Nell’inverno, mentre i franchi assediano Acri e
c’è un periodo di relativa tregua, prima dell’arrivo di Denis d’Aguilard, Omar
sta facendo ricostruire un’ala del suo palazzo di Kharana,
da tempo abbandonata perché in pessime condizioni. Ogni giorno manda alcuni schiavi a prendere sui
monti i tronchi che servono per le parti in legno. Due carri, trainati da
buoi, portano a Kharana gli alberi abbattuti e
sgrossati dai taglialegna. I carri avanzano a fatica, perché il carico è
molto pesante. Oggi è piovuto a lungo nel pomeriggio e il
terreno melmoso rende il viaggio ancora più disagevole. Come sempre i due
conducenti evitano di avvicinarsi al bordo esterno della pista, perché se una
ruota finisse al di fuori, sul pendio, il carro si inclinerebbe e i tronchi
rotolerebbero a valle: se il carico andasse perso il padrone si infurierebbe
e farebbe fustigare il responsabile. Dalla parte interna però la pioggia ha
riempito di fango alcune buche e quando una ruota passa su una pozzanghera,
affonda nell’acqua, inclinando fortemente il carro: la fanghiglia nascondeva
una buca profonda. Il guidatore si rivolge a Raphael,
lo schiavo ebreo che lo accompagna. - Vedi se riesci a liberare la ruota. Raphael scende e si
inginocchia per vedere che cosa può fare. Il problema non è di facile
soluzione: la ruota è affondata nel fango fino al mozzo e rischia di
spaccarsi. - Merda! Bisognerà svuotare il carro, per poter
uscire da… Raphael non
conclude la frase: mentre sta parlando le stanghe laterali del carro cedono
sotto la pressione dei tronchi, che rotolano a terra. Lo schiavo viene
schiacciato. Il conducente è saltato sulla pista, ma per l’uomo sepolto sotto
i tronchi non c’è più nulla da fare. I due conducenti e Maher, l’altro schiavo di
fatica, devono spostare i tronchi, liberare il carro, caricarlo di nuovo e
mettere sopra il legname il cadavere di Raphael.
Maher è turbato per la morte del compagno, mentre i due guidatori sono
irritati per la perdita di tempo e la fatica che devono fare. Omar è furente per la perdita di uno dei suoi
uomini di fatica, proprio in un momento in cui il lavoro ferve. Deve
acquistarne un altro, perché Maher da solo non basta: per caricare i tronchi
i taglialegna danno una mano, ma per scaricarli bisogna essere almeno in due.
Fa fustigare il conducente del carro, che ritiene responsabile
dell’incidente, e affida l’acquisto del nuovo schiavo all’intendente. Questi
si reca a Shakra, che ha un piccolo mercato: se
troverà l’uomo adatto, eviterà di dover andare a Jabal al-Jadid
o a Damasco. Un’assenza prolungata irriterebbe il padrone. Al mercato ci sono alcuni schiavi cristiani, come
ovunque in questo periodo: sono uomini catturati ad Acri e poi messi in
vendita nelle diverse città. L’intendente vede un uomo che sembra essere
esattamente quello che serve al padrone: un vero colosso, forte come un toro.
Una cicatrice gli segna il viso sul lato sinistro dalla fronte al mento e gli
è rimasto un solo occhio: grazie a questa menomazione, il prezzo è buono.
L’intendente versa la somma richiesta e si fa dare una ricevuta del
pagamento: il padrone è diffidente e vuole controllare ogni spesa. Fa segno allo schiavo di seguirlo e si dirige
alla locanda dove ha lasciato i cavalli: vuole partire subito. Rivolto
all’uomo, dice: - Non cercare di fuggire. Lo dico per te. Non sa se lo schiavo sia in grado di comprendere
le sue parole, ma con suo stupore l’uomo gli risponde in arabo: - Certamente, padrone. Fidati di me. - Non sono il tuo padrone, anche se sarò io a
darti gli ordini. Ma com’è che parli l’arabo? - Sono stato schiavo due anni, prima di essere
riscattato. - Meglio così. Allora ti ripeto: non cercare di
fuggire, perché il mio padrone ti riprenderebbe e ti farebbe tagliare i
coglioni. Chiaro? - Chiarissimo. Non fuggirò. A Kharana il nuovo
schiavo viene subito messo al lavoro e si rivela molto forte e solerte. Omar
è soddisfatto dell’acquisto. Rodrigo vede il nuovo arrivato qualche giorno
dopo il suo arrivo e lo riconosce subito: è Sancho, un cavaliere della
Navarra, che non era un templare, ma faceva parte della guarnigione del
castello San Giorgio quando Rodrigo è stato catturato. Ha una dozzina d’anni
in più di Rodrigo. Sta trasportando un grande sacco di grano e
cammina ricurvo sotto il peso. È a torso nudo e il petto è coperto da un
intrico di peli neri, tra cui colano rivoli di sudore. Rodrigo ne sente
l’odore, molto intenso. Nota le mani sporche di terra, i pantaloni
stracciati. In un’altra situazione, Rodrigo lo eviterebbe, ma adesso desidera
parlare un momento con qualcuno che conosce la sua lingua ed è anche lui
schiavo. Quando ha finito di trasportare i sacchi, Sancho
è in un bagno di sudore. Prende uno straccio e si asciuga la faccia e il
torace. Solo mentre si sta passando il tessuto sotto le ascelle si accorge di
Rodrigo, che a pochi passi da lui lo sta guardando, turbato. Lo riconosce subito: - Rodrigo! Sono contento che tu sia ancora vivo.
Temevamo che ti avessero ucciso, come hanno ucciso Jorge da Toledo. - No. Mi hanno risparmiato. - Buon per te. Finire con il palo in culo non è
proprio il massimo. Merda! Che razza di morte! Rodrigo annuisce. Ha avuto modo di vedere Jorge
impalato, i genitali in bocca, il corpo coperto di merda, e il pensiero lo fa
ancora rabbrividire. Sancho chiede: - Sei finito qui anche tu come schiavo, vero? - Sì. - Venduti al mercato come bestie. Per me è stata
la seconda volta. - Sì, sono stato venduto anch’io, ma non è stato sayyd Omar a comprarmi. Lui mi ha preso uccidendo il mio
padrone precedente, un altro signore. Rodrigo si pente di aver parlato: se Omar lo
sapesse, lo punirebbe, potrebbe anche farlo uccidere. Aggiunge subito: - Non lo dire a nessuno: Omar mi ucciderebbe se
scoprisse che te l’ho raccontato. Sancho lo guarda, perplesso. - Ha ucciso il tuo signore per prenderti? Rodrigo preferisce non dire il motivo, anche se
di certo Sancho avrà presto modo di scoprirlo. - Un signorotto che viveva non lontano. Credo che
ci fosse una rivalità tra di loro. Lo ha ammazzato sotto i miei occhi. Lo ha
fatto uccidere dai suoi uomini, in verità. - E ti ha preso come schiavo, magari per evitare
che tu potessi raccontare quello che ha fatto. Capisco. Io sono un uomo di
fatica: mi spacco la schiena a portare sacchi, sollevare tronchi, scavare
fossati, costruire muri. Quello che c’è da fare, insomma. Meglio così che
diventare eunuco e fare il guardiano dell’harem. A Gilbert di Tarascon è successo. Merda! Meglio crepare con i coglioni
che farseli tagliare. Sancho ridacchia. Poi chiede: - E tu? Quali sono i tuoi compiti? Sono arrivato
da quattro giorni, ma non ti avevo ancora visto. Rodrigo esita. Quali sono i suoi compiti? Aprire
i fianchi, qualche volta succhiare il cazzo del suo signore. Sancho insiste: - Ti occupi dei lavori domestici? - No. Sancho intuisce: - Sei la puttana dello sceicco? Rodrigo impallidisce. Gli sembra di barcollare.
Si volta, per allontanarsi. Sancho gli mette la mano sulla spalla: - Scusami, Rodrigo, non volevo insultarti. Il tono della voce è cambiato. Non c’è più
traccia dell’allegria un po’ forzata di prima. Rodrigo trova la forza di
dire: - Non l’ho scelto io, Sancho. Sancho annuisce. - Scusa, Rodrigo. È successo a tanti, tra i più
giovani. Come diversi giovani saraceni catturati dai cristiani venivano usati
da qualche signore franco per soddisfare le proprie voglie. Dicevano che il
conte Ferdinando si prendesse tutti quelli che catturava in battaglia o
riceveva come bottino. E credo che fosse vero. Rodrigo non dice nulla. - Mi spiace, Rodrigo. Non è una bella vita, come
non lo è la mia. Ma siamo ancora vivi e magari la sorte cambierà. Io ero già
stato schiavo due anni, poi ero tornato libero. - Ah sì? Non lo sapevo. - Non abbiamo avuto molte occasioni di parlarci.
Mi catturarono quando fui ferito, questa cicatrice che ho in faccia, per cui
ho perso un occhio. Ma dopo due anni riuscii a fuggire e a raggiungere San
Giacomo. Mi hanno di nuovo catturato ad Acri. La ruota della fortuna gira,
magari recupereremo la nostra libertà. Rodrigo annuisce. Lo ha pensato anche lui, ma non
ci crede più: sta perdendo la speranza. Non ha voglia di continuare a parlare con Sancho,
per cui lo saluta e si gira per allontanarsi. Vede che lo sceicco Omar lo sta
osservando. Omar ha visto Talal
parlare con Sancho. Si è stupito, perché i due sono diversissimi. Talal è un angelo e Sancho uno scimmione con il viso
deturpato. Inoltre Sancho è sempre sudato e sporco, mentre Talal ama la pulizia. Ma sono entrambi cristiani e
soprattutto parlano la stessa lingua: non conoscendo abbastanza l’arabo,
Rodrigo parla poco con gli altri e non è strano che voglia scambiare due
parole con qualcuno con cui può intendersi. E mentre fa questa riflessione, Omar si dice che
Sancho potrebbe insegnare l’arabo a Talal. Non ci
sono rischi, in Sancho non c’è nulla che possa suscitare il desiderio di un
bel giovane. Talal, sempre ritroso nei giochi del
piacere, non può certo interessarsi a uno così, un animale. E se imparasse
meglio la lingua, a tavola potrebbe conversare con gli ospiti e non tacere
sempre. Omar informa Rodrigo della sua decisione. Non gli
chiede se è d’accordo: Rodrigo è uno schiavo e deve obbedire alle decisioni
del suo padrone. Rodrigo non è entusiasta all’idea che sia Sancho a
insegnargli l’arabo: si rende conto che imparare la lingua è utile, ma Sancho
gli sembra rozzo. Omar coglie la reticenza del ragazzo ed è
soddisfatto che Talal non mostri entusiasmo. Sancho invece è contento di dare lezioni a
Rodrigo, in primo luogo perché è un compito molto meno faticoso di quelli che
abitualmente svolge, in secondo luogo perché il ragazzo gli piace. Si è
accorto che Rodrigo è infastidito dalla sua sporcizia e dal suo odore, ma le
mansioni che svolge lo costringono a sporcarsi e lo fanno sudare. Chiede al
padrone il permesso di potersi lavare prima di dare lezioni e Omar glielo
accorda. Un altro po’ di tempo in meno a faticare e un po’ di riposo. Il giorno della prima lezione Sancho lava la
tunica, che stende al sole, e lavora tutto il giorno a torso nudo. Nel
pomeriggio si lava e si mette la tunica, logora, ma abbastanza pulita. Solo i
pantaloni sono sporchi, ma Sancho non ne ha un paio di ricambio. Sancho prende molto sul serio il suo compito. Nei
due anni precedenti di schiavitù ha imparato bene la lingua ed è proprio la
buona conoscenza dell’arabo che gli ha permesso di scappare la prima volta,
nonostante la cicatrice in faccia lo rendesse molto riconoscibile. Incominciano con un po’ di vocabolario. Sancho
mostra le cose che hanno intorno e quando Rodrigo non ne conosce il nome
arabo, glielo dice. Poi gli fa formulare qualche frase. Finché si tratta di
dire che il tappeto è sul pavimento, Rodrigo se la cava, ma non appena deve
costruire un periodo più complesso, si perde. Sancho si rivela un maestro paziente. Corregge
gli errori, spiega il significato dei termini e le costruzioni della lingua.
Rodrigo è contento di imparare: gli sembra di avere un obiettivo, che può
aiutarlo a riempire la giornata e a distrarsi, qualche cosa a cui pensare. Un
modo di evadere dalla prigione con la mente. Magari, quando padroneggerà la
lingua, troverà modo di scappare. Si rivela anche un buon allievo, perché impara in
fretta. Nei giorni seguenti sempre più spesso si rivolge agli altri servitori
per conoscere il nome di un oggetto o anche solo per provare qualche frase.
Cerca di seguire le conversazioni che si svolgono, ma per il momento fa molta
fatica, soprattutto quando parlano alcuni servi. Omar è soddisfatto dei
progressi di Talal. Intanto Sancho ha ottenuto un secondo paio di
pantaloni. Per le lezioni, mette quelli, che lava periodicamente. Sancho vorrebbe recuperare la libertà, ma non
soffre della sua condizione di schiavo, come Rodrigo e tanti altri. Sa
adattarsi alle situazioni in cui si trova e ha visto troppi dei suoi compagni
morire, a volte in modo atroce, per lamentarsi della sua condizione attuale.
La vita a Kharana è molto faticosa, ma sotto le
mura di Acri non si viveva tanto meglio. Aspetterà l’occasione buona per
fuggire. A differenza di Rodrigo, che non ha mai cercato
il rapporto con gli altri ed è piuttosto apatico, Sancho è in grado di fare
rapidamente amicizia, perché conosce bene la lingua e ha un buon carattere: è
sempre disponibile a dare una mano e non si tira mai indietro di fronte al
lavoro. Ma gli unici con cui stabilisce buoni rapporti sono gli altri schiavi
che svolgono lavori pesanti, in particolare quelli che coltivano la terra e
sorvegliano gli animali. Invece le guardie, i servi e soprattutto le serve di
casa lo evitano, perché è sempre sporco e sudato. D’altronde chi serve a
tavola o si occupa della pulizia del padrone è a un livello superiore a chi
fa i lavori di fatica. Nessuno si mescola volentieri con gli inferiori. E lo
stesso discorso vale per i soldati, che disprezzano gli schiavi e in
particolare quelli che svolgono i compiti più gravosi. Sancho fa amicizia in particolare con Maher, un
uomo massiccio, con capelli e barba neri: sono i due schiavi più forti e sono
quelli che hanno la posizione inferiore, a cui vengono assegnati i lavori più
faticosi e sgradevoli. Oltre a essere entrambi alti e forti, hanno un altro
elemento che li accomuna: un’attrezzatura di tutto rispetto. Khader, un servitore che si diverte ad appioppare
soprannomi, chiama Sancho Cazzogrosso, e Maher Grandecazzo. Le serve ridono, ma si tengono lontano da
questi due maschi vigorosi. Maher viene dal sud della penisola arabica. Fu
catturato ancora ragazzino da alcuni predoni, che lo vendettero a un
proprietario terriero della zona di Amman. Dopo un tentativo di fuga, il suo
padrone preferì cederlo a un mercante di passaggio, che lo portò con sé in
Siria, dove fu venduto altre due volte. Sono quasi trent’anni che Maher è
schiavo e del tempo in cui era libero conserva pochi ricordi. Si è abituato a
questa esistenza faticosa e al disprezzo che molti dei servitori dimostrano
nei suoi confronti. Non si aspetta nulla dalla vita e dagli altri. La cordialità di Sancho lo stupisce: Raphael, lo schiavo di fatica morto nell’incidente, era
piuttosto scostante e a Kharana Maher non ha potuto
fare amicizia con nessuno. Il cristiano è simpatico e sembra parlare molto
volentieri con lui. Sancho e Maher si trovano a svuotare la latrina.
Un lavoro poco piacevole, in cui si sporcano parecchio, per cui lo svolgono
completamente nudi. Quando hanno infine concluso, l’intendente li autorizza a
lavarsi al torrente che scende dai monti, a un miglio di distanza: nelle
condizioni in cui sono non possono certo usare il bagno riservato alla
servitù, perché provocherebbero una mezza rivolta. A Sancho e Maher va benissimo: potranno starsene
in pace un buon momento, mentre se si lavassero nella casa, l’intendente
troverebbe subito un nuovo compito da affidargli. Raggiungono il torrente, entrano in acqua e si
strofinano energicamente. Quando escono, si stendono al sole per asciugarsi.
Hanno già avuto modo di vedersi nudi molte volte: nel camerone in cui
dormono, alla latrina, ai bagni e durante alcuni lavori, ma adesso sono soli
e si guardano. Maher ride e osserva: - Cristiano, dovevano venderti a un bordello. Il
magnaccia avrebbe guadagnato una bella pila di dirham. È raro che Maher scherzi, ma con Sancho sa di poterlo fare. E infatti il
cristiano ride. - Direi che sarebbe piuttosto il mio amico Grandecazzo a fare la fortuna di qualunque magnaccia. A Maher fa piacere sentirsi chiamare “amico” da
Sancho. A trentasei anni sta scoprendo l’amicizia e gli sembra di aver
ricevuto un dono tanto inatteso quanto gradito. Sorride e fa un cenno di
assenso. - Io ho lavorato in un bordello. Due anni. - Cazzo! Davvero? - Sì, a Homs. Non era
un grande bordello. C’eravamo solo io e tre ragazzi. - Come mai ti hanno venduto? - Il padrone ha avuto delle noie con un imam che
lo accusava di diffondere il vizio. Ha finito per chiudere e allora mi ha
venduto e sono finito qui, dieci anni fa. - Devo dire che non mi sarebbe spiaciuto finire
in un bordello. Dev’essere meno faticoso del lavoro che facciamo noi adesso. - Sì, non mi trovavo male. Scopare mi piace. - A chi non piace? Maher ride e conclude: - Già. Ma invece ci ritroviamo qui, a spaccarci
la schiena e a rischiare di fare la fine di Raphael. - Chi è Raphael? - Lo schiavo ebreo che faceva con me i lavori
pesanti. - Quello che è rimasto schiacciato dai tronchi? Maher si rabbuia, ripensando al cadavere
dell’ebreo, schiacciato dai tronchi. Non erano amici, ma vederlo ridotto in
quelle condizioni gli aveva fatto impressione. E l’aveva colpito l’indifferenza
dei conducenti, preoccupati solo della punizione che li attendeva. - Sì, proprio lui. Sancho guarda Maher. Non è un bell’uomo, ma gli è
simpatico. Gli piace anche fisicamente, perché apprezza gli uomini forti.
Ormai sono mesi che non scopa. Qualche volta si fa una sega la notte, nel
buio dello stanzone in cui dormono gli schiavi, ma spesso arriva a sera
esausto perché, per quanto sia molto forte, sia sayyd
Omar, sia l’intendente lo fanno lavorare molto. La pausa di oggi è un momento
raro, possibile solo perché il padrone è via e l’intendente allora pretende
di meno: una volta che hanno finito il lavoro da fare, non si preoccupa se
rimangono tranquilli. Sayyd Omar non vuole vedere
nessuno schiavo inoperoso, per cui quando lui è presente, tutti devono essere
sempre occupati. In quest’ultimo periodo, da quando ha
incominciato a dare lezioni a Rodrigo, Sancho è meno stanco e avverte più
forte il desiderio. Un’idea gli passa per la testa. Riprende il discorso: - E avevi molti clienti? - Abbastanza. I ragazzini erano più richiesti. E
qualcuno che voleva farsi fottere non riusciva a reggere il mio cazzo. Ma
avevo diversi clienti affezionati. - Non faccio fatica a crederlo. - Anche tu li avresti. Sancho non risponde, ma ride. Si guardano ancora,
ghignando, ma ora nel loro sorriso c’è qualche cos’altro. Sancho chiede
ancora: - Posso farti una domanda indiscreta? Maher ride: - Certo! Non ti preoccupare. Se riguarda quello
che facevo al bordello, te lo dico subito: di tutto. Ero un porco. E lo sono
ancora, anche se qui non scopo mai. Sancho sorride e dice: - C’era qualche cliente che pagava per il tuo
culo? - Ce n’erano due, sì. - E ti piaceva? - Sì, te l’ho detto. Sono un porco immondo e mi
piace tutto: fottere in bocca o in culo, farmi fottere. Mi piace il piscio…
mi fermo qui, è meglio. Sancho scuote la testa. - Io non ho la tua esperienza. Però penso che
potresti insegnarmi un sacco di cose interessanti. Se tu ne avessi voglia,
naturalmente. Maher ride. - Certo che ne ho voglia. Se non ti spaventi,
posso insegnarti qualcuna delle cose che ho imparato al bordello. - Non mi spiacerebbe, per niente. Maher non risponde. Si limita a sorridere, senza
nascondere il cazzo che sta acquistando volume e consistenza. Sancho
prosegue: - Maher… mi piacerebbe mettertelo in culo. Se ti
va. Maher sorride. - Si può fare. Tu invece non te lo sei mai preso
in culo? - Sì, quando mi catturarono qualche mese fa. Non
mi portarono subito al mercato degli schiavi. Mi prese il loro comandante. Mi
fece un male bestiale, quel bastardo. Ma poi mi abituai. Però… non sono
sicuro di voler riprovare. - Non occorre. Maher intanto si guarda intorno. C’è un grosso
sasso, che il sole ha riscaldato. - Mi metto lì sopra? Sancho annuisce. - Maher, però… solo se ti va bene. - Te l’ho detto, mi piace. Credo che il culo mi
farà male, perché Khader non ti chiama Cazzogrosso per niente, ma non è un problema. Maher si mette in posizione, appoggiando il petto
al masso ed offrendo il culo. Sancho lo guarda, mentre il desiderio di
accende, violento. Appoggia le mani sulle natiche, stringe, poi le divarica.
Sputa sull’apertura e sparge la saliva con cura. Con l’altra mano si
accarezza il cazzo, che si tende rapidamente. Avvicina la cappella al buco e
spinge dentro, piano. - Cazzogrosso, direi
che il nome che ti hanno dato è appropriato. - Ti fa male? - No, va benissimo. Sancho accarezza la testa di Maher, in un gesto
di tenerezza che gli viene spontaneo. Maher dice: - Anche questo mi piace. Al bordello non
succedeva. Sancho lo accarezza ancora. Gli piace che ci sia
anche un po’ di affetto in questo rapporto. Sa di essere davvero affezionato
a Maher. Intanto spinge, avanzando e arretrando. Il cazzo
affonda, fino a che i coglioni battono contro il culo, poi arretra. Tre volte
esce e poi rientra, facendo gemere Maher. Le mani di Sancho percorrono il
corpo dell’amico, in carezze ora delicate, ora brutali. E infine Sancho sente
il piacere crescere e infine esplodere. Il suo seme si riversa abbondante
nelle viscere di Maher. Sancho rimane sul corpo dell’amico. Gli sussurra: - Grazie, Maher, grazie. Poi aggiunge: - Non ti ho fatto troppo male? - No, no. Sancho si solleva. Maher si alza e si stende a
terra. Ha il cazzo duro. Grande, quasi minaccioso. - Pisciami addosso, Sancho. Sancho non si aspettava la richiesta. Sorride e
dice: - Sei sicuro? - Vuoi che ti insegni qualche cosa, no? Questa è
una delle cose che facevamo. Sul cazzo, sul petto, in faccia. Sancho scuote la testa, ma esegue. Non l’ha mai
fatto prima, ma non gli dispiace vedere il getto scendere sul grosso cazzo
duro di Maher, sul suo petto villoso, sulla faccia. Maher chiude gli occhi e
li riapre solo quando Sancho ha concluso. Si passa la lingua sulle labbra. - Se ti piace, posso anche fartelo bere, la
prossima volta. Maher annuisce. - Non mi spiacerebbe. Hai voglia di farmi venire
con il piede? Anche questa è una novità per Sancho, a cui non
dispiace provare. Annuisce e posa il piede sul cazzo di Maher e lo muove, strusciandolo. - Anche i coglioni. Sancho esegue. Maher ogni tanto sussulta, perché
Sancho non è molto delicato, ma è evidente che gli piace. Presto viene e lo
sborro schizza in alto, ricadendogli sul torace e sul ventre. Sancho si stende di fianco all’amico. - Sei davvero un porco, Maher. E credo di esserlo
anch’io. - Questa è un’ottima cosa. Comunque ho fatto di
peggio. Molto di peggio. Maher ride, ma non spiega. Sancho non chiede.
Avranno tempo per scoprirlo. Sancho vorrebbe baciarlo, ma non sa se gli farebbe
piacere, per cui non dice nulla. Dopo un po’ si lavano di nuovo e tornano
all’abitazione, tutti e due soddisfatti. Nelle settimane successive, Sancho e Maher
scopano più volte: la notte, nel buio della camerata, o più di rado in
qualche angolo, quando hanno un po’ di tempo libero. Cercano di non farsi
scoprire quando lo fanno durante il giorno, perché sarebbero puniti, se si
sapesse che scopano invece di lavorare. D’altronde molto di rado hanno il
tempo e l’energia per dedicarsi liberamente ai loro giochi. Maher si offre volentieri e Sancho lo fa venire
con la bocca, le mani, i piedi. È tentato di darsi, come l’amico si dà a lui,
ma ancora esita. Un giorno si baciano, come entrambi desideravano da tempo.
Desiderio e tenerezza si mescolano nei loro abbracci. Altri due mesi passano. Rodrigo fa molti
progressi nella lingua: in questi tre anni ha avuto modo di ascoltare in
continuazione discorsi in arabo e ora che qualcuno glielo insegna, scopre di
aver imparato più di quanto sospettasse. Non si rende conto che, più
semplicemente, ora ha davvero voglia di provare a parlare questa lingua.
L’amicizia di Sancho lo sostiene e lo aiuta a recuperare la voglia di vivere. Sancho sprona Rodrigo a raccontare di sé, in
castigliano, che è la loro lingua comune, e in arabo. Le lezioni si tengono in una stanza della casa o
fuori, sotto il porticato. Chiunque passi può vederli e sentirli, per cui
evitano di dire cose che potrebbero irritare Omar: sicuramente gli verrebbero
riferite. Possono parlare in castigliano, ma sentendoli parlare a lungo in
quella lingua, qualcuno dei servi potrebbe raccontare al padrone che
chiacchierano invece di fare lezione. Sancho sa benissimo che Omar li fa
tenere d’occhio: diversi servi passano sempre nella stanza dove fanno
lezione, di sicuro per ordine del sovrintendente. Man mano che si conoscono meglio, nasce però il
desiderio di parlare più liberamente. Lo fanno nell’ampio cortile, dove tutti
possono vederli, ma non sentire ciò che dicono. Sancho gesticola indicando
cose diverse, come se stesse insegnando a Rodrigo nuovi termini o
costruzioni. Quando qualche servo passa vicino, Sancho fa tradurre a Rodrigo
una frase, poi riprendono a parlare di sé. Parlano anche di Omar. - È un uomo spietato. Tu mi avevi detto che ha
ucciso il tuo precedente padrone per prenderti. Sai che cosa è successo ad
Aaron, che era lo schiavo favorito dello sceicco prima di te? - No. - Lo sceicco scoprì che lo tradiva con uno
stalliere, Suhail. Fece uccidere Suhail e poi gli fece tagliare il cazzo e i coglioni. Li
servì in tavola e ordinò ad Aaron di mangiarli. - E lui… lui lo fece? Rodrigo rabbrividisce. - No, ma glieli misero in bocca lo stesso e poi
lo strangolarono. Uccisero anche il padre e i fratelli di Suhail,
che non avevano nessuna colpa. Me l’ha raccontato Maher. Fa’ attenzione a non
irritarlo. È un uomo feroce. La sera successiva, quando Omar lo prende,
Rodrigo pensa al giovane Aaron, strangolato per aver avuto rapporti con un
altro uomo. Con Maher Sancho può parlare molto più
liberamente, perché nessuno bada a loro. Basta controllare che non ci sia
nessuno vicino. Il loro legame diventa sempre più forte. Sancho ha capito di
essersi innamorato di Maher e sospetta che l’amico ricambi il suo sentimento,
ma nessuno dei due è abituato a esprimere sentimenti. La tenerezza con cui si
abbracciano e si baciano parla per loro, ma entrambi provano vergogna a
formulare con parole ciò che provano. Sancho non aveva mai pensato di dover fare i
conti con l’amore. Ora, quando pensa a recuperare la libertà, si accorge che
l’idea di separarsi da Maher lo angoscia. Non riesce a immaginare dove
potrebbero vivere insieme, ma rimanere schiavi di Omar non è davvero vita. Un giorno si trovano ai piedi delle montagne, per
caricare un carro con il legname che Omar ha venduto e fa portare in un altro
villaggio. Il carrettiere non ha più bisogno di loro: a
destinazione altri schiavi si occuperanno di scaricare. Sancho e Maher gli
stanno simpatici, perché sono sempre pronti a dare una mano, per cui dice: - Tornate a Kharana, ma
prendetevela pure con comodo. Farò lo stesso anch’io e diremo che abbiamo
finito di caricare più tardi. - Grazie, Ayyub, sei un
amico. Si fermano vicino a un torrente, dove possono
lavarsi, ma quando Sancho si spoglia per entrare in acqua, Maher gli dice: - Non ti lavare. Sancho lo guarda, perplesso. - Sai che mi piaci anche sporco, quando sei tutto
sudato. Ci laviamo dopo. Maher si spoglia, si avvicina e lo bacia, poi
struscia il viso sul corpo di Sancho, sul petto. Si inginocchia e appoggia
una guancia contro il cazzo che si è rapidamente teso. - Mi piace il tuo odore, Sancho, quando sei
sudato. Sancho gli accarezza la testa, un gesto che
all’amico piace. - Mi piacciono gli odori del tuo cazzo. Sudore,
piscio, sborro. Maher apre la bocca e accoglie il cazzo di
Sancho. Lo succhia un buon momento. Poi lo lascia andare. Passa dietro di
lui. - Mi piace l’odore del tuo culo, Sancho. Sancho è turbato, perché legge nelle parole di
Maher qualche cosa che va molto oltre il desiderio violento. Maher gli sta passando la lingua tra i fianchi.
