annuisce. Non gli interessa sapere i dettagli.

- Bene. Ora spogliati.

Sancho guarda il comandante, sconcertato. Non capisce perché gli ha ordinato di svestirsi. Non può rifiutarsi, per cui si toglie quanto ha indosso. Rimane con i pantaloni, ma a un cenno di Barbath si cala anche quelli.

Barbath osserva questo corpo forte. Ricorda davvero quello di Ferdinando. Anche il cazzo è grosso, non come quello del brigante, ma comunque notevole. Ci sono due cicatrici, oltre a quella che ha in faccia: non dev’essere un vigliacco. Un pelame castano copre il torace, le braccia e le gambe. Al ventre diventa una vera foresta.

Barbath sorride.

- Mettiti a quattro zampe.

Sancho ha capito. Ha spesso avuto rapporti con altri maschi, ma non è mai stato penetrato. L’idea lo sgomenta, ma sa di non avere nessuna scelta: se si rifiutasse, la sua sorte sarebbe segnata. Non vuole morire, per cui esegue l’ordine.

Barbath guarda il culo che gli si offre. Grosso e muscoloso, coperto dalla stessa peluria fitta delle gambe e del petto. Potrebbe davvero essere Ferdinando.

Si spoglia e guarda Sancho che rimane immobile, teso. Barbath si inginocchia dietro di lui, gli fa allargare un po’ le gambe, poi sputa sull’apertura. Con le dita sparge la saliva, poi si inumidisce la cappella e preme contro il buco. Capisce subito che questo maschio vigoroso non se l’è mai preso in culo. Si dice che sta per inculare Ferdinando.

Spinge con decisione. Di solito è attento a non fare male, ma questa sera sta fottendo l’uomo che lo ossessiona, che torna nei suoi sogni per umiliarlo, quasi ogni notte. Questa sera si vendica di lui.

Sancho ha la sensazione che gli stiano infilando un coltello in culo. Mormora, piano:

- Merda!

Chiude gli occhi. Si morde il labbro inferiore per non gemere.

Barbath è uno stallone formidabile e fotte a lungo, immaginando di inculare Ferdinando. Le sue mani stringono con forza il culo, scendono al cazzo, afferrano i coglioni e premono, strappando un gemito a Sancho, poi tornano a tormentare il culo.

E infine Barbath viene. Sancho sente il suo seme rovesciarglisi nelle viscere. È contento che sia finita.

Il comandante si alza. Mentre si pulisce, dice:

- Tornatene nella tua tenda.

Sancho si rialza. Il dolore è bestiale. Si riveste ed esce, zoppicando. Dal culo gli cola un po’ di seme. Raggiunge la tenda dei servitori e si stende, umiliato e dolorante.

 

Il giorno successivo Barbath ha da fare la sera, ma quando torna alla sua tenda chiama Sancho, anche se è notte fonda. Il prigioniero viene svegliato. Non è certo contento di essere chiamato, perché sa che cosa lo aspetta. Il culo gli fa ancora male e sulle natiche stanno comparendo grossi lividi.

Barbath è seduto come la sera precedente. Si limita a dire:

- Spogliati e mettiti in posizione.

Sancho obbedisce. Barbath guarda il grosso culo che gli si offre e sorride. Sta per fottere Ferdinando. Il cazzo gli si tende in fretta e Barbath entra deciso. Sancho si morde un labbro per non urlare. Il dolore si rinnova, violento.

Anche questa volta Barbath lo fotte con grande energia, senza frenarsi. A Sancho sembra che non finisca mai. Infine Barbath viene.

Quando torna alla tenda dei servitori, Sancho fa fatica a camminare. Non riesce a capire perché Barbath inculi proprio lui, quando di certo può avere dei bei giovani. La sua unica speranza è che si stufi presto.

 

Il comandante però non sembra stancarsi del suo prigioniero: anche se ha scopato in serata, lo prende ogni notte, per esorcizzare il fantasma che lo perseguita. E in effetti Ferdinando smette di presentarsi nei sogni di Barbath.  

Lentamente Sancho si abitua a questa violenza. Dopo le prime due settimane, infernali, il dolore che prova si attenua.

Ora Barbath appare meno rabbioso e diviene meno violento nell’entrare e poi nel cavalcare. Progressivamente anche per Sancho la situazione muta: alla sofferenza, che rimane, per quanto meno forte, si mescola una sensazione non sgradevole. Si rende conto che la presenza di questo grosso cazzo in culo non è più spiacevole e lentamente anche il suo corpo reagisce.

Una notte Barbath si accorge che il cazzo di Sancho è duro. Il primo impulso è quello di spaccare i coglioni allo schiavo cristiano, ma questo maschio vigoroso che sta fottendo non è Ferdinando, anche se Barbath pensa a lui. Barbath stringe un po’, poi si ferma e allenta la presa.

Dopo aver rimandato Sancho nella tenda dei servitori, Barbath non riesce a prendere sonno. È inquieto, rabbioso. Quando infine riesce ad addormentarsi, Ferdinando riappare nei suoi sogni e gli dice:

- Hai visto che l’avevo duro. Volevi gustarlo, eh?

Barbath si sveglia di colpo. Si alza. Sa che non riuscirebbe più a riprendere sonno. Si infila un paio di pantaloni ed esce. La luna piena, alta in cielo, illumina le tende. C’è un grande silenzio nel campo, dove tutti sembrano riposare. Barbath si muove. Passando davanti a una tenda sente qualcuno che parla molto piano e poi una risata femminile. Barbath giunge ai margini del campo, dove le sentinelle vegliano.

Una lo vede e gli rivolge la parola, ma quando Barbath si rivela, si ritrae, chinando il capo in un gesto di omaggio. Barbath esce dal campo. Davanti a lui si stendono i prati e poco oltre i boschi. In lontananza il mare, su cui brilla il riflesso della luna. Barbath si allontana dal campo.

Si sente il frinire degli insetti, qualche verso animale in lontananza, ma tutt’intorno c’è una gran pace. La guerra sembra lontana. Barbath si volta verso l’accampamento. Alla luce lunare le tende sembrano una città fantastica, che potrebbe essere abitata da ginn o altre creature di sogno.

Dalla parte opposta Akka è visibile in lontananza, una sagoma oscura che si staglia contro il cielo più luminoso.

Tutto è pace, ma dentro di sé Barbath ha un lupo che gli rode il cuore.

China il capo e ritorna all’accampamento.

Passando davanti alla tenda dei servitori, un pensiero lo prende. Entra e chiama Sancho. Questi si desta.

- Vieni con me.

Dentro di sé Sancho maledice questo bastardo del padrone che non lo lascia neanche dormire. Vorrà fotterlo di nuovo.

Entrano nella tenda di Barbath, che accende una lucerna. La fioca luce proietta grandi ombre sulle pareti della tenda.

- Spogliati, Sancho.

Sancho obbedisce.

Barbath lo guarda. Avvicina la lucerna e la mette ai piedi del prigioniero. Illuminato da sotto, Sancho assume un aspetto spettrale. Il viso è quasi completamente in ombra, mentre il grosso cazzo è ben illuminato.

- Fatti una sega, cristiano.

La richiesta prende di sorpresa Sancho e lo irrita, ma non ha certo scelta, per cui nasconde il suo fastidio, si afferra il cazzo e incomincia a stuzzicarlo. Gli diventa duro in fretta. Barbath lo guarda. Ferdinando ce l’ha più grosso, certo, ma anche questo maschio non scherza.

Ora il cazzo è rigido, teso in avanti.

- Fermo.

Barbath guarda Sancho. Si alza. Lentamente si spoglia. Ora sono l’uno davanti all’altro, tra di loro la luce della piccola fiamma.

Barbath si inginocchia e, chino in avanti, soffia sulla lucerna. La tenda piomba nel buio.

Sancho rimane immobile, senza capire. Poi sente le labbra di Barbath avvolgergli il cazzo. Rimane sbigottito. Barbath succhia un buon momento. Poi si mette a quattro zampe. Mormora, piano:

- Fottimi, Ferdinando.

Sancho non capisce perché Barbath lo abbia chiamato Ferdinando ed è stupefatto della richiesta, ma sa di non potersi sottrarre. Teme che obbedire significhi venire ucciso, ma sospetta che non obbedire non offra maggiori possibilità di salvezza.

Si china e davanti a sé sente la schiena di Barbath. Le sue mani scivolano fino al culo. Inumidisce l’apertura e poi si stende sul corpo che gli si offre. Il desiderio è più forte della paura. Sancho avanza fino a che il cazzo non forza l’apertura ed entra. Lo fa con cautela: non vuole fare male.

Barbath chiude gli occhi, anche se nella tenda è buio e solo un po’ di luce lunare filtra attraverso il telo.

Sancho fotte lentamente, a lungo. Quando sente che non potrà contenere il piacere ancora a lungo afferra il cazzo di Barbath. Lo sente irrigidirsi nella sua mano. Lo solletica, fino a che è gonfio di sangue, duro e teso in avanti. Allora muove la mano lungo l’asta e intanto accelera il ritmo delle sue spinte. Vengono insieme.

Barbath scivola a terra, Sancho rimane disteso su di lui. È sicuro che questa sia stata la sua ultima scopata.

Dopo un momento Barbath dice:

- Alzati.

Sancho obbedisce. Ora? Lo ucciderà ora?

Ma Barbath non lo uccide. Sancho sente le mani del comandante dell’esercito posarsi sulle sue cosce, poi la bocca avvolge nuovamente il suo cazzo e per un buon momento Barbath lo succhia. Poi si stacca.

- In ginocchio.

Sancho esegue. Sente che Barbath si muove. Lo ucciderà ora.

Dopo un buon momento Barbath accende nuovamente la lanterna. Ha in mano la spada. La punta all’attaccatura del cazzo.

Sancho dice:

- Uccidimi con un colpo al cuore. Non merito che tu mi castri.

Barbath sorride, un sorriso diabolico o forse soltanto folle, Sancho non saprebbe dire.

- Se dici una parola, una sola parola, la tua fine sarà orribile.

Sancho intravede una speranza.

- So stare zitto.

- Torna nella tua tenda.

Sancho non se lo fa ripetere. Raccoglie gli abiti, si alza e se ne va, senza neanche rivestirsi, tanto è notte fonda. Per il momento è andata. Domani si vedrà. Non sa che cosa Barbath farà di lui. Si chiede se il comandante sia davvero lucido. Ne dubita.

 

Barbath spegne la lanterna, si stende e rimane nel buio. Sa di aver sceso un altro gradino della scala che lo sta portando verso la follia e la morte. Sancho prima o poi parlerà, questo è certo. Non ora, ma nei prossimi giorni, nei prossimi mesi. Racconterà che il comandante si è fatto inculare da lui e gli ha pure pulito il cazzo con la bocca.

Sancho deve morire. Non esiste altra soluzione. Nulla di più facile. A Barbath basta dare un ordine: il cristiano è un suo schiavo. Ma Barbath preferisce non farlo uccidere dai suoi uomini, che non capirebbero i motivi di un’esecuzione. E se Sancho parlasse, prima di essere ucciso, la voce circolerebbe tra i soldati. Non può correre questo rischio. Riflette un momento sul da farsi. Potrebbe chiamarlo adesso e ucciderlo nella tenda, ma preferirebbe che non si sapesse. Infine gli viene un’idea. Sa che lo sceicco Abedin intende rimandare alcuni uomini a Shakra: sono più briganti che guerrieri e hanno creato alcuni problemi nel campo. L’occasione gli sembra ottima.

Il giorno dopo Barbath chiama Utbah, il capo del gruppo che Abedin rimanda a Shakra.

- Ascoltami bene, Utbah. So che in mattinata partirete per Shaqra.

Utbah annuisce. È alquanto preoccupato per questa convocazione: sa che ci sono state lamentele nei confronti suoi e dei suoi uomini e teme che Barbath intenda punirli.

- Sì, comandante.

