I – I prigionieri

 

II – La spedizione

 

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Ferdinando scende dalla nave che da Siracusa lo ha condotto ad Acri, in dodici giorni di viaggio. È ben contento di essere infine a terra, di non dover più essere costretto negli spazi angusti del veliero, di poter camminare, scopare, bestemmiare liberamente. Sul battello viaggiava, oltre a numerosi pellegrini, un giovane prelato, Bohémond di Tours, accompagnato da diversi sacerdoti. Bohémond è uno di quei fanatici che Ferdinando non sopporta: per tutto il viaggio non ha fatto altro che controllare che cosa facevano i passeggeri, ficcando il naso dappertutto, invitando alla preghiera, ammonendo, minacciando i castighi divini e quelli terrestri, il rogo e l’inferno. Per Ferdinando sono davvero stati dodici giorni infernali: fortunatamente ha trovato in Nicolas un uomo che ha i suoi gusti, ma hanno sempre dovuto scopare di notte, nel buio completo, badando bene a non fare il minimo rumore. Per colpa di quel fottuto prete. Sulla nave alcuni dicevano che Bohémond certamente diventerà vescovo e il capitano della nave lo teneva in grande considerazione: per Ferdinando può anche diventare papa, purché non se lo trovi più tra i coglioni.

Finalmente Ferdinando non dovrà più preoccuparsi di quel figlio di puttana ogni volta che intende scopare, né controllare quello che dice.

Ferdinando ha vent’anni, le armi, l’addestramento e il coraggio per combattere e nient’altro: ha venduto quel poco che possedeva per pagarsi il passaggio, nella speranza di fare fortuna in Terrasanta. I funzionari della dogana fanno in fretta a controllare il suo bagaglio: da uno così c’è ben poco da spremere. Per fortuna non tutti i viaggiatori sono spiantati come questo colosso siciliano.

Ferdinando e Nicolas si separano. Nicolas non sembra interessato a mantenere i rapporti e Ferdinando non se ne preoccupa: di solito non fa fatica a trovare ciò che vuole. Adesso però Ferdinando cerca solo una locanda dove si paghi poco per trascorrere la notte. Di chiedere ospitalità a qualche convento, non si parla: preferisce le cimici a quei fottuti monaci. Dovrà trovare in fretta qualcuno che lo arruoli, perché ciò che gli è rimasto gli può bastare per vivere solo pochi giorni.

Ferdinando si rivolge ai passanti in francese, lingua che conosce bene e che ha avuto modo di usare anche durante il viaggio in nave. Gli indicano una locanda vicino al porto. L’edificio, una vecchia casa a tre piani, non è di certo in buone condizioni e avrebbe bisogno di riparazioni urgenti; il vicolo è sudicio e puzzolente; il quartiere povero e probabilmente malfamato, a giudicare dalle catapecchie e dalle puttane presenti nelle strade. Ferdinando si dice che è il posto adatto: in questo cesso non gli potranno chiedere molto denaro per una camera. Bussa e la proprietaria gli apre la porta. 

È libera la camera sotto il tetto, che è la più economica, ma la locandiera chiede di essere pagata in anticipo: diffida di questi uomini che cercano fortuna con la guerra e che spesso non hanno di che pagarsi nemmeno un pasto.

Quando Ferdinando ha pagato il dovuto, la locandiera diviene più cordiale. Allora Ferdinando chiede:

- Sapete se c’è qualche signore che cerca uomini per la guerra o per la sua scorta personale?

La locandiera alza le spalle.

- Dicono che Chrétien da Bayonne stia arruolando uomini. Forse mio figlio sa dirvi di più.

La locandiera chiama il figlio, Simon, e se ne va a lavare i panni.

Simon deve avere uno o due anni in meno di Ferdinando, ma è completamente diverso: più esile, meno villoso, un viso allungato e un sorriso simpatico.

- Allora, Simon, è vero che questo Chrétien da Bayonne arruola uomini per la guerra?

- Sì, le sue truppe sono acquartierate nel vecchio caravanserraglio lungo la strada per Cesarea. Vuoi arruolarti anche tu?

- Sì. Voglio combattere e guadagnarmi da vivere.

Simon non appare convinto:

- O morire…

Ferdinando si tocca platealmente i coglioni.