Sancho scivola in ginocchio, poi si stende a terra. - Prendimi, Maher. - Sei sicuro? - Sì, voglio che tu mi prenda. Sancho non riesce a esprimere i suoi sentimenti.
Il suo offrirsi è una dichiarazione d’amore, che Maher non capisce. Maher accarezza a lungo la schiena di Sancho, poi
passa ancora la lingua sul solco, inumidisce bene l’apertura e lentamente
affonda il suo poderoso cazzo dentro il culo dell’amico. Sancho chiude gli
occhi. Il dolore è violento e per un momento cancella ogni altra sensazione. - Vuoi che mi ritiri, Sancho? - No, rimani, lasciami solo un momento per
abituarmi. Maher lo accarezza. Il dolore si attenua. A un
cenno di Sancho, Maher riprende ad avanzare. Il cazzo penetra ancora più a
fondo. Ondate di dolore travolgono Sancho. Maher capisce e si ritrae. Sancho
attende che il dolore si riduca, poi dice: - Entra di nuovo. - No, Sancho, ti faccio male. - È solo una questione di abitudine. Fallo di
nuovo. - Ne sei sicuro? - Sì. Maher annuisce. Nuovamente preme con il cazzo
contro l’apertura e la forza. Questa volta il dolore è minore. Maher avanza. Maher sente ondate violente di piacere. Ha
scopato con moltissimi uomini, ma non ne ha mai amato nessuno, non ha mai
pensato che un giorno avrebbe amato. Ora però sa di amare e questo sentimento
nuovo lo turba. Possedere Sancho è stato il suo sogno nell’ultimo mese, un
sogno che gli sembrava impossibile realizzare. Invece Sancho si è offerto e
ora lo sta prendendo. Ed è il piacere più intenso della sua vita. Sa che gli
sta facendo male e non lo vorrebbe, ma è stato Sancho stesso a dirgli di
proseguire. Maher sente il piacere crescere e infine
esplodere. Si abbandona su Sancho e fa fatica a non dirgli che lo ama. Aspetta un momento che il battito del suo cuore
rallenti, poi si volta sulla schiena, trascinando con sé Sancho e, mentre la
destra percorre il corpo in lunghe carezze, gli afferra il cazzo con la
sinistra. Gli fa piacere sentirlo rigido. Stringe con forza e muove la mano
verso l’alto e verso il basso, finché Sancho geme e il seme gli si spande
abbondante sul ventre. Maher lo stringe tra le braccia. Vorrebbe restare
così per sempre. Un'altra volta prova l’impulso di esprimere il sentimento
nuovo che prova, ma è certo che Sancho non lo ricambi e non vuole metterlo in
imbarazzo. Quando il cazzo, riducendosi di volume e perdendo
rigidità, esce dal culo di Sancho, questi scivola di lato. - Non voglio pesare troppo su di te. So di non
essere leggero. È vero, Sancho è pesante, ma a Maher piaceva
averlo su di sé. Ora sono distesi uno accanto all’altro. Da tempo
Maher ha un sospetto. Chiede: - Ti piace il giovane cristiano, Sancho? Sancho guarda Maher. La loro amicizia è profonda
e sa che l’amico non lo tradirà. - Sì, molto, ma non ci tengo a finire come lo
stalliere che fotteva Aaron. E non credo di piacere a lui. - Al tuo posto io ci proverei. Da quando gli
insegni l’arabo, mi sembra molto meno apatico. Prima… mi sembrava un morto
che cammina. Secondo me gli piaci. - Anche se lui ci stesse, sarebbe impossibile. - No, non sarebbe così difficile. Dovreste essere
molto prudenti, ma io vi darei una mano. Non durante le lezioni, certo,
perché siete sempre sorvegliati, ma in altri momenti. Sancho guarda l’amico, stupito dalla sua offerta
generosa. Rodrigo gli piace, ma poco gli importa di lui. L’uomo che desidera
è Maher. A lui si è offerto liberamente, per la prima volta nella sua vita. - Lascia perdere. Non ne vale la pena. Rischiare
la pelle per una scopata. Che senso ha? A Maher non dispiace il rifiuto di Sancho. Era
disposto ad aiutarlo, ma è contento di scoprire che non gli importa di
Rodrigo. Poco dopo Maher si solleva, si mette a cavalcioni
sulle gambe di Sancho e gli passa la lingua sul ventre e sul petto, dove si è
sparso il seme. Sancho ride e dice: - Sei proprio un porco! Alza le braccia e gli accarezza di nuovo la
testa, poi lo forza a stendersi su di lui e lo bacia. Dopo un momento dice: - Ora però è ora di lavarci e andare. Maher sa che l’amico ha ragione. Si alzano, si
lavano e si rivestono. Poi raggiungono Kharana. Il legame tra Sancho e Maher si rafforza con il
passare del tempo. Sancho si offre a Maher e lentamente il suo corpo si
abitua a essere posseduto: il dolore non scompare, ma si attenua, mentre il
piacere cresce. A sua volta Sancho prende Maher. Scopano soprattutto la
notte, quando non corrono il rischio che qualcuno li denunci al padrone
perché non lavorano: tra le guardie e i servi di casa, molti sarebbero
disposti a farlo. La voce circola, ma di loro due non importa molto agli
altri e in ogni caso, se scopano la notte, è solo affar
loro. Rodrigo è cambiato, come ha notato Maher. Per
quasi due anni è sprofondato in una completa apatia. Adesso però l’amicizia
con Sancho lo sta ridestando. Si impegna molto nell’imparare l’arabo, perché
torna a sperare di poter fuggire. Parla spesso con i servitori, per fare
esercizio. Ma si fa anche raccontare dove si trovano, per farsi un’idea e
studiare la possibilità di una fuga. Fa molta attenzione a mescolare le
domande che potrebbero insospettire il suo interlocutore con altre sulle
parole e le frasi da usare. Perciò dopo aver chiesto dove conduce una strada,
chiede se ci sono modi diversi per indicare una vera strada, una pista, un
sentiero. Anche il desiderio si sta risvegliando in lui.
Sancho è un amico, a cui è affezionato, perché è l’unico di cui si fida,
l’unico che non gli chiede nulla. Non lo attrae: ha un corpo molto forte, ma
non armonioso, e un viso deturpato dalla cicatrice. Rodrigo non ha mai preso
in considerazione la possibilità di scopare con lui, ma qualche cosa sta
cambiando. Ora che sta riprendendo a vivere, Sancho gli appare l’unico uomo a
cui potrebbe darsi. Non è certo innamorato: il suo è un desiderio fisico.
Vuole offrirsi liberamente e non essere preso solo da un cliente o da un
padrone. Fino a ora non ha detto nulla, ma un giorno la
loro conversazione prende una piega imprevista per entrambi. Sancho ha appena
detto: - Hai fatto progressi enormi in questi mesi. E
vedo che fai anche molto esercizio con gli altri schiavi. - Sì, voglio imparare davvero l’arabo. E un
giorno magari riuscire a fuggire. Sancho annuisce: - Se ci proverai, fa’ solo molta attenzione. Se
ti riprendessero, Omar ti farebbe uccidere. - Lo so. Ma questa non è vita. In ogni caso, non
sono ancora pronto. Devo imparare meglio la lingua e capire come muovermi. Rodrigo scuote la testa e aggiunge: - Grazie, Sancho, per tutto quello che mi sta
insegnando. Quando sono arrivato qui sapevo solo le parole che si usano in un
bordello. Rodrigo non ha mai detto di aver lavorato in un
bordello e Sancho pensa che si riferisca solo alla sua esperienza di schiavo
di piacere del suo precedente padrone. Ride e dice: - Nella vita servono anche quelle. Rodrigo annuisce. - È vero. Servono anche quelle, ma spero che Omar
sia l’ultimo arabo a prendermi. C’è un momento di silenzio. Poi Rodrigo dice: - Sancho, io… - Dimmi. Rodrigo china il capo. - Sancho, pensi che io e te riusciremmo a… a
scopare? Rodrigo ha usato il termine arabo. Sancho esita un momento. Poi risponde: - Sei sicuro di volerlo, Rodrigo? Ti ho
raccontato ciò che è successo ad Aaron. - Lo vorrei, ma non voglio certo importelo. Sancho ne farebbe a meno. Gli sembra un rischio
inutile. Ma si rende conto che il giovane ne ha bisogno, nel suo tentativo di
riemergere. - Per me va bene, figurati. Adesso studierò come
fare. La sera Sancho ne parla con Maher, che nasconde
il suo turbamento. L’idea che l’amico possa scopare con Rodrigo lo fa
soffrire, non per il rapporto in sé, ma perché teme che tra loro possa
nascere un sentimento. Maher sa bene di non poter competere con la bellezza
di Rodrigo e vedere Sancho allontanarsi sarebbe un dolore. Ma vuole bene a
Sancho e se l’amico desidera scopare con Rodrigo, lo aiuterà: per Sancho
sarebbe disposto a tutto. Il problema non è di facile soluzione. Bisogna
trovare un posto sicuro e assicurarsi che nessuno veda Rodrigo arrivare. L’ora
giusta potrebbe essere quella dopo la lezione, prima di cena: c’è un momento
in cui c’è molto movimento nella casa, perché i servitori rientrano dai loro
lavori ed è più facile passare inosservati. Trovare il posto adatto è più
complesso, perché dev’essere un luogo dove sia possibile recarsi senza
destare sospetti. Per Sancho e Maher è facile spostarsi per la casa: nessuno
bada a loro, purché non entrino nei locali a cui possono accedere solo le
guardie o i servitori di livello superiore. Per Rodrigo è più difficile
muoversi: in qualche modo è sempre sotto sorveglianza. E proprio perché è
l’ora in cui c’è molto movimento, è facile che qualcuno lo veda. Infine Maher propone il tetto di un edificio
basso, accanto alla casa padronale: per la sua posizione, nessuno può vedere
ciò che succede in cima, se non dalla camera di Rodrigo, che può facilmente
accedervi, passando dalla finestra. Sancho può salirvi con l’aiuto di Maher
da un angolo dove nessuno può vederlo. Maher rimarrà di guardia. Verso sera, quando ormai il sole sta tramontando,
Rodrigo si affaccia alla finestra e, dopo essersi guardato intorno, si cala
sul tetto sottostante. Sancho sale con l’aiuto di Maher, che poi si
dirige al pozzo, dove tira un secchio d’acqua e se lo rovescia addosso per
lavarsi: non è la prima volta che lo fa, visto che nel bagno dei servitori
non è ben visto. Intanto sul tetto Sancho e Rodrigo si sono stesi:
non possono stare in piedi, perché rischierebbero di essere visti. Sancho
abbraccia Rodrigo e lo bacia. Il giovane però non ricambia il bacio con
trasporto: il viso sfigurato dell’amico lo disturba. Sancho sussurra: - Hai cambiato idea? - No, di certo. Allora Sancho volta Rodrigo e si stende su di
lui. Gli mordicchia un orecchio e gli accarezza i capelli. Le sue labbra scendono
alla nuca e vi depongono un bacio leggero. Sancho è molto dolce e Rodrigo si stupisce della
delicatezza dei suoi gesti: né Jorge da Toledo, né i clienti del bordello, né
certamente Omar sono mai stati molto teneri. Rani
sapeva mescolare forza e dolcezza, ma questa tenerezza è del tutto nuova,
questa rete di carezze che ora lo avvolge è piacevolissima. Nessuno lo ha mai
abbracciato così e Rodrigo non conosce le parole per esprimere le sensazioni
che le carezze di Sancho destano in lui. Si limita a mormorare: - Sì. Ora le mani di Sancho sfiorano la sua pelle nuda
e Rodrigo sente che gli manca il fiato. I movimenti di Sancho diventano più
decisi, le sue dita pizzicano la carne, la afferrano, ma la bocca ancora
bacia. È bella questa mescolanza di tenerezza e forza. Le mani di Sancho percorrono ancora il suo corpo
e il suo capo, giocano con i suoi capelli. E Sancho sussurra parole, ora
dolci come le sue carezze, ora più forti, come le mani quando stringono. Nel buio che lentamente li avvolge, a Rodrigo
pare di fluttuare nel vuoto. Chiude gli occhi e si abbandona a questo piacere
così dolce. Ora la pressione del cazzo di Sancho contro il
suo culo lo stordisce, ma l’amico non sembra avere fretta. Incomincia a
passargli la lingua dietro l’orecchio, poi sul collo. Le sue mani percorrono
il corpo di Rodrigo e il contatto suscita nuove vibrazioni in lui. Il
desiderio sale, si moltiplica, incendiando ogni fibra della sua carne, che
arde. Il peso sul suo corpo scompare. Sancho gli
allarga le gambe e Rodrigo sente una carezza umida scorrergli lungo il solco.
La lingua di Sancho indugia sull’apertura, poi l’uomo si stende su di lui e
Rodrigo sente il cazzo avanzare e farsi strada dentro il suo culo. Geme, di puro piacere, perché questa volta non
c’è sofferenza. Il peso del corpo di Sancho sul suo, il cazzo che si fa
strada dentro di lui, le mani di Sancho che lo accarezzano, i denti di Sancho
che gli mordicchiano il lobo dell’orecchio, la lingua di Sancho che scivola
dietro l’orecchio e poi sul collo, tutto lo stordisce e moltiplica il suo
piacere. - Sancho! Sancho gli tappa la bocca. Rodrigo ha pronunciato
il suo nome troppo forte. Ma per il giovane tutto è scomparso, Omar si è
dissolto nel buio che cala. Non esiste più nulla, se non il corpo di Sancho
sul suo, dentro il suo, se non il palo che gli scava nelle viscere,
accendendogli i sensi. Morde leggermente le dita di Sancho che poggiano
sulla sua bocca. Le spinte diventano più intense e frequenti.
Rodrigo geme, cercando di costringere la voce in un sussurro. Anche dentro di
lui il piacere sta esplodendo. Viene un momento prima di Sancho. Quando l’ultimo
fiotto di seme esce, sente che Sancho spande il proprio nel suo culo. - Tutto bene, Rodrigo? - Grazie, Sancho. È stato bellissimo. Rimangono un attimo così, poi Sancho dice: - È ora che tu vada. Rodrigo torna in camera, scavalcando il davanzale
della finestra. Sancho si sposta, rimanendo chinato, fino al
punto da cui può scendere. Maher è seduto sotto il muro. Sancho lo chiama.
Maher si guarda intorno. Non c’è nessuno. Si mette in piedi. Sancho si cala,
mettendo i piedi sulle sue spalle e poi di lì scende a terra. - Grazie, Maher. Lo bacia sulla bocca. Sancho e Rodrigo si ritrovano altre volte, sempre
allo stesso modo. Omar si accorge che Rodrigo reagisce in modo
diverso alle sue carezze. All’inizio sembra ancora sottomettersi
controvoglia, ma poi il desiderio si accende in lui e quando Omar conclude,
spesso anche il giovane ce l’ha duro. Omar è contento di questo successo, che
solletica la sua vanità. Non sospetta la verità, non capisce che un altro
corpo accende il desiderio di Rodrigo e che altre mani lo hanno guidato al
piacere, che nell’incontro dei corpi il pensiero di Rodrigo va un altro maschio, ben più vigoroso. E se
mai gli venisse qualche dubbio in proposito, Omar non penserebbe mai che
Rodrigo possa darsi a Sancho, uno schiavo sfregiato che fa i lavori di
fatica. L’esperienza con Aaron non gli ha insegnato nulla. D’altronde a Omar
è giunta voce che Sancho e Maher scopano insieme la notte: un motivo in più
per non prendere neanche in considerazione l’ipotesi che Rodrigo si offra a
Sancho. Rodrigo non è certo Maher e solo un Maher può scopare con Sancho. Maher invece ha smesso di avvicinarsi a Sancho la
notte. Il cristiano lascia passare qualche giorno: non è raro che la sera
siano tutti e due talmente stanchi da non avere voglia di scopare. Ma,
vedendo che la situazione non cambia, decide di affrontare l’argomento una
sera in cui sono stesi uno a fianco dell’altro. - Maher, c’è qualche problema? - Perché me lo chiedi? - Perché prima scopavamo molto spesso e adesso
invece mi sembra che tu non ne abbia mai voglia. - Ne ho sempre voglia, Sancho. Ma io non sono
certo il giovane cristiano, lo so bene. - Il giovane cristiano mi piace molto, ma non mi
sono innamorato di lui. Non ho scordato Grandecazzo
e con lui scopo sempre volentieri, molto più volentieri che con Rodrigo.
Sempre che lui mi voglia. Maher è sorpreso. - Ti do più piacere io di Rodrigo? - Certo, molto di più, ma non è questo, Maher. Io
ti voglio bene, davvero. Rodrigo ha un bel corpo e scopo volentieri con lui,
ma di lui non m’importa. E mi chiedo se quello che facciamo ha senso:
rischiamo la pelle per qualche cosa che per me non ha importanza. Lo faccio
perché mi sembra che lui ne abbia bisogno. E, sinceramente, mi fa pena. - Sì, credo anch’io che ne abbia bisogno. - Ma io amo te, Maher. Sancho l’ha detto senza nessuna enfasi. E Maher
chiude gli occhi, travolto da qualche cosa che gli esplode nel petto. Gli ci
vuole un buon momento per riuscire a dire: - Anch’io ti amo, Sancho. Gli sembra incredibile che l’amico ricambi il suo
sentimento. E una sensazione di benessere lo invade. Il loro amarsi questa notte ha una dolcezza
incredibile. Quando infine il loro abbraccio si scioglie,
Sancho dice: - Maher, vorrei poter essere libero, lontano da
qui. Con te. - È ciò che desidero di più anch’io. - Non pensi che potremmo fuggire? Maher lo ha pensato più volte, ma non ha mai
osato dirlo. Sa quanto sia pericoloso. Se Omar li rintracciasse, la loro
punizione sarebbe terribile. Li farebbe uccidere, ma in modo atroce. Potrebbe
persino farli impalare, come i briganti, per dare un esempio a tutti gli
altri schiavi: Omar è un uomo spietato. Parlano più volte di come fuggire, ma sanno che
difficilmente riuscirebbero ad allontanarsi. Non si muovono a cavallo, salvo
rare eccezioni, e a piedi non andrebbero molto lontano prima di essere
raggiunti. Devono attendere l’occasione giusta. Intanto l’estate è arrivata. Le operazioni
militari ad Acri sono riprese, ma quando, con l’arrivo di Denis d’Aguilard, Salah ad-Din decide di arretrare il campo, c’è un momento di
tregua. Salah ad-Din dà
qualche giorno di libertà a Barbath. Questi
potrebbe raggiungere l’Arram, ma sa benissimo che i
suoi fantasmi acquisterebbero ancora maggior forza là, per cui preferisce
recarsi a Jabal al-Jadid. L’emiro ‘Izz decide di
organizzare un grande banchetto in onore del comandante dell’esercito e
invita coloro che non sono al fronte, come lo sceicco di Shakra,
che ha preferito non tornare a combattere sotto le mura di Akka. Lo sceicco invita i signorotti del suo dominio, tra
cui sayyd Omar. Questi non è a Kharana,
perché in estate trascorre spesso brevi periodi in una residenza estiva ai
piedi dei monti, che ha acquistato di recente. Vi si è recato con Rodrigo e
alcuni servitori, tra cui Sancho. È lì che lo raggiunge il messaggio dallo sceicco
di Shakra. L’invito è di fatto una convocazione, a
cui difficilmente Omar potrebbe sottrarsi senza offendere il potente signore
da cui dipende il suo territorio. E d’altronde aver ricevuto l’invito è un
riconoscimento della sua posizione di prestigio. I tempi però sono stretti: Barbath non si ferma a lungo e il messaggero ha perso un
giorno perché si è recato prima a Kharana. Omar fa preparare i bagagli: andrà direttamente
dalla villa a Jabal al-Jadid. Manda due servitori
al palazzo, per prendere alcuni abiti più eleganti e gioielli, che non ha
portato con sé in questa residenza di campagna. Poi parla con Rodrigo: - Talal, sono invitato
dall’emiro ‘Izz ibn
Ashraf, il signore di Jabal al-Jadid. Avrai modo di
conoscere lui e il grande Barbath, che era il
comandante dell’esercito e ora è il signore dell’Arram.
L’emiro ha organizzato un banchetto in suo onore. A sentire il nome di Barbath
Rodrigo aggrotta la fronte. Omar se ne accorge. - Che c’è, Talal? Rodrigo china la testa. - Niente, mio signore. Ho conosciuto il
comandante Barbath. - Ah, sì? Quando? - Quando ero nel bordello di Abdallah. Non occorre altro. Barbath
ha scopato con Talal e sa che lavorava nel
bordello. Se il comandante è informato del rapimento di Talal,
Omar dovrà giustificarsi per aver tenuto Rodrigo presso di sé. Potrebbe dire
che non ne sapeva niente, ma in ogni caso Talal
verrebbe reso al proprietario, della cui morte Omar non è informato. Oppure
se lo prenderebbe Barbath: tanto, chi potrebbe
controllare se lo restituisce o meno? E un’altra idea si insinua: anche se Barbath non sapesse niente, non potrebbe voler di nuovo
prendere il giovane? Come potrebbe opporsi Omar? Barbath
è stato il comandante delle truppe dell’emiro di Jabal al-Jadid,
ha guidato l’esercito di Salah ad-Din,
dal sultano ha ricevuto il territorio dell’Arram.
Se volesse il suo schiavo, chi potrebbe impedirgli di prenderselo? E c’è
ancora un altro rischio, perfino maggiore: se Rodrigo, portato via da Barbath, raccontasse poi che Omar ha fatto uccidere Rani? Omar sarebbe arrestato e poi decapitato. Rodrigo non può venire a Jabal al-Jadid. Deve ritornare a Kharana.
Omar non ha intenzione di passarvi, per cui Rodrigo sarà riaccompagnato da
alcuni servitori. Omar non è contento di non poterlo esibire alla corte di ‘Izz, ma non può correre rischi. Non è neanche contento di
farlo viaggiare con pochi uomini, perché con la guerra in corso, i briganti
spadroneggiano sulle montagne: ormai hanno perso ogni ritegno. Ma Omar è
convinto che non oseranno attaccare i suoi uomini. Il giorno dopo Omar parte per Jabal al-Jadid e quattro servitori con Sancho e Rodrigo si
dirigono a Kharana. Sono partiti il mattino e
arriveranno nel tardo pomeriggio. Rodrigo è contento di rimanere lontano da
Omar per un po’. Stanno scendendo lungo un vallone, quando
improvvisamente un gruppo di cavalieri compare a una svolta della pista e
avanza al galoppo verso di loro. Di certo sono alcuni dei briganti che
infestano le montagne, quelli del terribile Ferdinando. I servitori sono armati e sguainano le spade, ma
gli uomini che li attaccano sono guerrieri esperti e hanno facilmente ragione
di loro. Quando due uomini vengono feriti, gli altri due si arrendono. Sancho
e Rodrigo hanno assistito impotenti al breve scontro: non hanno armi perché
lo sceicco non permette loro di portarne. Sancho si è messo davanti a
Rodrigo, per proteggerlo. Uno dei briganti gli si avvicina. - Sancho! Che ci fai qui? Sancho lo riconosce immediatamente: è Unrod, un guerriero vichingo con cui ha avuto modo di
combattere. Si stupisce di ritrovarlo tra i briganti, ma sa che molti
guerrieri cristiani lo sono diventati dopo la sconfitta di Hattin. - Sono schiavo di sayyd
Omar. Unrod ride: - Ora non sei più schiavo. Verrai con noi. Ti
spiegherò. Poi aggiunge, indicando Rodrigo: - E lui? - È anche lui un cristiano, schiavo di sayyd Omar. Era un templare. I briganti prendono i cavalli, le armi e tutto
quanto può servire. I quattro servitori sono lasciati liberi di proseguire a
piedi. Le ferite non sono gravi e dovrebbero riuscire a raggiungere Kharana. Rodrigo e Sancho seguono i briganti che
risalgono per i monti. Non sanno bene che cosa li attende. Unrod ha detto a Sancho che non è più schiavo, ma la
libertà, che due mesi fa gli appariva un sogno irrealizzabile, ora gli sembra
inaccettabile, se comporta la separazione da Maher. Man mano che aumenta la
distanza che lo separa da Kharana, Sancho si sente
sempre più smarrito. Prova l’impulso di voltare il cavallo e tornare alla sua
condizione di schiavo, ma prima di farlo vuole vedere se non sarà possibile
trovare il modo di liberare anche Maher. A Rodrigo pare incredibile di essere infine
libero. I dubbi riguardano l’accoglienza che troverà nel castello dei
briganti. Non lo violenteranno? Pare che al famoso Ferdinando piacciano i
maschi e che li prenda con le buone o con le cattive. Cavalcano tutto il giorno e solo quando ormai è
quasi notte raggiungono l’ingresso di una grotta, dove vi sono due uomini di
guardia. La caverna, che ha un ingresso non molto grande, all’interno si
allarga, dividendosi in due vaste cavità. In una vengono sistemati i cavalli,
nell’altra sono già riuniti diversi briganti. Il posto deve essere usato
spesso come rifugio, perché è attrezzato con pagliericci, cuscini e utensili
da cucina. Sancho e Rodrigo vengono accolti calorosamente: i
briganti, quasi tutti cristiani, li considerano due dei loro e sono contenti
di averli liberati. Sancho osserva i briganti e soprattutto il loro capo, il
temibile Ferdinando da Siracusa. Ne ha sentito parlare molte volte e il
solito Khader lo chiama Cazzodiferro o Cazzodifuoco. A Kharana di lui dicono che è un ginn,
perché i contadini della zona a volte lo vedono più giovane, a volte più
vecchio: non sanno che tra i banditi che vivono nel castello di Jibrin c’è il nipote di Ferdinando, che porta lo stesso
nome. Nando non c’è, per cui Sancho vede solo lo zio. Poi si siedono tutti a terra per mangiare: un
cinghiale è stato cotto sul fuoco e a tutti vengono distribuite generose
porzioni. Non ci sono stoviglie o posate: si mangia con le mani. C’è qualche
cosa di animale in questo pasto. Rodrigo pensa che c’è qualche cosa di animale
anche in questi volti, su cui la luce delle torce e di due lanterne proietta
ombre fluttuanti. Maschi forti, che affondano i denti nella carne, ne
strappano pezzi, li ingurgitano. La notte è calda e gli uomini indossano pochi
abiti: molti hanno solo i pantaloni, due sono nudi. Quando tutti hanno finito di mangiare, Rodrigo si
accorge che due uomini si stanno baciando. Li osserva, stupito di vederli
manifestare il loro legame così apertamente. Il suo sguardo scorre tra gli
altri uomini presenti nella sala, per vedere le loro reazioni, e si accorge
che parecchi si stanno spogliando. Si chiede che cosa intendano fare. La
risposta gli arriva subito. C’è un giovane davanti a lui che si è appena
calato i pantaloni e ora gli dà la schiena. Rodrigo può ammirarne il culo,
coperto da una peluria nera che arriva fino alla vita. - Vieni qui, Rashid. Rodrigo non conosce l’uomo che ha rivolto
l’invito e che ora si sta spogliando. Rashid si
volta verso di lui, ride e si avvicina. Rodrigo vede che il giovane è circonciso:
come già il nome suggeriva, dev’essere musulmano. Anche il petto e il ventre
sono alquanto villosi. L’uomo che lo ha chiamato lo afferra e lo stringe tra
le braccia, poi, con un movimento rapido, lo volta e lo fa mettere a quattro
zampe. Intorno altri uomini si stanno spogliando o
abbracciando e talvolta baciando, alla luce delle torce e di due lanterne.