- Bene. Al momento di partire, passerete di qui. Io vi affiderò uno schiavo cristiano. Questa sera, quando sarete lontano da qui, lo ucciderete. Chiaro?

- Sarà fatta la tua volontà.

Barbath gli porge una borsa con alcune monete.

- Ma di tutto questo, nessuno deve sapere niente.

- Certamente. Nessuno dirà nulla.

- Così non indagherò su alcune voci che mi sono arrivate.

- Calunnie, comandante, di certo.

- Va bene. Siamo d’accordo così.

 

Due ore dopo Sancho viene condotto via da un drappello di una dozzina di uomini. Gli hanno detto che sarà venduto, ma è sicuro che intendano ucciderlo. E infatti la sera, quando gli uomini si accampano per la notte, Utbah gli fa segno di seguirlo. Sancho ha le mani legate dietro la schiena e non può certo fuggire o lottare.

Non appena sono lontano dal posto dove gli altri stanno preparando la cena, Sancho gioca la sua carta:

- So che Barbath ti ha ordinato di uccidermi. Se invece tu mi vendessi al mercato degli schiavi, potresti guadagnare una bella somma: sono forte come un toro.

Utbah è rimasto sorpreso sentendo Sancho parlare, perché era convinto che il cristiano non conoscesse l’arabo. La proposta gli sembra interessante, ma se Barbath lo venisse a sapere, Utbah rischierebbe grosso. Esita. Sancho insiste:

- Sarebbe un buon affare per te. Puoi spuntare un buon prezzo.

Questo è senz’altro vero: come uomo di fatica Sancho sarebbe sicuramente apprezzato. Ma i rischi sono troppo forti. Utbah fa un cenno di diniego:

- No, se il comandante lo scoprisse, mi ammazzerebbe.

- Non potrebbe scoprirlo, se mi vendi lontano da qui. O a qualche mercante che va lontano.

La tentazione è forte. Un po’ di denaro fa sempre comodo. Abedin è tirchio e chi combatte per lui riceve poco: è uno dei motivi per cui Utbah e i suoi compagni ogni tanto cercano di arrangiarsi per rimpinguare la borsa. Ma non obbedire è troppo rischioso.

- No, Barbath ce l’ha con me e con i miei uomini per piccole cose che abbiamo fatto. Non voglio correre rischi.

Utbah sguaina la spada. Sancho arretra di un passo. Fa un ultimo tentativo, disperato.

- Se Barbath ce l’ha con te, io ti posso fornire un’arma per metterlo a tacere, se mai scoprisse che non mi hai ucciso.

Utbah corruga la fronte:

- E sarebbe?

- Il motivo per cui mi ha affidato a te per farmi uccidere, invece di farmi decapitare dai suoi uomini.

- Qual è questo motivo?

- Quando mi ha preso prigioniero, mi fotteva ogni notte. Ma quest’ultima notte si è fatto fottere.

- Vuoi dire che… gliel’hai messo in culo? A Barbath? No, non è possibile. Barbath Tre-Coglioni che se lo prende in culo. No, non ci credo.

- È così. È per questo che vuole farmi uccidere. Perché nessuno lo sappia. Puoi ricattarlo con questo.

Utbah riflette. Difficile che questo schiavo si sia inventata una storia del genere. Dev’essere la verità. Allora può venderlo: se saltasse fuori che non lo ha ucciso e Barbath gli dicesse qualche cosa, potrebbe minacciare di rivelare questa faccenda. Il comandante di sicuro non vorrebbe che si sapesse. Annuisce.

- Un’arma che posso usare.

- Soprattutto se io sono vivo e posso confermare.

Utbah ride:

- Sei furbo, cristiano. Ma… Barbath… che si fa spaccare il culo… non ci posso credere.

- Poi mi ha anche succhiato il cazzo.

- Mi sembra incredibile, ma in effetti ora capisco perché ti vuole morto e ha dato a me l’ordine di ammazzarti e non ai suoi uomini. Va bene, può essere un’idea. Ti vendo al mercato degli schiavi di Shakra.

Tornano all’accampamento. Sancho si rende conto che le gambe lo reggono appena. Quando arriva si siede, cercando di controllare il tremito. Spera che Utbah non cambi idea.

Utbah è di parola. Quando raggiungono Shakra, Sancho viene affidato a un mercante di schiavi, che lo mette in vendita.

Sancho pensa che gli è andata bene.

 

 

Barbath è convinto che Sancho sia morto e non pensa più allo schiavo cristiano. Il fantasma di Ferdinando però lo ossessiona, ogni notte di più, per quanto scopi con Khalid, con Vahit o con qualche altro giovane. Di giorno Barbath continua a occuparsi di tutto quanto c’è da fare e molti non notano niente di strano. Solo chi lo conosce meglio si rende conto che il comandante è teso e a volte si controlla a fatica.

In particolare Barbath è a disagio nelle riunioni del consiglio di guerra allargato, quelle a cui partecipa anche Adham. Troppe volte, fissando il nero, Barbath si rende conto che il pensiero torna in modo ossessivo a Ferdinando, l’uomo di cui Adham era l’amante. Adham non interviene quasi mai, perché molti sembrano avere poca considerazione di lui, in quanto nero. Un’unica volta avanza una proposta, che Barbath respinge immediatamente, con acrimonia. Nell’ostilità di Barbath nei confronti di Adham, gli altri comandanti trovano una conferma dei loro pregiudizi.

Solo Ubayd ha un atteggiamento diverso. Tra lui e Adham sta nascendo un’amicizia. Spesso si ritrovano e parlano dei combattimenti della giornata, della guerra in corso, del futuro.

Al Leone non è sfuggita l’ostilità di Barbath nei confronti del nero, per cui una sera, mentre passeggiano all’estremità del campo, chiede:

- Adham, è successo qualche cosa tra te e Barbath?

Adham esita. Non vuole essere indiscreto, ma non vuole neppure mentire.

- Me lo chiedi perché ce l’ha con me, vero?

- Non direi che ce l’ha con te, non mi sembra che faccia o dica niente contro di te, ma… non so, ti guarda in un modo strano. E l’unica volta che sei intervenuto, ha risposto molto aspramente, senza ragione, a parer mio.

- Già, l’ho notato anch’io. Non te lo so dire, Ubayd. Ci conosciamo appena. Ci eravamo incontrati un’unica volta, prima che io entrassi al servizio dell’emiro ‘Izz: quando l’emiro e Denis di al-Hamra espugnarono il castello degli hashishiyya. Partecipammo insieme alla caccia a Usama, l’assassino dello sceicco di Barqah e del barone Renaud di Afrin.

- Una delle cacce all’uomo organizzate da Ferdinando, vero? Ne ho sentito parlare spesso.

- Sì. Il suo modo di giustiziare un condannato a morte. Se è un maschio forte.

Ubayd annuisce.

- È uno di quelli a cui piace uccidere. L’ho sentito dire.

Ubayd rimane un momento silenzioso, perso nei propri ricordi. Adham è contento di questo silenzio: non ha voglia di parlare dell’ostilità di Barbath, ma anche il ricordo di Ferdinando è doloroso.

Il Leone riprende:

- È successo qualche cosa, allora? Intendo: qualche cosa che lo ha reso ostile?

- No, ci lasciammo in ottimi rapporti. Non so che cosa dire… anche se…

Adham pensa alle parole pronunciate da Barbath quando si lasciarono. Si interrompe.

- Se?

- Barbath ricordò a Ferdinando una promessa: di castrarlo e ucciderlo. Non ne conosco il senso.

- Barbath fu prigioniero del duca Denis, quando il Circasso fu sconfitto. E so che fu anche lui preda in una caccia, ma riuscì a fuggire.

- Sì, riuscì a fuggire perché così erano d’accordo. Una cosa che non dovrei dirti e che ti chiedo di tenere per te. Ferdinando stesso non me l’ha raccontato per molto tempo, ma dopo che fu condannato a morte, non aveva più senso che lo tenesse ancora segreto.

Adham ha detto molte cose che sorprendono Ubayd.

- Aspetta, fammi capire. Erano d’accordo che Barbath fuggisse?

- Sì, l’intera caccia era una finta, perché il re aveva deciso che Barbath doveva morire, ma Ferdinando non voleva. In realtà, anche se lui non me l’ha mai detto, certo per non far correre rischi al duca Denis, sono sicuro che sia stato il duca a decidere di salvare Barbath.

- Sì, lo credo anch’io. Lui era così. Non avrebbe mai fatto morire un prode guerriero suo prigioniero. Ma… mi hai detto che Ferdinando è stato condannato a morte… non capisco.

- Dopo la battaglia di Hattin fu accusato di tradimento. Per quello divenne un brigante, invece di unirsi alle altre truppe dei franchi.

Ubayd annuisce.

- Ora capisco. Però Barbath ha promesso a Ferdinando di castrarlo e ucciderlo, anche se lui gli ha salvato la vita. Credo di avere un’idea del perché.

Ubayd, quando era ancora Jean, è stato stuprato da Ferdinando e non gli è difficile immaginare che Barbath abbia subito la stessa sorte quando era prigioniero, prima della caccia.

Adham vorrebbe cambiare l’argomento, ma non è possibile. Spera che la conversazione si esaurisca da sé.

Ubayd, come la maggioranza dei guerrieri presenti nell’accampamento, non sa quasi nulla del passato di Adham.

- Conosci bene Ferdinando. So che sei stato schiavo dei franchi a lungo. L’hai conosciuto durante la schiavitù?

Adham tace. Ubayd è stupito del suo silenzio, ma non vuole insistere. Sono intanto giunti al fiume Belus, che più a valle lambisce l’accampamento dei franchi. Adham guarda il sole che tramonta sul mare, infuocando le nuvole.

Solo quando il sole scompare oltre la linea dell’orizzonte, rompe il silenzio:

- Fu il duca Denis a battermi vicino ad Ashqelon. A Ferdinando piacevo e lui… anche lui mi piaceva. Il duca mi lasciò scegliere e andai con lui. Fu il primo a prendermi e siamo stati insieme dieci anni.

Adham respira a fondo. Guarda le nuvole rossastre all’orizzonte, che si riflettono sul mare. Poi riprende:

- L’ho amato, profondamente. Non avevo mai amato. Quando divenne brigante, lo seguii, ma… non era una vita per me. Sono un guerriero. Non m’importa di morire in battaglia, ma non posso fare il brigante. Sono venuto via. Mi sono presentato all’emiro ‘Izz, che mi ha accolto tra i suoi uomini. Gli ho raccontato tutto.

Ubayd tace, in attesa che Adham aggiunga qualche cosa, ma il nero ha finito.

- Grazie per avermelo raccontato. Forse l’ostilità di Barbath dipende proprio dal tuo legame con Ferdinando.

- Sì, lo credo anch’io, ma non ne capisco il senso. Comunque non ha importanza.

Ubayd chiede:

- Lo ami ancora?

Si pente subito della domanda, che gli appare indiscreta. Ma Adham risponde subito:

- No. Mi sono staccato da lui, anche se continuo a volergli bene. E forse mi sono innamorato di nuovo.

Adham ride e aggiunge:

- Sono ridicolo, vero? Il prode guerriero che parla d’amore.

Ubayd scuote la testa.

- L’amore non è mai ridicolo. Amo anch’io e tutto ciò che ho fatto, l’ho fatto per ritrovare l’uomo che amavo. Non l’ho mai detto a nessuno, Adham. Tu non conosci la mia storia.

- No, mi hanno solo detto che sei stato adottato da una famiglia… di Amman, forse?

Ubayd annuisce.

- La famiglia viveva a Jabal al-Jadid, ma ci trasferimmo ad Amman poco dopo che io fui adottato.

C’è di nuovo una pausa, poi Ubayd racconta:

- Mi chiamavo Jean e vivevo in un villaggio dell’Arram. Se sei stato a lungo con Ferdinando, lo conosci, ai piedi del castello San Michele.

- Sì, certo… ma vuoi dire… che eri cristiano?