- Porcoddio, ragazzo, sei un menagramo?

Simon ride:

- No, ma fa’ attenzione con le bestemmie. Qui ci sono tanti preti e monaci.

- Fottuta razza, quella. Non li sopporto.

Ferdinando sa di essere poco prudente, ma il sorriso del ragazzo gli dice che non ha di che preoccuparsi. Ferdinando riprende:

- Tu non vuoi combattere? Preferisci fare il locandiere?

Simon annuisce:

- Te li lascio tutti, i saraceni.

- Se ce n’è qualcuno carino come te, me li prendo volentieri…

Simon non si adombra: ride. Allora Ferdinando chiede, sorridendo:

- Mi accompagni nella mia camera, ragazzo?

Simon annuisce. Anche lui sorride. Il guerriero siciliano non è un Apollo, ma un Ercole sì e la sua prestanza esercita un certo fascino.

- Certo, soldato. Vieni con me.

La camera è in alto, subito sotto il tetto. Simon entra. Ferdinando fa un passo e si ferma dietro di lui. Nella stanzetta, dove stanno appena un letto e uno sgabello, il calore è soffocante.

- Porcoddio, l’inferno senza neanche bisogno di crepare.

Simon ride.

- La notte va meglio. Certo, non è una reggia…

- Ma va bene per dormire… o per scopare.

Simon ha un sorriso malizioso:

- Prima di dirlo devi fare la prova.

- Possiamo farla, no?

Ferdinando si avvicina a Simon. Ora i loro corpi aderiscono. Ferdinando abbraccia Simon.

- Questa camera è un cesso, ma credo che mi troverò bene qui.

E mentre lo dice, Ferdinando fa scivolare una mano sulla patta dei pantaloni di Simon e stringe un po’. Poi, con un gesto rapido, sfila la camicia del ragazzo, gli slaccia la cintura e fa scivolare i pantaloni a terra.

Simon ride:

- Non perdi tempo, tu.

- No.

Ferdinando si stacca e si spoglia rapidamente.

Simon si è voltato e guarda il corpo del soldato: le spalle larghe, il petto muscoloso e villoso, le braccia possenti. Quando Ferdinando si abbassa i pantaloni, Simon rimane a bocca aperta. Deglutisce. Non ha mai visto un cazzo come quello che ora gli si presenta alla vista, non ancora svettante, ma che già incomincia a riempirsi di sangue.

- Che ne dici?

Simon scuote la testa, incredulo.

- Non riesco a prendermelo in culo, quello.

- Sì che ce la fai. Un po’ di saliva basta.

Simon è spaventato.

- Vacci piano.

- Sta’ tranquillo. So come fare.

Ferdinando sa benissimo che deve fare attenzione a usare la sua arma. A volte la faccenda gli scoccia un po’, ma si è abituato. A Siracusa lo chiamavano il signor di Mazzaferrata.

Ferdinando afferra Simon e lo solleva da terra, come se non pesasse nulla. Lo deposita sul pagliericcio e lo guarda, poi lo gira e gli accarezza la schiena. Le sue mani forti scendono dal collo al culo, stringono. Ferdinando allarga le gambe di Simon e si inginocchia tra le cosce. Simon prende il guanciale e se lo mette sotto la pancia, in modo da sollevare un po’ il culo.

Ferdinando sputa due volte sul buco, poi con l’indice sparge la saliva e inumidisce bene l’apertura. Il dito scivola dentro senza incontrare nessuna resistenza: di certo non è la prima volta per Simon.

Poi Ferdinando si prende in mano il cazzo, ormai duro, e avvicina la cappella al buco. Preme leggermente.

- Piano.

Ferdinando sorride:

- Non ho neanche incominciato.

Con lentezza Ferdinando spinge in avanti, poi si ferma. Simon geme, un gemito in cui si mescolano dolore e piacere. Ferdinando avanza ancora piano. Simon geme più forte. Ferdinando si arresta, lascia che il ragazzo si abitui alla sua picca, gli accarezza la schiena, poi si stende su di lui, lo avvolge tra le sue braccia e spinge ancora in avanti.

- Non ce la faccio. Fermati così.