Rodrigo cerca con gli occhi Ferdinando, che tutti dicono essere un magnifico
stallone. È in piedi e un brigante si sta inginocchiando dietro di lui, mentre
un altro è davanti. Quello dietro gli appoggia le mani sulle cosce, avvicina
la bocca a una natica e morde con decisione. Ferdinando gli molla uno scappellotto. - Se hai fame, c’è ancora del cinghiale, Basan. Intanto un altro uomo si è inginocchiato davanti
a Ferdinando. Le sue mani scorrono sui fianchi del conte, scendendo fino alle
ginocchia, poi risalgono, mentre la bocca avvolge la cappella del
capobrigante. Ormai i briganti sono quasi tutti impegnati a
scopare, nelle posizioni più diverse. Vicino a Rodrigo c’è Unrod,
nudo come ormai quasi tutti. Un corpo forte, su cui si intrecciano numerosi
tatuaggi; un viso molto virile, ma bello; capelli lunghi e barba colore del
grano. - Tu non partecipi, Rodrigo? Rodrigo lo guarda, incerto. Con lo sguardo cerca
Sancho, ma l’amico sta parlando con un guerriero che conosce e non sembra
badare a ciò che sta avvenendo nella grotta. Guarda di nuovo Unrod. Questi gli tende la mano. Rodrigo la prende e Unrod lo attira a sé, facendolo alzare, poi lo abbraccia
e lo bacia. - Io mi chiamo Unrod e
vengo dalla Svezia. Poi ride e aggiunge: - Ti abbiamo liberato ed è giusto che tu mostri
un po’ di riconoscenza, no? Rodrigo sorride, un po’ incerto. Unrod è un bell’uomo e non gli spiace rimanere tra le sue
braccia, ma Unrod di certo non intende fermarsi lì.
E infatti le sue mani gli stringono vigorose il culo. - Hai un bellissimo culo, Rodrigo. Rodrigo sorride, incerto, ma il suo corpo si
accende. Unrod è un bell’uomo, molto più di Sancho.
Perché no? Si abbandona alla stretta. Unrod lo distende
sui cuscini. Rodrigo sente le sue dita umide scivolare lungo il solco, poi
introdursi, forzando l’anello di carne. Rodrigo si abbandona a questa
carezza. Mormora: - Sì! Rodrigo sente la pressione del cazzo di Unrod, che sta entrando dentro di lui. È abituato a
essere penetrato, ma solo Sancho e, in misura minore, Rani
hanno saputo destare qualche cosa in lui. È bello darsi liberamente, senza
costrizioni, senza paura di essere scoperti, senza rischiare la vita. Unrod avanza con cautela. Ora si ferma. Rodrigo sente
un'ondata di piacere diffondersi in tutto il suo corpo. - Sì, Unrod, sì! Così! È una sensazione fortissima. Unrod
non ha la tenerezza di Sancho, ma a Rodrigo piace la forza con cui quest’uomo
lo prende. Unrod gli
sussurra, ridendo: - Ti piace, eh? Rodrigo fa un cenno di assenso. Unrod prende a
muoversi avanti e indietro e ogni volta che Rodrigo sente il cazzo affondare
dentro di lui, il piacere diviene più forte. Senza accorgersene grida: - Sì, sì! Unrod ride. Poi
riprende a cavalcare, con movimenti lenti, che solo verso la fine diventano
più veloci. Rodrigo sente il fiotto che gli inonda le
viscere. Unrod si volta sulla schiena, portandolo
con sé. La mano del tedesco gli accarezza le palle, poi sale all’uccello.
Rodrigo sente il piacere travolgerlo, mentre viene. Rodrigo si guarda intorno. In tutta la sala corpi
nudi si muovono e si intrecciano, in un gioco dove non c’è spazio per il
pudore. Ferdinando si avvicina. Lo sguardo di Rodrigo
scende lungo il corpo possente del conte, l’ampio torace, il ventre
sporgente, il magnifico cazzo ancora turgido, ma non più teso. - Rodrigo, sono contento che tu ti stia
divertendo. Sei nostro ospite ed è giusto che ne approfitti. Unrod ha avuto la sua parte, adesso non vuoi divertirti
con qualcun altro? Non sono molte le occasioni in cui puoi scegliere tra
tanti cazzi, culi e bocche. E credo che tutti sarebbero ben contenti di
soddisfare un bel giovane come te. Unrod tiene
Rodrigo tra le braccia e risponde al suo posto: - Lui sta bene qui. Vero, Rodrigo? Ferdinando alza le spalle. - Va bene, provavo volentieri qualche cosa di
nuovo, ma pazienza. Magari l’altro nuovo acquisto è più disponibile. Ferdinando si avvicina a Sancho, che, appoggiato
al muro, guarda il gioco dei corpi. Si è spogliato anche lui e ha il cazzo
duro, ma non si è avvicinato a nessuno. - Sancho, non hai voglia di divertirti un po’? Poi Ferdinando afferra con la destra il cazzo di
Sancho e dice: - Sei ben dotato anche tu, porcoddio! Sancho sorride. Tende un braccio e la sua mano
scorre sul petto di Ferdinando, perdendosi tra la peluria fitta, intrisa di
sudore. L’odore, forte, di questo magnifico maschio lo inebria. Pensa a un
altro maschio, lontano, ma scaccia il pensiero: ora vuole godere di questo corpo Ferdinando lo avvicina a sé, lo stringe tra le
braccia, una mano scivola sulla schiena di Sancho fino a raggiungere il culo.
Le dita scorrono lungo il solco, l’indice forza l’apertura, che oppone
resistenza, e si infila dentro. - Allora, che ne dici? Ci mettiamo dentro qualche
cos’altro? Sancho annuisce. - Sì, ma vacci piano. Non sono abituato a farmi
impalare. Ferdinando ride. - Adesso te lo faccio provare. Non è così terribile. Sancho annuisce. - Lo spero. Come mi metto? - Direi a quattro zampe, ma se avessi
voglia di lavorare un po’ con la bocca, prima… - Perché no? Sancho si inginocchia. Guarda il
magnifico cazzo di Ferdinando. Non ha mai visto nulla del genere. Gli piace
sentirne gli odori e lo gusta volentieri. Lo prende in bocca e incomincia a
succhiarlo. Lo sente crescere di volume in fretta e irrigidirsi. È davvero
splendido. Ferdinando ride e dice: - Ora a quattro zampe! Sancho obbedisce. Ferdinando guarda il
culo. Gli piace questo culo forte, coperto da una peluria fitta e scura.
Ferdinando si inginocchia e assesta due morsi. Sancho sussulta. Ferdinando passa due dita lungo il solco. Poi sputa sulla mano e inumidisce bene l’ingresso. Sa che la sua arma è formidabile e deve muoversi con cautela, anche se di certo per Sancho non è la prima volta. Quando Ferdinando introduce un dito per inumidire bene l’anello di carne, Sancho sussulta e geme, un gemito di piacere. Ferdinando si bagna di nuovo le dita e ne introduce due, per preparare meglio la strada. Anche se ha dita grosse, due dilatano l’apertura molto meno del necessario per accogliere il suo cazzo. Sancho geme di nuovo. Ferdinando estrae le dita, afferra il culo di Sancho con le mani e lo stringe con forza. Poi divarica le natiche, avvicina piano la cappella all’apertura e con lentezza la spinge dentro. Si muove piano, come fa sempre, per non fare male. Sancho solleva la testa, mentre il suo corpo è percorso da un brivido. Ferdinando spinge il cazzo ben avanti nel culo di Sancho, che ora geme senza ritegno. Ferdinando inizia a muovere avanti e indietro il culo, con lentezza, Sancho ha piccoli movimenti convulsi, come se volesse sfuggire allo spiedo che lo trapassa e gli trasmette sensazioni violente. Vanno avanti a lungo: Ferdinando è un bravo stallone e Sancho non chiede di meglio. E infine Sancho lancia un grido, squassato da un piacere che deborda. Ferdinando accelera il ritmo e viene dentro di lui. Rimangono un buon momento così, poi Ferdinando si alza e anche Sancho si solleva. Mormora: - Cazzo, Ferdinando. Nessuno mi ha mai scopato così. Ferdinando sorride. - Quando vuoi riprovare, basta che tu
me lo dica. - Ho sentito spesso dire che eri il
migliore stallone di tutta la Siria. Io non ho molta esperienza: a parte il
mio compagno e Barbath, nessun altro mi ha mai … Sancho non conclude: - Barbath? Ti
ha fottuto Barbath? -
Sì, sono stato suo schiavo. È stato il primo a fottermi, qualche mese fa. Mi
hanno catturato ad Acri. Ma… tu lo conosci? Ferdinando ride. - Certo e anche piuttosto…a fondo. - Ma allora… Ferdinando sei tu! Ferdinando non capisce. - Certo che Ferdinando sono io. - No, voglio dire… Barbath
mi fotteva, ma l’ultima sera si è fatto fottere lui e mi ha chiamato
Ferdinando. Aveva in mente te. - Può essere. Ci siamo incontrati l’anno scorso.
Non so che dire… si è comportato in modo strano… La sera Rodrigo dorme accanto a Unrod. Sancho dorme in un angolo, tra gli altri. È stato
contento di scopare con Ferdinando, ma adesso il pensiero va a Maher. La
libertà non vale l’essere separato da lui. A Kharana Maher ha
saputo dell’attacco. Sancho e Rodrigo se ne sono andati con i banditi. Sancho
è libero e questo è un bene per lui, ma l’idea di non rivederlo più è una
sofferenza atroce. Maher si chiede se non cercare di scappare e raggiungere i
briganti. Quasi sicuramente lo catturerebbero prima che riuscisse ad arrivare
sui monti: non può prendere un cavallo e a piedi non andrebbe lontano.
L’intendente teme l’ira del padrone, anche se non ha nessuna colpa per la
perdita dei due schiavi cristiani. Se Maher scappasse, cercherebbe di
riprenderlo a ogni costo e di certo Omar scaricherebbe la sua furia su di
lui. Maher passa la notte in bianco, preda di una
sofferenza che cerca di contenere dicendosi che Sancho è libero, che questa è
l’unica cosa che conta. Ma gli sembra che un cane gli roda il cuore. Il giorno dopo i briganti raggiungono il castello
di Jibrin. Ferdinando dice a Sancho e Rodrigo che
sono liberi e che possono fare ciò che desiderano: rimanere nel castello,
unendosi a loro, o andarsene. Rodrigo non ha intenzione di diventare un
brigante, ma decide di rimanere per qualche tempo a Jibrin:
prima di cercare di raggiungere i territori cristiani vuole riprendere a
usare le armi e ha bisogno di capire come muoversi per attraversare i
territori riconquistati dagli arabi senza farsi nuovamente catturare. A Jibrin ogni mattina
gli uomini si esercitano con le armi. Rodrigo si dedica a farlo con grande
energia. Vuole lasciarsi alle spalle la sua vita di prostituto e schiavo di
piacere e tornare a essere un guerriero. All’inizio fa fatica e si stanca
rapidamente, ma giorno dopo giorno il suo corpo recupera forza. Vuole unirsi
alle truppe che combattono contro Salah ad-Din e fare strage dei saraceni. Spera un giorno di
trovarsi di fronte uomini come Abedin, che lo hanno
preso, e di vendicarsi uccidendoli. Si rende conto di provare nei loro
confronti un odio feroce, di cui non era consapevole quando era al bordello o
da Omar. Rodrigo non partecipa alle orge pomeridiane, ma
scopa volentieri con Unrod. Il vichingo è un
bell’uomo e sa essere delicato con lui. A volte Rodrigo immagina di andarsene
insieme a lui, altre volte pensa che quando sarà con l’esercito cristiano,
non avrà più rapporti sessuali con nessuno. Vuole lasciarsi alle spalle il
passato, ma il futuro gli appare molto vago. Sancho invece non desidera combattere ancora.
Potrebbe cercare di raggiungere Tiro, ancora in mano ai cristiani, per fare
poi vela verso la Castiglia, ma non ha nessuna intenzione di farlo. Non
intende neppure rimanere con Ferdinando e gli altri, se non per un po’ di
tempo. È un uomo libero, ma nel castello di Kharana
c’è Maher e Sancho non vuole separarsi da lui. Come liberarlo? Sancho
riflette a lungo. Vede un’unica via, molto rischiosa. Decide di parlarne con
Ferdinando. - Ferdinando, ho bisogno di parlarti. - Dimmi. - A Kharana è rimasto
un mio amico, anche lui schiavo. Io vorrei liberarlo. - Non vedo proprio come potresti fare. Non
possiamo certo attaccare Kharana. - No, però potremmo attirare sayyd
Omar in una trappola. Sancho espone il piano che ha formulato.
Ferdinando ne valuta i rischi, che non sono pochi: sarebbe un’azione
clamorosa, destinata a provocare una reazione, ma finché la guerra è in
corso, difficilmente Jibrin verrà assediato e
quando la guerra si sarà conclusa, nessuno al mondo può salvare la fortezza e
i briganti che vi si trovano. - Sancho, è un buon piano, ma i rischi per te
sono fortissimi. Omar potrebbe tenerti come schiavo, rinunciando a
vendicarsi. E se sospettasse qualche cosa, per te sarebbe il palo. Sancho annuisce. Lo sa benissimo. - Sono disposto a correre il rischio, Ferdinando. - Ami così tanto il tuo amico da accettare di
morire per liberarlo? - Sì. Ferdinando prova una fitta. Il pensiero va a un
uomo che ama e per cui sarebbe disposto a morire, anche adesso. Ma quest’uomo
lo ha lasciato. - Va bene. Ferdinando manda un uomo a tenere sotto controllo
Kharana, per scoprire se Omar è già tornato. Omar è stato avvisato dell’accaduto, ma non ha
potuto lasciare Jabal al-Jadid prima della fine dei
festeggiamenti in onore di Barbath. Non appena è
possibile rientra a Kharana. È furibondo e se la
prende con i quattro uomini che non hanno saputo respingere i briganti.
Vorrebbe andare a stanare quei fottuti figli di puttana che hanno osato
sfidarlo rubandogli due schiavi, ma non ha certo le forze necessarie per
assediare Qasr al-Hashim.
Del suo pessimo umore fanno le spese tutti, a cominciare da Maher, che già
soffre della separazione da Sancho. La situazione cambia completamente quando, tre
giorni dopo l’arrivo di Omar, Sancho raggiunge Kharana.
Sa di rischiare il tutto per tutto. Se non riuscirà a convincere Omar, sarà
di nuovo uno schiavo, con ben poche speranze di poter recuperare un giorno la
libertà. Se Omar sospetterà la verità, lo farà impalare. Ma Sancho è disposto
a morire, pur di non separarsi da Maher. Appena arriva, Sancho dice che ha bisogno di
parlare con il padrone. Omar è stupito di vederlo: lo pensava fuggito o al
massimo morto o prigioniero dei banditi. Di certo non si aspettava il suo
ritorno. - Sancho! Qui! I briganti non ti avevano
catturato? - Sì, ma ho rubato un cavallo e sono riuscito a
fuggire. Omar non capisce perché lo schiavo cristiano sia
tornato da lui invece di unirsi ai briganti o cercare di raggiungere i territori
franchi. - Perché non sei rimasto con i briganti? - Padrone, non voglio finire impalato. E poi non
sono un brigante, io. Ho aspettato che un gruppo di loro si allontanasse.
Vengono da queste parti, nel vallone di Abir, e mi
sono detto: se permetto al mio padrone di catturare Ferdinando e i suoi
uomini migliori, di certo mi ricompenserà, ridandomi la libertà: so che la
testa del brigante vale molto di più di uno schiavo con un occhio solo come
me. Omar annuisce. Di certo catturando Ferdinando
otterrebbe una grande ricompensa da Salah ad-Din e dall’emiro di Jabal al-Jadid.
Potrebbe davvero lasciare libero lo schiavo. Ma questo lo valuterà. Prima
però vuole sapere un’altra cosa. - Che ne è di Talal? - È con loro, con il gruppo che raggiungerà
domani il vallone di Abir. È diventato anche lui un
brigante. Se l’è preso Ferdinando. Sancho inventa questo dettaglio per spingere Omar
all’azione. Lo vede rabbuiarsi e fremere. È il momento di procedere con il
piano. - Ascoltami, se vuoi ucciderli, ti posso guidare
al loro accampamento. Credo di saper ritrovare la strada, si sono fermati lì
quando c’eravamo anche io e Talal. Non sono molti:
solo una dozzina di uomini, gli altri sono rimasti a Qasr
al-Hashim, il castello di Jibrin,
come lo chiamano loro. Lo sceicco Omar riflette. Liberarsi di quei figli
di puttana sarebbe un’ottima cosa. Può facilmente reclutare una ventina di
uomini validi e se davvero possono coglierli di sorpresa, non sarà difficile
sbarazzarsi di loro. Salah ad-Din
gli darà una grande ricompensa, Talal tornerà nelle
sue mani e ci sarà una fila di pali con i corpi dei briganti. Li farà
impalare non lontano dal castello, in modo da poterli vedere ogni mattina
dalle mura. E se Ferdinando ha osato prendere Talal…
lo farà castrare, certamente. Li farà castrare tutti. Ma per Ferdinando
inventerà qualche cosa che lo faccia soffrire più a lungo. Gli farà mangiare
il cazzo e i coglioni dai ratti, mentre è ancora vivo, sì, questa potrebbe
essere una buona idea. - Sei sicuro di potermi condurre da loro? - Sì, sceicco. - Sei sicuro che siano solo una dozzina? - Sì, li ho visti partire. Ferdinando, Talal e altri dieci. Talal non
è certo in grado di combattere, per cui sono solo undici. Possiamo
sorprenderli mentre dormono. Non possono certo pensare che tu sai dove sono. - Ma tu sei scappato. Potrebbero sospettare. - Mi sono allontanato dal castello con una scusa,
dopo che gli altri erano già partiti. Anche se sospettassero che sono venuto
ad avvertirti, non farebbero in tempo ad avvisare gli altri. Se ci muoviamo
oggi, li becchiamo di sorpresa. Omar ha ancora un dubbio. Aggrotta la fronte e
chiede: - Perché non sei scappato verso il territorio
della tua gente, Sancho? Sancho sorride. - Perché se uccidiamo Ferdinando, tu mi renderai
la libertà. E potrò tornare a casa, tra la mia gente, senza rischiare che
qualcuno mi fermi per strada come schiavo fuggitivo. Omar non dubita della parola di Sancho: sa che
avrebbe davvero potuto prendere la direzione opposta e raggiungere i
territori dei franchi. Parlando bene l’arabo, non gli sarebbe stato
difficile, anche se la cicatrice lo rende più riconoscibile. - Va bene. Dà ordine di preparare tutto per la spedizione.
Prende con sé tutte le guardie, tranne due, e alcuni servitori in grado di
maneggiare armi: venti persone in tutto. Lascia a Kharana
i contadini, Maher e gli altri uomini che svolgono lavori pesanti: non hanno
dimestichezza con le armi e qualcuno potrebbe essere tentato di fuggire. Maher ha saputo dell’arrivo di Sancho a Kharana. Non gli sembra possibile, non riesce a darsi una
spiegazione di questo ritorno inatteso. Cerca di non tradire il tumulto del
suo cuore con gli altri, ma aspetta di vederlo, di parlargli, di capire. Sancho passa un attimo da lui, mentre sta
lavorando. Si abbracciano, poi Maher chiede: - Perché sei tornato, Sancho? Eri libero. - Tu saresti andato via, al mio posto? - Approfitterei di qualunque occasione per
fuggire. E mentre lo dice, Maher si chiede se davvero
sarebbe stato disposto ad andarsene senza Sancho. Aggiunge: - Abbiamo spesso parlato di fuggire insieme. Sancho sorride. - Insieme, Maher. Maher ha capito. La mano che ha posato sul
braccio di Sancho ha un leggero tremito, mentre dice: - Sancho, questa è follia. Eri libero. - Non ero libero, se tu eri qui. Non posso
spiegarti ora, non c’è tempo e non voglio correre rischi. Vedrai. Maher vorrebbe sapere, ma è meglio essere
prudenti e non dare adito a sospetti. Riprende il suo lavoro. Sancho va a riposare un’oretta, mentre lo sceicco
dà gli ordini necessari per la spedizione. Quando tutto è pronto, partono e
raggiungono le montagne. Si muovono per gran parte della notte: durante il
giorno è preferibile rimanere nascosti perché nessuno possa avvisare i
briganti del loro arrivo. Riposeranno il mattino: Sancho ha detto loro di
conoscere un posto in cui potranno rimanere al riparo, senza essere scoperti. La notte sta finendo quando lasciano la pista e
si inerpicano lungo un sentiero che si snoda sul fianco della montagna e poi
si infila in uno stretto vallone. Al fondo, chiuso da alte pareti, vi è un
ampio spiazzo, in cui sgorga una sorgente. Un posto ideale per fermarsi, in
cui nessuno può sorprenderli. Gli uomini radunano i cavalli e poi si stendono a
riposare. Il cielo si sta schiarendo a oriente, ma il vallone è ancora
immerso nell’oscurità. Sancho aspetta che tutti si addormentino: non ci
vuole molto, perché sono svegli dall’alba del giorno precedente e sono molto
stanchi. Allora si alza e raggiunge l’estremità dell’accampamento dove veglia
l’unica sentinella. - Mi stavo addormentando, ma mi è venuta voglia
di pisciare. La guardia non dice nulla. È uno degli uomini di
fiducia di Omar, uno degli assassini di Rani, e non
ha voglia di parlare con questo schiavo che svolge i lavori più umili. Sancho finisce di pisciare, poi fa per tornare al
suo posto, ma dopo aver oltrepassato la guardia si gira e dice: - Abdel Ghani, non ti
addormentare. Abdel Ghani si volta,
irritato dall’impudenza di questo schiavo cristiano. - Va al tuo posto, stronzo! Non si accorge che da dietro una roccia è sbucato
un uomo, che gli tappa la bocca e gli taglia la gola con il pugnale. In un attimo una trentina di briganti compaiono dal
nulla e attaccano gli uomini addormentati. Non c’è nessun combattimento:
pochi cercano di resistere e vengono uccisi subito, gli altri vengono
bloccati nel sonno o si arrendono rinunciando a ogni difesa. I briganti li
legano tutti saldamente, passando una corda intorno alle caviglie e un’altra
ai polsi, dietro la schiena. Tra i prigionieri c’è anche Omar, che maledice i
briganti e soprattutto Sancho: ha capito benissimo che lo schiavo l’ha
attirato in una trappola. - Infame, maledetto, ti farò impalare, fosse
l’ultima cosa che faccio al mondo. La pagherai. Impalato e castrato, ad
agonizzare sotto il sole, maledetto. Sancho non dice nulla. È Ferdinando a replicare: - Piantala, vecchio balordo! Non sei nelle
condizioni di minacciare nessuno. I prigionieri vengono lasciati con sei uomini di
guardia. Gli altri briganti scendono lungo la valle, dirigendosi verso Kharana. Omar è seduto a terra e non può alzarsi. È
furente per l’offesa ricevuta e ha violenti scatti d’ira, in cui insulta i
briganti e promette loro di farli castrare e impalare. Infine Baudouin, che è uno degli uomini rimasti di guardia, si
stufa e dice: - Piantala di rompere i coglioni, vecchiaccio.
Stattene zitto, una buona volta! Omar sputa nella sua direzione. Poi grida: - Ti farò strappare le unghie e tagliare la
lingua, darò il tuo cazzo e i tuoi coglioni ai cani, bastardo. Ti farò
maledire quella puttana di tua madre per averti messo al mondo. Baudouin prova
l’impulso di colpire Omar con un calcio in faccia, ma si trattiene: sa che
non deve ferire il prigioniero, per cui verrà richiesto un riscatto. - Sta’ zitto, stronzo! Poi, con un gesto deciso, si abbassa i pantaloni,
si prende in mano il cazzo e incomincia a pisciare in faccia a Omar. Gli altri briganti ridono: non ne possono più
neanche loro di questo rompicoglioni, per cui seguono l’esempio di Baudouin e pisciano anche loro addosso a Omar. Questi li
maledice, ma infine rimane in silenzio. In serata i briganti raggiungono Kharana. Si fermano a una certa distanza e percorrono la
pista che conduce al castello solo quando ormai è notte. Nel castello tutti
dormono, a parte Maher: ha sempre dormito poco da quando Sancho è stato
liberato, ma ora, sapendo che il suo amico rischia la vita per lui, non
riesce a prendere sonno. Ha passato la giornata chiedendosi che cosa ha in
testa Sancho. Il fatto che sia tornato per liberarlo, invece di andarsene, lo
riempie di gioia, perché è la dimostrazione che il suo sentimento è
ricambiato. Ma sa che se qualche cosa andrà storto, Sancho rischia di morire
e non può tollerare l’idea che l’amico muoia per causa sua. Qual è il piano di Sancho? Quasi sicuramente
intende far cadere in una trappola Omar e i suoi uomini. E poi? Faranno uno
scambio, imponendo di consegnare Maher per Omar? No, non avrebbe senso: Omar
vale molto di più. Potrebbero chiedere un riscatto per Omar, includendo anche
la liberazione di Maher. O invece i briganti attaccheranno Kharana? La risposta arriva mentre Maher, seduto sul suo
giaciglio, riflette: alcune grida, rumore di gente che si muove. Maher scatta
in piedi. Sancho si è fatto aprire la porta del castello,
dicendo di essere stato inviato da Omar. Il servitore alla porta ci ha
creduto: nessuno pensa che Kharana possa essere
attaccata. All’interno ci sono pochissimi uomini validi e la
conquista non presenta nessuna difficoltà. Gli schiavi e gli altri servitori
non hanno certo intenzione di rischiare la pelle e in ogni caso, che cosa
potrebbero fare contro una ventina di uomini armati e abituati a combattere? Sancho raggiunge il locale dove Maher dorme,
insieme ad altri due schiavi: non vuole che l’amico, non capendo che cosa sta
succedendo, cerchi di difendersi e rischi la vita. - Maher, siamo liberi! Maher non riesce a parlare. Si abbracciano. Non
c’è tempo per raccontare, spiegare, ma non ha importanza. Sono vivi, l’uno
tra le braccia dell’altro, e liberi. Ferdinando ha fatto radunare servitori e schiavi
nella sala del palazzo. Sancho si rivolge agli schiavi. - Kharana è sotto il
nostro controllo e voi dovete rimanere in questa sala finché non avremo preso
tutto quello che ci serve. Quando ce ne andremo, potete scegliere se restare
a Kharana o andarvene. Omar è prigioniero e ci
vorranno un po’ di giorni prima che torni qui. Avete il tempo di allontanarvi,
prima che qualcuno vi venga a cercare. Il castello viene saccheggiato: tutti i beni
trasportabili e i cavalli vengono portati via, come pure molti degli altri
animali domestici. I servi e gli schiavi non vengono legati. Anche
se avvertiranno gli abitanti del villaggio, nessuno si metterà a inseguire i
briganti, rischiando la pelle. Come ha suggerito Sancho, qualcuno degli
schiavi decide di allontanarsi, sperando di recuperare la libertà, ma i più
rimangono: alcuni hanno paura della punizione che li aspetta se verranno
ripresi; ad altri non pesa la vita che conducono o comunque sanno che
andandosene non miglioreranno molto la loro condizione. I briganti ripartono, portando con sé il ricco
bottino. Il mattino seguente i briganti raggiungono
l’accampamento dove sono tenuti i prigionieri e si mettono a dormire. Al
momento di ripartire, liberano i prigionieri, tranne Omar e un uomo che
servirà come messaggero. I briganti tornano al castello con un bottino
eccezionalmente ricco, che viene in parte diviso tra tutti e in parte tenuto
come bene comune. Molti animali e alcuni altri oggetti vengono dati a pastori
e contadini dell’area, con cui i briganti cercano di mantenere sempre buoni
rapporti. La sera si festeggia con una grande orgia
collettiva. Maher e Sancho non partecipano: nella stanza che Ferdinando ha
assegnato loro si amano, ancora increduli di essere infine liberi e insieme. Per lo sceicco Omar viene richiesto un
consistente riscatto: duecento dirham. La guardia catturata insieme a Omar
viene inviata a Kharana con la richiesta. Nella residenza di Omar c’è una grande
confusione. L’intendente si occupa di organizzare le attività, come ha sempre
fatto nei periodi di assenza del padrone, ma non può certo raccogliere il
denaro del riscatto. Ha già il suo da fare per tenere sotto controllo gli
schiavi. Tre uomini e una donna si sono allontanati il mattino dopo l’attacco
e non c’è stato modo di recuperarli: i cavalli sono stati portati via e non
c’erano guardie, in quel giorno ancora prigioniere dei briganti. Raccogliere la somma richiesta sarebbe compito di
Asif, fratello di Rani e
parente più prossimo di Omar, nonché zio della bambina che è l’unica erede,
non essendoci altri figli. L’intendente l’ha avvisato dell’accaduto subito
dopo l’attacco e gli manda un nuovo messaggio non appena giunge la richiesta
di riscatto. Asif arriva con
una decina di uomini e si installa a Kharana. Prima
di raccogliere il denaro, vuole scoprire che cosa è successo a Rani. Interroga in modo sistematico i servitori e le
guardie. Coloro che hanno ucciso Rani negano, ma Asif ha da altri la conferma che Rani
è arrivato a Kharana una sera e non è mai
ripartito. Non riuscendo a individuare gli assassini del
fratello, Asif incomincia a far torturare le
guardie. Infine uno degli uomini confessa. Scoperti i nomi del colpevoli, Asif ottiene una piena confessione anche dagli altri. Due
dei sei sono morti nell’imboscata che i briganti hanno teso a Omar. Gli altri
quattro vengono portati via. Nessuno ha più loro notizie, ma nel deserto gli
avvoltoi banchettano. L’uomo che è stato liberato dai briganti con la
richiesta del riscatto viene rimandato a Qasr al-Hashim, con una richiesta: Asif
vuole un incontro con Ferdinando o con un suo inviato. La richiesta giunge a Jibrin.