- Sì. Ero un cristiano. Guillaume di Hautlieu accettò di prendermi al castello, perché io diventassi un soldato: lo fece perché altrimenti sarei dovuto partire per la valle del Nahr, a soddisfare le voglie dell’intendente che controllava il lavoro di raccolta delle olive. Ma poi Guillaume dovette partire, per Ashqelon. E mentre tu venivi catturato, io venivo stuprato dall’intendente: Jorge da Toledo mi aveva violentato e poi sbattuto fuori. Gli hashishiyya ci catturarono tutti. Io finii nelle mani di un mercante cristiano, un figlio di puttana, che mi prese come schiavo di piacere. Sono stato anche questo, Adham. Ad Afrin, dove viveva il mercante, cercai di fuggire, ma il vescovo mi fece riconsegnare al mercante, che per punirmi decise di rivendermi.

- Un mercante cristiano! Davvero un figlio di puttana!

Ubayd annuisce.

- Sì. Acquistò un ragazzino, dovrei dire piuttosto un bambino, Rabi si chiamava, che avrebbe dovuto prendere il mio posto. Lui si rifiutava e allora il mercante incominciò a strangolarlo. Io lo uccisi e fuggii insieme a Rabi. La sua famiglia mi adottò. E così, invece di essere sul promontorio, con i franchi, sono qui con te. Rabi è diventato mio fratello e ha combattuto con me. Adesso però non è qui.

- Che storia incredibile! Adesso capisco perché hai voluto distruggere Afrin. E perché hai fatto stuprare e impalare Jorge da Toledo, che se lo meritava, comunque.

- Sì, stuprare, impalare e ricoprire di merda. L’ho odiato con tutto me stesso. Ucciderlo era ciò che desideravo di più al mondo, a parte ritrovare l’uomo che amavo.

Adham è rimasto stupito dalle parole di Ubayd, che gli ha raccontato di aver fatto tutto per ritrovare l’uomo che amava. Il Leone ha fama di assoluta castità e nessuno ha mai pensato che avesse un amante. Tutti invece lo considerano dedito solo alla guerra e alla fede, oltre che al governo di al-Hamra.

Adham chiede:

- L’hai ritrovato?

- Sì, dopo anni, ma l’ho ritrovato. È ad al-Hamra.

Ubayd non dice altro e Adham rispetta la sua scelta di non raccontare. Dice invece:

- Anch’io sono stato adottato, ma la mia non è una storia così avventurosa. Mia madre mi abbandonò e quelli che considero i miei genitori mi trovarono e mi adottarono.

C’è un momento di silenzio. Ormai si sta facendo buio, per cui Ubayd dice:

- È meglio che torniamo.

Si sono raccontati una parte importante delle loro vite. Non tutto, forse in futuro diranno anche ciò che hanno taciuto. Ma ora si sentono più vicini.

Adham torna nella sua tenda. Si stende e pensa a quanto ha detto a Ubayd. È vero che non ama più Ferdinando? È vero che forse ama Waahid? Non sa che cosa prova davvero.

Di giorno gli capita di pensare a Waahid, ma il pensiero va più spesso a Ferdinando. E la notte è solo Ferdinando a tornare nei suoi sogni. Non è strano: è stato il suo compagno per dieci anni. Ma è solo il passato che non vuole svanire?

Adham ci pensa spesso e ora che combatte per il suo signore, che non sente più la vergogna di essere un brigante, ora si rende conto che quell’amore non è spento.

Con il passare delle settimane Adham vive una condizione di disagio crescente. Si accorge che gli altri comandanti hanno scarsa considerazione di lui, benché in battaglia dimostri sempre intelligenza e valore: la sua colpa è quella di essere un nero. Anche prima di essere catturato vicino ad Ashqelon Adham si era spesso sentito poco considerato a causa del colore della sua pelle, ma qui la situazione è peggiore: mentre i contingenti egiziani avevano più spesso a che fare con neri e c’erano diversi soldati con la pelle più scura, per i turchi e gli arabi siriani i neri sono solo schiavi, spesso eunuchi. L’atteggiamento negativo di Barbath nei confronti di Adham non è sfuggito a nessuno e molti lo hanno fatto proprio.

L’unico con cui Adham può confidarsi è Ubayd, ma l’amico non può negare ciò che vede: coglie perfettamente la diffidenza, se non l’aperto disprezzo, nei confronti del bel nero e non sa come contrastarla.

E mentre si richiude in se stesso, Adham avverte sempre più forte la sofferenza per la separazione da Ferdinando e l’immagine di Waahid sembra svanire nella nebbia. Gli sembra doveroso chiarire la situazione con il pittore: al momento di partire gli ha detto che sarebbe tornato e che avrebbero ripreso la loro relazione. Adham non sa che cosa farà quando questa guerra sarà finita, se sarà ancora vivo, ma non tornerà da Waahid. Gli scrive perciò una lettera in cui, ringraziandolo per tutti i momenti belli che gli ha regalato, gli dice anche che considera il loro rapporto un capitolo chiuso. Spera di non farlo soffrire.

Waahid non soffre: qualcun altro ha scacciato il bel nero dal suo cuore.

 

Nelle settimane seguenti i cristiani rinforzano le difese del loro accampamento, costruendo un grande fossato e un bastione. La vita dei franchi rimane però molto difficile: i soldati sono decimati dalle malattie e dagli attacchi e solo il continuo arrivo di navi e truppe dall’Europa permette ai cristiani di resistere alla pressione delle truppe turche.

Nonostante i rinforzi l’esercito non riesce a conquistare Acri: gli attacchi lanciati contro le mura della città non ottengono nessun risultato rilevante. Costringere gli abitanti alla resa per fame appare difficile, perché Salah ad-Din riesce a inviare rifornimenti: una squadra di cinquanta galee, cariche di uomini, viveri e armi, raggiunge Acri e riesce a mettere in fuga le navi dei franchi. I musulmani catturano anche una galea cristiana, carica di viveri, che viene portata in città. Il giorno della festa d’Ognissanti tutti i marinai della galea vengono impiccati lungo la cinta muraria: un macabro spettacolo offerto alle truppe cristiane, costrette ad assistere impotenti.

 

Nell’inverno si crea una situazione di stallo. Per i due schieramenti si apre un periodo in cui la guerra non si interrompe mai completamente, ma gli scontri diventano meno frequenti e coinvolgono meno guerrieri. I turchi cercano in continuazione di danneggiare le opere di fortificazione dell’accampamento cristiano e i cristiani li respingono, ma non ci sono più grandi battaglie.

Per molti questa pausa è una benedizione. Diversi contingenti saraceni si allontanano per tornare ai propri territori: l’esercito di Salah ad-Din è composto in gran parte da truppe non regolari, che i singoli sceicchi o emiri ritirano nei mesi invernali. Il sultano della Siria e dell’Egitto non è un sovrano assoluto, come non lo sono in questo periodo i re europei, e non può imporre una cieca obbedienza. Queste truppe torneranno a primavera, quando la guerra riprenderà con forza e ci saranno maggiori possibilità di procurarsi un bottino.

 

Nei periodi di relativa tranquillità signori musulmani e cristiani entrano spesso in contatto. Vengono inviati messaggeri per trattare lo scambio di alcuni prigionieri o richiederne il riscatto o per trovare un accordo su un problema che interessa entrambe le parti. Accanto a queste ambasciate, ci sono anche contatti personali: i signori musulmani e quelli cristiani presenti da tempo sul territorio spesso si conoscono da anni. Ci sono persino alcuni inviti a cena e duelli organizzati come spettacolo.

Come racconta Imad ad-Din, segretario di Salah ad-Din, qualche signore musulmano approfitta anche dell’arrivo di trecento belle donne franche, adorne di lor giovinezza e beltà, raccoltesi d'oltremare e offertesi a commetter peccato. Costoro si erano espatriate per aiutare gli espatriati, e accinte a render felici gli sciagurati, e sostenute a vicenda per dar sostegno e appoggio, e ardevano di brama per il congresso e l'unione carnale.

Erano tutte fornicatrici sfrenate, superbe e beffarde, che prendevano e davano, sode in carne e peccatrici, cantatrici e civettuole,  uscenti in pubblico e superbe, focose e infiammate, tinte e pinte, desiderabili e appetibili, squisite e leggiadre, che… consolavano e puttaneggiavano; seducenti e languide, desiderate e desideranti, svagate e svaganti, versatili e navigate, adolescenti inebriate, amorose e facenti di sé mercato, intraprendenti e ardenti, amanti e appassionate...

Giunsero costoro avendo consacrato come in opera pia le loro persone, e offerto e prostituito le più caste e preziose tra loro. Dissero che mettendosi in viaggio avevano inteso consacrare i lor vezzi, che non intendevano rifiutarsi agli scapoli, e che ritenevano non potersi rendere a Dio accette con sacrificio migliore di questo…

Gli uomini del nostro esercito udirono di quella storia, e si stupirono di come coloro potessero fare opera pia abbandonando ogni ritegno e pudore. Pure, un certo numero di mamelucchi stolti e sciagurati ignoranti evase sotto il serio pungolo della passione, e seguì quei dell'errore: e chi si adattò a comprare il piacere con l'avvilimento, e chi si pentì del suo fallo e trovò con astuzie la via di tornare indietro.

 

Molti approfittano dell’inverno per tornare alle loro case. Ishan e due dei fratelli lasciano il campo: si ripresenteranno a primavera, ma ora Mahmud e Yilmaz desiderano ritrovare le mogli, Ishan vuole rimanere un po’ con Riccardo. Solo Sarajil rimane con un piccolo contingente di truppe; a primavera sarà lui a tornare a casa. Anche Hashim vorrebbe rientrare a Damasco, ma non spetta a lui deciderlo: è al servizio del sultano, che non sembra intenzionato a rimandarlo a casa, come ha invece fatto con altri uomini. Dopo l’asta in cui Nando è stato venduto, Zeyd ha nuovamente scritto, dicendo di essere perfettamente guarito e esprimendo la sua speranza di essere presto richiamato a combattere. Salah ad-Din gli ha fatto scrivere una lettera in cui i molti elogi addolcivano la risposta negativa: Zeyd svolge troppo bene il suo lavoro, è più utile a Damasco, dove tutte le persone oneste tessono le sue lodi.

Gli unici per cui la ridotta attività invernale è un tormento sono Barbath e Adham.

Il comandante dell’esercito sprofonda nuovamente nelle sue ossessioni. Il pensiero ritorna in continuazione a Ferdinando. Barbath non sospetta che in questi giorni il bandito si sta servendo del nipote per giocare con la morte, nella speranza che il gioco sfugga di mano e le mani stringano fino a concludere.

Muovendosi per il campo per controllare che tutto sia a posto, Barbath ha spesso occasione di incontrare Adham. Il bel nero esegue i suoi compiti con cura e in battaglia dimostra un grande valore, ma Barbath continua a provare nei suoi confronti una rabbia sorda.

Un giorno, al momento in cui si incrociano, Barbath si ferma e gli chiede, a bruciapelo:

- Perché hai lasciato Ferdinando?

Adham ha già spiegato, a Jabal al-Jadid, i motivi della sua scelta, ma non gli spiace che Barbath gli si rivolga direttamente per chiederglieli di nuovo: spera di potergli parlare con calma e ridurre l’avversione che il comandante prova nei suoi confronti.

- Barbath, io sono un guerriero. Ho combattuto lealmente agli ordini del nostro signore, che Iddio lo protegga. Fui catturato vicino ad Ashqelon. Il duca Denis in persona mi fece cadere la spada e mi colpì alla testa, facendomi perdere i sensi. Divenni suo schiavo. Piacqui a Ferdinando. Sono diventato il suo uomo, come sai, e con lui sono vissuto per oltre dieci anni, ma quando ha perso la contea e si è trasferito a Qasr al-Hashim, mi sono trovato a essere il compagno di un brigante. Non è una vita che faccia per me.