Ferdinando ride. Passa la mano tra i capelli del ragazzo. Poi si ritrae e avanza nuovamente. Non spinge fino in fondo, ma procede con lentezza, avanti e indietro, sentendo il calore del culo di Simon. Ogni tanto il ragazzo si tende e allora Ferdinando si ferma, arretra un po’, gli accarezza la nuca, gli lascia il tempo di riprendere fiato, poi ricomincia con le sue spinte vigorose. Ferdinando sente la tensione crescere e le sue spinte diventano più intense. Simon geme di nuovo, ma questa volta Ferdinando non si ferma. Continua a spingere con forza, limitandosi a non andare fino in fondo, finché il piacere lo avvolge e il seme inonda le viscere di Simon.

Ferdinando si affloscia sul corpo di Simon, tenendolo stretto tra le braccia. Rimangono così un momento.

- Ti faccio una sega?

- Sì.

Ferdinando afferra il cazzo del ragazzo e incomincia a muovere la mano su e giù. Il ragazzo geme di nuovo. Ora che la picca nel suo culo si è un po’ ridimensionata, la sensazione è piacevole e la mano che glielo sta smenando gli trasmette sensazioni intensissime. Infine Simon geme e viene. Il seme si versa sul pagliericcio, ma Ferdinando non ci bada. Se si fermerà nella camera, non sarà certo l’ultima volta che questo accadrà.

Quando Ferdinando si stacca, Simon si lamenta:

- Ho il culo in fiamme, soldato.

- Passerà. E lo faremo di nuovo.

- Non domani, però. Mi ci vorrà un po’ per riprendermi.

Ferdinando ride.

- Domani usi la bocca...

Se Chrétien da Bayonne lo prenderà al suo servizio, Ferdinando si trasferirà nella caserma: così potrà spendere il poco che gli resta all’osteria, invece di dover pagare una camera. Ma magari, in attesa di partire, potrà passare a trovare Simon.

 

*

 

Chrétien da Bayonne ha acquartierato le sue truppe non lontano dalle mura di Acri, in un vecchio caravanserraglio abbandonato, che è stato usato come magazzino e poi trasformato in caserma.

Chrétien sta preparandosi alla guerra, perché intende attaccare Abdel Wahid, l’emiro di Afrin. L’obiettivo della spedizione è recuperare alcuni territori che l’emiro ha di recente conquistato, togliendoli ai cristiani, ma Chrétien ha un sogno molto più ambizioso: conquistare la stessa Afrin. In questo caso il re di Gerusalemme potrebbe dargli la città in feudo.

Diventare feudatario è il sogno di tutti i nobili che combattono in Terrasanta, ma solo alcuni ci riescono. Molti non hanno altra ricompensa che una vita di fatiche e stenti, ferite, malattie e spesso la schiavitù o la morte.

Chrétien ha raccolto un esercito numeroso, arruolando anche molti uomini che non sono legati da giuramento di fedeltà a nessun signore, e ha ottenuto l’appoggio di alcuni altri nobili, che lo aiuteranno nell’impresa, attratti dalle possibilità di saccheggio. 

Un soldato viene a dirgli che Denis d’Aguilard chiede di lui. Chrétien ordina di farlo passare immediatamente. Chrétien abbraccia Denis con calore.

- Denis d’Aguilard, sono felice di vederti.

- Vi ringrazio, cavaliere.

- Credevo che fossi schiavo dei saraceni. Non sapevo nemmeno se eri ancora in vita.

- Sono stato schiavo, ma mi sono liberato e ora vi chiedo se volete prendermi al vostro servizio.

Chrétien sorride: conosce il valore di Denis ed è ben contento di avere un giovane così coraggioso tra i suoi soldati.

- So che sei bravo a combattere e sarò ben contento di averti con me. Tu conosci i nostri progetti, vero?

- Si dice che prepariate una guerra contro lo sceicco di Afrin.

- Sì, voglio riconquistare le terre che quel maledetto ci ha tolto e, se possibile, la stessa Afrin. Se ci riuscirò, al-Hamra sarà quasi circondata: anche la perla della Terrasanta cadrà nelle nostre mani.

Al-Hamra, Rougegarde per i cristiani, è la città più ricca della regione, nota per la sua bellezza: per questo è detta “la perla della Terrasanta”. È più vicina di Afrin ai territori cristiani, ma espugnarla è un’impresa impossibile: i re di Gerusalemme l’hanno assediata due volte, senza ottenere nessun risultato. La conquista di Afrin la isolerebbe quasi completamente dai domini dei saraceni e forse aprirebbe davvero la strada a una sua occupazione.