Tutti pensano che Asif voglia trattare. Ferdinando
non vorrebbe liberare Omar per meno di quello che ha richiesto, ma è
disponibile a sentire che cosa vuole Asif. Su
suggerimento di Gotthard, Hartwig si propone per la
trattativa, perché conosce bene l’arabo, essendo stato anche lui, come Nando
e Sancho, prigioniero dei saraceni. Ferdinando non ha voglia di trattare
personalmente, anche perché potrebbe trattarsi di una trappola per catturarlo
e poi ottenere la liberazione di Omar in cambio della sua. Perciò delega
volentieri Hartwig. In realtà Gotthard, Svend e Hartwig sperano di
poter ricavare un vantaggio personale, ad esempio offrendo una riduzione
della cifra richiesta, venti dirham in meno, ma dicendo di aver concordato
una riduzione maggiore, quaranta o cinquanta dirham, in modo da intascare la
differenza. Ferdinando non è tipo da sospettare. Hartwig raggiunge
il luogo dell’appuntamento, vicino a una cascata, dove Asif
lo attende. Si aspetta che l’uomo gli chieda una riduzione della somma, ma
scopre presto che la situazione è ben diversa. - Sei Ferdinando? - No, ma vengo per conto suo. Dimmi perché hai
richiesto un colloquio. - Te lo dirò, ma quanto ci diremo deve rimanere
segreto. La richiesta sorprende Hartwig. - Ne parlerò solo a Ferdinando. - Va bene. Ascoltami bene. Sto raccogliendo la
somma che chiedete e ve la verserò tra una settimana. Ma lo farò solo a una
condizione. - Non credo che tu possa porre condizioni. - E io invece credo di sì. - Possiamo uccidere Omar. - Certo. È quello che voglio. Hartwig rimane
senza parole. - Che cazzo intendi? - Voglio che Omar muoia. Ma non posso rifiutarmi
di pagare il riscatto, perché mi accuserebbero di aver provocato la morte di
Omar. E magari voi sareste tanto stupidi da lasciarlo ugualmente libero. A Hartwig poco importa
che Omar muoia. Però pensa che possa essere un’occasione per guadagnarci. - Possiamo farlo, ma per noi è un grosso rischio.
Se uccidiamo Omar, sicuramente i signori qui intorno si accorderanno per
attaccarci. - Adesso gli uomini validi sono ad Akka. - Cosa paghi perché lo ammazziamo? Asif esita un
momento, poi dice: - Altri cinquanta dirham. Di più non posso. - Va bene. - Ma voi mi renderete la sua testa, con il cazzo
e i coglioni infilati nella bocca. Voglio che lo castriate quando è ancora
vivo. Hartwig è stupito
della richiesta. Non gli importa niente di Omar, ma gli viene da chiedere: - Perché lo odi tanto? - Ha ucciso mio fratello. E lo ha fatto castrare,
quando era ancora vivo. - Va bene. Duecentocinquanta dirham e noi ti
diamo la testa, con il cazzo e i coglioni in bocca. Si mettono d’accordo sulle modalità dello scambio
e si separano. Hartwig torna
riferendo che si è accordato con Asif per un
pagamento di centottanta dirham. La riduzione non è significativa e va bene a
tutti. Per i tre il guadagno è di settanta dirham, una bella somma. Il giorno previsto per lo scambio, Hartwig, Gotthard a Svend
scendono con Omar verso il luogo dove devono consegnare il prigioniero. Si
fermano un po’ prima. - Togliti la tunica. Omar non capisce perché deve spogliarsi, ma
obbedisce. Pensa che tra poco sarà libero e poi prenderà la sua vendetta:
organizzerà una spedizione contro i briganti e farà impalare tutti questi
cani bastardi infedeli. Per Sancho inventerà i supplizi più atroci: ha già
alcune idee, che vedrà di perfezionare. Quel figlio di puttana si pentirà di
essere nato. I tre lo legano a un albero: gli passano la corda prima sotto le
ascelle, poi intorno alle braccia e infine alle caviglie. Omar li lascia fare
senza dire nulla, ma freme. È convinto che lo lasceranno lì e, una volta
intascati i dirham, diranno ai suoi uomini dove trovarlo e liberarlo: non
sospetta minimamente che stiano per ucciderlo. Gotthard si spoglia completamente: sa che
scannando la sua vittima, si sporcherà tutto di sangue. Poi abbassa i
pantaloni di Omar, che non capisce. - Che cosa fai? Gotthard ride: - Stai per crepare, pezzo di merda. Prima ti
castro, poi ti ammazzo. Omar lo guarda, incredulo. - Ma… mi avete detto che mio cognato paga il
riscatto. - Sì, paga per vederti morto. Pare che tu abbia ammazzato
suo fratello e non è stato contento quando l’ha scoperto. Gli occhi di Omar si dilatano per il terrore: ora
ha capito. - No, no! Io… posso raccogliere altro denaro,
oro… Gotthard ride. - Sta’ zitto, vecchiaccio. Gli afferra cazzo e coglioni con la sinistra e
avvicina il coltello. Omar grida ancora, un urlo che diviene acutissimo
quando Gotthard recide e poi si trasforma in un gemito. Il tedesco gli infila
i genitali nella bocca spalancata, poi con il coltello gli recide la gola. Il
sangue schizza da tutte le parti. Il corpo di Omar si affloscia. Gotthard muove il coltello tagliando la testa,
poi la pone ai piedi del cadavere. Si pulisce con la tunica di Omar, mentre Hartwig risale a cavallo e raggiunge il luogo
dell’appuntamento. Asif è già
arrivato, con sei uomini, che si tengono a distanza. - Ho il denaro pattuito. - Dammelo. Asif consegna la
borsa con il denaro. Hartwig dice, forte: - Omar è legato a un albero nella radura sotto il
passo delle Civette. Poi aggiunge, sottovoce: - La testa è a terra, con in bocca quello che hai
richiesto. Hartwig sprona il
cavallo e si allontana. Asif e gli altri salgono
verso il passo. Raggiungono il luogo indicato e vedono il corpo mutilato di
Omar. Asif grida e si
lancia di corsa verso il morto. Guarda la testa recisa, i genitali in bocca.
Il sangue intorno alla ferita della castrazione gli dice che Omar è stato
castrato prima di essere ucciso. Gioisce, ma si finge rabbioso. - Tradimento! Tradimento! Quei maledetti hanno
ucciso Omar! Ho pagato il riscatto richiesto, fino all’ultimo dirham e loro
lo hanno ucciso. Vendicherò il padre di mia nipote, lo giuro! Asif prende la
testa e la guarda. Poi guarda gli abiti di Omar, sporchi di sangue, vicino al
cadavere. - Caricate il corpo sul cavallo. Uno dei servitori dice: - Vuoi che lo rivestiamo, padrone? Asif scuote la
testa. - No. Gli abiti sono lordi di sangue. In realtà ad Asif fa
piacere che tutti possano vedere il cadavere trasportato nudo su un cavallo,
il culo per aria, come la carogna di un animale. Lo getterebbe nella latrina,
se potesse. Hartwig, Svend e Gotthard hanno preso i dirham in eccesso e
consegnano gli altri a Ferdinando, che divide il contenuto della borsa, dando
a ognuno degli uomini quattro dirham. Più tardi Ferdinando parla con Sancho: - Grazie, Sancho. Nessun’altra impresa ci ha
fruttato altrettanto. Chi vorrà andarsene potrà farlo con un buon bottino. A
te spettano i venti dirham che non ho diviso e anche una parte di quanto
abbiamo preso al castello o l’equivalente in dirham: sei tu che ci hai
permesso di catturare Omar e saccheggiare Kharana. - Grazie. Questo denaro servirà a me e a Maher
per ricominciare altrove. Ma ti chiedo se possiamo restare qui ancora qualche
giorno: dobbiamo capire che cosa fare. - Certamente. Tutto il tempo che volete. Se
decideste di rimanere definitivamente con noi, va benissimo, ma sinceramente
non te lo consiglio: prima o poi Jibrin sarà
attaccato. È Sancho a chiedere: - Che cosa intendi fare, Ferdinando? Pensi di
continuare a lungo con questa vita? Sai che vi braccheranno. Come hai detto,
il Saladino non tollererà che una banda di briganti cristiani continui a
infestare il territorio sotto il suo controllo. Ferdinando alza le spalle. - Non ho alternative. - Perché? - Sono stato condannato a morte a Gerusalemme,
per un tradimento che non ho commesso. Se raggiungessi l’esercito cristiano,
verrei squartato. E anche alcuni degli altri hanno qualche conto in sospeso.
Allora preferiamo rimanere qui, dove godiamo di una libertà assoluta. Rischiamo
la vita ogni minuto, ma nessuno viene a dirci che cosa dobbiamo fare.
Aspettiamo la morte, ma almeno ce la godiamo finché siamo vivi. Ferdinando rimane un attimo in silenzio, poi
aggiunge: - Vorrei che almeno quella testa di cazzo di mio
nipote se ne andasse, ma una testa di cazzo è una testa di cazzo. La testa di cazzo in questione, che è presente,
sorride e dice: - Vedremo. In qualche modo cercheremo di
cavarcela. Ferdinando lo guarda, con una smorfia. - Vattene, Nando, sei ancora in tempo. Non hai
partecipato all’attacco a Kharana e alle nostre
imprese. Hai… Nando lo interrompe: - Non ho partecipato perché hai deciso tu di
escludermi. - Esatto. Ti ho sempre tenuto fuori dalle imprese
più significative. Ti conoscono solo i contadini e i pastori della zona. Sei
uno schiavo cristiano affrancato, potresti andartene. Molti sanno che sei
vissuto qui, ma nessuno ti ha mai visto partecipare a una delle nostre
imprese. - Ne parleremo. Ferdinando si rivolge a Sancho: - Come ti dicevo, una testa di cazzo è una testa
di cazzo. Non ci ragioni. Qualche giorno dopo la notizia della morte di
Omar arriva anche a Jibrin. Ferdinando è furibondo.
Convoca una riunione di tutti, lasciando solo qualche servitore sulle mura. - Omar è stato ammazzato e pure castrato. Gotthard,
Svend, Hartwig, che cazzo
è successo? Me lo spiegate? Non era questo l'accordo. Gotthard sa di non potersi sottrarre, per cui
fornisce la spiegazione concordata con i fratelli: - Asif lo voleva morto.
Non avrebbe pagato, altrimenti. Era disposto a pagare perché Omar venisse
ammazzato, non per averlo indietro sano e salvo. E così abbiamo fatto. - Porcoddio, Gotthard,
siete tre teste di cazzo! Gotthard freme. - Fa’ attenzione a quello che dici, Ferdinando.
Non intendo lasciarmi insultare. - Fa’ attenzione? Fate attenzione voi, stronzi!
Ma che cosa pensi che accadrà ora? Un signorotto locale viene rapito, la
famiglia versa il riscatto e i briganti restituiscono il corpo, senza testa e
senza coglioni. Pensi che tollereranno una cosa del genere? Guerra o non
guerra, manderanno le truppe. Avremmo potuto rimanere ancora qualche anno qui
tranquilli e adesso siamo fottuti. Teste di cazzo! I briganti rumoreggiano. Ciò che dice Ferdinando
è verissimo e se ne rendono conto tutti. I tre fratelli sono isolati, per cui
preferiscono per il momento non reagire: solo gli altri tre tedeschi li
spalleggerebbero. Vedranno di far cambiare idea ad alcuni nei prossimi
giorni. - Forse abbiamo sbagliato, ma ormai è fatta. Ferdinando scuote la testa. Non vale la pena di
dire niente. Ormai il danno è fatto e non può essere riparato. Più tardi parla con Maher e Sancho. - In questa situazione voi due rischiate molto.
Tu Sancho hai attirato Omar in una trappola mortale. Se ti scoprono, sei un
uomo morto. Sancho annuisce. - Lo so. E temo che valga anche per Maher. Maher e Sancho non sanno bene che fare. Se ne
devono andare, ma dove? I pericoli sono molti, qualunque strada scelgano. Per
il momento si godono la libertà di potersi amare e di essere liberi. Ferdinando parla anche con il nipote. - Nando, ascoltami bene: è ora che tu te ne vada.
Dopo la cazzata che hanno fatto quei tre coglioni, le nostre vite valgono
poco o niente. Perciò entro tre giorni tu te ne vai. - E tu rimani qui, ad aspettare la morte? - Porcoddio, Nando, che
cazzo posso fare? Nando non sa davvero che fare. E forse non gli
importa molto di salvarsi. A Jibrin c’è molta
tensione. A cambiare la situazione è l’arrivo di un
cavaliere, due giorni dopo. È ormai notte quando l’uomo arriva al castello e
chiede di parlare con Ferdinando. - Ferdinando, è arrivato un cavaliere che ti
cerca. L’arrivo di uno sconosciuto è insolito a Jibrin: il castello non è la residenza di un signorotto
di campagna, ma il covo di una banda di briganti. Non ci sono ospiti di
passaggio e comunque nessuno arriva a Jibrin per
caso. L’uomo di guardia prosegue: - Dice di chiamarsi Solomon. - Solomon?! Ferdinando è scattato in piedi. Raggiunge rapidamente la porta, dove in effetti,
alla luce delle torce, può vedere l’amico. D’istinto lo abbraccia, felice di
ritrovarlo. - Solomon! Porcoddio,
Solomon! Che bello vederti qui! Ma che cazzo ci fai? Ti pensavo in Francia, a
Costantinopoli, in India. Che bello! Porcoddio! Che
bello! L’entusiasmo di Ferdinando fa sorridere Solomon,
ma anche lui è contento di ritrovare questo guerriero, che gli ha salvato la
vita quando era nelle prigioni del vescovo Bohémond.
Gli è sinceramente affezionato e ha spesso pensato a lui, perché la sua
situazione lo preoccupava. - Sono venuto a trovarti. Poi Solomon aggiunge, piano, in modo che nessun
altro possa sentirlo: - E ho cose molto importanti da dirti. Ferdinando accompagna Solomon in cucina, dove
l’amico si rifocilla. Solomon parla dell’arrivo di Denis, dell’assedio di
Acri e dà alcune notizie dei guerrieri che vi si trovano. Gli uomini hanno
saputo dell’arrivo di questo cavaliere e passano a vedere di chi si tratta.
Quelli che erano nell’Arram con Ferdinando lo
conoscono, avendolo visto alcune volte, e lo salutano. Dopo aver cenato, Ferdinando, Nando e Solomon
passano in camera. - Nando può ascoltare quello che devi dirmi o ce
lo togliamo dai coglioni? Nando ride e scuote la testa. Solomon risponde: - Se sa stare zitto, può rimanere. Quello che ho
da dirti riguarda di certo anche lui, ma è meglio che non circoli finché tu
non hai deciso che cosa fare. - Nando sa stare zitto. È una testa di cazzo, per
di più cocciuto, ma sa quando è meglio tacere. - Va bene. Denis ha posto una condizione per il
suo ritorno oltremare: che la tua condanna venisse annullata. Il re di
Francia in persona ha scritto a Guido da Lusignano, che non aveva certo
motivo di opporsi: non gli pare vero di avere il Cane con gli occhi azzurri
con sé. - Porcoddio! Denis! Uno
come lui… non credo che ce ne sia un altro. Solomon non dice di essere stato lui a suggerire
a Denis questa condizione. Con l’amico avevano più volte parlato di
Ferdinando e quando Denis ha deciso di partire, Solomon gli ha suggerito di
avanzare la richiesta. Non vuole però prendersi il merito e prosegue con il
discorso: - Io ho un salvacondotto per te. Che ovviamente
non serve a niente per attraversare i territori arabi, ma una volta giunti
nei domini franchi, se qualcuno facesse storie, il salvacondotto ti
tutela. - Porcoddio! Discutono a lungo su come fare. Ferdinando spiega
la situazione attuale, l’assassinio di Omar e i problemi che pongono i tre
tedeschi. Infine decidono di mettersi a letto. Non si è
parlato di trovare una camera per l’ospite, d’altronde è normale dormire in più
persone in un letto e quello di Ferdinando è molto grande. Si spogliano. Ferdinando guarda il corpo
dell’amico. - Solomon, tu sai quello che vorrei. Solomon ride. - Quello che vuoi fare sempre: vedo che non sei cambiato
e questo mi sembra un buon segno. - Può essere, ma anche in questo alcune cose sono
cambiate. Ogni tanto facciamo la lotta, io e Nando, e lui vince sempre, poi
si prende il premio. In realtà hanno lottato solo due volte: una prima
che Nando venisse catturato e una al suo ritorno. Ma Ferdinando preferisce
non dire che si offre al nipote. Ferdinando aggiunge: - Potreste lottare, tu e lui. Tu sei fortissimo e
lui pure. Solomon scuote la testa. - Io adesso vorrei dormire: ho cavalcato da
questa mattina prima dell’alba fino a quando sono arrivato. Poi nei prossimi
giorni ne parliamo. Ferdinando esprime la sua insoddisfazione con una
specie di grugnito, ma si mettono tutti e tre a letto, Ferdinando in mezzo,
tra il nipote e Solomon. Ferdinando ovviamente non demorde. Il mattino
dopo quando Solomon si alza per andare a pisciare, Ferdinando lo accompagna.
Pisciano insieme e il sorriso del brigante, che osserva il cazzo di Solomon,
non lascia molti dubbi sulle sue intenzioni. Anche Nando si alza e li raggiunge. Ferdinando osserva: - E adesso che ne direste di divertirci un po’? Solomon scuote la testa, ma non ha motivi per
dire di no: non prenderebbe l’iniziativa, ma non vede perché negarsi. È
affezionato a Ferdinando e non è avaro di sé. - Che cosa vorresti fare? - Me lo chiedi? Dai, Solomon, lo sai benissimo. - In generale sì, certo. Chiedevo i dettagli. - Così va bene. Mi piacerebbe vederti lottare, tu
e Nando. Poi se lui vince, io te lo metto in culo. E lui lo mette a me. E se
perde, tu fotti lui e io fotto te. Che ne dici? Solomon ride. - Insomma, in ogni caso finisco impalato. Nando non è convinto. Un unico uomo lo ha
posseduto: Zeyd. Non desidera offrirsi a nessun
altro. Sa di essere fortissimo nella lotta, ma ricorda benissimo di aver
sentito lo zio dire che Solomon è un lottatore formidabile. - Non vedo perché Solomon dovrebbe lottare, se
poi finisce sempre allo stesso modo. - Non finisce allo stesso modo, né per te, né per
lui. Ma mi sa che non hai voglia di prendertelo in culo. Lo zio ha centrato il punto. Nando non dice nulla
e Ferdinando aggiunge: - Hai paura di perdere, eh? Qui non si tratta di
affrontare il vecchio zio, ma un campione. Solomon guarda Nando e gli dice: - Se non hai voglia che ci affrontiamo, non c’è
motivo per farlo. - Mi piacerebbe misurarmi con te. Mi dicono che
sei fortissimo. Ma… È Ferdinando a proseguire: - Ma non ha voglia di prenderselo in culo. - Allora, Nando, possiamo affrontarci senza
mettere nulla in palio e poi vedremo che cosa fare. Nando accetta. Ferdinando grugnisce la sua
delusione, ma rimane convinto che alla lotta seguirà qualche cosa di più
interessante. Nando e Solomon sono nudi. Sorridono e si mettono
in posizione. Si guardano, entrambi soddisfatti di battersi contro un rivale
tanto gagliardo. A lungo si fronteggiano nella camera, poi Solomon si scaglia
su Nando e lo getta a terra. Insieme cadono, si rotolano e ognuno dei due
cerca di bloccare l’altro, ma sono entrambi troppo forti ed esperti. Il loro abbraccio si scioglie e nuovamente i due
rivali sono uno davanti all’altro e ognuno studia l’avversario, cercando di
coglierne i punti deboli, ma non ne vede. Nuovamente Solomon balza su Nando e lo stringe
tra le braccia, bloccandolo. Nando sente la stretta vigorosa e non riesce a
liberarsene. Ferdinando ride vedendo il nipote che si dibatte invano e già
pensa che Solomon abbia la vittoria in pugno, ma l’ebreo sa bene che non è
così: è troppo esperto per non rendersi conto di avere a che fare con un
avversario eccezionale. La stretta che unisce Nando e Solomon accende il
loro desiderio e il cazzo di entrambi si gonfia di sangue. L’ebreo solleva
l’avversario, che non riesce più a poggiare i piedi a terra e sente il cazzo
del rivale premergli contro il culo. Nando non vuole cedere e con uno sforzo libera un
braccio e afferra per la gola Solomon, stringendo. L’ebreo è costretto a
lasciare la presa e con un balzo si allontana, sciogliendo la morsa. Ferdinando osserva i due lottatori, entrambi con
il cazzo duro, proteso in avanti. Sorride, ormai certo che la lotta avrà un
finale ancora più interessante. Nando si lancia a testa bassa su Solomon e lo
manda a terra. Cerca di voltarlo, per bloccarlo al suolo, ma l’ebreo si
difende e ognuno preme sulle braccia dell’altro, senza riuscire a vincerlo. I
due avversari, troppo simili per forza, nuovamente si fronteggiano, entrambi
sudati. E quando ancora una volta Solomon si lancia su
Nando, questi, con un abile movimento, sfugge alla presa e ne accompagna il
movimento, così che, trascinato dal suo stesso slancio, Solomon cade a terra.
Prima che riesca a riprendersi Nando gli è sopra, gli piega il braccio dietro
la schiena e lo blocca completamente. Invano Solomon lotta per liberarsi e sfuggire
alla presa. Infine è costretto a riconoscere la sua sconfitta. Nando ansima mentre dice: - Sei bravissimo, Solomon. - Sarà, ma tu mi hai battuto. Nando si è pentito di non aver accettato la sfida
proposta dallo zio: ora ha voglia di gustare il culo di questo bell’uomo che
blocca a terra. Il suo cazzo è un tizzone ardente e il desiderio è troppo
forte. Sente l'odore intenso di sudore che emana dal corpo di Solomon, il suo
odore di maschio. Perde il controllo e spinge il cazzo contro l'apertura. - Nando! Alla voce di Solomon, Nando interrompe il
movimento. Le sue mani stringono spasmodicamente il corpo dell’ebreo, poi lo
percorrono in carezze brutali. Vorrebbe ritrarsi, ma non riesce. Non forzare
l’apertura gli costa fatica. Il desiderio è intensissimo. Chiude gli occhi e
dice: - Scusami, Solomon. Ma non riesce a sollevarsi, a staccarsi da questo
corpo che fa ardere il suo. Solomon ha colto la violenza del desiderio di
Nando. Non ha davvero motivo per negarsi e allora dice: - Va bene, Nando. Fallo. A Nando pare impossibile. Si lascia guidare dal
desiderio. Sospinge il cazzo contro l’apertura, finché non cede, e poi dentro
il culo di Solomon, con forza, quasi con ferocia. Solomon sussulta, ma non
dice nulla. Nando spinge vigorosamente, avanzando e ritraendosi, mentre il
piacere lo invade tutto. Si rende conto che
sta prendendo Solomon come un animale, ma non riesce a controllarsi.
Le sue mani stringono le braccia, le spalle, il culo dell’ebreo, mentre
avanza e si ritrae, in un delirio di piacere, finché, con un’ultima serie di
spinte brutali, viene dentro di lui, con un grido, perché il piacere è troppo
intenso per riuscire a non urlarlo. Rimane su di lui e, mentre riemerge
dall’abisso in cui è sprofondato, si dice che si è lasciato guidare solo dal
desiderio, del tutto indifferente a Salomon: lo ha preso brutalmente, come
una bestia in calore che soddisfa il suo bisogno. Nando si alza. Ora prova vergogna. Tiene la testa
bassa, mentre dice: - Perdonate, Solomon. Sono stato una bestia, lo
so. Non mi sono saputo controllare. Il voi segna una distanza ed esprime il suo
disagio. Solomon si alza, senza nascondere una smorfia di
dolore. - Puoi darmi del tu, Nando, come facevamo prima.
L’ho accettato e va bene così. Diciamo che se fossi stato un po’ più
delicato, probabilmente non mi sarebbe spiaciuto. Non perderei altro tempo su
questo. Ferdinando interviene: - Intenderete mica lasciarmi a stecchetto? Nando e Solomon lo guardano. Il grande cazzo di
Ferdinando è teso come una sbarra di ferro. Solomon scuote la testa. - Mi spiace, Ferdinando, ma proprio non me la
sento di prendermi la tua mazza in culo. Nando è stato un po’ brutale. - Porcoddio! Dopo la
scena a cui ho assistito non ce la faccio proprio. Non potete lasciarmi così,
a farmi una sega come un ragazzino. Solomon ride e risponde: - La colpa è di Nando, per cui tocca a lui rimediare. Ferdinando si rivolge al nipote: - Vedi, lo dice anche Solomon. Nando scuote la testa. Si inginocchia davanti
allo zio e avvolge la cappella con le labbra. L’hanno già fatto alcune altre
volte e a Nando non spiace. Lavora con impegno, mentre Ferdinando gli
accarezza la testa. Quando infine lo zio viene, Nando inghiotte. Si rivestono e Ferdinando dice, rivolto a
Solomon: - Però questa sera o domani mattina non ti fai
pregare. Sai che ci tengo a gustare il tuo culo. - Mi sa che ci tieni a gustarli tutti. - Ma il tuo di più. Prima di scendere per la colazione, Ferdinando
parla ancora a lungo con Solomon. Gli racconta la cattura e l’omicidio di
Omar e la situazione che si è creata con tre dei tedeschi. Poi convoca tutti gli uomini e racconta la
novità: c’è la possibilità di lasciare il castello e raggiungere i territori
cristiani, per chi lo vuole. - Ognuno di voi è libero di scegliere. Sappiamo tutti
che prima o poi Jibrin sarà attaccato e noi saremo
uccisi, in battaglia, se ci va bene, o sul palo, se siamo sfortunati. Io
partirò, perché qui non vedo un futuro. Conto di raggiungere l’esercito
cristiano che assedia Acri, dove è arrivato anche il duca Denis d’Aguilard. Gotthard è il primo a intervenire. - Quindi ci molleresti qui? Ferdinando corruga la fronte e risponde: - Hai sentito quello che ho detto? Chi vuole
venire via con me, può farlo. Solomon ci darà una mano a raggiungere i
territori franchi. Tu non lo conosci, ma secondo me sarebbe capace di farci
arrivare anche nella tenda del Saladino. Solomon pensa che in effetti nella tenda del
comandante dell’esercito saraceno è già stato poco prima di partire. Ci
tornerà, ma questo ancora non può saperlo. Gotthard non ha nessuna intenzione di lasciare Jibrin. Lui, Svend e Hartwig sono accusati di aver stuprato e ucciso due
giovani donne a Cesarea, per cui si erano allontanati dalla città già prima
che cadesse nelle mani di Salah ad-Din.