Barbath annuisce. Non sa che cosa dire. Non sa neppure perché ha fermato Adham e gli ha parlato.

- Quando questa guerra sarà finita, andrò a stanare Ferdinando.

Adham guarda Barbath e la domanda gli sale alle labbra:

- Perché lo odi tanto? So che ti ha salvato la vita, quando volevano ucciderti.

Barbath non si aspettava questa domanda e non saprebbe rispondere. Bofonchia:

- È un brigante.

- Lo è diventato, ma è stato un valoroso guerriero.

Barbath scuote la testa, con forza. Non sa che cosa dire. Fissa Adham e gli dice:

- Tu lo amavi?

La frase è detta con forza, quasi un insulto. Adham non abbassa gli occhi:

- Sì, profondamente. E credo di amarlo ancora.

Non sa perché ha aggiunto la seconda frase. È la verità, se n’è accorto. È affezionato a Waahid, ma si è reso conto che il pittore è stato solo un diversivo. Ora sa di amare ancora Ferdinando. La lontananza da Waahid e dal brigante gli ha fatto capire, senza possibilità di dubbio, quali sono i suoi sentimenti.

- Perché non lo raggiungi, allora?

L’atteggiamento e le parole di Barbath irritano Adham. Ha cercato un dialogo aperto, ma questo continuo provocare lo infastidisce.

- Barbath, sto servendo il nostro signore lealmente. Non mi sono mai tirato indietro e ho sempre svolto i compiti che mi sono stati assegnati. Ho rischiato la vita senza esitare e non credo che né tu, né nessun altro mi possiate rimproverare nulla. Se ho commesso qualche mancanza, dimmi di che cosa si tratta.

Sul viso di Barbath compare una smorfia.

- No, nessuna mancanza. Sei un guerriero leale e coraggioso, lo so.

- E allora, che cosa mi rimproveri?

Barbath non sa che cosa dire. Esita un momento, poi dice:

- Vieni nella mia tenda.

Si volta e si dirige verso l’area dell’accampamento dove risiede. Non sa perché ha detto al nero di seguirlo, non sa che cosa gli dirà. Adham gli va dietro. Si aspetta una spiegazione e non gli spiace che si faccia infine chiarezza. 

Giunti nella tenda, Barbath congeda il servitore e si accomoda.

- Siediti, Adham.

Adham esegue. Si guardano, in silenzio. Barbath vorrebbe dire al nero di andarsene, ma sarebbe un’offesa gratuita.

- Ho giurato di castrare e uccidere Ferdinando.

- Lo so, ero presente quando gli hai ricordato la tua promessa. Anche se non ne capisco i motivi.

- Mi aveva stuprato, in cella.

- Sì, ma ti aveva anche salvato la vita. Direi che in qualche modo la bilancia pende ancora a suo favore.

Barbath ha un ghigno. Sa benissimo che Adham ha ragione, ma non ci sono motivi razionali: c’è solo un germe di follia. Ne è cosciente, ma per quanto capisca che il suo odio per Ferdinando è del tutto irrazionale, non è qualche cosa che possa controllare.

Chiede, a bruciapelo:

- Ti piaceva quando ti fotteva?

Adham si irrigidisce.

- Barbath, sei il comandante. Questo però non ti dà il diritto…

Non completa la frase. Il senso è chiaro a entrambi. Barbath si morde un labbro. Dovrebbe chiedere scusa e congedare Adham, ma dice:

- Non è mia intenzione offenderti. Diciamo che… sono curioso di conoscere meglio Ferdinando. Abbiamo scopato insieme, noi tre. Non dovrebbe essere un problema parlarne, no?

Adham non sa bene che dire. Si sente a disagio, anche se il tono di Barbath è cambiato.

- Barbath, che cosa vuoi da me?

Barbath riflette un attimo. Poi dice:

- Che tu mi parli di Ferdinando. Sei stato il suo uomo per oltre dieci anni.

Adham annuisce. Non è sicuro che abbia un senso accontentare la richiesta di Barbath, ma decide di farlo, nella speranza di mettere fine all’ostilità che avverte. Incomincia a raccontare.

- Credo che tu sappia già quello che potrei dirti. Ferdinando non è un uomo che si nasconde, non ha segreti. È un guerriero valoroso, che non ha paura. Il suo corpo porta i segni delle battaglie che ha combattuto. E anche delle cacce, perché affronta prede pericolose con lo stesso slancio con cui si getta nello scontro. Ha le cicatrici di due ferite procurategli da cinghiali. Ama mangiare, bere e scopare. È uno stallone formidabile, capace ancora adesso di venire due, tre volte in un giorno. Ed è dotato come non ho mai visto nessun maschio in tutta la mia vita. Ma lo sai anche tu.

- Sì, ma dimmi, voglio sapere tutto.

Adham non sa che cosa Barbath voglia sapere e non riesce a capire i motivi di queste richieste, ma procede:

- Scopa con qualsiasi maschio disponibile. E anche con quelli non disponibili, se può imporsi. Non ama offrirsi, anche se qualche volta lo fa, almeno con me lo faceva. Gli piace tutto e non si pone limiti.

- Glielo hai messo in culo?

Adham è a disagio. Reagisce rispondendo nervosamente.

- Sì. E lo hai fatto anche tu. E io l’ho fatto con te. Lo sappiamo entrambi benissimo. Che senso ha tutto questo?

Barbath abbassa il capo. Poi lo rialza e fissa il nero negli occhi.

- Mi prenderesti, Adham?

Adham è rimasto senza parole. L’idea che Barbath desideri farsi prendere lo sbalordisce: sa che ogni giorno scopa con qualche giovane soldato e di sicuro è lui a inculare. È questo il motivo per cui è così ostile nei suoi confronti? Non gli sembra probabile.

Barbath insiste:

- Allora, me lo metteresti in culo, Adham, come qualche volta hai fatto con Ferdinando, come lui ha fatto con me?

- Se lo desideri…

Barbath si alza e si spoglia. Adham ammira questo corpo forte, quest’uomo che non è certo bello, ma è un maschio non meno virile di Ferdinando. Adham sente il desiderio accendersi.

Si alza e si toglie gli abiti. Ora sono l’uno di fronte all’altro, nudi, silenziosi. Barbath lo fissa, poi prende due cuscini e si mette a quattro zampe.

Adham gli poggia le mani sul culo, preme, spingendo le natiche verso l’esterno e osserva l’apertura. Lascia colare un po’ di saliva e la sparge, mentre sente che il cazzo gli si tende. Si inumidisce bene la cappella e spinge dentro il cazzo. Si accorge che la carne cede a fatica e ha una conferma che di rado il comandante si offre.

Sentendo il cazzo che si fa strada dentro di lui, Barbath chiude gli occhi. L’uomo di Ferdinando lo sta inculando. Gli si è offerto. Ha dentro il culo il cazzo che ha fottuto Ferdinando.

Adham spinge ancora, fino a che il cazzo non è tutto ben dentro e i coglioni battono contro il culo. Poi prende a spingere. Ora Barbath pensa che è Ferdinando a fotterlo e sente il piacere crescere dentro di lui, nonostante le spinte siano a tratti dolorose. Avverte che il cazzo gli si sta irrigidendo. Adham spinge in avanti e si ritrae, affondando ogni volta il cazzo. Barbath geme.

Il nero va avanti a lungo, molto a lungo. Barbath fluttua in un vuoto. Ferdinando lo sta fottendo, come lo ha fottuto sulla Sella, come quella prima volta nel palazzo dell’Arram.

Quando infine Adham viene, anche Barbath sente il piacere debordare e il seme proiettarsi fuori con forza. Si abbandona sui cuscini, mormorando:

- Merda!

Adham si ritrae.

Barbath vorrebbe dirgli di prendere la sua spada e di infilargliela in culo: se il nero fosse disposto a farlo, glielo chiederebbe davvero, ma per quanto sia folle, è abbastanza lucido da sapere che Adham non lo farebbe mai. Allora dice:

- Vattene, Adham.

Adham si riveste e si allontana. È confuso, non sa che cosa pensare. Non riesce a dare una spiegazione razionale del comportamento del comandante. Non capisce che nella mente di Barbath la ragione soccombe spesso ai fantasmi.

 

Nei giorni seguenti Barbath evita il più possibile Adham. Il nero se ne rende conto e a sua volta cerca tenersi lontano. Anche lui vive un profondo disagio. Ora che si combatte di meno, avverte ancora di più l’ostilità degli altri comandanti. E, come per Barbath, il pensiero va sempre più spesso a Ferdinando. Si rende conto di amarlo, profondamente, e a tratti si chiede se non andarsene e tornare a Jibrin, per morire con l’uomo che ama.

 

Si tiene una riunione dei comandanti. Barbath propone di lanciare un assalto contro l’accampamento cristiano, con una manovra diversiva: un contingente attaccherà in un punto, mentre il grosso dell’esercito rimarrà nascosto. I franchi concentreranno le loro forze dove si sentiranno minacciati e sicuramente, riuscendo a respingere gli attaccanti, li inseguiranno oltre le barriere difensive per ucciderli tutti, forti della loro superiorità numerica. A quel punto l’esercito turco potrebbe attaccare e sterminare i franchi. Barbath conclude:

- Adham potrebbe guidare il contingente che attacca, mentre tutti noi potremmo disporci in posizione.

I comandanti annuiscono. Fino a ora sono state condotte molte azioni di disturbo, con arcieri che tempestano i difensori e talvolta alcune truppe franche sono uscite dall’accampamento per allontanare gli attaccanti. In questo caso però non si tratta di bersagliare con frecce i cristiani, ma di far pensare a un vero e proprio tentativo di entrare nel campo nemico con un piccolo contingente. I franchi crederebbero a un assalto? Non sembra molto probabile: è difficile che un attacco diretto al campo venga lanciato da poche truppe, perché quasi sicuramente gli attaccanti verrebbero uccisi tutti senza riuscire a superare le barriere difensive e se invece, magari per effetto della sorpresa, alcuni riuscissero a passare, verrebbero massacrati appena entrati nel campo. E anche se i franchi si lasciassero ingannare, si lancerebbero davvero all’inseguimento degli attaccanti superstiti messi in fuga?

Non è un buon piano e si tratta chiaramente di una missione suicida, ma, visto che la propone Barbath e che l’uomo da sacrificare è Adham, nessuno si oppone.

Adham legge nel piano di Barbath una condanna a morte. Non gli importa di morire, per cui dice:

- Per me va bene.

Vede Barbath sorridere.

Interviene Ubayd:

- Non credo che otterremmo nessun risultato. Un piccolo contingente verrebbe facilmente respinto e anche se alcuni cristiani uscissero per uccidere i sopravvissuti, non sarebbe certo tutto l’esercito. Non otterremmo nulla mandando a morte Adham e gli altri.

Mentre lo dice fissa Barbath, il quale però devia lo sguardo.

Salah ad-Din interviene:

- Temo che Ubayd abbia ragione. Inutile sacrificare alcuni uomini. E comunque non è il caso di scatenare una grande battaglia ora, quando molti dei nostri non ci sono.

Le parole del sultano chiudono la discussione. Nessuno ci pensa più, ma Adham sa che Barbath desidera la sua morte.

 

*

 

A primavera Salah ad-Din riceve rinforzi dalla Siria e dall’Egitto e vuole servirsene per scacciare i franchi e rompere l’assedio di Akka prima che arrivino altre truppe cristiane dall’Europa: l’imperatore germanico Federico I Barbarossa sta giungendo da nord, via terra, e riesce a procedere mantenendo compatto il suo formidabile esercito; è anche giunta notizia che i re di Francia e d’Inghilterra stano raccogliendo truppe.

I franchi hanno ripreso gli sforzi per conquistare Acri e per questo hanno allestito tre grandi torri di assedio, con cui sferrano un attacco alla città assediata. Di fronte a questa minaccia Salah ad-Din decide di attaccare subito il campo dei franchi, per scongiurare il rischio che la città venga espugnata. Si apre una settimana di feroci combattimenti, su due fronti: sotto le mura, con i franchi all’attacco e la guarnigione della città sulla difensiva; attorno al campo cristiano, con i turchi che attaccano e i franchi che cercano di respingerli.