Denis si dice che Chrétien coltiva grandi ambizioni. Gli augura di riuscire a realizzare i suoi sogni, perché è un guerriero valoroso, ma, se i rapporti di forza non sono cambiati nell’anno che ha trascorso in prigionia – e nulla gli fa pensare che lo siano – Chrétien mira troppo in alto. Denis non lo dice: sa benissimo che il comandante non lo ascolterebbe ed è perfettamente conscio di essere solo un giovane guerriero che cerca un ingaggio.

Chrétien riprende:

- Denis, tu sarai tra i miei uomini. Saprò ricompensarti degnamente.

- Vi ringrazio, cavaliere.

Chrétien parla ancora della guerra e di come pensa di sconfiggere l’emiro. Denis vuole conoscere meglio la situazione, per cui pone domande che rivelano la sua intelligenza e la sua conoscenza della guerra e delle forze in campo. Chrétien si stupisce della sua competenza: Denis non deve avere più di diciotto anni, ma sembra più esperto di guerrieri che hanno combattuto a lungo.

Quando hanno finito, Denis pone un’ultima domanda, che non ha nulla a che fare con la guerra che si prepara. È una domanda che si è portato dietro a lungo:

- Sapete dove è sepolto mio padre?

Chrétien scuote la testa:

- I corpi dei cristiani che morirono nella battaglia non sono stati sepolti. I saraceni controllano la regione e non è stato possibile dare loro una degna sepoltura.

Denis aggrotta la fronte. L’idea che il corpo di suo padre sia rimasto abbandonato agli animali selvatici e agli elementi gli sembra orribile: suo padre era un uomo giusto, che rispettava anche i nemici. Ma Denis ha imparato presto che la guerra non è mai giusta. E la vita non lo è di più.

 

*

 

Il conte Tancrède d’Espinel ha finito di verificare la gestione che suo cugino Jean ha fatto dei suoi beni durante il periodo passato in prigionia. Jean non ha fatto mosse avventate: non poteva essere sicuro che Tancrède non sarebbe tornato, anche se si rifiutava di pagare il riscatto, sperando che Tancrède rimanesse schiavo o venisse ucciso.

A morire è stato invece Jean d’Espinel, assassinato una notte mentre tornava a casa da un banchetto. Tutti hanno pensato a uno dei tanti tagliagole che si aggirano per le città della Terrasanta: soldati che preferiscono la rapina ai rischi della guerra. Tancrède sa che la verità è un’altra e quella verità gli pesa addosso come un macigno, anche se poco gli importa della morte del cugino. Jean lo aveva tradito, ma Tancrède sa che ora è il suo turno di tradire, non un parente, ma tutti i cristiani.

Il servitore bussa ed entra: il mercante Jacques Longuemain chiede di parlare al conte, ha da offrirgli una merce che Tancrède gli aveva chiesto di procurargli.

Tancrède non capisce: non ha chiesto nessuna merce. Poi intuisce e si sente gelare. L’uomo deve essere al servizio dell’emiro di Damasco, Nur ad-Din, e viene a ricordargli il suo giuramento e forse a richiedere di compiere il primo tradimento.

Il conte dà ordine al servitore di far entrare il mercante. Questi arriva. Al collo porta una collana con un ciondolo d’argento che raffigura un’aquila e un serpente. Il segno di riconoscimento che gli ha dato Firas prima della partenza da Damasco.

Jacques Longuemain si inchina, rispettoso.

- Signor conte, le porgo i miei omaggi.

La voce di Tancrède è dura, anche se le sue parole sono gentili.

- Sedetevi.

- La ringrazio, non occorre. Sono venuto per invitarvi a unirvi alla spedizione che Chrétien da Bayonne sta preparando.

Tancrède impallidisce. Quando ha accettato di tradire ha pensato di dover passare informazioni sulle difese della città, sui progetti del re e dei feudatari. Non pensava che gli sarebbe stato ordinato di partecipare a spedizioni militari.