Non lo hanno mai raccontato a nessuno, ma il duca Denis, che era reggente
della città, ne è a conoscenza. Se raggiungessero l’accampamento dei franchi
davanti ad Acri e qualcuno li riconoscesse e li denunciasse, sarebbero
giustiziati. Gotthard sputa a terra. - Io non me ne vado. E credo che anche Svend e Hartwig intendano
rimanere, vero? I due assentono. Gotthard prosegue: - Qui stiamo benissimo e ci possiamo difendere.
Perché rischiare di farci ammazzare attraversando i territori saraceni? E
poi, che faremmo dopo? Andremmo a combattere sotto le mura di Acri? A farci
ammazzare lì ai comandi di qualche stronzo che ci manda a morire per la sua
gloria? Oppure ci rifugiamo a Tiro, aspettando che il Saladino arrivi anche
lì, per crepare poi di fame quando la città sarà assediata? Pericoli ce ne
sono dappertutto, ma qui almeno siamo uomini liberi. La parole di Gotthard accendono una discussione,
che spesso si disperde in confronti a piccoli gruppi o a due. Solomon si rivolge a Ferdinando e gli dice: - Forse è meglio che ognuno abbia il tempo di
pensarci e di discuterne con gli altri. Potremmo ritrovarci nel pomeriggio e
ognuno dirà se viene con noi o se invece rimane qui. Ferdinando si alza e con la sua voce forte impone
il silenzio. Poi dice: - Ci ritroviamo nel pomeriggio, così tutti hanno
il tempo di discutere e decidere che cosa intendono fare. Solomon ha bisogno
di sapere quanti di noi partiranno, per poter organizzare tutto. Nel
pomeriggio ognuno dirà le sue intenzioni. Per tutto il mattino e durante i pasti si discute
animatamente. Per alcuni, che hanno forti legami personali, non
ci sono dubbi: gli uomini che erano al servizio di Ferdinando nell’Arram sono quasi tutti intenzionati a partire, mentre
quelli arrivati con Gotthard intendono rimanere, a eccezione di Unrod. Coloro che si sono uniti ai briganti in tempi
successivi sono più incerti. Alcuni si sono resi responsabili di reati, tra
gli arabi o tra i cristiani, e, come Gotthard e i suoi fratelli, corrono il
rischio di essere arrestati. Per i quattro musulmani presenti raggiungere i
territori franchi non avrebbe senso, per cui di fatto non hanno scelta.
Possono andarsene, ma non con Solomon e gli altri. Rodrigo è ben contento di lasciare il castello.
Si è ritrovato libero dopo quasi tre anni di schiavitù e nei primi giorni
l’euforia per la libertà riottenuta ha cancellato ogni altro pensiero. È
vissuto senza porsi domande, lasciandosi guidare dai desideri del momento.
Uscire dal castello per una breve passeggiata, sedersi su una roccia a
guardare il paesaggio, darsi a qualcuno degli altri o negarsi, in piena
libertà: tutto gli è apparso splendido. Ha scopato volentieri con Unrod, che è un bel maschio, e con un altro dei briganti.
Ha evitato Sancho e quando lo guarda si chiede come ha potuto darsi a
quest’uomo sfregiato e grossolano. Sa di essere ingiusto nei suoi confronti,
ma ora che è libero, tutto gli appare in un’altra luce. Con il passare dei giorni si è abituato alla sua
condizione di uomo libero e adesso incomincia a chiedersi che cosa vuole
fare. Non ha certo intenzione di diventare brigante, per cui apprezza la
possibilità di lasciare il castello e riunirsi alle truppe cristiane. E
mentre pensa al futuro, avverte crescere dentro di lui il desiderio di
vendicarsi di tutto quello che ha subito. Vuole combattere contro i saraceni.
Sogna di uccidere quelli che sono stati i suoi clienti nel bordello ed è
felice che Omar sia stato castrato ed ammazzato. Unrod preferisce
unirsi a Ferdinando, perché non ha stima di Gotthard e dei suoi fratelli. Se
nessuno se ne andasse, rimarrebbe senza problemi, perché la vita del brigante
non gli dispiace, ma non con gente come i tedeschi. Sancho e Maher non intendono certo rimanere a Jibrin: sanno che se venissero catturati la loro fine
sarebbe atroce, perché è stato Sancho ad attirare in una trappola Omar,
provocandone la morte. D’altronde non intendono vivere come briganti. Ma
Maher non può certo unirsi ai franchi, di cui non conosce neppure la lingua,
e nessuno dei due ha voglia di combattere. La loro situazione è alquanto
difficile. Nel pomeriggio si tiene l’altra riunione. Sono
circa una ventina gli uomini che dichiarano di volersi allontanare con
Ferdinando, mentre altri venti sono intenzionati a rimanere al castello,
almeno per il momento. Gotthard però ha ancora qualche cosa da dire: - Ciò che è nel castello rimarrà qui, vero,
Ferdinando? A Ferdinando girano i coglioni. - Ascoltami bene, Gotthard. Il bottino di ogni
impresa lo abbiamo sempre diviso. Lasceremo qui buona parte delle provviste,
per non caricarci troppo, e tutti i mobili, anche se quelli, sia ben chiaro,
provengono dall’Arram e sono miei. L’oro e gli
altri beni facilmente trasportabili che abbiamo conquistato da quando siamo
qui saranno divisi tra tutti. Quello che ho portato dall’Arram,
è mio patrimonio personale. Gotthard annuisce, ma non è chiaramente
soddisfatto della risposta. Dopo la riunione Sancho e Maher si avvicinano a
Solomon. Sancho chiede: - Posso parlarvi un momento? - Certo. - Io sono Sancho, ero un cavaliere cristiano, poi
sono stato catturato in battaglia e sono diventato schiavo. Lui è Maher, è
arabo. Eravamo tutti e due schiavi di sayyd Omar.
Sapete che cosa è successo? - Sì, certo, Ferdinando mi ha raccontato. - Non vogliamo separarci. Non possiamo andare a Shakra o a Jabal al-Jadid:
rischiamo di essere riconosciuti. Io finirei impalato, per aver attirato Omar
in una trappola: non sapevo che sarebbe stato ucciso, ma questo non potrei
mai dimostrarlo. Tra i cristiani non so cosa potrebbe fare Maher, che non
parla nemmeno la lingua. E io comunque non ho più voglia di combattere. Ho
già dato un occhio e quello che m’è rimasto mi serve. - Parlate arabo? - Sì, certo. Solomon passa all’arabo: - Allora parliamo arabo, in modo che possiamo
capirci tutti. Poi prosegue: - C’è un unico posto al mondo dove potete vivere
tranquillamente: al-Hamra. Lì vivono in pace
cristiani e musulmani. Omar è morto, come pure alcuni dei suoi uomini. Non
credo che da Kharana qualcuno si rechi ad al-Hamra. - Non conosciamo nessuno ad al-Hamra. - Io conosco molti che potrebbero aiutarvi.
Volete che vi porti là? Sancho e Maher si guardano. Poi Maher risponde: - Sì, se puoi farlo e puoi aiutarci a trovare un
sistemazione, sarebbe una gran cosa. La sera in camera Ferdinando torna alla carica.
Appena entrano nella stanza
incomincia subito a spogliarsi. È impaziente. - Muovetevi a spogliarvi anche voi. Ferdinando dà per scontato che Solomon e Nando siano d’accordo a scopare in tre. Solomon sorride e si toglie la tunica e i pantaloni. Quando è nudo, Ferdinando gli si avvicina, lo stringe tra le braccia e lo bacia, con trasporto, infilando la sua lingua tra i denti dell’amico. Bacia di rado, ma Solomon gli piace moltissimo. Le sue mani scendono fino al culo e lo stringono, mentre le mani dell’ebreo gli scorrono sulla schiena, dalle spalle fino ai fianchi. Il desiderio li avvolge e il sangue affluisce ai cazzi, che si tendono. Di colpo, mentre Ferdinando tiene le mani sul culo di Solomon, sente un altro corpo aderire al suo. Sussulta. Sente la risata di Nando e poi la sua voce: - Vorrete mica che stia a guardare? Mentre lo dice, le sue braccia cingono Ferdinando e le sue mani vanno a posarsi sul corpo di Solomon. A Ferdinando non spiace sentirsi stretto tra questi due corpi forti. Rimangono un buon momento così, poi Ferdinando fa girare Solomon su se stesso, si inginocchia e percorre con la lingua il solco tra le natiche, preparando il terreno. E Nando passa davanti a Solomon e gli prende in bocca il cazzo, incominciando a leccarlo e succhiarlo con molta delicatezza. Solomon vive questi rapporti con distacco: per lui sono un gioco con amici, un gioco che non lo coinvolge pienamente, come succede invece quando è con Denis. Ma sta bene tra lo zio e il nipote, la bocca calda e accogliente di Nando intorno al suo cazzo, la carezza umida di Ferdinando che ora indugia sul buco. Dopo un buon momento, quando ormai la tensione è diventata troppo forte, Nando si stacca e Ferdinando spinge Solomon verso il letto. Lo fa inginocchiare a terra, con il torace sul letto e il culo che sporge. Ferdinando accarezza con l’indice il solco, poi spinge il dito dentro, facendo sussultare Solomon. Muove il dito in senso circolare e Solomon geme. Poi si solleva e gli sorride. Avvicina il cazzo all’apertura e lo spinge piano, aprendosi la strada, fino a forzare l’anello di carne e poi ad affondare l’arma nel culo dell’amico. Ferdinando spinge ancora più a fondo, fino a che il suo ventre è a contatto con il culo di Solomon. Si appoggia su di lui e lo avvolge con le braccia. Una sensazione di profondo benessere lo invade. Nando passa dietro lo zio. Ferdinando sente il cazzo del nipote che preme. Non gli spiace sentirlo entrare nel culo. Nando poggia le mani sul culo dello zio e lo tira indietro, così che il suo cazzo quasi esce dal culo di Solomon. Poi spinge, facendolo di nuovo penetrare a fondo. Ora è Ferdinando a prendere l’iniziativa e a muoversi, avanti e indietro, affondando il cazzo bene a fondo nel culo di Solomon e poi impalandosi sul cazzo del nipote. Le mani di Nando scorrono
sui fianchi dello zio e poi passano oltre, fino a poggiare sul culo di
Solomon. Stringono, forte, e Ferdinando sente il guizzo del corpo di Solomon.
Il piacere cresce, sempre più intenso, sempre più forte in tutti e tre. Nando passa la mano sotto il corpo di Solomon e gli stringe il cazzo teso. Ferdinando spinge più forte, mentre alcuni colpi violenti da parte di Nando gli dicono che anche per lui il momento culminante è arrivato. I movimenti dello zio e del nipote sono confusi, guidati solo dal desiderio ormai incontenibile e poi dal piacere che esplode. Ferdinando chiude gli occhi, abbandonandosi sul corpo di Solomon. Nando si lascia andare sullo zio, ma la sua destra si muove ancora, fino a che Solomon geme e viene. Il giorno dopo Solomon rimane ancora al castello:
ci sono diverse cose di cui vuole discutere con Ferdinando. A pranzo Svend gli chiede quando intende partire. Solomon gli
risponde che partirà l’indomani, nel pomeriggio. Più tardi Gotthard comunica a Ferdinando che il
giorno dopo lui intende andare a caccia con i fratelli e gli altri tre
tedeschi. La sera Solomon chiama Sancho e Maher. - Ho detto che sarei partito domani pomeriggio,
ma partiremo domani mattina, molto presto, prima dell’alba. Voi però non dovete
dirlo assolutamente a nessuno. Maher è stupito, ma Sancho ha capito: conoscendo
la lingua che si parla al castello, ha sentito la domanda di Svend e la risposta di Solomon. - Pensi che i tedeschi vogliano fermarci? - Ne sono sicuro. Non ho voglia di perdere tempo
e correre rischi. Partiremo mentre loro dormono ancora. Voi avete tutto
pronto? - Certo. Possediamo solo la nostra parte del
bottino dell’attacco a Kharana. Siamo pronti a
partire in qualsiasi momento. - Allora acqua in bocca. Ferdinando ha messo come
sentinelle gente fidata. L’indomani partono prima dell’alba. Quando
Gotthard e gli altri si accorgono della loro assenza, sono già lontani. Gotthard rinuncia ad andare a caccia: sa di non
poter raggiungere le prede. Al momento di partire, Ferdinando ha dato a
Sancho due cavalli e altro denaro. Sancho ha diviso tutto con Maher e si sono
avviati con Solomon verso al-Hamra. Sancho la conosce, mentre Maher non ha mai messo
piede in una grande città e rimane sbalordito. Già quando la vede in
lontananza, addossata a una collina, circondata da una cinta di mura turrite,
gli sembra un miraggio, come quelli che a volte si vedono nel deserto.
Mormora: - Iram dalle mille
colonne. La città non è stata cancellata dal vento del deserto, come narrano
le antiche leggende. Sancho sorride. Conosce la leggenda di Iram, la splendida città che Allah distrusse perché i
suoi abitanti non avevano ascoltato il profeta Hud,
da lui inviato. Rougegarde, come ancora a Sancho
viene di chiamarla, potrebbe essere davvero una città mitica. Tutto
contribuisce a renderla unica: i palazzi in pietra rossastra, le torri, la
fortezza abbarbicata in cima alla collina, i minareti e i campanili, i
giardini i cui alberi spiccano tra le case. Dopo che sono entrati in città attraverso una
delle porte, Maher contempla a bocca aperta i palazzi, l’animazione per le
strade, la ricchezza degli abiti e degli ornamenti di molti che camminano o
cavalcano per le vie. Non ha mai visto nulla del genere. Solomon li conduce alla locanda della Luna piena.
Il suo arrivo mette l’intera casa in subbuglio: tutti vengono a salutarlo,
felici di ritrovare un amico che non pensavano di vedere mai più. È davvero
una festa per tutti: Tristan e Mariette,
che gestiscono la locanda; Istfan e Morqos, che vivono nella casa del mercante Giovanni;
Pierre e Sarah; Nino, il figlio di Giovanni che gestisce la bottega, e tutti
gli altri giovani della casa, alcuni ancora bambini, altri ormai adulti. Maher e Sancho osservano stupiti l’accoglienza
festosa riservata a Solomon. Pensano entrambi che è senza dubbio l’uomo
giusto per aiutarli a inserirsi in città. Solomon li presenta agli amici e, poiché nella
casa c’è un piccolo appartamento libero, consiglia a Sancho e Maher di
prenderlo in affitto. Poi parla con Morqos,
chiedendo di aiutare i due a trovare un lavoro. A lui spiega tutta la
situazione. Morqos promette di darsi da fare: è
abbastanza sicuro di riuscirci, perché conosce molte persone. In giornata Solomon passa a trovare la famiglia:
il fratello e la cognata sono felici di rivederlo. Poi si reca in sinagoga, per salutare alcuni
amici. Qui incontra Immanuel, uno degli uomini più ricchi della città e della
comunità, che ha per Solomon una stima infinita. Parlano un buon momento, poi Immanuel dice: - C’è qualche cosa che posso fare per te? - Ci sarebbe. Ho due amici, un arabo e un franco,
che cercano lavoro. Sono due uomini molto forti. Il franco è anche istruito e
parla benissimo l’arabo. Però per correttezza devo dirti che sono schiavi
fuggiti dal loro padrone. Se conosci qualcuno che ha bisogno di lavoratori e
che non li tratti come bestie, sarebbe un’ottima cosa. - Quel qualcuno sono io. Sto aprendo una nuova
sede a Jabal al-Jadid e voglio mandarci alcuni
uomini esperti, ma per sostituirli qui ho bisogno di altri, che posso seguire
io o il mio vice. Due uomini come quelli che mi dici possono servirmi per il
magazzino. Si accordano per vedersi il giorno seguente.
Solomon accompagna Sancho e Maher da Immanuel, che parla a lungo con loro e
si mette d’accordo sul salario e gli orari di lavoro. Due giorni dopo il loro
arrivo Sancho e Maher incominciano a lavorare nel magazzino di Immanuel.
Intanto nella casa di Giovanni fanno conoscenza con gli altri abitanti,
soprattutto con Istfan e Tristan,
l’altra coppia maschile della casa, e con Morqos. La sera, dopo la prima giornata di lavoro, si
ritrovano nel loro appartamentino: sono solo due stanze, piuttosto piccole,
ma per loro sono più che sufficienti. Non hanno mai avuto a disposizione due
stanze tutte per loro. - Sancho, non sto sognando, vero? È vero? È tutto
vero? Non siamo più schiavi, siamo liberi, abbiamo un lavoro, abbiamo una
casa, abbiamo un sacco di denaro, almeno, a me sembra un sacco, mai visto
tanto in vita mia, abbiamo intorno persone simpatiche con cui mi sembra che
riusciremo a intenderci benissimo. È così? No, sto sognando e tra poco mi
sveglio e scopro che devo svuotare il cesso di sayyd
Omar. Sancho ride. - Sayyd Omar è morto e,
se posso dire, è morto come meritava di morire, quel fottuto bastardo.
Comunque nell’elenco che hai fatto, mi sembra che tu abbia saltato la cosa
più importante. - E sarebbe? - Siamo insieme. Maher annuisce. - Sì, questa è la cosa più importante, di gran
lunga. Ma la davo per scontata: senza di questa, il resto non avrebbe
importanza. Preferirei essere ancora al servizio di Omar con te, piuttosto
che qui da solo. Maher si avvicina a Sancho e lo abbraccia. Si
baciano e si spogliano con gesti bruschi, dettati dall’impazienza. Ora sono nudi. Si abbracciano ancora, i cazzi già
tesi. Sancho dice: - Adesso che abbiamo una casa nostra, devi
insegnarmi un po’ di cose, di quelle che facevi al bordello… Maher ride: - Se non ti spaventi… - Non credo che mi spaventerò. Sai che sono un
porco. - È per quello che mi piaci. Solomon passa anche a trovare Guillaume, che fa
parte del consiglio che regge la città in assenza dello sceicco Ubayd. Gli porta i saluti di Denis e parlano a lungo del
loro amico comune e della città. Non hanno avuto modo di frequentarsi molto,
perché un templare e un ebreo che non abitano nella stessa città hanno poche
occasioni di vedersi: quando Denis viaggiava per incontrare altri signori e
organizzare qualche spedizione militare, Solomon non poteva accompagnarlo. Ma
le poche volte che si sono visti, si sono trovati bene l’uno con l’altro e il
rapporto forte che li unisce a Denis costituisce un legame tra di loro. Solomon gli parla di Sancho e Maher: - Non sono briganti. Sancho ha accettato di
attirare Omar in una trappola per poter liberare Maher, ma non sapeva che
sarebbe stato ucciso dai tre tedeschi. Non credo che nessuno si occupi di
loro, qui ad al-Hamra, ma se ce ne fosse bisogno ti
chiedo di proteggerli. - Lo farò, Solomon. Mentre Solomon sta finendo di preparare tutto il
necessario, ad al-Hamra arriva Riccardo. Ishan è al campo musulmano vicino ad Acri e il mercante
ha deciso di tornare a salutare il nipote Nino e gli amici. Non è la prima
volta che ritorna: da quando è il compagno di Ishan
e non più uno schiavo, ha piena libertà e ha ripreso la sua attività
commerciale, anche se in misura molto inferiore, usando come base Aleppo. Non
ama stare a lungo lontano dalla casa di Ishan, che
ormai è anche la sua, e si mette in viaggio quasi solo quando il suo compagno
è assente. Anche Riccardo è molto contento di ritrovare Solomon, a cui è
affezionato e che gli piace molto. Sono giorni di gioia per tutti e nei
festeggiamenti vengono coinvolti anche Sancho e Maher, che hanno modo di
conoscere meglio i loro vicini di casa. Solomon è molto impegnato, tra le visite alla
famiglia e la preparazione del necessario, ma trova un po’ di tempo da
dedicare a tutti. Con Morqos scopa due volte: la
loro amicizia è un legame profondo, che coinvolge le loro menti come i loro
corpi. A Jibrin invece non
tutto sta andando come dovrebbe. Gotthard ha convinto altri uomini a
rimanere: sono ormai venticinque intenzionati a fermarsi e solo quindici
disposti a seguire Ferdinando. Forte della superiorità numerica, Gotthard
intende avanzare altre pretese. Un mattino, mentre sono tutti riuniti per la
colazione e ormai aspettano da un giorno all’altro l’arrivo di Solomon, Hartwig, aizzato dal fratello, dice: - Che cosa hai nelle casse che hai preparato,
Ferdinando? - Ciò che ho portato dall’Arram
e appartiene solo a me, Hartwig. - Io credo che tutto quello che è qui, appartenga
a tutti noi. - Tu non hai nessun diritto sulle mie proprietà. - Quello che è qui nel castello è di tutti. Ferdinando si alza e si mette davanti a Hartwig. - Va bene, Hartwig.
Adesso la risolviamo, io e te, in un duello. Se mi ammazzi, puoi prenderti
anche il mio tesoro. Se ti ammazzo io, avrai guadagnato una bella fossa. Hartwig non si
aspettava la reazione di Ferdinando. Sperava di forzarlo a cedere il tesoro o
almeno una sua parte. Potrebbe provocare una battaglia: se Ferdinando e tutti
i suoi venissero uccisi, i vincitori potrebbero prendere anche la loro parte.
Ma Hartwig si rende conto che molti uomini che lui
e Gotthard hanno convinto a rimanere non accetterebbero di attaccare
Ferdinando e i loro compagni. Tirandosi indietro, perderebbe la faccia e non
può permetterselo, se vuole rimanere al forte come secondo di Gotthard. Non
ha altra scelta che accettare la sfida. È convinto di poter battere
Ferdinando, che ha quasi vent’anni più di lui. Scendono nel cortile più interno. Gli uomini si
dispongono formando un cerchio. Ferdinando e Hartwig,
a torso nudo, si affrontano, la spada in mano. Ferdinando è un guerriero molto forte e Hartwig, per quanto abile nell’uso delle armi e robusto,
fa fatica a parare i colpi. Si rende conto di essere in svantaggio. Cerca di
attaccare a sorpresa con una manovra azzardata, ma Ferdinando lo colpisce a
un braccio. Non è una ferita grave, ma Hartwig
abbassa la spada e dice: - Hai vinto, Ferdinando, mi arrendo. Ferdinando annuisce e si volta per allontanarsi,
come fanno anche tutti gli altri che hanno seguito il duello. Non badano a Hartwig, che con un movimento rapido si lancia su
Ferdinando per colpirlo alla schiena. A differenza degli altri, Unrod non ha distolto lo sguardo da Hartwig:
conosce bene l’uomo. Lo vede pronto a colpire e grida: - Attento. Ferdinando capisce, si volta. Hartwig
ha già alzato la spada per calargliela sul capo, ma il capobrigante con una
mano blocca il braccio sollevato dell’avversario e con l’altra gli immerge la
spada nel basso ventre. L’arma attraversa il corpo ed esce dal culo. Hartwig barcolla, gli occhi sgranati. Ferdinando sibila: - Pezzo di merda! Schifoso vigliacco. Gli sputa in faccia, poi estrae la spada e con un
calcio lo spinge a terra. Gotthard fa per lanciarsi su Ferdinando, ma Torstein si mette in mezzo, gli blocca il polso e,
girandogli il braccio, lo costringe a lasciar cadere la spada. - Basta con queste cazzate, stronzi. Tuo fratello
ha avuto quello che si meritava. Gotthard freme, ma rinuncia a cercare di
vendicare Hartwig. Si china sul moribondo, insieme
a Svend. Gli altri si allontanano: attaccare alle
spalle un uomo a cui ci si è arresi è un atto troppo vile. Hartwig agonizza
per due ore, prima di morire. I fratelli lo portano fuori dal forte e lo
seppelliscono. Solo i tedeschi della banda danno loro una mano. Torstein si rifiuta di unirsi loro e lui e Gunnarr decidono di partire con Ferdinando: l’azione di Hartwig gli è apparsa infame. Solomon parte da Rougegarde.
Sa che probabilmente non vi metterà più piede, anche se non è da escludere:
finché si combatterà, rimarrà con Denis e le circostanze potrebbero portarlo
a ritornare nella città. Quando raggiunge Jibrin,
tutto è pronto per la partenza. La morte di Hartwig
ha convinto altri uomini a venire via con Ferdinando, che ha diviso equamente
il bottino tra tutti. Quelli che rimangono sono poco meno di una ventina,
quelli che partono poco più. Solomon è arrivato con due lebbrosi: saranno i
loro compagni di viaggio. Il loro arrivo desta un certo sgomento. I lebbrosi
sono numerosi oltremare e lo stesso re Baldovino IV era stato colpito dalla
lebbra, per cui tutti conoscono i sintomi e il decorso devastante della
malattia. Nessuno si avvicina volentieri a un malato, temendo di poter essere
contagiato. Proprio su questo conta Solomon, per portare i briganti in salvo
attraverso i territori saraceni. I due uomini hanno il viso deturpato e mancano
uno di una mano e l’altro di alcune dita. I briganti invece avranno bendaggi
per ingannare chi li vede e farli passare per lebbrosi anche loro. Prima di
partire, Solomon si serve del succo ricavato da alcune bacche per imitare i
segni della malattia sul viso e sulle mani di alcuni; ad altri benda il viso
o nasconde un braccio o una mano, in modo che sembrino monchi. Ferdinando,
che è un volto molto noto ed è riconoscibile anche per la statura, ha il viso
completamente coperto dalle bende. Alla fine sembrano davvero una carovana di
lebbrosi, con una guida, Solomon, e alcuni servitori. Si mettono in movimento il mattino molto presto e
nel pomeriggio si accampano nella valle del Nahr.
Riposano un po’, poi ripartono e nella notte attraversano l’Arram. Per l’ultima volta della sua vita Ferdinando
percorre i sentieri che si snodano tra i boschi dove a lungo ha inseguito le
prede, ora animali, ora uomini. Qui è vissuto sereno e soddisfatto, prima di
conoscere Adham, e poi, con il nero al suo fianco,
completamente felice. Di lasciare per sempre l’Arram
non gli importerebbe molto, se Adham fosse con lui,
ma l’uomo che ama è lontano e sono separati per sempre. Il pensiero di Adham gli provoca una fitta. Nella valle che percorrono il silenzio è rotto
solo dallo scalpitio dei cavalli: all’avvicinarsi della carovana gli animali
tacciono o si allontanano. Quando sorge la luna, la sua luce illumina
perfettamente il sentiero che seguono, ma sembra rendere ancora più fitto il
buio che regna intorno. Giungono infine in cima al passo al confine della
valle dell’Arram. Ferdinando si volta indietro e
osserva la valle, immersa nella luce lunare. Non è portato a rimuginare sul
passato, ma sa che sta dicendo addio a una parte importante della sua vita,
agli anni in cui è stato felice. La carovana scende e si accampa, prima dell’alba,
ai margini di un bosco, lontano da qualsiasi villaggio. Nei giorni seguenti il viaggio prosegue nei
territori riconquistati dagli arabi. I due lebbrosi, le loro piaghe ben
visibili, cavalcano in testa, subito dopo Solomon. Anche tra gli altri
numerosi sembrano malati che coprono le loro piaghe. Evitano i villaggi e le persone che incontrano
per strada girano alla larga. A qualcuno che chiede notizie, Solomon spiega
che si tratta di lebbrosi che si sono recati in pellegrinaggio alla Mecca e
che ora si dirigono verso le loro case. La notizia li precede, perché la
carovana si muove lentamente, come farebbe un gruppo in cui ci fossero
davvero diversi malati. L’idea di Solomon si rivela ottima. Nessuno si
avvicina per fare domande, tutti preferiscono tenersi a distanza. Solomon e
due uomini acquistano nei villaggi e nelle cittadine il cibo necessario.