A guidare i guerrieri che cercano di espugnare Acri si alternano diversi cavalieri, mentre altri si occupano della difesa dell’accampamento.

Per conquistare la città occorre avvicinare alle mura le torri di assalto, che permettono di raggiungere il cammino di ronda ed entrare così in città. Gli assediati mirano a distruggere le torri a ogni costo, perché costituiscono la minaccia più grave: bersagliano perciò gli attaccanti con frecce e altri proiettili e quando riescono a raggiungere le mura, con olio e acqua bollenti. Frecce incendiarie sono lanciate contro le torri, perché prendano fuoco: per questo motivo i franchi le proteggono con stracci bagnati.

Un giorno, mentre le truppe all’assalto sono guidate da Gilles di Monségur e dal giovane Philippe di Soissons, che per un breve periodo ha retto San Giacomo d’Afrin, i cristiani riescono infine ad appoggiare una delle torri contro le mura e si accende una feroce battaglia tra la guarnigione della città e gli attaccanti. In cima alla torre Philippe e Gilles uccidono numerosi difensori e saltano sulle mura. Alcuni soldati li seguono, ma in quel momento un proiettile incendiario colpisce la torre, che prende fuoco.

Gilles si rende conto della situazione: più nessuno potrà salire e dar loro man forte, per cui saranno facilmente sopraffatti.

- La torre brucia. Dobbiamo scendere, presto.

I soldati cristiani che stavano mettendo piede sulle mura ritornano immediatamente indietro, scendendo in fretta per raggiungere la terra prima che l’intera struttura arda. Philippe invece non vorrebbe rinunciare, anche se comprende che ormai l’attacco è fallito: gli sembra una beffa doversi ritirare proprio ora che è riuscito a mettere piede sulle mura della città che vogliono espugnare.

Gilles lo prende per un braccio.

- Saltate! Subito!

Philippe obbedisce: salta in cima alla torre e Gilles lo segue. Scendono fino a raggiungere la parte che sta bruciando. Il fumo impedisce di vedere.

- Saltate, saltate!

Gilles salta e Philippe lo segue: non possono vedere dove finiscono, ma devono sfuggire alle fiamme. Gilles tocca il suolo e rotola, rialzandosi senza problemi. Philippe mette malamente un piede e si rialza a fatica. Gilles lo aiuta ad allontanarsi, mentre dalle mura i saraceni tempestano gli attaccanti di frecce. Il fumo però impedisce anche ai difensori di vedere e i due cavalieri riescono ad allontanarsi. Gilles affida Philippe a un soldato e torna a combattere.

La torre ormai è un grande braciere e non c’è modo di spegnere l’incendio. Nei giorni seguenti gli arabi riescono a distruggere anche le altre due torri con il fuoco greco: per i franchi è uno smacco, perché non c’è altro modo di salire sulle mura.

La situazione della città assediata rimane comunque difficile: la guarnigione è stremata dai continui attacchi ed è a corto di viveri. C’è il rischio concreto che la fame costringa alla resa e molti vorrebbero trattare. Solo l’arrivo di un’altra flottiglia di rifornimento riaccende la speranza.

Ora che la minaccia è stata almeno provvisoriamente allontanata dalla città, Salah ad-Din dà inizio a una serie di scorribande contro le posizioni cristiane. Vuole saggiarne le forze e provocare il nemico, sperando di giungere a una battaglia decisiva. I  continui assalti fiaccano il morale dei franchi, già amareggiati dal fallimento dell’attacco ad Acri. Molti sono scoraggiati da questo assedio che si trascina da quasi un anno.

All’inizio dell’estate Salah ad-Din riceve un’ottima notizia: l’imperatore germanico è morto nel fiume Salef  e il grande esercito che aveva radunato si è sbandato. Le truppe che arriveranno nell’autunno ad Acri, sotto la guida di Federico di Svevia, figlio di Federico Barbarossa, saranno un misero resto della formidabile macchina da guerra che l’imperatore aveva guidato attraverso i domini turchi fino ai confini di quelli cristiani.

Salah ad-Din aumenta la frequenza degli attacchi, per esasperare i cristiani e costringerli a uscire allo scoperto: sa di non essere in grado di espugnare l’accampamento cristiano, come i franchi non sono in grado di conquistare Acri, ma in una battaglia in campo aperto i turchi possono avere la meglio. Il patriarca di Gerusalemme e i comandanti vogliono evitare uno scontro diretto, ben sapendo di rischiare una sconfitta disastrosa: danno perciò ordine di non reagire ai continui attacchi e di limitarsi alla difesa dell’accampamento.

Infine le scorribande dei saraceni ottengono l’effetto voluto: i cavalieri franchi, esasperati da un assedio senza fine e dalle privazioni nel campo accerchiato, sfuggono completamente al controllo dei loro comandanti e si lanciano all’assalto.

L’esercito turco, disposto strategicamente e guidato da condottieri esperti, ha facilmente la meglio sui cavalieri franchi, che si muovono senza un piano, in un attacco disordinato e perciò poco efficace. Le truppe musulmane reggono facilmente l’urto della cavalleria, i franchi si sbandano e la battaglia si trasforma in un immenso macello.

Gilles di Monségur e il cugino Robert sono intervenuti con i comandanti per cercare di limitare i danni e proteggere la disordinata ritirata dei compagni. Combattono sempre insieme, ma nel caos della battaglia rimangono separati.

Gilles si trova ad affrontare Hashim, comandante della guarnigione di Damasco, un guerriero esperto e valoroso, che lo impegna al massimo delle sue forze. Hashim attacca, costringendo Gilles ad arretrare. Un uomo dello sceicco si avvicina di lato e cerca di colpire Gilles mentre questi si sta difendendo da Hashim. Gilles se ne accorge e lo colpisce al petto con la spada. Hashim ne approfitta per scagliarsi su di lui, mentre la spada di Gilles è ancora infilata nel guerriero agonizzante. Gilles riesce a scansare il corpo, girandosi e portando con sé anche il moribondo: la spada di Hashim si abbatte sul suo guerriero, finendolo.

Gilles riesce a ritrarre la spada, ma il corpo che gli cade addosso lo fa scivolare a terra. Mentre è al suolo Hashim solleva la sua arma e fa per calargliela sul capo, ma Gilles alza la spada e la infila nel basso ventre dello sceicco, con tanta forza che la punta esce dalla schiena. Gli occhi di Hashim si dilatano in un orrore senza fine. Barcolla, mentre Gilles si rialza ed estrae la spada. Hashim crolla su Gilles, che nuovamente lo colpisce, questa volta al petto. L’ufficiale scivola a terra, morto.

Gilles si guarda intorno. Non vede più Robert e nel caos intorno a lui non può certo mettersi a cercarlo: deve difendersi da nuovi attacchi.

Robert non è più tra coloro che combattono. In uno scontro violento è dovuto arretrare ed è caduto a terra. La spada gli è sfuggita di mano e la sua sorte sarebbe stata segnata, se non fosse intervenuto Ubayd. Il Leone si è rivolto al guerriero che stava per calare la spada sul cavaliere franco e gli ha detto:

- Fermati! Questo bel giovane è un prigioniero prezioso.

Robert è stato legato e portato via.

 

Gilles scopre la verità solo quando ormai è al campo e con altri sorveglia le difese, per respingere i saltuari attacchi dei saraceni, imbaldanziti dal successo. Non ha più visto il cugino e teme che sia stato ucciso. Chiede notizie di lui, ma nessuno sembra saperne nulla.

Gilles è sempre più angosciato. A un certo punto gli si avvicina un soldato.

- Gilles di Monségur, sapete che vostro cugino è stato catturato?

Gilles non riesce a parlare. Scuote la testa in un cenno di diniego.

- È caduto a terra e stavano per ucciderlo, ma uno dei comandanti, quello che chiamano il Leone, ha fermato il guerriero e lo ha fatto portare via.

Gilles trova la voce per chiedere:

- Era ferito?

- No.

- Quanto tempo fa è successo?

- Parecchio. Stavamo appena incominciando a ritirarci.

Gilles è annichilito. Se Robert fosse stato catturato da poco, si lancerebbe in campo aperto, nella speranza di riuscire a liberarlo. Sa che sarebbe un suicidio, ma la morte gli sembra preferibile all’idea di vivere senza l’uomo che ama. Lasciare il campo sarebbe comunque del tutto inutile: la battaglia in campo aperto si è conclusa e il cugino ormai è stato portato via. Non c’è modo di ritrovarlo.

 

La sera porta una tregua. I saraceni rinunciano ad attaccare ancora. I franchi, trincerati nel loro accampamento, misurano l’entità della sconfitta: migliaia e migliaia di cristiani giacciono morti sul campo di battaglia. I comandanti sono furiosi e rimproverano duramente i cavalieri che si sono lanciati all’attacco.

Gilles non dice nulla: ha ben altri pensieri per la testa. Chi lo conosce si stupisce di vederlo con lo sguardo fisso nel vuoto, insensibile a ciò che accade intorno a lui. La notte si stende nella tenda, ma non riesce a chiudere occhio.

 

 

Salah ad-Din è contento di questa nuova vittoria e vede ormai vicina la definitiva sconfitta dei franchi. Si prende qualche giorno perché i suoi uomini possano riposare e ritemprare le forze, prima dell’attacco finale, quello che rigetterà i franchi a mare e libererà Akka dall’assedio.

I cadaveri dei musulmani uccisi vengono raccolti e sepolti. L’unico comandante caduto è Hashim. Salah ad-Din scopre la sua morte e passa a rendergli omaggio nella tenda dove il lavatore di cadaveri sta svolgendo il suo lavoro. Il corpo è nudo e il sultano può vedere le due ferite. Il primo colpo ha reciso quasi completamente i genitali. Salah ad-Din scuote la testa.

- Eri un guerriero coraggioso, Hashim, ma Iddio ti ha punito per i tuoi peccati. Sei morto combattendo per la vera fede: spero che Egli ti perdoni e che tu non arda nel fuoco della geenna.

Il sultano si dice che provvederà a nominare Zeyd comandante della guarnigione di Damasco: la giusta ricompensa per un servitore fedele, che si è dimostrato all’altezza del compito.

Dopo un giro per il campo, torna nella sua tenda. Un soldato chiede di parlargli: è l’uomo che ha catturato Robert. Non sa che fare del prigioniero e lo dona al sultano, ben sapendo che ne riceverà una ricompensa: Salah ad-Din è un signore generoso.

Salah ad–Din accetta il dono, contraccambiandolo come il guerriero si aspettava. Il giovane prigioniero è bellissimo e il sultano si chiede che uso farne. Pensa a Barbath: conosce i gusti del suo braccio destro, che è uomo troppo schietto per nascondersi. Pensa che forse il comandante potrebbe apprezzare questo splendido cristiano e distrarsi dai pensieri che a tratti sembrano roderlo.

Robert viene perciò condotto nella tenda di Barbath, come dono da parte del sultano.

 

La sera Barbath lo fa chiamare. Robert ha intuito che cosa lo aspetta, perché lo hanno fatto lavare accuratamente, mettendogli addosso solo una tunica. Gli hanno però legato le mani dietro la schiena, per prudenza.

Il comandante gli sorride e gli dice qualche cosa, che Robert non capisce: di arabo sa poco. Gilles gli ha insegnato alcune espressioni, ma non abbastanza per comprendere e farsi comprendere.

Barbath conosce pochissime parole della lingua dei franchi, per cui rinuncia a cercare di comunicare. Si avvicina a Robert e gli posa le mani sui fianchi. Il giovane freme, ma non può sottrarsi.