- Ma… è una spedizione… dovrei arruolare soldati… dopo un anno di assenza… devo rimettere in ordine la gestione delle mie terre… non posso certo partire da solo e non ho i mezzi per raccogliere le truppe…

È una mezza verità, come entrambi sanno benissimo. In effetti il reclutamento di soldati richiede tempo e soprattutto denaro contante e il conte d’Espinel non può unirsi a una spedizione con una decina di uomini: non è un avventuriero qualunque.

- Certo, capisco benissimo. In effetti sarà necessario molto denaro. Sono felice di poter contribuire.

Il mercante ha una borsa attaccata alla cintura. La toglie, la apre e ne rovescia il contenuto sul tavolo. Monete d’oro, tante.

- Chi è fedele viene premiato, ma chi tradisce subirà i più atroci tormenti. Vi recherete dal cavaliere di Bayonne domani e recluterete gli uomini nei prossimi giorni. Uno degli uomini che arruolerete avrà il simbolo che conoscete.

E mentre lo dice il mercante prende tra il pollice e l’indice il ciondolo che porta al collo. Poi conclude:

- Vi dirà lui che cosa vi viene richiesto.

Tancrède tace.

Jacques Longuemain riprende:

- Farete quanto vi ho detto, vero?

C’è una leggera minaccia nella voce del mercante, appena una sfumatura. Tancrède pensa che potrebbe farlo arrestare dai suoi uomini e consegnarlo al re. Sarebbe la fine per entrambi.

Tancrède annuisce.

 

Dopo che il mercante è uscito, Tancrède rimane a lungo a guardare il denaro. Poi lo ritira e lo chiude in uno scrigno di cui nessun altro ha la chiave. Passa nell’anticamera, dove Egbert lo aspetta. Come tutte le notti, dormiranno insieme.

- Sembrate turbato, conte.

- Jean ha amministrato assai male le mie sostanze. Credo che mi unirò alla spedizione di Chrétien da Bayonne: se riusciremo a conquistare Afrin, potrò recuperare una parte di ciò che ho perso.

Egbert china la testa. Probabilmente è perplesso, sa benissimo che la spedizione sarà guidata da Chrétien e che sarà lui a fare la parte del leone in caso di spartizione del bottino, ma non discute le decisioni del suo signore.

- Andiamo a coricarci, Egbert.

Nella camera Tancrède guarda Egbert mentre si spoglia. Gli piace osservare questo corpo robusto, su cui il tempo e le battaglie hanno lasciato il segno; le braccia e le gambe forti, coperte dalla peluria rossiccia; il torace possente; il sesso vigoroso, che anche questa sera sentirà dentro di sé. Tancrède passerebbe le ore a guardare l’uomo che ama.

Tancrède si spoglia e si stende prono sul letto, allargando le gambe.

- Prendimi, Egbert. Vacci deciso.

Tancrède vuole che il piacere e il dolore annullino tutto il resto. Non è più padrone della sua vita, ma almeno ora, tra le braccia di Egbert, vuole cancellare ogni ricordo.

Egbert si stende su di lui.

- Fammi male, Egbert. Dai.

Egbert inumidisce appena il cazzo, poi preme contro l’apertura, l’allarga ed entra con forza, spingendo fino in fondo. Per un attimo il dolore toglie il fiato a Tancrède, ma va bene, va bene così. È quello che vuole, questo dolore che gli dilania il culo, che fa svanire ogni altro pensiero, le spinte vigorose di Egbert, il cazzo che gli scava dentro, la sofferenza, il desiderio, il piacere. È forte Egbert, è vigoroso. Il palo si muove dentro il culo di Tancrède, grande e rigido, scavando in profondità, squarciando, senza pietà.

- Sì, Egbert, sì! Così.

Ed Egbert imprime al suo movimento un ritmo più deciso, spinge fino in fondo e poi si ritrae completamente, esce, per rientrare con una spinta decisa. Tancrède trattiene l’urlo in gola, mentre Egbert di nuovo avanza fino in fondo, finché i coglioni non battono contro il culo di Tancrède, e poi esce ancora, per forzare un’altra volta l’apertura e immergere il grande cazzo fino in fondo, mentre le sue mani stringono il culo di Tancrède, facendogli male.

Il dolore è intollerabile, ma questo è ciò che vuole Tancrède, perché questa sofferenza crea un vuoto nella sua mente. Ed è essa stessa piacere.