L’unico problema è che talvolta quando vogliono accamparsi arriva qualcuno
che li invita a spostarsi più lontano. Solomon risponde sempre: - Fratello, non vedi che sono malati? Si sono
recati in pellegrinaggio alla Mecca, a chiedere perdono per i loro peccati e
a pregare per la cacciata dei franchi e tu li vorresti allontanare. - Ci sono altri posti per accamparvi. Qui porto
le capre al pascolo. - Neppure un pascolo per le capre ci lasci. Iddio
ha inaridito il tuo cuore. Il viaggio li ha fiaccati e tu vuoi negare loro di
riposarsi? Le discussioni a volte si concludono con
l’autorizzazione a rimanere, in cambio di qualche moneta, mentre altre volte
la carovana riparte. In realtà a tutti va bene avanzare ancora, ma la
resistenza fa parte della recita. La sera Ferdinando passa molto tempo a parlare
con Solomon. Vuole che gli racconti quello che hanno fatto lui e Denis dal
momento in cui hanno lasciato Rougegarde. Per
l’ebreo prova un affetto profondo, che va molto oltre il desiderio fisico, e
Denis è da trent’anni il suo migliore amico, per non dire l’unico vero amico. C’è un’altra cosa che vorrebbe chiedere, a cui è
sicuro che Solomon saprebbe rispondere: Ferdinando pensa che non ci sia uomo in
tutta la Siria meglio informato di lui, anche se è tornato in Siria da poco,
dopo un’assenza di tre anni. Infine una sera formula la domanda che gli
brucia dentro. - Sai dove sia Adham? Solomon risponde senza esitare. - Con Saladino. - L’hai visto? - No, ma mi hanno detto che è là. - Per questo non mi hai chiesto come mai non era
con me, vero? - Esatto. Ferdinando tace. Anche Solomon rimane in silenzio
per un momento, poi chiede: - Lo ami ancora, vero? - Merda! Ferdinando non dice altro, Solomon neppure.
Rimangono in silenzio, nell’oscurità che diventa sempre più fitta. Poi
Ferdinando si alza e va a stendersi per dormire, ma il sonno non viene. E
quando infine si addormenta, nel sonno gli appare Adham,
che gli sorride e gli dice che è tornato. Ferdinando si sente felice, come
non lo è più stato da tempo, ma quando il sogno svanisce e si desta, il
dolore lo schiaccia. La carovana arriva infine alle porte di Haifa.
Incomincia ora la parte più difficile del viaggio: Acri non è lontana, ma non
possono arrivarci via terra, perché sarebbero intercettati dalle truppe di
Saladino, che sicuramente li farebbero deviare. Si accampano a qualche miglio dalla città e
Solomon vi si reca per incontrare il comandante della guarnigione. Come
previsto, questi sconsiglia loro di procedere lungo la costa. - Akka è ancora sotto
assedio da parte degli infedeli. - Gli uomini sono esausti. Questa lunga cavalcata
è stata sfibrante. La fede li ha sorretti, ma ora non ce la fanno proprio
più. - Non potete procedere lungo la costa, te l’ho
detto. Ma perché siete venuti qui? - Vivono quasi tutti a nord, nei territori
franchi. Pensavamo di poter proseguire per questa via. Non sospettavamo che Akka fosse ancora assediata. - Non potete pensare di attraversare
l’accampamento di Salah ad-Din,
che Iddio lo protegga, con il rischio di portare la malattia. Ci sono già
state epidemie, ci mancherebbe solo la lebbra! E di certo non potete fermarvi
in città o rimanere accampati vicino alle mura. - Lo so, per questo ci siamo accampati fuori. - È meglio che ve ne andiate anche da lì.
Levatevi dai coglioni, che prima è, meglio è. Solomon si finge spazientito. - Sono venuto solo io con due servitori per
comprare le provviste. Nessuno vuole rimanere qui. Piuttosto, se mi dai una
mano, ce ne andiamo prima. - E come? - Aiutami a trovare una navicella, su cui
possiamo caricare anche i cavalli. - E chi vuoi che accetti di trasportare dei
lebbrosi? - Paghiamo bene e qualcuno ci sarà pure. Tu che conosci
la città, guidami dal capitano di una navicella. Così noi ci leviamo dai
coglioni e tu sei contento, il capitano della nave intasca un po’ di dinar ed è contento anche lui, i miei amici possono
sbarcare oltre Acri e sono contenti pure loro. Credo che se troviamo qualche
cosa, ci sarà anche un regalo per te. Sanno essere generosi. - E va bene, ma solo perché vi leviate davvero
dai coglioni al più presto. Il comandante accompagna Solomon al porto. Ci
sono alcune imbarcazioni troppo piccole per il trasporto dei passeggeri e dei
cavalli. Due navi sono invece troppo grandi e il loro noleggio sarebbe
costoso. C’è una nave delle dimensioni adatte.
L’equipaggio ha appena scaricato mercanzie e dovrebbe caricarne altre in
giornata e fare vela verso Ashqelon. Il comandante della guarnigione propone al
capitano di caricare i pellegrini lebbrosi. - Lebbrosi? Meglio di no. E poi domani dobbiamo
caricare le merci e ripartiamo. Solomon sorride e dice: - Senti, amico, se partiamo questa notte, fai in
tempo a superare Akka, lasciarci a terra e tornare.
Al massimo ripartirete da Haifa un giorno dopo il previsto, mal che vada, ma
tu avrai guadagnato un bel gruzzolo. I miei amici pagano bene. In effetti la distanza non è molta e la nave può
tornare presto. Il capitano è ancora dubbioso. - È pericoloso. Qualche tempo fa una nave è stata
catturata dai cristiani. Hanno fatto strage dell’equipaggio. - Viaggiamo di notte. Non succederà niente. E
paghiamo bene. Il comandante della guarnigione interviene: - Erol, sono una ventina,
malati e deboli, vuoi abbandonarli così? Pagano bene. Erol scambia
un’occhiata con il comandante della guarnigione, poi si rivolge a Solomon e
chiede: - Bene, quanto? La domanda dà inizio a una rapida contrattazione.
Il capitano Erol ottiene qualche cosa di più della
somma offerta inizialmente, ma non insiste. Solomon finge di non aver notato
la sua arrendevolezza. - Iddio ti renderà merito della tua
disponibilità. Si mettono d’accordo e poi Solomon torna dai suoi
compagni. - Ho trovato una nave che ci porterà oltre Acri.
In realtà, costringeremo il capitano a deviare e a lasciarci alla foce del
fiume, dove c’è l’accampamento franco. - Ottimo. - C’è però una cosa che devo dire e che riguarda
tutti. Non mi fido del capitano. Temo che abbia accettato perché ha capito
che abbiamo beni e possiamo pagare bene. Vedendoci con i cavalli e le casse,
avrà una conferma. Penso che intenda farci fuori tutti e prendersi quello che
abbiamo, senza correre rischi. - Porcoddio! - Allora sarà bene avvisare tutti di stare in
guardia. Se è come penso io, contano di massacrarci nel sonno, pensando che
un gruppo di malati non sia in grado di opporre resistenza. Ferdinando ghigna. - In questo caso, avranno una bella sorpresa. La nave viene caricata a sera e parte quando si fa
buio. I pellegrini lebbrosi paiono tutti muoversi con fatica. Nessuno nota
che i due con il viso deturpato non sono tra gli altri: hanno ricevuto il
compenso pattuito e si sono già allontanati. Quando sono tutti a bordo, la nave esce dal porto
e si dirige verso nord. - Mettetevi pure a dormire. Ci vorrà un po’ di
tempo prima che arriviamo. - Certo. Tutti si stendono, ma nessuno dorme. Sono vigili,
le armi in mano. Prima di salire hanno sciolto le bende e nel buio si sono
sistemati in modo da poter combattere. Il sospetto di Solomon si rivela fondato. Il
capitano e quattro marinai si avvicinano armati agli uomini che sembrano
dormire. Pensano di uccidere nel sonno una ventina di lebbrosi e tre o
quattro uomini sani, poi di buttarne a mare i corpi e di tornare in porto con
il bottino conquistato senza fatica. Appena però si apprestano a colpire, i lebbrosi
si alzano e reagiscono: gli attaccanti si trovano ad affrontare oltre venti
guerrieri esperti. Non c’è davvero una battaglia: la disparità di numero e di
esperienza mette fine in pochi minuti allo scontro. Il capitano e due marinai
vengono uccisi subito, gli altri due chiedono pietà, ma subiscono la stessa
sorte. I loro corpi vengono gettati in acqua e il gruppo si impadronisce
della nave. Solomon si rivolge al timoniere e ai due marinai
superstiti. - E ora ci portate alla foce del Belus. La foce del fiume, vicino a cui si trova
l’accampamento cristiano, è più a sud della città assediata e non è bloccata
dalle navi cristiane. È il timoniere a rispondere: - E perché dovrei portarvi? Tanto ci ucciderete. - Se non altro, perché ci sono tanti modi di
morire e alcuni sono più spiacevoli di altri. Ma se farete quanto dovete, vi
lasceremo andare. Ti do la mia parola e non mento, a differenza del tuo
capitano. I marinai non sono molto convinti, ma non hanno
alternative, per cui cedono: non hanno motivo per farsi ammazzare subito. La nave raggiunge la foce del fiume. Gli uomini
sbarcano e scaricano quanto hanno con sé. Quando hanno concluso, Solomon
dice ai marinai che possono ripartire.
I tre sono ben felici di staccarsi dalla riva e raggiungere il mare aperto.
Non hanno guadagnato nulla dalla spedizione e hanno perso i compagni, ma
riportano a casa la pelle e salvano almeno la nave. È quasi mattina e l’arrivo del gruppetto
nell’accampamento cristiano suscita una certa curiosità, soprattutto tra
coloro che da tempo combattono oltremare e conoscono Ferdinando, almeno di
fama. Solomon guida Ferdinando e gli altri all’area in
cui sono accampati gli uomini di Denis. I due amici si abbracciano, mentre la
notizia dell’arrivo di Ferdinando fa il giro dell’accampamento. Solomon rimane in disparte: preferisce non farsi
notare. Ma Denis gli prende la mano e la stringe: c’è tutto il suo amore, in
quella stretta, c’è l’ansia che ha provato nell’attendere il suo ritorno, la
gratitudine per aver salvato Ferdinando e per essere tornato. Gli uomini si mettono tutti a dormire, perché
sono stanchi dopo una notte in cui hanno dormito molto poco, a turno. Denis
li fa sistemare nelle tende dei suoi soldati, in attesa che vengano montate
altre tende. Ferdinando e Solomon parlano ancora un momento con Denis,
raccontando brevemente il viaggio, poi si coricano anche loro. Si alzano tutti all’ora in cui viene distribuito
il cibo. Dopo aver mangiato Denis, Ferdinando e Nando
discutono della situazione. - Che intendi fare, Ferdinando? - Che cosa vuoi dire? - Sei arrivato qui. Il campo viene rifornito da
navi e puoi salire su una di quelle navi e andartene, tornartene in Sicilia,
se vuoi, o raggiungere Pierre a Bellerivière, che
sarebbe ben contento di avere vicino un guerriero valoroso come te. Se al suo fianco ci fosse Adham,
Ferdinando partirebbe. Non ha nessun motivo per continuare a combattere per
un coglione come Guido da Lusignano, che ha portato al disastro l’esercito
franco, e per quegli altri coglioni che gli hanno dato man forte e poi hanno
fatto condannare Ferdinando come traditore, solo perché aveva espresso un
giudizio sensato. Ma Adham è anche lui vicino ad
Acri e Ferdinando non vuole andarsene. Contro ogni speranza, spera ancora di
ritrovarlo. - Per il momento rimango qui a combattere, Denis.
Ma Nando potrebbe partire e raggiungere la Sicilia. Se non è una testa di
cazzo, lo fa senz’altro. Nando si chiede davvero che cosa ha senso fare.
Ha voglia di combattere: fino a ora, con i briganti, non ha mai partecipato a
una vera battaglia. Ha anche voglia di scoprire che cosa si prova a uccidere,
anche se sa benissimo che potrebbe invece scoprire che cosa si prova a essere
uccisi. E in fondo anche il pensiero di Zeyd lo
induce a rimanere, per quanto sia cosciente dell’assurdità di questo. - Zio, sai benissimo che sono una testa di cazzo,
me l’hai detto infinite volte. Per cui rimango anch’io. Ferdinando si rivolge a Denis: - Visto? Te lo dicevo, io, che è una testa di
cazzo. Denis sorride e scuote la testa. Mentre Ferdinando e i suoi uomini raggiungono il
campo crociato, Barbath è sulla strada per Jabal
al-Jadid, dove si prepara una spedizione contro i
briganti di Qasr al-Hashim.
Salah ad-Din ha ricevuto
la notizia della morte di sayyd Omar e ha ordinato
a Zeyd di marciare sul castello con gli uomini
validi che è in grado di raccogliere. Altri uomini lo raggiungeranno da Jabal
al-Jadid, da Shakra e da
al-Hamra. Non importa se le città rimarranno
sguarnite per un po’ di tempo: sono tutte troppo lontane dai territori
cristiani per essere minacciate. L’uccisione di un signorotto locale per cui era
stato pagato un riscatto è un’offesa intollerabile e Salah
ad-Din ha deciso che, malgrado la guerra in corso,
i briganti vanno sterminati. Quando ne ha parlato con Barbath,
questi ha chiesto di poter dirigere personalmente l’attacco. Salah ad-Din era restio a separarsi
dal suo comandante, ma la guerra sembra in una fase di stallo, con continui
tentativi di espugnare Akka da parte dei cristiani
e azioni di disturbo da parte delle truppe musulmane. La presenza di un
guerriero esperto come Barbath, che per di più conosce
il territorio permetterà di espugnare prima il castello. A Jabal al-Jadid Barbath conta di fermarsi il tempo necessario per
raccogliere le truppe della città e ricevere quelle che verranno inviate da Shakra e al-Hamra. Zeyd si occupa invece del reclutamento a Damasco. Barbath è in uno
stato di euforia, perché finalmente realizzerà il suo sogno: conquistare Qasr al-Hashim e uccidere
Ferdinando. Non sospetta che il conte non è più al castello ed è invece
arrivato nel campo cristiano ad Akka. A differenza di Barbath,
Zeyd affronta la spedizione profondamente
angosciato. Teme che Nando, di cui non ha più avuto notizie, si trovi al
castello e di fronte alla prospettiva che possa morire, è smarrito. È passato
oltre un anno da quando si sono amati, ma Zeyd ne
conserva un ricordo vivissimo. Se fosse il capo della spedizione, potrebbe
tenere Nando prigioniero e poi chiedere a Salah ad-Din di graziarlo, ma il comandante sarà Barbath e a lui Zeyd non può
certo opporsi. La raccolta di soldati provenienti da diverse
città richiede alcuni giorni. Barbath è impaziente,
ma non può partire fino a che le truppe non saranno pronte. Vive in uno stato
di agitazione costante: ha difficoltà a concentrarsi su qualsiasi cosa che
non sia la spedizione che si prepara. Quando si trova con l’emiro, riesce in
qualche modo a controllarsi, tanto più che con lui parla soprattutto
dell’impresa, a cui ‘Izz intende partecipare. Ma
quando la sera si ritrova con Qais e Mahdi, la sua mente ritorna in continuazione a Ferdinando
e non riesce a seguire nessun discorso. Qais è
profondamente turbato e ne parla con il compagno. - Mahdi, a me sembra
che Barbath non stia bene… non so come dire… Mahdi annuisce.
Anche lui ha colto lo stato di sovreccitazione di Barbath. - Ha sempre la testa altrove. Ma non è solo
quello. Tu l’avevi già notato, quando era tornato qui: il suo sguardo… c’è
una fissità che mi spaventa. Sembra davvero lo sguardo di… Mahdi si
interrompe. Gli pesa completare la frase. Lo fa Qais
al posto suo. - Sì, lo sguardo di un folle. C’è qualche
problema, certamente. Qualche cosa che è successo durante l’assedio di Akka, penso. Barbath si corica,
ma dorme pochissimo. Al pensiero di poter uccidere Ferdinando il suo corpo
arde e ogni notte il brigante ritorna nei suoi sogni, sfidandolo. Barbath conta di
partire il lunedì, ma Zeyd comunica che arriverà
solo il giovedì e ‘Izz attende ancora un
contingente da un centro minore, per cui l’emiro decide che partiranno tutti
insieme. Barbath non può opporsi: ha ricevuto da Salah ad-Din il comando della
spedizione, ma non può costringere ‘Izz ad
anticipare la partenza. La sua agitazione diventa incontrollabile. Tutto
è pronto e ogni ora che passa gli sembra buttata via. Non riesce a tollerare
l’attesa. L’emiro approfitta del rinvio per realizzare un’idea
che ha: vuole far illustrare un’altra storia delle Cinquanta e una notte, quella di Ismail, e vuole che il
protagonista abbia l’aspetto di Barbath. Waahid ha già illustrato tutto il volume e ‘Izz affida il compito al secondo pittore di corte, il giovane
Efraim. - In questi tre giorni prima della partenza farai
qualche ritratto di Barbath, così potrai poi
disegnarlo quando illustrerai la storia. Barbath non può
rifiutarsi di posare, ma non è un buon soggetto. A tratti rimane immobile,
completamente perso nei suoi pensieri e allora Efraim
può disegnarlo comodamente. In altri momenti invece non riesce a stare fermo
e il pittore non sa più che fare. La sera a tavola Efraim
si lamenta con Waahid. - Oggi ho disegnato un po’ di schizzi della
faccia, ma quando ho cercato di disegnarlo a figura intera, non mi è stato
possibile: si muoveva in continuazione. - Io l’ho visto poco in questi giorni, ma mi
sembra molto nervoso. Forse è impaziente di sterminare i briganti e tornare
dove si combatte. Non so che dire. Waahid ripensa al
periodo trascorso nell’Arram e in particolare agli
ultimi giorni. Già allora Barbath era chiaramente
in una condizione alterata. - Spero che domani vada meglio. Devo dipingerlo
nudo. Efraim esita un
attimo, poi prosegue: - È vero che… Si interrompe e ridacchia, un po’ imbarazzato,
poi prosegue: - …ne ha tre? - Sì. - Ti dirò: sono curioso di vederlo. - Senti un po’, non mi piace mica questa
faccenda. Mi sa che domani assisto anch’io alla seduta di posa. Non ti lascio
solo con Barbath, che è un magnifico stallone. Efraim ride e
chiede, malizioso: - Che ne sai tu, eh? - So, so. - L’hai provato? - Sono stato suo schiavo. Efraim rimane a
bocca aperta. - Non me l’hai mai raccontato. - Te lo racconto questa notte. Da alcuni mesi Efraim e
Waahid vivono insieme: lavorando fianco a fianco
hanno avuto modo di conoscersi e di innamorarsi. Per un po’ di tempo non si
sono detti nulla: Waahid temeva di soffrire ancora,
Efraim aveva paura di essere respinto. Ma un giorno
che Efraim stava disegnando una scena d’amore tra
due uomini, sono riusciti a superare le loro paure e a esprimere i loro
sentimenti. La notte, dopo che si sono amati, Waahid lascia che Efraim lo
stringa tra le braccia e gli racconta la sua giovinezza: parla del primo uomo
a cui si è dato, lo schiavo cristiano Raoul, poi del ricco Mu’ezz, di Barbath e di Laatif. Non gli capita spesso di ripensare a quel
periodo, ma adesso, man mano che narra, i ricordi affiorano e ritrova i
sentimenti di quei giorni lontani. Non nasconde nulla, preso da un desiderio
di condividere che non ha mai provato così forte: è la prima volta che si
mette a nudo in questo modo. Nel buio della stanza, tra le braccia dell’uomo
che ama, trova senza difficoltà le parole che danno forma ai ricordi. Le mani
di Efraim percorrono il suo viso e il suo corpo in
carezze leggere. Mentre Efraim e Waahid si amano, Barbath rimane
sveglio nella sua camera. Il rinvio della partenza gli sembra intollerabile.
Vorrebbe partire ugualmente. Vuole espugnare Qasr
al-Hashim e uccidere Ferdinando. Fotterlo,
castrarlo e impalarlo. Mentre lo pensa, il cazzo gli si tende. Barbath si accarezza, poi, con un movimento rabbioso, si
alza e si dirige alla finestra spalancata. È tutto sudato. La camera gli
sembra un forno in cui non si riesce a respirare. Cammina avanti e indietro
nella stanza, poi si riveste ed esce. Gira per le vie, senza meta. Ci sono poche
persone in giro, perché ormai è molto tardi. In cielo le nuvole hanno coperto
la luna e le stelle; le strade sono immerse nel buio. Barbath
si sente a suo agio nell’oscurità e nel silenzio che ora avvolgono la città.
Vaga a lungo, badando solo di evitare le ronde notturne: nessuno gli direbbe
nulla, ma preferisce non farsi riconoscere. Dopo un lungo girovagare si rende conto di
trovarsi a Hayi Albawwabat Algharbia, non
lontano dal bordello. Certo, è qui che voleva venire, per fottere Ferdinando.
Quel bastardo glielo ha messo in culo, ma adesso è il suo turno di essere
fottuto, prima di morire impalato. Sì, questa notte Barbath
incula il brigante che lo ossessiona. Raggiunge il bordello. La lampada vicino alla
porta è accesa, per quanto sia molto tardi: forse rimane accesa tutta la
notte. Barbath si copre il viso come le due volte
precedenti e bussa. Deve aspettare un buon momento: probabilmente dentro
dormono. Si sente una voce provenire dall’interno, poi la porta viene aperta
dal solito vecchio. È passato oltre un anno dall’ultima visita, ma l’uomo con
il volto coperto pagava bene. Il vecchio se lo ricorda e s’inchina. - Bentornato, sayyd. Barbath si chiede
che cosa sta facendo qui, ma scaccia i dubbi e chiede: - Qawiun è libero? - Sempre a tua disposizione. Si sente il rumore di un liquido che scorre.
Probabilmente Qawiun ha sentito che chiedono di lui
e sta svuotando la vescica. Il vecchio alza la voce e chiama: - Qawiun! Un momento dopo il prostituto appare sulla
soglia. Come la volta scorsa è a torso nudo: indossa solo un paio di
pantaloni, un po’ bagnati davanti. Barbath annuisce,
paga il vecchio e segue Qawiun. Nella stanza una piccola lanterna, posata a
terra, diffonde una debole luce. Il calore è soffocante e c’è un forte odore
di piscio, sudore e sborro. Qawiun dice: - Mi fa piacere rivederti, sayyd.
Barbath annuisce.
Prova nuovamente l’impulso di andarsene, ma lo soffoca. - Spogliati, Qawiun. L’uomo si abbassa i pantaloni e se li toglie.
Alla luce della lanterna Barbath può vedere il
corpo, ma il viso è in ombra. È venuto per fottere Ferdinando, ma ora,
guardando il grosso cazzo dell’uomo, che già si tende, si rende conto che non
è quello che vuole. Fissa Qawiun, senza muoversi,
incapace di dire una parola. L’uomo sorride e si accarezza il cazzo, che
s’irrigidisce e cresce. - Vuoi gustarlo, sayyd? Barbath rimane in
silenzio, incapace di parlare. Poi si spoglia, poggiando la tunica, i
pantaloni e il pugnale in un angolo. Guarda il cazzo, perfettamente teso. Qawiun sorride. - Non vuoi inumidirlo un po’? Così entra meglio. Barbath scivola in
ginocchio. Fissa il grosso cazzo. È quello di Ferdinando, il brigante, che lui
fotterà e impalerà. Ne sente l’odore intenso. Lo prende in bocca e lo avvolge
con le labbra. Ne sente il sapore, forte come l’odore. Lavora un momento con
le labbra e con la lingua, poi si stacca e si mette a quattro zampe. Barbath pensa che
ora Ferdinando lo fotterà, ma poi quel bastardo morirà, impalato e castrato.
È l’ultima volta che lo fotte. Qawiun si mette in
ginocchio dietro di lui e prepara l’ingresso. Barbath
sente la saliva che cola e le dita che la spargono sull’apertura. Chiude gli
occhi. Ferdinando sta per incularlo, per l’ultima volta. Poi morirà, impalato
e castrato. L’ingresso è doloroso, come sempre, ma Barbath sa di volere questa mazza che gli riempie le
viscere. Qawiun si stende su di lui, mentre le sue
mani gli stringono le natiche. L’uomo fotte con energia. Il dolore cresce, ma il
cazzo di Barbath si tende. Ferdinando lo sta
fottendo, ma morirà. Le mani di Qawiun
passano sotto, stuzzicano il cazzo e giocherellano con i coglioni. Si fermano
un momento. L’uomo esclama, stupito: - Ma… ne hai tre?! Come il grande Barbath. Barbath si sente
gelare. Qawiun non ha capito che lui è davvero Barbath, ma ripensandoci lo capirà. E se non ci arriverà
lui, lo farà il vecchio. Qawiun lo sputtanerà. O lo
ricatterà. No, nessuno gli crederà, anche se lo andasse a raccontare. E
perché mai dovrebbe raccontarlo? Perché lo odia, Ferdinando lo odia e sarà
ben felice di far sapere in giro che lui lo ha messo in culo a Barbath. Ferdinando lo fotte e poi dirà a tutti di averlo
fottuto, perché lo odia. No, Ferdinando non dirà niente, perché morirà. Barbath sorride.
Sì, Ferdinando morirà. Gliel’ha promesso e lo ucciderà. Qawiun fotte a
lungo, finché viene. Barbath sente il seme
rovesciarsi nelle sue viscere. Qawiun si ritrae e
si alza. Barbath si mette in ginocchio. Il culo gli
fa male. Si gira e guarda l’uomo davanti a sé, osserva il cazzo che l’ha
fottuto, ancora grosso, ma non più rigido. Lo prende in bocca. Qawiun ride, una risata roca, che si sente appena. Quando infine Barbath
lascia la preda e si alza, l’uomo dice: - Dovresti darmi qualche cosa, sayyd. Qualche moneta in più. Barbath annuisce.
Ferdinando ha capito e prova a ricattarlo. Si china, raccoglie la borsa e ne
prende due monete. Poi prende il pugnale, ma lo tiene dietro la schiena.
Porge a Qawiun le due monete e, mentre l’uomo le
prende, gli infila la lama nel petto, all’altezza del cuore. - No… no… Qawiun barcolla e
crolla sul pavimento. Barbath recupera il pugnale e
si mette a lato della tenda. Come ha previsto, il vecchio, che ha sentito il
gemito e poi il corpo cadere, si affaccia. Barbath
lo afferra e gli taglia la gola. Il sangue schizza, mentre l’uomo cade a
terra. C’è ancora il ragazzo. Barbath
prende la lanterna e passa nell’altra stanza, anch’essa molto piccola. C’è un
giovane che dorme. Non si è svegliato. Passa dal sonno alla morte senza
accorgersene. Barbath ritorna
nella stanza. Guarda il cadavere di Qawiun, steso
pancia a terra. Sorride. Si avvicina e posa a terra la lanterna. Con un piede
sposta le gambe del morto, divaricandole. Osserva il culo. Ferdinando è
morto. Il brigante lo ha fottuto e si è fatto succhiare il cazzo, ma ora è
morto. È il suo turno di essere fottuto. Barbath
ride. Ha il cazzo duro. Si stende sul cadavere e lo infilza con un
movimento brusco. - Ti sto fottendo, Ferdinando. Ha ucciso il brigante e ora lo sta fottendo. Barbath ride, mentre il desiderio lo guida in una
cavalcata selvaggia. Infine viene. Allora volta il corpo sulla schiena
e afferra i genitali. Li recide con il pugnale e li posa sul viso del morto. Poi si pulisce, togliendo il sangue che ha sulla
mano e sul petto. Asciuga la lama del pugnale e si riveste. Controlla che non
ci sia nessuno nella via ed esce. Spegne la lanterna accanto alla porta. Non
pensa a nulla: nella sua mente c’è un grande vuoto. L’unica preoccupazione è
quella di evitare le ronde notturne. Quando arriva infine nel suo appartamento si
stende. Si addormenta subito. Al risveglio non ripensa a ciò che ha fatto: è
come se l’avesse dimenticato completamente. Solo quando, il giorno prima
della partenza, i tre cadaveri vengono ritrovati e in tutta la città non si
parla d’altro, il ricordo riaffiora, confuso, ma Barbath
lo scaccia. Il giovedì infine le truppe riunite si mettono in
marcia per raggiungere Qasr al-Hashim.