Barbath passa dietro e gli scioglie la corda: non ha paura che lo schiavo si ribelli, perché sa di essere molto forte ed è sicuro di poterlo dominare. Poi, rimanendo dietro, si avvicina fino a che i loro corpi aderiscono e stringe Robert tra le braccia. Le sue mani percorrono il corpo, dal viso al ventre, titillando i capezzoli, accarezzando, con delicatezza. Poi la destra scende al cazzo e lo stuzzica un po’.

Robert non può sottrarsi, ma vorrebbe almeno che il suo corpo non rispondesse. Queste carezze solleticano il suo desiderio e con rabbia si rende conto che il cazzo gli si sta tendendo. Prova vergogna. Barbath invece è contento: gli piace vedere che il desiderio si risveglia in questo prigioniero.

Barbath accarezza a lungo e Robert può sentire contro il suo culo il cazzo del comandante, caldo e duro. Anche il suo si è irrigidito.

Barbath lo fa stendere sui cuscini, gli appoggia le mani sul culo, divarica le natiche e sputa sull’apertura. Sparge la saliva e sente che la carne cede: questo bel cavaliere biondo deve essere abituato ai giochi dell’amore. Robert trattiene a fatica un gemito. Prova vergogna, gli sembra di essere una puttana, che gode con il primo venuto, ma il suo corpo lo tradisce.

Barbath si stende su di lui, lo accarezza ancora, gli morde un orecchio, facendolo sussultare, e in quel momento spinge la cappella contro l’apertura e la forza. Robert sente il vigoroso cazzo del comandante entrare dentro di lui. Geme e chiude gli occhi.

Barbath è uno stallone eccellente. Fotte a lungo e le sue mani incendiano il corpo di Robert. Quando infine viene, riempiendo del proprio seme il culo del giovane guerriero, gli bastano poche carezze per far venire anche Robert.

Barbath si alza, soddisfatto. Si pulisce e fa riaccompagnare Robert nella tenda dei servitori.

Barbath pensa che questo bello schiavo lo distrarrà dal ricordo di Ferdinando. Ma nella notte il brigante ritorna nei suoi sogni, lo fotte con violenza e Barbath sente il desiderio crescere in lui. Infine Ferdinando viene e lo costringe a pulirgli il cazzo sporco. E mentre sogna di farlo Barbath viene.

 

Nell’accampamento cristiano Gilles sta impazzendo. Robert è stato catturato. Deve ottenerne la liberazione, ma come? Gilles non ha con sé grandi somme. Sarebbe disponibile a vendere tutto quello che possiede in Provenza, ma non è molto, perché ha ereditato solo una parte dei beni materni, essendo il figlio minore. In ogni caso, prima che abbia organizzato la vendita delle sue proprietà e abbia il denaro, passerà parecchio tempo. Nel campo assediato non è certo facile ottenere un prestito: che garanzie può dare un cavaliere che potrebbe essere ucciso domani stesso in battaglia? L’unica soluzione sarebbe uno scambio di prigionieri, ma i franchi sono stati sconfitti e non hanno catturato saraceni.

Gilles si sente un leone in gabbia.

 

Le truppe di Salah ad-Din si preparano a sferrare un’ultima offensiva, destinata a scacciare definitivamente i franchi che assediano Akka e distruggere il loro accampamento. Ma pochi giorni dopo la battaglia, mentre fervono i preparativi per lo scontro finale, arriva una grande flotta al comando del conte di Champagne, Enrico II, uno dei nobili più importanti d’Europa, nipote di Filippo II di Francia e di Enrico II d’Inghilterra. Sono truppe fresche, ben armate, non logorate da un anno di assedio e perciò in grado di rovesciare le sorti dello scontro.

Salah ad-Din sarebbe comunque propenso ad attaccare subito, prima che l’esercito franco abbia il tempo di organizzarsi, perché è convinto di poter ottenere la vittoria. A mutare i suoi propositi è un’altra notizia che si diffonde il giorno dopo l’arrivo dei guerrieri franchi: insieme al conte di Champagne è giunto il Cane dagli occhi azzurri, Denis d’Aguilard. È stato il re di Francia in persona a chiedergli di partire.

Per le truppe di Salah ad-Din è un colpo terribile. Tutti conoscono il Cane dagli occhi azzurri, il guerriero che mai nessuno è riuscito a vincere, che ha sterminato l’immenso esercito del Circasso, che ha sconfitto lo stesso Salah ad-Din vicino ad Ashqelon.

Se la vista della grande flotta guidata dal conte di Champagne ha scoraggiato molti, la notizia che tra i condottieri arrivati c’è il Cane ha un effetto devastante.

Adham non si stupisce. Ricorda un giorno di tredici anni prima, vicino ad Ashqelon. Si era alzato il mattino e aveva colto l’improvviso mutamento d’umore nelle truppe del sovrano: nella città assediata era entrato il duca Denis e i guerrieri, fino a poco prima sicuri della vittoria, avevano perso ogni baldanza. Allora Adham li aveva giudicati vili, ma la battaglia aveva dimostrato il valore del duca.

Nell’accampamento non si parla d’altro. Si racconta l’orribile strage del Passo dei Morti, dove fu annientato l’esercito del Circasso. Coloro che erano presenti ad Ashqelon ricordano la carica della cavalleria cristiana, guidata dal duca, che li aveva travolti. Qualcuno parla anche della vittoria sulle truppe di Ubayd al-Asad davanti ad Afrin: un episodio insignificante, visto che il duca aveva un contingente molto più numeroso, ma che ora viene ricordato come l’unica sconfitta mai subita dagli uomini di Ubayd, sia pure in assenza del loro condottiero.

Il ricordo della grande vittoria di Hattin sembra svanire: a Hattin il duca Denis non c’era.

Adham sa benissimo che tutto ciò è assurdo: la paura che si diffonde rapidissima è ingiustificata. Denis d’Aguilard  è un guerriero valorosissimo, non un demone, come molti sostengono. Ma Adham si rende conto che nessun ragionamento può calmare questo terrore cieco. E un esercito impaurito è un esercito sconfitto ancora prima di combattere.

A Salah ad-Din non sfugge il repentino cambio di umore tra i suoi uomini. Sa che in questa situazione non riuscirà a costringere i franchi a togliere l’assedio ad Akka e preferisce evitare uno scontro il cui esito appare ora alquanto incerto. I suoi guerrieri, già provati dal protrarsi dell’assedio, non sono in grado di affrontare i franchi guidati da Denis d’Aguilard. Decide perciò di ritirare i soldati in una posizione più arretrata.

L’arretramento del campo è una buona notizia per i cristiani, che possono contare su un periodo un po’ più tranquillo, in cui riorganizzarsi.

L’arrivo di Denis d’Aguilard ha avuto sul campo franco un effetto molto positivo. Ha sicuramente destato gelosie in alcuni comandanti, ma ha acceso grandi speranze in tutti i guerrieri che vivono oltremare da almeno qualche anno: sanno quanto i saraceni temano il duca e contano che li porti alla vittoria. L’arretramento del campo musulmano è una conferma del mutato atteggiamento da parte di Salah ad-Din, ora assai meno sicuro del successo.

Il re Guido da Lusignano è diffidente nei confronti di Denis, ma anche lui sa che il suo arrivo è provvidenziale.

Denis ha accettato di unirsi alla spedizione che si preparava. Non mira certo a riconquistare Rougegarde, che sa essere persa per sempre. Non ha voglia di combattere ancora una guerra in cui non crede, ma gli è sembrato di doverlo fare: da questa terra ha avuto tutto e rimanere tranquillo in Francia, ora che qui si lotta per la sopravvivenza stessa dei domini cristiani, gli parrebbe un atto di viltà. In un certo senso la sua partecipazione alla spedizione gli serve per chiudere i conti con il passato. Combatterà, forse morirà, vincerà o sarà sconfitto, ma avrà fatto la sua parte. Poi, se non morirà, tornerà a Bellerivière: quella ormai è la sua casa.

Per partire Denis ha posto una condizione, a cui il re ha acconsentito senza esitare: era una ben piccola cosa per far partecipare alla spedizione il guerriero più temuto dai saraceni.

Il giorno dopo lo sbarco, Denis si presenta dal re di Gerusalemme e gli  consegna una lettera del re Filippo II Augusto. Guido non ha certo motivo per opporsi alla richiesta del re di Francia: è una faccenda che nella situazione attuale è del tutto irrilevante.

 

Accanto a Denis c’è Solomon, come sempre, ma non rimarranno insieme a lungo: Solomon ha un compito da svolgere, legato alla condizione che Denis ha posto per partire, e vuole approfittarne per ritrovare il fratello e alcune persone a cui è molto legato. Denis sa bene che muoversi in questa terra dove la guerra infuria è molto pericoloso. Solomon non è né cristiano, né musulmano. Questo significa che non è un nemico per nessuno e che lo è per tutti.

Solomon sa quel che fa, è un uomo attento e prudente, ma Denis non è contento di sapere che presto partirà per un viaggio pieno di incognite.

 

L’arrivo di Denis d’Aguilard ha riacceso le speranze di Gilles: se i franchi attaccassero l’accampamento di Saladino, forse sarebbe possibile liberare Robert. Ma Guido non ha nessun intenzione di attaccare: la sua priorità ora è la conquista di Acri e l’arretramento del campo saraceno gli lascia una maggiore libertà d’azione.

Gilles non può accettare l’idea che Robert rimanga prigioniero e che magari venga venduto su qualche mercato: non lo rivedrebbe mai più.

Decide di tentare il tutto per tutto. Si veste da arabo e con un lungo giro raggiunge l’accampamento saraceno da dietro, contando su una minore sorveglianza. Dorme nascosto tra i cespugli e il mattino si dirige verso le tende, come se ritornasse dopo essersi allontanato per i propri bisogni.

È una pura follia e Gilles ne è conscio, ma non gli importa di morire.

Gilles ha capelli, barba e baffi neri e la pelle è scurita dai lunghi anni trascorsi oltremare. Può passare per un arabo, ma la sua bellezza lo rende molto visibile e qualcuno potrebbe riconoscerlo. Conosce l’arabo e se deve soltanto ricambiare un saluto, non ha difficoltà, tanto più che nel campo musulmano accanto agli arabi sono numerosi i curdi, i turchi e altri gruppi, per cui c’è un intreccio di lingue. Ma se si trovasse a dover spiegare chi è e da dove viene, verrebbe subito individuato come uno straniero. 

Gilles cammina tra le tende, guardandosi attorno. L’accampamento è immenso: ci sono molte migliaia di uomini e le possibilità di trovare Robert sono praticamente nulle. Un uomo seduto davanti a una tenda lo saluta. Gilles ricambia il saluto e procede, senza fermarsi, anche se l’altro gli grida dietro qualche cosa. Poco oltre un altro uomo lo chiama. Gilles fa finta di non sentire e accelera un po’ il passo. Si rende conto che la sua presenza qui è priva di senso e lo espone a rischi enormi. Anche se scoprisse dove è tenuto prigioniero Robert, non potrebbe certo liberarlo.

Uno scoramento lo assale. Procede ancora un momento, poi cambia direzione, per allontanarsi dal campo, seguendo un percorso diverso.

Riesce a lasciare l’accampamento senza difficoltà. Giunto a una certa distanza, si volta a guardarlo. Si siede e fissa la marea di tende. In una di quelle c’è Robert.

Gilles vorrebbe rimanere seduto ad attendere la morte. Solo verso sera si scuote. Allora si alza e ritorna al campo cristiano.

 

Solomon ha lasciato l’accampamento. Vuole raccogliere alcune informazioni prima di mettersi in viaggio, in modo da non correre rischi inutili. Manca da queste terre da oltre due anni e in due anni di guerra molte sono le cose che cambiano. Alcuni amici gli diranno ciò che gli serve sapere per poter svolgere il suo compito. Non si spinge molto lontano: la sua rete di rapporti copre gran parte del territorio e ovunque ci sono amici o amici di amici, in grado di fornire le informazioni richieste. Non impiega molto tempo per farsi un quadro preciso della situazione e capire come può muoversi.