 

*

 

È sera. Nella camerata, dopo aver consumato il pasto serale, i soldati parlano tra di loro, alcuni distesi sui giacigli dove trascorreranno la notte, altri in piedi o seduti a terra. Discorsi grevi di uomini che da tempo non vedono una donna, di giovani maschi i cui corpi ardono, di guerrieri che stanno per partire per la guerra e sanno che molti di loro non torneranno. C’è una lanterna che illumina malamente il locale, dove dormono una ventina di soldati. L’aria è carica dell’odore di sudore e di corpi mal lavati. 

Ferdinando e Fidèle sono andati al cesso e rientrano. Fidèle dice, ad alta voce:

- Ferdinando da Siracusa ce l’ha più grosso di un cavallo.

Ferdinando ride. Gli altri guardano incuriositi il nuovo arrivato, che è con loro da poche ore: Chrétien da Bayonne l’ha preso al suo servizio nella mattinata.

Uno dei soldati interviene:

- Non è possibile. Di sicuro non batte Clovis.

Fidèle insiste:

- No, vi dico: Clovis può andare a nascondersi, Ferdinando ce l’ha più grosso di tutti.

Ferdinando ride di nuovo.

- Porcoddio, Fidèle, piantala! Sembra che tu debba vendermi al mercato degli schiavi come stallone.

Gli altri intervengono.

- No adesso vogliamo vedere.

- Sì, facciamo un confronto.

- Dai Clovis, spogliati. Anche Tu Ferdinando.

Ferdinando scrolla le spalle. Ma Clovis si è sfilato la tunica e mette in mostra un’attrezzatura di tutto rispetto. Si rivolge a lui con tono di sfida.

- Ce li hai i coglioni per misurarti con me?

Tutt’intorno grida di incoraggiamento.

- Dai! Vediamo un po’!

Ferdinando ha un gesto d’impazienza e si toglie anche lui la tunica.

- Cazzo! Proprio un cavallo!

- Puoi dirlo!

Gli uomini sono intorno ai due contendenti. Ferdinando appare davvero più dotato di Clovis.

- Non è valido. Ferdinando se lo è smenato per farlo crescere. Si è messo d’accordo con Fidèle.

- Sì, sì, è così.

- No, non è vero.

- Vediamoli duri, così non possono barare.

Ferdinando scuote la testa, ridacchiando, e si rivolge a Martin, che ha lanciato la proposta:

- Me lo smeni tu?

- Sì, dai, Martin, fagli una sega.

Tutti ridono. Qualcuno propone di scommettere e la proposta è accolta con entusiasmo: in breve si formano due schieramenti e parecchi puntano qualche moneta. Pochi rimangono in disparte, come Denis d’Aguilard, che non è indifferente allo spettacolo, ma non intende lasciarsi coinvolgere.

- Avanti, datevi da fare!

- Vogliamo vedere chi ha ragione.

- Perderete tutto: Clovis ce l’ha più grosso. Ferdinando ha barato.

- Sarete voi a perdere.

Ferdinando scuote la testa, ma quando Clovis prende in mano la situazione e il proprio cazzo, incominciando a smenarselo, Ferdinando si mette a fare lo stesso.

Intorno al fuoco è sceso il silenzio. Tutti sono concentrati nel seguire la sfida dei due soldati. Quando i due contendenti hanno concluso la loro opera, mostrano i loro cazzi svettanti. Quello di Ferdinando è più grosso, non c’è dubbio. Clovis sputa per terra, irritato.

- Ce l’avrai anche più grosso, ma io sono più forte.

Ferdinando lo guarda e ghigna.

- Non parlare a vuoto, Clovis.

Clovis è furente: fino ad ora tutti lo consideravano il maschio più dotato.

- Affrontami a mani nude, se hai il coraggio.

Ferdinando ghigna di nuovo.

- Va bene. E poi te lo metto in culo, stronzo.

I soldati che assistono scommetono nuovamente: i sostenitori di Clovis sperano di rifarsi della perdita, quelli di Ferdinando contano di raddoppiare il guadagno.

Poi i giacigli vengono accatastati contro una parete e tutti si dispongono in cerchio intorno ai due contendenti.

Ferdinando e Clovis si studiano. Sono entrambi uomini forti, braccia e gambe ben tornite, torace possente, il cazzo ancora gonfio di sangue. Clovis sa di essere più esperto, perché ha diversi anni in più di Ferdinando, ma il siciliano sembra molto sicuro di sé.