I soldati di Jabal al-Jadid
sono comandati dall’emiro ‘Izz, che ha già
espugnato una volta il castello. Quelli di Damasco sono sotto la guida di Zeyd. Barbath dirige le truppe
di Shakra, al-Hamra e
dell’Arram ed è il comandante supremo, anche se non
prende nessuna decisione senza sottoporla all’approvazione di ‘Izz. L’emiro si limita ad accettare qualunque proposta:
non è uomo di guerra e sa che Barbath è in grado di
scegliere molto meglio di lui. Gli attaccanti contano su quattrocento uomini,
più che sufficienti per cingere d’assedio Qasr al-Hashim. Sanno che è molto difficile espugnarlo con un
attacco diretto, per la sua posizione: un numero ridotto di difensori può
tenere a bada attaccanti molto più numerosi. In realtà la guarnigione della fortezza non è in grado
di difendersi da un attacco in forze, sia perché molti uomini se ne sono
andati con Ferdinando, sia perché i danni fatti quando il castello venne
conquistato dal duca Denis e dall’emiro ‘Izz sono
stati riparati solo in parte: per ripristinare tutte le difese sarebbe stato
necessario un grande lavoro, per cui mancavano le maestranze. La notizia del reclutamento di truppe per
assediare Jibrin ha già raggiunto il castello. Per
tutti è evidente che nelle condizioni attuali una difesa è impossibile: mancano
gli uomini. Si tratta di capire che cosa fare. Si accende una discussione. - Costringiamo i pastori e i contadini che vivono
qui intorno a prendere anche loro le armi. - Non sanno combattere. E in ogni caso
scapperebbero alla prima occasione. - Forse è meglio lasciare il castello. - Per andare dove? - Se cercassimo di raggiungere i territori dei
franchi? - Sono molto lontani. Per arrivarci dovremmo
attraversare i domini dei saraceni. - Potremmo muoverci la notte e nasconderci di
giorno. - Impossibile. Ci beccherebbero. - Io me ne vado, comunque. - Anch’io. La discussione procede a lungo, ma nessuno ha una
soluzione. Più d’uno pensa che sia stato un errore non partire con
Ferdinando, ma ormai è tardi. Gotthard si alza. Si crea il silenzio e tutti lo
guardano, in attesa. In questo periodo è stato il capo del forte, anche se
non c’è mai stato un riconoscimento esplicito del suo ruolo. - Basta. Rimarremo tutti qui. Oggi stesso
prenderemo una ventina di uomini validi tra i contadini e i pastori, quelli
che possono esserci utili. Li alleneremo all’uso delle armi, a incominciare
da domani. Non ci sono altre vie d’uscita. Resisteremo finché gli assedianti
saranno costretti a rinunciare. Chiaro? Qualcuno vorrebbe obiettare, ma lo sguardo torvo
di Gotthard lo dissuade. Gotthard manda Svend e
altri due uomini fidati per il reclutamento. Gli uomini costretti a
trasferirsi al castello cercano di resistere, ma sono costretti a cedere. Il giorno dopo le nuove reclute incominciano ad
allenarsi nell’uso delle armi. Gotthard non è per niente soddisfatto: a parte
due o tre uomini più in gamba, è chiaro che non c’è molto da aspettarsi da
questi bifolchi. Già il secondo giorno uno dei pastori manca.
Gotthard manda quattro uomini a cercarlo. Lo trovano mentre sta trasferendo
il suo gregge più a valle, allontanandosi dal castello. Lo riportano a Qasr al-Hashim, dove Gotthard
lo condanna a morte: ormai ha assunto il ruolo di comandante e nessuno osa
opporsi. L’esecuzione avviene alla presenza di tutta la
guarnigione del forte e degli uomini reclutati a forza. Prima l’uomo viene
fustigato, finché non perde i sensi, poi, dopo averlo fatto rinvenire, due
soldati lo trascinano lungo le scale fino in cima alle mura. L’uomo grida e
chiede pietà, ma nessuno lo ascolta. Gli passano una corda intorno al collo e
la legano a un gancio, poi gettano l’uomo nel vuoto. Il salto è lungo e la
morte immediata. Gotthard si rivolge agli uomini che assistono: - Questa è la fine di chi cerca di tirarsi
indietro. Le truppe guidate da Barbath
arrivano e pongono l’assedio. Una rapida ricognizione dello stato della cinta
muraria esterna conferma ciò che Barbath ricordava:
le mura sono in cattive condizioni, perché in alcuni tratti sono crollate e
sono state riparate solo in parte. La cinta interna è però intatta e non sarà
facile penetrarvi. Barbath decide di
sferrare un attacco il mattino seguente, per occupare la cinta esterna.
Gotthard sa bene che la difesa delle mura non è possibile, per cui preferisce
far arretrare i suoi uomini: inutile affrontare una battaglia destinata a
concludersi con la perdita di molti uomini, senza nessun vantaggio. Oltre
tutto tra i briganti e a maggior ragione tra i contadini e i pastori
reclutati a forza non ci sono arcieri in grado di provocare molte perdite tra
gli attaccanti. Gli assalitori occupano senza difficoltà la cinta
esterna e Barbath distribuisce i suoi uomini in
modo che possano controllare la fortezza assediata, stando al riparo. Conta
di lanciare un primo assalto il giorno seguente, ma un fattore imprevisto
viene ad alterare i suoi piani. È notte fonda quando una sentinella si presenta
alla tenda di Barbath e lo fa chiamare. - Che cosa c’è? - Un uomo del castello è qui e vuole parlarti.
Dice che ti consegnerà la fortezza. Barbath è molto
stupito. Dice di introdurre l’uomo. Questi si presenta. - Comandante, mi chiamo Nooh.
Sono un pastore e vivevo nella valle del Nahr. - Non sei anche tu un brigante? - No, emiro. E te lo possono dire i miei
genitori, che sono stato costretto a lasciare, e tutti coloro che vivono
vicino ai pascoli di Hiran. - E allora perché sei al castello? - Il comandante del forte mi ha costretto a
venire qui a Jibrin. Come me ha portato altri,
contadini e pastori, che non hanno nessuna esperienza di uso delle armi. I
briganti sono pochi, non abbastanza per difendere il castello. Barbath scuote la
testa. - Contadini e pastori? Ferdinando dev’essere
impazzito. - Ferdinando non è più il comandante. Se n’è
andato forse un mese fa. Barbath è balzato
in piedi. - Cosa? Tu menti! Nooh arretra,
spaventato. - No, mio signore. Se n’è andato con una ventina
di uomini. Per questo i briganti non sono abbastanza per difendere la
fortezza. Barbath freme.
Colpirebbe volentieri quest’uomo, ma non avrebbe senso. - Quanti uomini ci sono? - Dopo l’attacco di ieri, loro sono rimasti in
quindici e noi siamo in diciotto. - Quindici guerrieri e pensano di resistere!
Imbecilli! - Comandante, noi siamo stati costretti a unirci
ai banditi. Siamo contadini e pastori, non abbiamo fatto mai nulla di male.
Vorremmo fuggire, ma uno di noi che ha provato è stato ripreso e impiccato. Barbath guarda
l’uomo. - Dovrei crederti? - Comandante, io ti posso consegnare la fortezza
domani notte. - E come? - Saremo di guardia in due, come questa notte, al
portone. Io ne ho approfittato per uscire e raggiungerti. Il mio amico mi
coprirà. Domani notte abbiamo il primo turno e verso mezzanotte potremmo
aprirti la porta. Barbath riflette un
momento. Conquistare la fortezza senza fatica sarebbe un’ottima cosa, ma non
vuole prendere la decisione da solo, senza aver sentito gli altri due
comandanti: è a capo della spedizione, ma gli sembrerebbe di mancare di
rispetto, soprattutto nei confronti di ‘Izz. Fa
perciò chiamare ‘Izz e Zeyd.
Espone brevemente la situazione. Zeyd è felice di
sentire che Ferdinando non c’è più. È sicuro che Nando abbia seguito lo zio. ‘Izz dice: - Mi sembra un’ottima notizia. Ci risparmiamo un
lungo assedio ed evitiamo che molti uomini vengano uccisi negli attacchi. Non
abbiamo macchine da guerra e prima di prenderli per fame, passerebbe molto
tempo. Zeyd osserva: - Anche a me sembra una buona idea, anche se non
sono felice di conquistare questa fortezza grazie a un tradimento. ‘Izz ride. - Zeyd, sei un
guerriero leale e valoroso, ma non conosci la storia del Castello maledetto,
come da noi viene chiamato Qasr al-Hashim. È sempre stato conquistato a tradimento. Noi lo
conquistammo perché Tancrède d’Espinel
ci aprì le porte e i templari furono sterminati. Io e il duca Denis lo
conquistammo togliendolo agli Hashishiyya grazie a due uomini inviati da Sinan, che ci aprirono la porta. E sterminammo tutti
quegli infami. E adesso nuovamente il Castello maledetto cadrà per un
tradimento. Che non è nemmeno tale, perché questi pastori e contadini sono stati
portati a forza. Zeyd annuisce: - Sì, bisognerà distinguere i briganti da questi
poveretti che non hanno colpe. Barbath andrebbe
per le spicce, passandoli tutti a fil di spada: dentro di lui cova una rabbia
sorda all’idea che Ferdinando non è dentro il castello e che anche questa
volta gli è sfuggito. Nooh viene
rimandato indietro. Non parlerà agli altri, ma quando sentirà che i guerrieri
stanno entrando nel castello, avviserà i compagni di non cercare di
difendersi. Non è difficile, perché dormono a parte. Il giorno seguente il castello non viene
attaccato, ma nel campo degli assedianti fervono dei lavori: sembra che
vogliano costruire qualche macchina da guerra. In realtà è solo una manovra
per ingannare i briganti. Svend e Gotthard
osservano il lavoro in corso. - Prima che riescano a costruire qualche cosa, ce
ne vorrà di tempo. E in ogni caso, se fanno una torre d’assedio, vedremo di
incendiarla. - Può essere solo un diversivo, per farci pensare
che per il momento non intendono attaccare. Invece magari questa notte ci
proveranno. - Un attacco notturno non mi sembra probabile,
anche se non lo si può escludere. La notte, all’ora stabilita, la porta viene
aperta e le truppe entrano silenziosamente nel castello. Nooh
e il compagno di guardia danno indicazioni precise sulle stanze dove dormono
i briganti e i loro compagni. L’ordine impartito da Barbath
è di prendere vivi i briganti, se possibile. Sorpresi nel sonno, i briganti non sono in grado
di difendersi e vengono tutti catturati vivi. Il castello viene saccheggiato. Barbath affida a ‘Izz il
compito di dividere il bottino, piuttosto consistente. ‘Izz
decide che la mobilia deve essere riportata nel palazzo dell’Arram, da cui proviene. Tutti i soldati ricevono un
compenso e anche i pastori e i contadini hanno un piccolo indennizzo. Nooh riceve una somma più consistente. ‘Izz non prende niente
per sé, nonostante le proteste di Barbath, ma è
molto generoso con Zeyd. Questi si schermisce. - Non ho fatto niente, emiro. - Zeyd, né io, né Barbath abbiamo bisogno di ricchezze. Barbath
ha avuto comunque la sua parte. So che sei un uomo giusto e un guerriero
coraggioso, ma non possiedi un grande patrimonio. È giusto che ti spetti di
più. - Sei molto generoso, emiro. - Zeyd, mi sono trovato
a perdere tutto: mio fratello, mio padre, la mia città. Sono stato sul punto
di perdere la mia vita e solo l’assoluta fedeltà di Barbath
e di altri tre ufficiali, insieme alla generosità del duca Denis, mi ha
permesso di sopravvivere. Ho recuperato il dominio su Jabal al-Jadid grazie alla vittoria del duca sul Circasso e alla
giustizia di Salah ad-Din.
Sono vivo e sono emiro grazie alla generosità degli altri. E non dovrei
essere generoso io? Il giorno in cui Iddio mi chiamerà a sé, avrò molti
peccati di cui dovrò rispondere. Non sia mai che mi possano accusare di non
essermi mostrato generoso, dopo tutto quel che ho ricevuto. - Allora posso solo ringraziarti, emiro. Barbath ha seguito
la discussione senza grande interesse. Non è venale e possiede più di quello
che gli serve. Non rifiuta la mobilia solo per non offendere l’emiro. Adesso
che l’argomento è stato esaurito, dice: - Rimane il discorso dei prigionieri. Propongo di
dividerli in tre gruppi. Quelli che porterò con me verranno impalati nella
valle del Nahr, a monito per tutti coloro che
vivono nell’area e che in qualche modo hanno appoggiato il brigante
Ferdinando. Quelli che porterai con te, emiro, potrebbero essere impalati
oltre le montagna, perché possano vederli coloro che vengono da Jabal al-Jadid. Infine un terzo gruppo dovrebbe essere impalato
vicino a Kharana, perché questi briganti hanno
assassinato sayyd Omar. Te ne puoi occupare tu, Zeyd, prima di tornare a Damasco? - Certamente, Barbath. Dopo che si sono messi d’accordo, Zeyd si rivolge a Barbath: - C’è una cosa che vorrei chiederti. - Dimmi. - Il nostro sovrano, che Iddio lo protegga, mi ha
affidato il comando della guarnigione di Damasco. Io però vorrei tornare a
combattere. Barbath appare
perplesso. - Ti dirò, Zeyd, Salah ad-Din ha fatto
riferimento a te alcune volte, dicendo sempre che stai svolgendo un ottimo
lavoro ed è felice di aver lasciato a Damasco un uomo su cui può contare
incondizionatamente. Io posso parlargli, ma non credo che otterrò molto. Il
tuo predecessore, che ha trovato la morte sul campo di battaglia, deve averne
combinate di tutti i colori e Salah ad-Din aveva ricevuto molte lamentele. Da quando sei a
Damasco, non ci sono più proteste. Senz’altro il nostro sovrano preferirà che
tu rimanga in città. Zeyd abbassa il
capo, deluso. Dice ancora: - Parlargliene lo stesso, ti prego. - Lo farò. Nelle celle del castello i prigionieri attendono.
Sono tutti nudi, perché sono stati sorpresi nel sonno. Ognuno ha le mani
legate dietro la schiena e una corda alla caviglie, che rende molto difficile
camminare. Sanno di essere destinati a una morte orrenda. Qualcuno maledice
Gotthard e Svend, che considera i responsabili. - Se non aveste ucciso Omar, non ci avrebbero
attaccati. - E se non aveste costretto contadini e pastori a
unirsi a noi, non ci avrebbero presi a tradimento. - Piantatela, stronzi! Avete scelto voi di
rimanere. Potevate andarvene con quel cagasotto di
Ferdinando. - Se l’avessimo fatto, saremmo ancora vivi.
Invece ci aspetta il palo. - Lo sapevate fin dall’inizio. - Io ho visto un brigante sul palo. Lo avevano
impalato due giorni prima, ma era ancora vivo. No… no… Noooooooooooooo! L’uomo grida, in preda a una crisi di nervi. Va
avanti a lungo e inutilmente gli altri gli urlano di tacere. Infine si
accascia, singhiozzando, e scoppia a piangere. Gotthard mormora: - Vigliacchi! Dovevano fare i pastori, non i
briganti. Si accorge che accanto a lui Svend
sta tremando. Svend è l’ultimo dei fratelli e ha
dodici anni in meno di Gotthard. - Che c’è, Svend? Svend scuote la
testa. Non vuole parlare davanti agli altri. Più tardi i prigionieri che verranno impalati da Zeyd vengono portati via: l’ufficiale vuole rientrare il
più rapidamente possibile a Damasco. I soldati che prendono i prigionieri li deridono: - Su, venite con noi, che vi divertite. - Vi faremo godere. Un bel cazzo in culo, come
non l’avete mai sentito. - Un po’ appuntito, forse… ma entra meglio
dentro. Uscendo uno dei soldati si volta verso gli altri
e dice: - Ce n’è anche per voi. Non facciamo ingiustizie,
noi. Anche ‘Izz parte in
giornata, portando via i suoi prigionieri. Nella cella rimangono solo in sei,
tra cui Gotthard e Svend. Barbath
ha bisogno di più tempo per organizzare il trasporto dei mobili al palazzo
dell’Arram. La cella ha un’unica piccola finestra, molto in
alto, da cui entra una debole luce. Quando diventa buio, Svend
sussurra a Gotthard: - Non voglio morire sul palo, Gotthard. Gotthard china il capo. A Svend
è affezionato e sa che il fratello è diventato brigante solo per seguire lui
e Hartwig. - Svend, quella è la
sorte che ci aspetta. - No, non così, Gotthard, non così. Gotthard si morde il labbro. - Se potessi salvarti, lo farei, ma come? - Puoi salvarmi dal palo, Gotthard. - E come? - Fallo tu. Per un attimo Gotthard non capisce. Poi
comprende. - Vuoi che… oh, merda! - È l’unica via. Sì, non c’è altra via. Gotthard preferirebbe
essere impalato due volte, ma sa che non può rifiutare ciò che Svend gli chiede. Mormora: - Va bene. C’è un momento di silenzio, poi Svend chiede: - Come mi metto? - Infila la testa tra le mia ginocchia. Uno degli altri prigionieri dice: - La finite di borbottare, voi? Lasciateci
dormire. Gotthard risponde: - Sì, la finiamo. Ora la finiamo. Solo un attimo. Svend si è messo
davanti a Gotthard. China la testa, fino a che tocca le ginocchia del
fratello, che le allarga. Svend abbassa il capo e
lo avanza un po’, in modo che si trovi tra le ginocchia di Gotthard. Questi
appoggia le ginocchia sul collo di Svend. Vorrebbe
urlare. A fatica dice: - Addio, Svend. - Addio Gotthard, grazie! La voce risuona di nuovo: - E basta! Gotthard stringe con forza. Svend
sente la pressione contro il collo. Avverte che sta perdendo i sensi.
Vorrebbe ringraziare ancora Gotthard, ma non può più parlare. La coscienza
svanisce. Gotthard stringe a lungo: vuole essere sicuro di
fare fino in fondo quello che deve. Infine, quando è sicuro che Svend è morto, lo lascia andare. Spera che la morte venga
presto. L’indomani il carceriere scopre la morte di Svend. Barbath dice di lasciare
il cadavere in cella con Gotthard, ma di spostare gli altri prigionieri: non
vuole che sfuggano al palo. Intanto Zeyd ha
percorso un lungo tratto di strada. La seconda sera interroga i prigionieri e
si fa raccontare ciò che è successo al castello negli ultimi mesi. Fa domande
generiche, ma quello che gli interessa è sapere se Nando era tra gli uomini
che si sono allontanati. I suoi dubbi vengono chiariti subito: tra i briganti
c’era anche il nipote di Ferdinando, tornato dopo un lungo periodo di
assenza. La notte seguente Barbath
entra nella cella, con una torcia che inserisce in un anello al muro. È nudo
e Gotthard vede che ha il cazzo duro. Barbath ha avuto
molta difficoltà a prendere sonno. L’idea che Ferdinando gli sia sfuggito lo
tormenta. E quando si è addormentato, il brigante gli è comparso in sogno. In
qualche modo Barbath è riuscito a svegliarsi,
mentre sognava che Ferdinando lo stava inculando. Ha deciso di scendere a
fottere il prigioniero. Un brigante, un compagno di Ferdinando, un cristiano.
Gli sembrerà di fottere Ferdinando. Gotthard lo guarda e nei suoi occhi Barbath vede scintille di odio. Ghigna. - Questa notte voglio gustare il culo di un
brigante cristiano. Gotthard non capisce la frase: di arabo conosce
poche parole, ma quel poco che ha capito, “culo” e “brigante”, gli fa
intuire. Rabbrividisce. Non è mai stato penetrato. Qualche volta ha fottuto
un prigioniero o uno schiavo o, più di rado, un guerriero che gli si è
offerto, ma ha sempre preferito una fica a un culo. - Non puoi farlo. A sua volta Barbath non
capisce le parole, ma comprende che Gotthard sa a che cosa va incontro e
vorrebbe sottrarsi. Ride. - Non ti piace? Che peccato! Pensavo di farti
godere, prima che tu crepi come quello stronzo. Con un cenno Barbath
indica il corpo di Svend. Gotthard sa che non ha modo di difendersi, con le
mani e le caviglie legate. Conosce qualche insulto in arabo e grida: - Bastardo! Pezzo di merda! Porco! Barbath ride, una
risata stridula, in cui qualcuno potrebbe cogliere il segno di uno stato mentale
alterato. Barbath si avvicina
a Gotthard, lo afferra per i capelli e lo spinge a terra, a pancia in giù. Si
mette sopra di lui, gli allarga le natiche e preme con il cazzo contro il
buco. - No! Gotthard stringe disperatamente le natiche, per
impedire l’ingresso, ma il cazzo forza l’apertura e penetra. Gotthard ha la
sensazione di un coltello che gli squarci la carne. Barbath fotte con
gusto questo corpo legato. Gotthard lo maledice e lo insulta, in arabo: - Bastardo! Bastardo! Poi aggiunge, in tedesco: - Maledetto figlio di puttana. Schifoso bastardo.
Che tu possa crepare. Barbath ride, la
stessa risata di prima. - Ti piace, eh? Ti piace. Barbath fotte con
gusto. Quando si rialza, nota di avere il cazzo sporco: è inevitabile, visto
che Gotthard rimane tutto il giorno nella cella e non può lavarsi. Vorrebbe
costringere il brigante a pulirglielo, ma sa che quest’uomo lo morderebbe. Si limita a pisciare sull’uomo disteso. - Tra pochi giorni ti impaliamo, ma fino ad
allora, verrò a trovarti ogni notte. La notte seguente Barbath
mantiene la promessa. Il mattino successivo la carovana si mette in moto
molto presto per raggiungere l’Arram. Il cadavere
di Svend viene caricato sulla sella di un cavallo e
portato a valle. Pastori e contadini possono vederlo mentre le truppe
sfilano. La notte viene trascorsa in un accampamento
provvisorio, in cui Barbath stupra nuovamente
Gotthard. Arrivano infine all’Arram.
Barbath non avrebbe voluto tornarvi, perché sa che
i suoi fantasmi nel palazzo che è stato a lungo di Ferdinando sono troppo
forti. Potrebbe far impalare i briganti subito, affidare all’amministratore
il compito di sistemare il mobilio e ripartire. Sceglie invece di rimanere,
dicendosi che vuole godersi l’impalamento. Quattro briganti vengono messi insieme in una
cella, mentre Gotthard è rinchiuso a parte, insieme al cadavere del fratello.
Il calore estivo accelera la decomposizione del corpo e il fetore è ormai
intollerabile. Nella notte Barbath
torna a stuprare il prigioniero, poi gli piscia addosso e se ne va. Il mattino seguente il cadavere di Svend viene portato fuori e caricato su un mulo, come un
animale. Le guardie sciolgono le corde di Gotthard e lo accompagnano fuori.
C’è un palo appuntito a terra. Gotthard intuisce. Sa che la punta di quel
palo gli entrerà in culo. - Sollevalo. Gotthard vorrebbe lanciarsi sui soldati e farsi
uccidere, ma sa che non ci riuscirebbe: Barbath ha
sicuramente dato loro istruzioni precise. Un servitore lo aiuta a caricarsi
il palo sulle spalle e ne sostiene in parte il peso. Si avviano, percorrendo
un tratto in piano e poi risalendo lungo il pendio di una collina, sulla
strada che arriva da al-Hamra. La giornata è calda e Gotthard suda abbondantemente.
Dalla fronte colano gocce che raggiungono le sopracciglia. Sul petto il
sudore forma rivoli che scorrono fino a perdersi nella peluria fitta del
basso ventre. Gotthard si ferma due volte, ma una frustata secca gli ricorda
che non è lui a decidere i tempi di marcia. Arrivano infine in cima. Gotthard può posare il
palo a terra e due soldati gli legano le mani dietro la schiena. Uno degli schiavi depone a terra un arnese di
legno che ha portato con sé, una specie di grossa sella, piuttosto alta. Il
cadavere di Svend viene tolto dal cavallo e messo
sulla sella, così da avere il culo sollevato. Uno degli schiavi prende un
grosso coltello. Con la mano sinistra preme su una natica di Svend, in modo da scoprire bene il buco, poi vi introduce
il coltello e allarga l’apertura, così che il palo possa entrarvi. Gotthard guarda lo strazio di quel corpo ormai
insensibile: sa che il suo corpo, vivo, subirà lo stesso oltraggio. Al
pensiero dello scempio che sta per subire, un brivido gli percorre la
schiena. Due uomini passano le corde intorno alle caviglie
del morto e tirano verso l’esterno. Ora il corpo di Svend
è disteso a terra, il culo aperto. Altri soldati mettono il palo in
posizione, appoggiando la parte appuntita sull’apertura che il coltello ha
allargato. Uno dei due tiene l’altra estremità del palo
leggermente sollevata, mentre il boia solleva il grande martello di legno e
vibra il primo colpo. Il palo si immerge nel culo del morto. Gotthard sente
le viscere contrarglisi. Un secondo colpo spinge il palo ancora più a fondo.
Il corpo di Svend rimane inerte, perché gli uomini
che tirano le corde legate alle caviglie gli impediscono di scivolare in
avanti per la spinta del palo. A ogni colpo il palo penetra più addentro
nella carne. Gotthard perde il controllo della vescica e il piscio scende
abbondante a terra. Non si accorge nemmeno dell’ampia pozza che si sta
formando ai suoi piedi. Il boia controlla la posizione del palo, poi, con
due altri colpi, ne fa uscire la punta acuminata da una spalla. Gotthard ha
un sussulto. A questo punto due uomini scavano nel terreno un buco profondo.
Il palo viene sollevato. Gotthard guarda la testa di Svend
che si muove a ogni scossa del palo, la punta che emerge dalla spalla, il
corpo del fratello che ha amato e a cui ha dato la morte. Il palo viene
infilato nel buco e bloccato con alcune grandi pietre, in modo che rimanga
perfettamente verticale. Gotthard sa anche il suo corpo sarà in quella
posizione, ma non sarà un cadavere insensibile al dolore: sarà carne viva. Barbath fa un cenno
a un soldato, che afferra il cazzo e i coglioni di Svend
e li recide. Gotthard si dice che anche questo lo attende. Barbath ride. Poi
si volta e incomincia a scendere la collina. Due guardie si mettono di fianco
a Gotthard e lo spingono, forzandolo a muoversi. Solo ora Gotthard si rende
conto che c’era un solo palo. Il suo momento non è ancora giunto. Nella notte lo stupro si ripete. Il giorno dopo
lo portano nuovamente fuori. Questa volta c’è anche Rashid,
l’unico musulmano nel gruppo dei prigionieri di Barbath.
Gotthard e Rashid devono portare il palo. Gotthard
sospetta che sia destinato all’arabo: Barbath
probabilmente vuole tenerlo per ultimo. Rashid
trema, ma cerca di controllarsi. Quando arrivano in cima, Rashid
vede il cadavere di Svend, ricoperto di insetti e
castrato. Rabbrividisce. Si ripete la scena del giorno prima, ma questa
volta a essere impalato non è un cadavere, ma un uomo vivo. Quando lo
afferrano per coricarlo sulla sella, Rashid si
dibatte, urla, chiede pietà, ma si ritrova in posizione, le gambe allargate,
la testa bloccata con una specie di forcone. Il boia gli poggia la mano
sinistra su una natica, per allargare bene, preme il coltello contro il buco
del culo e sollevandolo lo allarga. Rashid urla di
nuovo. Altre urla, ancora più violente, accompagnano
l’ingresso del palo e poi la sua lenta avanzata nella carne. Il boia si ferma
prima che la punta fuoriesca. Il palo viene drizzato. Il movimento provoca un
ulteriore affondare del corpo. Rachid ha il viso
bagnato di lacrime e bestemmia. Due soldati rimangono di guardia, a una certa
distanza, perché il miasma che si leva dal cadavere di Svend
rende impossibile rimanere a lungo vicino. Gotthard viene riportato indietro. Il giorno
seguente viene impalato un terzo bandito, Gunther,
un compagno di Gotthard, e Rashid, che è ancora
vivo, viene castrato. Gli ultimi due briganti subiscono la stessa sorte nei
due giorni successivi, secondo le stesse modalità. Gunther
sopravvive ancora oltre un giorno alla castrazione: la sua è l’agonia più
lunga. Gotthard, che ha aiutato a portare i pali su cui
sono stati infilzati tutti i suoi compagni, sa che il prossimo è lui. Meglio
così. La vita che conduce in questi giorni è un inferno. Di giorno rimane
tutto il tempo legato saldamente. Per mangiare deve stendersi sul pavimento,
sporco di piscio e merda, e afferrare con i denti il cibo dalla scodella. La
notte viene violentato da Barbath, che poi gli
piscia addosso. La morte sul palo è terribile e quando ripensa
alle scene a cui ha assistito in questi giorni, prova orrore. In particolare
l’interminabile agonia di Gunther è stata atroce:
l’immagine del corpo mutilato che non si rassegnava alla morte lo tormenta.