Al ritorno dal suo breve viaggio decide di passare dal rabbino Yaacov, che conosce da molto tempo e con cui è rimasto sempre in rapporto. Solomon è affascinato da quest’uomo mite e saggio, che gli sembra saper leggere dentro l’anima delle persone.

Yaacov lo ha visto arrivare dalla finestra del suo studio e lo attende sulla porta, sorridente.

- Solomon! Sono felice di vederti. Il tuo arrivo è sempre fonte di gioia per me, lo sai.

- E io sono felice di essere qui, anche se è stata la guerra a portarmi in questa terra.

- Vieni dentro.

Yaacov fa accomodare Solomon nella camera che gli serve da studio: una piccola stanza con un’ampia finestra, da cui la vista spazia fino al mare. Le giornate sono calde, ma la casa ha muri spessi e all’interno c’è una gradevole frescura.

- Qui si sta bene. Mi sembra di essere fuori dal mondo, in un’oasi di pace e serenità.

- Pace e serenità sono dentro di noi, Solomon. Tu le porti con te e ne fai dono agli altri.

Solomon appare alquanto dubbioso.

- Non ne sono così convinto, rabbino. Lascio che la ruota del mondo mi trascini nei suoi giri vorticosi.

Yaacov scuote la testa.

- Sei un uomo d’azione, Solomon, non di meditazione, quella è la strada che Dio ha tracciato per te. Ma dentro di te c’è la pace. Non combatti contro te stesso, come fanno molti, e non combatti neppure contro gli altri, se non sono loro ad attaccare.

 - Questo è vero. E vorrei davvero che ci fosse la pace.

- La pace è un sogno. Gli uomini non sono in pace con se stessi, perché desiderano ciò che non hanno e lo vogliono ottenere. Questo è il mondo, in cui tu hai scelto di muoverti, portando il tuo contributo alla giustizia e perciò anche alla pace.

Solomon annuisce. Ha molta stima del rabbino e gli fa piacere sentire le sue parole di lode.

La conversazione procede: hanno sempre molte cose da dirsi e a ognuno dei due fa piacere parlare con l’altro. Solomon racconta del suo arrivo ad Acri e chiede notizie di Aqsa, che i franchi chiamano Santa Maria in Aqsa, dove viveva Yaacov, prima che i franchi lo scacciassero.

- Aqsa… non rimane più molto di Aqsa. I templari non hanno voluto arrendersi: il loro vero Dio è l’orgoglio. Sono stati massacrati tutti, le loro teste sono state infilzate su pali alla porta orientale e la città è stata in gran parte distrutta. Non credo che si riprenderà. Rimarrà una delle tante città che il tempo ha cancellato, come Afrin.

- Sì, capisco.

Parlano ancora a lungo, ma per Solomon è ormai ora di andare. Al momento di congedarsi, Yaakov chiede:

- E ora, Solomon? Che cosa farai?

- Tornerò all’accampamento cristiano sotto le mura di Akka. Poi mi metterò in viaggio. Ho un compito da svolgere.

- Se torni al campo dei franchi, ti chiedo di cercare un templare, Gilles di Monségur. So che è tra coloro che assediano Akka, se non è stato ucciso o preso prigioniero. È un uomo giusto, come te, che ha a lungo lottato prima di trovare la pace con se stesso.

- Lo cercherò, senz’altro, appena torno. Che cosa gli devo dire?

- Che penso spesso a lui e che spero che possa tornare presto nella sua terra.

- Lo farò. E ora addio, rabbino. Se non verrò ucciso, credo che lascerò di nuovo questa terra e sarà per sempre.

- Solomon, Solomon, solo Iddio sa che cosa è per sempre, ma pregherò per te. Sei un giusto e spero che Iddio protegga la tua vita.

 

La sera del quarto giorno dopo la sua partenza Solomon ritorna all’accampamento dei franchi. Denis è felice di vederlo rientrare sano e salvo. Parlano a lungo del piano che l’ebreo ha formulato e delle mille incognite che potranno presentarsi durante la sua realizzazione.

Il mattino dopo Solomon chiede di Gilles di Monségur e gli indicano la sua tenda. La raggiunge e trova il cavaliere seduto davanti all’ingresso, lo sguardo fisso nel vuoto. Gli si avvicina e fa un leggero inchino.

- Buongiorno, Gilles di Monségur. Voi non mi conoscete. Il mio nome è Chlomo, ma tutti mi chiamano Solomon.

Gilles non capisce che cosa questo ebreo possa volere da lui. Per un attimo pensa che possano averlo inviato i saraceni, per trattare uno scambio di prigionieri, ma è una speranza assurda. Solomon ha capito benissimo la perplessità di Gilles e spiega:

- Vengo a voi da parte del rabbino Yaacov.

Gilles si alza e gli dice:

- Prego, entrate.

Si siedono nella tenda, uno davanti all’altro. Solomon porta i saluti di Yaacov, poi dice:

- Mi ha chiesto di dirvi che pensa spesso a voi e che spera che possiate tornare presto alla vostra terra.

Gilles scuote la testa. Tornare in Provenza, come negli ultimi mesi ha spesso sognato, non ha ormai nessun significato per lui: senza Robert non vuole vivere e di certo cercherà la morte in battaglia. Il dolore al pensiero di Robert è troppo forte perché Gilles riesca in qualche modo a nasconderlo. Si nasconde un attimo il viso con le mani, poi le abbassa e respira a fondo. Risponde:

- Vi ringrazio per avermi portato i saluti del rabbino Yaacov, un uomo di cui ho un’immensa stima.

Solomon ha colto la sofferenza di Gilles, di cui ignora l’origine. Si chiede se in qualche modo può aiutare questo guerriero, che è caro al rabbino. Osserva:

- Non voglio apparire indiscreto, ma vi vedo molto angosciato.

Gilles lo guarda e annuisce. Con un sforzo dice:

- Mio cugino, a cui mi unisce un affetto profondo, è stato catturato dai saraceni qualche giorno fa. Non so come fare per liberarlo.

Scuote la testa e aggiunge, con un sorriso amaro:

- Mi sono persino vestito da arabo e sono entrato nel campo, per cercarlo. Una pura follia, che poteva costarmi la vita…

Gilles sospira e dice ancora:

- … e forse sarebbe stato meglio se mi avessero scoperto. Almeno sarebbe finita.

Solomon prova simpatia per quest’uomo dilaniato dalla sofferenza. Riflette un momento e dice:

- Prigioniero dei saraceni, mi dite. Posso cercare di avere sue notizie.

Gilles solleva il capo e lo fissa, sbalordito.

- E come potreste?

- Ho alcuni amici tra i comandanti e conosco superficialmente diversi di loro. Un capo curdo è mio fratello, non di sangue, ovviamente, ma di adozione. Non starò a spiegarvi come mai, ma di certo mi aiuterà a scoprire che ne è del vostro compagno. Conosco anche lo stesso Barbath, ma non siamo in rapporti di amicizia.

Gilles intravede una speranza.

- Se ci riusciste, se poteste scoprire di chi è prigioniero, capire se è possibile riscattarlo…

- Ci proverò. Vi chiedo di non dire a nessuno di questo mio tentativo: non vorrei che qualcuno, sapendo che mi sono recato nel campo nemico, mi accusasse di essere una spia, che passa ai nemici informazioni.

- Certamente.

Solomon si fa dire il nome del prigioniero. Gilles lo descrive, in modo che l’ebreo sia in grado di riconoscerlo.

- Vi sono infinitamente grato per la vostra disponibilità. Avere sue notizie sarebbe per me un sollievo.

- Lo capisco.

Solomon è convinto di aver capito che legame esiste tra il bel Gilles e questo Robert, che dev’essere anche lui un bell’uomo. In questo rapporto profondo rivede Denis e se stesso e gli farebbe piacere poterli aiutare.

Prima di allontanarsi, avvisa Denis della sua intenzione di recarsi nel campo saraceno. Il duca è alquanto preoccupato, ma non si oppone: sa che quando Solomon ha deciso di fare una cosa, non è possibile fermarlo, se non con la forza.

Due uomini di Denis lo accompagnano fino ai margini del campo, dove Solomon si veste da arabo. Si lascia alle spalle le tende dei cristiani e si dirige direttamente all’accampamento saraceno. Si presenta e dice a una delle sentinelle che vuole parlare con Ishan e i suoi fratelli, se sono presenti. Ishan è ben noto: è un capo coraggioso, che si è in più occasioni distinto nelle battaglie.

In questi giorni al campo ci sono Ishan e Mahmud: gli altri due fratelli sono nella loro casa. Due soldati accompagnano Solomon alla loro tenda. I fratelli gli vanno incontro quando lo vedono arrivare e lo abbracciano, felici di vederlo.

Solomon, Ishan e Mahmud parlano a lungo. Raccontano le loro vite in questi tre anni in cui non si sono visti e parlano degli altri fratelli.

- Stanno bene. Sarajil ha avuto un altro figlio, a cui ha dato nome Solomon: sarà il primo curdo a chiamarsi così.

Il primo figlio di Sarajil porta il nome del nonno, Boran.

- Dovrò offrire un dono a questo bambino con cui condivido il nome.

- Gli hai già regalato la vita: senza di te Sarajil sarebbe morto e il piccolo Solomon non sarebbe mai nato.

Dopo aver avuto notizie dell’altro fratello, Yilmaz, Solomon chiede:

- Che ne è del mio amico Riccardo?

Ishan risponde:

- Ormai puoi chiamarlo fratello. L’ho adottato. Vive con me.

- Ne sono felice e spero che possiate vivere a lungo insieme.

Parlano ancora un po’. Infine Solomon dice:

- Ho bisogno del vostro aiuto.

- Dicci. Qualunque cosa possiamo fare, siamo a tua completa disposizione.

- Cerco un guerriero franco che è stato catturato. Un giovane biondo, con gli occhi azzurri, che pare essere molto bello. Il suo nome è Robert.

Ishan annuisce.

- Sì, è schiavo di Barbath. Salah ad-Din glielo ha donato.

Solomon ha avuto modo di conoscere Barbath, perché questi era al servizio dell’emiro ‘Izz, a cui l’orafo ha spesso fornito gioielli.

- Potete indicarmi la sua tenda?

- Ti accompagneremo.

I due fratelli si alzano, ma in quel momento arriva un soldato. Ishan è desiderato da Salah ad-Din. Si congeda, dicendo:

- Solomon, sarei felice di poterti vedere ancora. So che non è facile e che hai corso dei rischi passando da un accampamento all’altro, ma spero che tu possa tornare da noi.

- Lo farò, se non altro per portare un dono per il figlio di Sarajil e per la figlia di Yilmaz.

Ishan si allontana.

Mahmud guarda Solomon e dice:

- Hai fretta, fratello? È ancora mattina.

- No, perché me lo chiedi?

- Perché mi piacerebbe fare un incontro di lotta con te.

Solomon sorride e dice:

- Come ad al-Hamra?

Mahmud annuisce. Nel periodo in cui Mahmud era schiavo del duca, si sono spesso affrontati in una lotta fraterna, che si concludeva con un rapporto.

- Mahmud, non voglio presentarmi da Barbath tutto sudato e lottare con te significa certamente sudare molto. Se è il desiderio a guidarti, possiamo evitare la lotta.

Mahmud esita. Gli sembra scorretto prendere Solomon senza vincerlo, ma il suo corpo arde.

- Lo vuoi?

- Se tu lo vuoi, per me va bene.

Mahmud dice a un soldato che non vuole essere disturbato. Nella tenda si spogliano entrambi in fretta. Si guardano. Solomon ha un corpo forte e armonioso e un bel viso. Mahmud è più massiccio e meno elegante: non è un bell’uomo, ma trasuda forza. Si avvicinano e si abbracciano. Le mani di Solomon scorrono sulla schiena di Mahmud, che a sua volta accarezza il corpo dell’ebreo e infine gli stringe con forza le natiche. Il desiderio preme e Solomon può sentire contro il ventre il grosso cazzo del nero ergersi. Anche al suo il sangue affluisce.

- Stenditi sui cuscini.

Il desiderio rende roca la voce di Mahmud. Solomon si mette in posizione. Non gli spiace offrirsi al fratello. Mahmud si inumidisce bene la cappella e fa lo stesso con l’apertura, poi, lentamente forza l’anello di carne e affonda il cazzo nel culo di Solomon, mentre gli accarezza la testa. La sensazione è fortissima. Da tempo Mahmud non scopa e tra tutti i corpi maschili è quello di Solomon ad accendere di più il suo desiderio. Possederlo è bellissimo. Gli piace sentire sotto di sé questo corpo caldo, accarezzarlo, stringergli il cazzo e sentirlo rigido.

Mahmud spinge e si ritrae, finché viene. Il piacere è fortissimo e per un momento cancella tutto. Lentamente Mahmud riemerge e la sua mano guida anche Solomon al piacere.

- Grazie, fratello, è stato bellissimo.

- Grazie a te.

Si alzano, si puliscono e si rivestono. Solomon si avvicina e bacia Mahmud sulla bocca, poi si stacca.

- Andiamo.

Mahmud guida Solomon alla tenda di Barbath, che però non è presente. Rimangono a parlare, in attesa che il comandante arrivi. Solomon si guarda intorno e vede in una tenda un giovane che quasi sicuramente è Robert, perché corrisponde alla descrizione che ha fornito Gilles.

Dopo un momento, Barbath arriva. Mahmud si congeda.

Solomon fa un cenno d’inchino e dice:

- Comandante Barbath, ti porgo omaggio.

- Sono lieto di vederti, Solomon. Vieni nella mia tenda.

Quando si sono seduti, Barbath chiede:

- Che cosa ti ha portato qui?

- Una richiesta per un amico. Tu hai un prigioniero che si chiama Robert e io mi permetto di chiederti se c’è qualche modo per riscattarlo.

Barbath non si aspettava questa richiesta. Con Robert ha scopato tre volte e possedere questo bel corpo gli ha dato piacere, ma non è servito a distrarlo dai fantasmi che in questo periodo di inattività ritornano ogni notte. Se Solomon vuole riscattarlo, non ha motivo per rifiutarsi. Forse, se sapesse che l’amico di cui parla l’ebreo è il cavaliere che ha ucciso Feisal, non sarebbe così disponibile nei suoi confronti, ma non può sospettarlo.

Chiede:

- Tieni molto a questo Robert?

- Non lo conosco neppure, ma il mio amico sì e vorrei poterlo aiutare.

Barbath sorride.

- Solomon, conosco il ruolo che hai svolto nella sconfitta degli hashishiyya. Ci hai permesso di allontanare una minaccia mortale che pesava sull’emiro e anche su di me. Ti faccio volentieri dono di questo giovane.

- Ma… sei davvero generoso, Barbath. Vorrei rifiutare, ma so che il mio amico sarebbe felice di riabbracciare questo guerriero, perciò non mi schermirò: preferisco essere poco cortese, ma sincero. Tu però permettimi di farti un piccolo dono.

Solomon estrae dalla borsa che ha portato con sé un bracciale d’oro, con un rilievo che rappresenta il combattimento tra due uomini a cavallo.

Barbath lo prende tra le mani e osserva il monile.

- Ho visto i gioielli che hai preparato in passato per l’emiro ‘Izz e non mi stupisco della perfezione di questo bracciale. È dono degno di un re. Non posso accettarlo.

- Sono contento che tu lo apprezzi. Non puoi certo rifiutarlo, poiché io ho accettato il tuo dono: mi faresti apparire ancora più scortese di come sono stato.

Barbath sorride.

- Ti ringrazio, Solomon. Credo che questo bracciale valga più del cavaliere, che sono felice di donarti.

Barbath fa chiamare Robert. Dice a due guerrieri di scortare Solomon e Robert fino fuori dal campo, poi li congeda.

Solomon dice a Robert:

- Cavaliere, venite con me. Vi riporto al vostro campo.

Robert è stupito. Non si aspettava certo di essere liberato.

- Avete trattato uno scambio di prigionieri?

- No, mi siete stato regalato dal comandante Barbath.

Solomon ride e aggiunge:

- Ma noi ebrei non possiamo avere schiavi cristiani, per cui non appena saremo di ritorno al campo, sarete un uomo libero.

A Robert pare impossibile. Quest’uomo che lo accompagna attraverso il campo e che gli promette la libertà sembra cordiale e ha un viso franco, eppure Robert fa fatica a credergli. Ora sono giunti alle ultime tende. I due soldati che li hanno accompagnati scambiano alcune parole con le sentinelle e Robert e Solomon si dirigono verso l’accampamento cristiano.

- Posso chiedervi come avete ottenuto la mia liberazione?

- Ho detto che un mio amico teneva molto a voi. Una mezza menzogna, perché senza dubbio vostro cugino tiene moltissimo a voi, ma ci siamo visti oggi per la prima volta in vita nostra, per cui definirlo un amico è eccessivo, anche se abbiamo un amico comune.

Robert scuote la testa. La spiegazione gli sembra quasi più incredibile dell’essere ritornato libero.

- Voi dite al comandante dell’esercito del Saladino che un vostro amico tiene a un prigioniero e questi vi viene subito regalato?

Solomon ride.

- Lo so, sembra un po’ strano, ma questa volta è andata proprio così. Ci sono buoni motivi. Diciamo che in passato gli ho permesso di sventare una minaccia mortale e ha voluto dimostrarmi la sua riconoscenza per questo.

Robert vorrebbe chiedere di che cosa si trattava, ma non vuole apparire curioso. Procedono in silenzio.

Raggiungono infine il campo cristiano e si dirigono verso la tenda di Gilles e Robert.

Gilles li vede arrivare e scatta in piedi. Si lancia su Robert e lo abbraccia. Solomon si accorge che sta tremando.

- Sei qui! Sei qui! Dio sia lodato.

Robert lo stringe, poi, quando si staccano, dice:

- Davvero sia lodato Dio, che si è servito di Solomon.

Gilles si rivolge all’ebreo, che è rimasto in disparte.

- Come avete fatto, Solomon?

Robert ride e dice:

- È la prima cosa che gli ho chiesto anch’io.

Prima che Solomon abbia avuto il tempo di rispondere, Gilles dice:

- Venite dentro, che parliamo tranquillamente.

Si siedono a terra. Gilles stringe la mano di Robert, mentre chiede:

- Ditemi, come è possibile? Non riesco ancora a crederci, anche se vedo Robert e gli tengo la mano.

- Gilles, io sono un ebreo e un orafo. Ho venduto gioielli e oggetti in oro a metà dei signori della Siria. Ho sempre viaggiato molto, per il mio lavoro, perché avevo richieste anche da città lontane.

- Dovete essere bravissimo.

- Diciamo che le mie opere sono apprezzate. Questo mi ha permesso di conoscere molti emiri e sceicchi. A un certo punto, la setta degli hashishiyya ha cercato di uccidere sia l’emiro di Jabal al-Jadid e il comandante Barbath, sia Denis di Rougegarde, Ferdinando dell’Arram e Renaud di San Giacomo d’Afrin.

- Sapevo di Renaud, che in effetti venne ucciso, come pure il fratello. Ignoravo che ci fossero stati tentativi di uccidere il duca e il conte.

- Furono sventati, come quelli contro l’emiro e il comandante. Per motivi che preferisco non spiegarvi, mi trovai in possesso di informazioni utili al duca, che poté stabilire un accordo con l’emiro e attaccare il castello degli hashishiyya di Jibrin e sterminarli. Barbath mi è riconoscente per aver allontanato un pericolo che minacciava la sua vita e quella dell’emiro. Per quello quando gli ho detto che un mio amico avrebbe voluto riscattare un prigioniero che era nelle sue mani, ha deciso di regalarmelo.

- Davvero generoso da parte sua. E da parte vostra, prestarvi.

- Su questo però devo chiedervi una cosa.

- Qualunque cosa mi chiediate, sono a vostra disposizione.

- Io vi ho raccontato come sono andate le cose. È la verità. Ma non tutti sarebbero così disponibili a crederlo. Io sono un ebreo, razza maledetta. Il fatto che sia andato nel campo nemico e sia riuscito a riportare indietro un prigioniero sarebbe di sicuro interpretato male, alimentando sospetti. Vi chiedo di dire che avevate chiesto di riscattare vostro cugino e che, avuta una risposta positiva, avete affidato a me questo compito. Qualcuno certo penserà che vi ho prestato il denaro: lasciateglielo credere, se lo desidera. Che mi considerino un usuraio, non mi preoccupa. Un sospetto di tradimento sarebbe un problema serio.

- Dirò senz’altro come voi mi suggerite. Ma vorrei poter fare qualche cosa di più per mostrarvi la mia riconoscenza.

Solomon sorride:

- Se avrò bisogno di qualche cosa, ve lo chiederò. Per il momento vi saluto e vi lascio con vostro cugino. Avrete certamente molte cose da dirvi.

Solomon si congeda.

Gilles si volta verso Robert.

- Robert, Robert. Mi sembra incredibile. Ho creduto di impazzire. Ho passato le giornate chiedendomi come fare per liberarti. Sono persino andato nell’accampamento saraceno, vestito da arabo, per cercarti. Una follia, lo so.

Robert scuote la testa.

- Hai rischiato la vita. Davvero una follia.

- Non potevo rimanere qui inattivo, sapendoti prigioniero. Ma ora sei qui, sei qui! Non riesco ancora a crederci.

Robert annuisce, poi guarda Gilles e dice:

- C’è una cosa che devo dirti, Gilles.

- Dimmi.

C’è un momento di esitazione, ma Robert ha bisogno di parlare.

- Gilles… Il comandante mi ha preso.

Gilles corruga la fronte.

- Mi spiace che tu abbia dovuto subire questa umiliazione.

- Non ti importa?

- Certo che mi importa. Ucciderei volentieri Barbath perché ti ha stuprato. Spero che non sia stato troppo doloroso per te.

Robert china il capo. Prova vergogna. Vorrebbe tacere, ma non se la sente di mentire:

- Gilles, non mi sarei certo dato a lui, se avessi potuto scegliere, ma mi ha fatto godere.

Gilles capisce qual è la paura di Robert. Gli sorride, gli prende il viso tra le mani, lo bacia sulla bocca e poi gli dice:

- Robert, io ti amo. Certamente non ti amo di meno perché Barbath, prendendoti a forza, ti ha fatto godere.

- Grazie, Gilles. Avevo bisogno di sentirmelo dire.

 

Solomon si prepara a ripartire. Denis non è contento di questo, anche se il viaggio a cui si accinge Solomon è stato concordato insieme. In questa terra dilaniata dalla guerra i pericoli sono molti e il compito che Solomon si appresta a svolgere presenta fortissimi rischi: se qualche cosa andasse storto, nessuno potrebbe salvarlo dalla morte.

- Non mi sento tranquillo a vederti partire.

Solomon gli sorride:

- Sai anche tu che devo andare. Lo abbiamo deciso insieme.

- Lo so, ma ora ho paura di perderti.

Solomon aggrotta la fronte:

- Neanch’io parto tranquillo lasciandoti qui, tra le truppe del Saladino e la guarnigione di Acri, in questo campo dove le malattie fanno strage quanto le battaglie. Ma abbiamo scelto di tornare.

- L’ho scelto io e tu mi hai seguito.

Solomon scuote la testa.

- L’abbiamo scelto tutti e due. E cercheremo di tornare a casa tutti e due.

- A casa… casa tua è qui, a Rougegarde, o forse dovrei dire al-Hamra.

- Casa mia è dove ci sei tu, Denis, e lo sai.

Si abbracciano, poi Solomon si avvia.

Denis lo guarda allontanarsi, poi mormora:

- Torna, Solomon. Ti aspetto.

 

 

V – I briganti

VI – Prigionieri

VII – Il banchetto

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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