Ma la sua vita non ha nessun senso. Guarda Barbath,
che ha assistito ogni giorno all’impalamento. Lo odia con tutte le sue forze.
Se potesse averlo tra le mani, sarebbe felice di ucciderlo nel modo più
atroce. Ai piedi della collina Barbath
si volta a guardare i corpi dei briganti. Quello impalato ieri e castrato in
mattinata è ancora vivo, gli altri impalati in precedenza sono ormai morti.
Su tutti banchettano insetti di ogni specie. La visione è un monito per tutti. Chi passa per
la strada può vedere la fine di coloro che minacciano la sicurezza delle vie
di comunicazione. All’accampamento sotto le mura di Acri gli
scontri sono continui. Non sono vere battaglie, ma azioni di disturbo, tese a
impedire ai franchi di attaccare in forze Acri e conquistarla. Rodrigo si è unito ai templari e combatte con
accanimento. Nei confronti dei nemici prova un odio profondo ed è felice di
poterli uccidere. Se abbatte un uomo, provvede immediatamente a finirlo,
anche se questi si arrende e chiede pietà. Il piacere che prova a uccidere
non è di tipo fisico, come in alcune circostanze succede a Ferdinando: è la
gioia profonda di veder morire un nemico odiato. E Rodrigo odia tutti i
saraceni e vorrebbe vederli morti. Gli altri templari ammirano il suo
desiderio ardente di combattere e scambiano per zelo religioso il suo odio
per i musulmani, ma la fede non svolge nessun ruolo nel suo accanimento. A
guidarlo è il desiderio di vendetta. Anche Nando combatte, quando i saraceni
attaccano, in una delle tante azioni di disturbo contro le difese
dell’accampamento. Per lui è la prima volta che affronta un nemico armato. Ha
un ottimo allenamento con le armi: a Jibrin ogni
mattino si facevano esercizi, ma scopre in fretta che esercitarsi è del tutto
diverso da combattere davvero. Le sensazioni che trasmette una battaglia o
anche solo un duello sono di altro tipo. Tutto è differente: la tensione per
la minaccia mortale, la coscienza che ogni piccolo errore può essere fatale,
la necessità di essere sempre vigile non solo rispetto all’avversario che si
affronta, ma anche rispetto agli altri che possono intervenire e colpire,
magari alle spalle. E infine la sensazione che dà uccidere un uomo. La prima
volta che riesce a colpire un soldato turco, calandogli la spada sul collo e
quasi decapitandolo, rimane immobile a fissarlo, incapace di distogliere lo
sguardo. Il sangue sgorga abbondante e l’uomo, che è caduto in ginocchio,
dilata gli occhi in una smorfia di orrore e poi crolla a terra. - Porcoddio, attento! La voce dello zio lo riscuote, ma non basterebbe
a salvarlo dal guerriero che stava per colpirlo alle spalle, se oltre alle
parole Ferdinando non avesse usato la spada. Lo zio sa che Nando si trova a
combattere per la prima volta e veglia su di lui. - Che cazzo fai, Nando? Sei in battaglia, non
stai mica guardando un giocoliere! - Scusa, zio… era la prima volta… - Evita che sia anche l’ultima, porcoddio! Lo scontro procede. Nando uccide altri due
uomini. All’ultimo infila la spada nel ventre e prova un piacere fisico
intenso. Il cazzo gli si tende. Nando si guarda intorno: non c’è nessuno a
minacciarlo, ormai la battaglia si sta spegnendo. I saraceni, respinti, si
ritirano, lasciando sul terreno i loro morti. Nando guarda l’uomo che sta
agonizzando. Si sente a disagio, ma gli è piaciuto ucciderlo. La sera riflette a quanto è successo. Non sa
definire le sue sensazioni. Gli sembra che qualche cosa sia cambiato in lui.
Vorrebbe parlarne, ma non sa con chi. Vede Solomon fuori dalla tenda in cui
dorme con Denis. Il duca non c’è, perché partecipa a una riunione dei
comandanti militari. Solomon gli piace molto, non solo fisicamente: ne
apprezza il calore umano, la generosità, l’intelligenza. Potrebbe parlarne a
lui, ma si sente in imbarazzo. Gli si avvicina: - Come va, Solomon? - Bene. E tu, Nando? - Bene. Nando non sa come proseguire. Come lo zio, non è
certo timido, ma adesso è un po’ a disagio. Non direbbe niente, se Solomon
non gli chiedesse: - Che cos’hai, Nando? Mi sembri turbato. - Posso parlarti? - Certamente. Nando non sa bene da che parte incominciare. - Solomon, hai mai ucciso un uomo? Solomon risponde, senza dare segno di stupore: - Alcune volte, sì. - Pensavo che voi ebrei non combatteste. Solomon annuisce. - È esatto, ma hanno cercato di ammazzarmi alcune
volte. O di ammazzare qualcun altro. E non sono stato a guardare. Se non
avessi ucciso, non sarei qui, adesso. Nando annuisce. Non sa come continuare. Solomon
gli viene incontro: - Di che cosa vorresti parlarmi? Nando non sa bene da che parte incominciare. - Oggi abbiamo combattuto. E io ho ucciso tre
guerrieri. - Ed era la prima volta. Per questo sei turbato. - Sì, ma non so neanch’io spiegarlo. - Ti spiace aver ucciso? - No. È come dici tu: se non li avessi uccisi io,
mi avrebbero ucciso loro. Combattevamo. Solomon tace, in attesa. Nando esita un attimo,
poi dice: - Non mi è dispiaciuto uccidere. - A molti piace. Provano una sensazione di forza. - Per lo zio è così, vero? - In parte sì, ma per lui non è solo quello: gli
piace il rischio, la sfida. Non gli piacerebbe uccidere un uomo disarmato. Ma
sfidare, vincere e uccidere un uomo gli
trasmette sensazioni molto forti. Nando tace. Solomon chiede: - E a te? - Non lo so, Solomon, non lo so. No, non è vero,
lo so. L’ultimo che ho ucciso… io… - Ucciderlo ti ha eccitato? Nando è contento che Solomon l’abbia detto,
risparmiandogli l’imbarazzo. - Sì. - Succede ad alcuni, è una cosa che mi hanno
raccontato in diversi. Nando annuisce. Solomon continua: - Ma fai fatica ad accettarlo, vero? - Sì. Non… non me l’aspettavo. Solomon scrolla le spalle. - Nando, se tu andassi in giro a uccidere perché
ti eccita, sarebbe in effetti preoccupante. Ma tu combatti perché devi e se
uccidere in certe condizioni ti piace, non mi sembra che debba essere un
problema. Come ti ho detto, è una cosa che succede a molti. Sicuramente
succedeva a tuo zio durante le sue cacce, è una
cosa di cui mi ha parlato. Nando è contento delle parole di Solomon, che lo
rassicurano. Barbath è nella
camera da letto di Ferdinando. Non ha messo piede nella stanza da quando è
tornato nell’Arram, ma domani conta di far impalare
Gotthard e di partire e qualche cosa lo ha spinto a venire qui. Ha in mano
una lanterna, perché ormai è notte, e fissa l’immagine di Ferdinando. Dalla
camera passa allo spogliatoio. Sul muro Ferdinando fotte Adham
e sembra ricambiare lo sguardo dell’emiro. Barbath
rimane a lungo davanti all’immagine, poi annuisce. Si dirige alla cella in cui è rinchiuso Gotthard,
come ha fatto tutte queste notti. La apre. Dentro c’è un forte odore di
piscio, sudore e merda. Guarda il brigante. È un uomo forte, massiccio, con
un grosso cazzo. Potrebbe essere Ferdinando. Se quel vigliacco non fosse
fuggito, ora l’avrebbe tra le sue mani. Potrebbe essere lui. - Vieni con me. Gotthard lo fissa. Un cenno di Barbath gli conferma quello che gli sembra di aver
capito: l’emiro vuole che lui lo segua. A fatica si alza. Barbath
si è già voltato ed è uscito dalla cella. Per Gotthard non è facile
camminare: la corda alle caviglie gli consente di fare passi molto piccoli.
Raggiungono la camera da letto e poi lo spogliatoio. Barbath
posa la lanterna di fianco al muro, in modo che illumini la scena
raffigurata. Gotthard guarda stupito la scena in cui si vede Ferdinando che
fotte il nero. Sa che Ferdinando è stato il signore del palazzo in cui si
trovano, ma ignorava che avesse fatto dipingere le pareti con scene di questo
genere. Barbath si spoglia.
Gotthard è sicuro che ora lo fotterà, come tutte le altre notti. Non sa
perché vuole farlo davanti a questa immagine. Barbath
guarda Ferdinando. Sorride e si mette a quattro zampe, offrendosi a Gotthard. Il brigante è allibito. Non gli sembra possibile.
Questo figlio di puttana che lo ha fottuto ogni notte, ora vuole farsi
fottere? Tanto sa che Gotthard non parla l’arabo e non potrà dire ai soldati
che il loro emiro si è fatto inculare da lui. E domani Gotthard avrà il palo
in culo. Ma questa notte il palo lo avrà Barbath. Gotthard ha le mani legate dietro la schiena e
non è facile muoversi. Si stende su Barbath e muove
il culo, strusciando il cazzo tra le natiche dell’emiro. Gli viene duro in
fretta e allora si solleva un po’, preme contro il buco e spinge con
violenza, intenzionato a fare più male possibile. Barbath sussulta e
mormora: - Merda! E poi, più piano: - Ferdinando! Alla luce della lampada Barbath
alza il viso e osserva Ferdinando che fotte Adham.
È il suo cazzo quello che ora gli scava in culo. È il capobrigante il maschio
vigoroso che lo fotte. Gotthard prosegue un buon momento, poi viene con
un gemito. Domani creperà, ma ha fottuto questo figlio di puttana. Barbath rimane
immobile. Gotthard si alza. Barbath si volta,
mettendosi in ginocchio. Guarda il cazzo che gli è entrato in culo. Lo fissa
un buon momento, senza dire nulla, poi lo prende in bocca e lo pulisce con
cura. Gotthard è allibito. Non riesce a capire. Barbath si alza e
gli fa un cenno. Gotthard lo segue fino alla cella. Barbath torna nella
camera. Domani farà impalare il brigante e lo castrerà.
Domani Ferdinando morirà sul palo. Domani gli taglierà il cazzo e i coglioni.
Domani… domani. Il giorno dopo non succede nulla: Gotthard rimane
in cella, ma la notte Barbath lo chiama nuovamente.
Per una settimana il brigante aspetta la morte, ma ogni notte Barbath gli si offre. Gotthard non capisce. Barbath
neppure: sta sprofondando nella follia e sa che non ne uscirà. Il settimo giorno Barbath
raggiunge la collina dove i briganti sono stati impalati. I corpi ormai si decompongono. Le carcasse
sembrano ribollire e trasudano veleno. Dal ventre aperto escono legioni di
larve, che colano come un liquido nerastro dalla carne che si scioglie al
sole. È un continuo brulichio, che sembra far vivere e vibrare le carogne dei
briganti. E a questo brulichio si accompagnano rumori: fischi, sibili. Barbath vorrebbe
essere una di queste carogne che imputridiscono al sole. Barbath torna al
palazzo. Fa portare Gotthard fuori dalla cella. Il brigante viene condotto a
una radura, a circa un’ora di marcia. Barbath
congeda i suoi uomini. Si spoglia, poi taglia le corde che legano le caviglie
e i polsi del brigante e gli dà un coltello. - E ora a noi due, Ferdinando. Gotthard ha capito, anche se non gli pare vero. È
intorpidito nei movimenti e prima di lanciarsi su Barbath
fa due passi indietro e si sgranchisce un po’ le gambe e le braccia. Poi
attacca. Il brigante è forte e rapido nei movimenti, ma Barbath
guizza di lato. Nell’affondo Gotthard, che si muove ancora un po’ impacciato,
si è scoperto. Barbath muove il pugnale e potrebbe
affondarlo nella carne del suo avversario. È quello che desidera: uccidere
quest’uomo come ucciderebbe Ferdinando. Ma mentre sta per farlo, qualche cosa
lo blocca. Vagamente ha coscienza che non ha dato il via a questo duello per
uccidere Gotthard, ma per farla finita con i suoi fantasmi. E allora c’è un
solo modo. Imprime al movimento una leggera deviazione e la
lama, invece di affondare nel ventre, traccia appena una linea rossa, una
ferita superficiale. Gotthard si ritrae. È conscio di aver rischiato
grosso. Attacca di nuovo, con maggiore cautela, ma il suo movimento non è
abbastanza veloce. Barbath si sottrae. Il brigante
è sicuro che ucciderà questo bastardo e si vendicherà di lui. - Ti ammazzo e poi ti fotto, Barbath.
Avrai di nuovo il mio cazzo in culo, quello che ti piace. Barbath non capisce
il senso delle parole, ma non gli importa. Il duello prosegue. Sono due guerrieri forti ed
esperti. I loro corpi si coprono di una patina di sudore, che li fa luccicare
al sole. Barbath si lancia
in avanti con un movimento brusco e Gotthard fa appena in tempo a sottrarsi. La
lama incide un segno rosso sul fianco destro. Gotthard approfitta della vicinanza
dell’avversario e con la mano sinistra riesce a bloccare il polso destro di Barbath. È solo un attimo e già sente che la presa gli
sta sfuggendo, ma quell’attimo gli basta per immergere il pugnale nel ventre
dell’emiro, subito sotto l’ombelico. La lama affonda fino all’impugnatura.
C’è il rumore sordo della carne lacerata. E il gemito di Barbath,
un verso animale, una specie di grugnito strozzato. - Merda! Barbath sente il dolore
violento quando il pugnale gli squarcia il ventre e la vita incomincia a
lasciarlo, insieme al sangue che scende copioso sulla mano di Gotthard e
sull’impugnatura del pugnale. È stato ferito altre volte e ha sperimentato la
sofferenza della carne lacerata, ma sa che questa volta non c’è scampo, non
guarirà. Potrebbe combattere ancora: la ferita non lo ha ancora privato delle
forze, ma accetta la morte a cui non potrebbe comunque sfuggire, la morte che
ha cercato, che ha desiderato, l’unica che può liberarlo dai suoi incubi.
Lascia cadere il suo coltello a terra. - Merda! Gotthard tiene il pugnale infisso nel corpo di Barbath. Il sangue che sgorga e che sente scorrere sulla
mano, il gemito dell’uomo ormai nella stretta della morte, il viso stravolto
dal dolore, tutto gli trasmette sensazioni violente. Uccidere quest’uomo
forte, che odia profondamente, è una gioia. Gotthard estrae la lama. Barbath
geme ancora, lo stesso verso animale. Gotthard immerge nuovamente la lama,
poco sopra, spingendola fino in fondo. Ancora il rumore della carne
straziata, il grugnito della bestia macellata, il sangue che sgorga e la
tensione che cresce. Gotthard si rende conto di avere il cazzo duro come la
lama che tiene immersa nel corpo dell’emiro. Ed è davvero come se quella lama
fosse il suo cazzo che entra trionfante nel corpo del nemico sconfitto. Barbath barcolla,
un fuoco arde nel suo ventre. Mormora ancora: - Merda… Ferdinando… Poi sorride, uno strano sorriso, e dice: - Mi hai fottuto… Ma finirai… con il palo… in
culo… castrato… Gotthard non capisce le parole, non comprende
perché Barbath ha pronunciato il nome di
Ferdinando, non sospetta che nel suo ultimo delirio Barbath
immagina che a ucciderlo sia l’uomo da cui è ossessionato. A Gotthard non
importa. Guarda il viso stravolto dal dolore, le goccioline di sudore che
scendono. Sa che potrebbe finire e spaccare il cuore di Barbath,
ma vuole far durare questa agonia, che gli trasmette un piacere intenso,
vuole vendicare il fratello e i compagni uccisi, quelli che hanno agonizzato
sui pali, castrati. Sente la tensione crescere ancora, il desiderio
gli stringe i coglioni in una morsa. Estrae la lama e la immerge nuovamente,
a lato della ferita precedente. Tutto il suo corpo attende il rumore sordo
della carne lacerata, il gemito del morente, l’esclamazione. E il suono
viene, viene il gemito, viene la voce: - Merda! Merda! Ferdinando… Per Barbath l’uomo che
lo uccide è davvero Ferdinando e questa morte è ciò che ha desiderato,
l’unica via per sfuggire ai suoi fantasmi. Ormai non riesce più a stare in
piedi. È la lama conficcata nel ventre a reggerlo, ma quando Gotthard la
estrae, sente che le gambe non lo reggono più. Barcolla e si appoggia sul suo
assassino. Ancora un colpo, più in basso, che squarcia la vescica.
Il piscio si mescola al sangue, il gemito è davvero un grugnito animale. - Merda! Quando Gotthard ritira la lama, Barbath scivola in ginocchio, la testa contro il ventre
del suo assassino, a fianco del grosso cazzo teso, sotto cui pendono i coglioni.
Alza il viso e dice. - Ce l’hai duro… bastardo. E di nuovo, nonostante l’inferno che gli brucia
nel ventre, sul suo viso appare una specie di sorriso, che Gotthard non sa
spiegare. Barbath guarda
Gotthard. Ha quello che ha voluto e va bene così: malgrado il dolore, è un
buon modo di finire. E non gli spiace che il suo assassino goda a ucciderlo. Il desiderio è troppo forte. Gotthard si ritrae,
così che Barbath cade in avanti e si appoggia con
le mani a terra. Barbath alza il
capo e lo guarda. Mormora: - Bastardo… Si lascia scivolare in avanti, offrendo il culo
al suo assassino. Gotthard annuisce: - L’ultimo cazzo che sentirai in culo, Barbath. Quello del tuo carnefice. Mi hai riservato il
palo? Ora te lo gusti tu, questo palo! Gotthard si stende su Barbath.
Con una spinta decisa fa entrare il cazzo fino in fondo nel culo dell’uomo
che agonizza. Desidera fottere questo bastardo che ha provocato la morte di Svend, di Gunther e di tutti
gli altri. Nella mente di Barbath
ritornano immagini del passato. Per lui a fotterlo ora è Ferdinando, il primo
uomo che lo ha fatto godere possedendolo. Il Circasso lo aveva violentato
infinite volte, ma quando questo avveniva Barbath
non aveva mai goduto. Gotthard spinge con furia e Barbath
nuovamente grugnisce, un cinghiale che macellano senza pietà. Pensa che a
fotterlo è il suo assassino e che è una buona morte. Gotthard affonda il
cazzo fino a che i coglioni battono contro il culo dell’emiro, poi lo ritrae
fin quasi a farlo uscire. Lo immerge nuovamente e si ritira. I versi animali
della preda attizzano il suo desiderio e gli trasmettono brividi di piacere.
La mano sinistra scivola sotto il corpo di Barbath,
ne afferra i tre coglioni e li stringe con forza. Sono grossi, riesce a
malapena a tenerli in mano. L’emiro emette nuovamente una specie di grugnito,
che accresce l’eccitazione di Gotthard. Questi aumenta la pressione e Barbath grida: - Merda! Merda! Merda! Infine Gotthard si rende conto di essere sul
punto di venire. Accelera il ritmo delle spinte, mentre la sua mano continua
a tenere in una morsa i coglioni e il suo sborro si rovescia nelle viscere
dell’emiro, che ancora emette quel verso animale. Gotthard respira affannosamente. Davvero, non ha
mai goduto tanto. Si gira sulla schiena, trascinando con sé Barbath. La destra stringe ancora i coglioni dell’emiro,
ma non esercita più una forte pressione. Rimane un lungo momento così, il suo
cazzo ancora nel culo di Barbath, sentendo su di sé
il peso di questo corpo forte, in cui la vita ancora non si rassegna alla
fine. Ne sente il respiro affannoso, i gemiti, intercalati da imprecazioni. Mentre la destra avvolge i coglioni, la sinistra
si posa sul cazzo. Non è rigido, ma è grande e forte. Ora di castrare questo
bastardo. Gotthard avvolge il cazzo con la mano, poi si volta di lato e si
alza, lasciando che il corpo dell’emiro ricada prono. Con un calcio volta
nuovamente Barbath sulla schiena. Lo guarda.
Osserva le ferite del coltello, il grosso cazzo, i tre magnifici coglioni. Scuote la testa. Si muove, fino a mettere i piedi
ai due lati della testa di Barbath e incomincia a
pisciargli in faccia. L’emiro sente il liquido colargli in faccia. Ne beve un
po’. Il piscio del suo assassino. Poi Gotthard si inginocchia di fianco a lui. Con
la destra afferra il coltello, che ha posato vicino. La sinistra stringe il
grosso cazzo, lo stuzzica ancora, fino a che lo sente nuovamente rigido. - Mi avresti castrato, stronzo. Ora ti castro io. Barbath sa bene che
cosa intende fare Gotthard. Preferirebbe che non fosse così, non vorrebbe essere
castrato, ma non può opporsi al suo assassino. - Merda! Ammazzami prima, Ferdinando! Gotthard non capisce. La sinistra lascia il cazzo e scende ad afferrare
i coglioni del brigante. Stringe violentemente. Il grugnito di Barbath lo eccita. Pensa che questo guerriero è un ottimo
stallone, ma morrà senza cazzo e senza i suoi tre coglioni. Si accorge che il
cazzo gli si tende nuovamente, anche se è venuto da non molto. La stretta
diviene ancora più vigorosa, come se volesse spaccare i coglioni. Avvicina la
lama al grosso cazzo. - Merda, Ferdinando, no! Barbath sente la
stretta della mano, che ora afferra anche il cazzo. L’ultimo sfregio sta per
compiersi. Il suo assassino l’ha fottuto e ora lo castra. - Merda! Gotthard passa il pugnale sotto i coglioni e
recide, con un movimento lento e continuo. Prima un coglione, sente il rumore
del condotto tagliato. Barbath grugnisce e cerca di
divincolarsi, ma non ha più forze. Il coltello prosegue e recide anche il
secondo coglione. Si sente lo stesso rumore secco e poi il verso animale
dell’emiro. E poi il terzo. Infine la lama risale e recide il cazzo ancora
gonfio di sangue. Barbath si agita,
mentre nuove ondate di dolore gli salgono dal ventre squarciato e dalla
ferita. La lama ha completato l’opera. Ora Gotthard
stringe nella sinistra il trofeo. Il piacere che gli ha trasmesso questa
operazione è violento. Il suo cazzo è di nuovo duro. Barbath emette un
suono strozzato. Non è più maschio, non è più un uomo. Suda, un sudore gelido
che gli scorre sul viso. Ha un conato di vomito. Mormora: - Merda! Finiscimi. Gotthard sorride, senza dire nulla. Barbath riesce
ancora a dire: - Finiscimi, figlio di puttana! Gotthard ha capito l’insulto e intuisce il senso
della richiesta, ma scuote la testa. Sente nella mano il suo trofeo, caldo,
umido di sangue e sudore. Nuovamente fa con la testa un cenno di diniego.
Sorride. È troppo bello, non vuole che finisca. - Merda… perché cazzo… finiscimi… Gotthard vuole venire ancora. Si inginocchia di
fianco a Barbath, guarda lo squarcio della ferita,
come se cercasse qualche cosa. Infine capisce. Mette il cazzo e i coglioni
che stringe in mano sulla bocca dell’emiro. - Sono tuoi, Barbath.
Così crepi con il tuo cazzo e i tuoi coglioni. Poi con un movimento deciso affonda il pugnale
nello squarcio della ferita. Barbath geme e
spalanca la bocca. Gotthard gli spinge dentro i genitali. Poi si stende su di
lui, avvicina la cappella alla ferita e spinge dentro il cazzo. Il verso
animale di Barbath è soffocato dai suoi stessi
coglioni. - Non sei più un maschio, ma muori con due cazzi,
uno in bocca e uno nella tua fica. Gotthard ride e muove il culo, spingendo a fondo,
allargando la ferita. Quando infine il piacere esplode, preme il cazzo e i
coglioni del brigante nella sua bocca, spingendoli bene dentro. Barbath ha un guizzo. Gotthard non è ancora sazio. Pensa ai suoi
compagni sui pali, alla morte orrenda che hanno subito e che ora attende
anche lui. - Ora ti gusti il palo, Barbath. Volta l’emiro agonizzante sulla pancia e affonda
il coltello nella carne attraverso l’apertura. La allarga e infila dentro
anche la mano. Barbath non può più urlare. Spera
solo che questa sofferenza finisca. Gotthard spinge avanti la mano con il
pugnale, sempre più dentro nella carne, fino a che buona parte del braccio è
dentro il corpo di Barbath. Solo allora si rende conto che l’emiro è morto. Gotthard rimane a lungo disteso, immobile.
Lentamente il cuore riprende il suo ritmo abituale. Davvero, ammazzare questo
figlio di puttana è stata un’emozione fortissima. Infine si solleva. Gira il cadavere dell’emiro e
lo guarda, il cazzo e i coglioni nella bocca spalancata, lo squarcio della
ferita. Sorride. Ha ucciso l’emiro Barbath, lo ha
inculato, lo ha castrato, lo ha fottuto come una femmina. Ha vendicato Svend e i suoi compagni. Ora deve cercare di allontanarsi. Se lo prendono,
lo aspetta una morte orribile, a meno che non riesca a farsi uccidere dagli
uomini dell’emiro. Vicino alla radura si sente il gorgoglio dell’acqua
che scorre: c’è un piccolo ruscello, dove Gotthard si lava. Poi si infila gli
abiti dell’emiro, che gli vanno un po’ corti, ma non è un problema. Sale a
cavallo e lo sprona: deve allontanarsi il più in fretta possibile. Cavalca per tutta la giornata. Si ferma solo
quando è necessario per far riposare il cavallo. Quando, a notte fonda, si ferma per riposare,
medita sul da farsi. I suoi fratelli sono morti, i suoi compagni
anche. Non possiede nulla, a parte gli abiti, due pugnali e qualche moneta
che l’emiro teneva in una borsa. Che cosa può fare? Se raggiunge i territori cristiani, se la può
cavare: c’è sempre bisogno di un guerriero, adesso che si combatte. Basta che
si tenga lontano dal duca Denis se, come dicevano a Jibrin,
è tornato: è l’unico che sa quello che è successo a Cesarea. Vorrebbe vendicarsi di quel bastardo di
Ferdinando, che ha ucciso Hartwig e ha provocato la
morte di Svend e degli altri andandosene, quel cagasotto. Se fossero rimasti non avrebbero dovuto
reclutare i contadini e pastori, non sarebbero stati traditi e avrebbero
resistito all’assedio. E anche quel porco del giudeo, Solomon. Se quello
stronzo non fosse arrivato a proporre la fuga… Sì, riuscire ad ammazzare quei
due maledetti. E poi… anche Unrod, che ha avvisato
Ferdinando: se non avesse gridato, Hartwig sarebbe
ancora vivo. E poi Torstein, che ha osato dire che Hartwig se l’era meritato. E poi… Gli sembra di odiare
tutti gli uomini con cui è vissuto oltre un anno. Prova una rabbia feroce nei
loro confronti. Si vendicherà. L’indomani si dirige verso il campo dei cristiani
sotto le mura di Acri. È vestito come un guerriero arabo e visto da lontano
nessuno sospetterebbe che si tratta di un tedesco, ma di arabo conosce solo
poche parole, per cui deve evitare di incontrare gente. Conosce abbastanza il
territorio, che ha percorso come soldato in più occasioni, e riesce a
orientarsi. Il problema principale è trovare cibo: Barbath
non aveva con sé nulla da mangiare, ma Gotthard non può acquistare cibo,
perché lo individuerebbero subito come cristiano. Decide perciò di procurarsi
da mangiare con la forza. Una sera raggiunge una casa isolata. La osserva,
stando nascosto tra gli alberi. Sembra che vi abiti solo un uomo, di una
quarantina d’anni. Quando è buio, si avvicina e bussa. Si accorge
che la porta non è bloccata, per cui entra. L’uomo gli dice qualche cosa, che
Gotthard non capisce. Gli si avvicina sorridendo e salutandolo. L’uomo
arretra di un passo: ha capito che l’intruso è un franco ed è diffidente.
Gotthard si avvicina ancora. Vibra la coltellata rapidissimo, al cuore. Sul
viso dell’uomo compare una smorfia di dolore, poi crolla con un grido
soffocato. Gotthard sente una voce femminile provenire dal
piano di sopra. La donna ha sentito le voci e poi il tonfo del corpo che
cadeva. Ripete un nome, tre volte, sempre più forte: - Omar! Omar! Omar! Chiede qualcosa, probabilmente che cosa è
successo. Gotthard sorride. Spera che si tratti di una
donna giovane. Ha proprio voglia di fica. |