È Clovis ad attaccare per primo, lanciandosi su Ferdinando e sbilanciandolo, ma Ferdinando lo afferra e lo trascina nella sua caduta. Rotolano avvinghiati e ognuno dei due cerca di bloccare l’altro, ma non ci riesce. Allora Ferdinando spinge lontano Clovis e si rialza, subito imitato dall’avversario.

I soldati incoraggiano i due lottatori, che si gettano di nuovo uno contro l’altro. Ora lottano avvinghiati, cercando ognuno di gettare a terra il rivale, ma senza risultato. Si separano di nuovo. Poi Clovis si lancia su Ferdinando, che però si sposta e, mettendo una gamba tra quelle dell’avversario, lo fa cadere. Gli salta sopra e lo blocca a terra, nonostante la disperata resistenza di Clovis.

- Sei fottuto, Clovis!

I sostenitori di Clovis lo incoraggiano, ma il soldato non riesce a liberarsi dalla stretta ed è costretto a riconoscere la propria sconfitta.

Ferdinando si alza. I soldati commentano lo scontro, qualcuno dice che Ferdinando dovrebbe davvero fottere Clovis, ma è solo una battuta. Poi le vincite vengono divise, i giacigli risistemati al loro posto e ognuno si stende. La lanterna viene spenta.

È la prima notte che Ferdinando e Denis trascorrono con gli altri soldati: sono stati arruolati solo oggi. Ferdinando non si addormenta subito, come gli succede di solito: la gara e la lotta hanno acceso i suoi sensi. Nella camerata è buio: solo un po’ di chiarore filtra dalle tende che chiudono la porta e le finestre.

Ferdinando si dice che tra un momento provvederà a soddisfare il suo desiderio da solo: la sua mano è esperta in materia, perché Ferdinando è uomo di robusti appetiti, poco incline al digiuno, e, in mancanza di un aiuto esterno, sa come dedicarsi al fai-da-te.

Ma nella stanza ci sono movimenti furtivi. Poco lontano da Ferdinando un’ombra è scivolata su un giaciglio già occupato e si sentono piccole risate e gemiti. Un’altra ombra si avvicina e ora si china su Ferdinando. L’ombra dice, pianissimo:

- Dormi, Ferdinando?

- No. Chi sei?

Ferdinando non conosce ancora le voci dei suoi compagni.

- Che importa?

L’uomo ha ragione. Non importa, davvero. Ferdinando sa che cosa cerca lo sconosciuto e gli va bene. Non chiede che cosa vuole: lo sa.

- Sì, non importa.

Una mano si appoggia sul torace del siciliano, lo accarezza, poi scende al ventre, fino a che incontra il cazzo di Ferdinando, già rigido. La mano afferra, stringe, sembra soppesare. Poi scende ai coglioni e li prende.

L’uomo si china e gli sussurra all’orecchio:

- Me lo metteresti in culo?

- Certo.

Ferdinando si sposta, lasciando che lo sconosciuto si stenda sul giaciglio. Poi si stende su di lui. Gli passa una mano sulla testa. Sente il calore del corpo che gli si offre. Si ritrae, si sputa sulle dita e cerca il solco. Inumidisce bene l’apertura, poi avvicina la cappella e lentamente avanza. L’uomo geme, piano. Ferdinando si ferma un momento, poi riprende la sua avanzata. Sente la carne che accoglie il suo cazzo in una guaina calda e affonda l’arma senza dare tregua. Poi incomincia a lavorare il culo che gli si è offerto, con un movimento continuo, instancabile. Sa arare la terra, Ferdinando, senza fretta, senza cedimenti: non si sfianca facilmente. E la terra arata geme, cede all’aratro inesorabile, non offre resistenza.

Un’altra ombra si è avvicinata. Ferdinando la sente al suo fianco. Qualcuno che nel buio della stanza spia il loro respiro pesante e i gemiti. A Ferdinando non dispiace. Non gli dispiacerebbe neppure se molti altri lo guardassero. Gli è capitato alcune volte di scopare alla presenza di altri uomini. Ferdinando non conosce pudore.

Ferdinando prosegue nella sua opera. I gemiti divengono più forti, anche se l’uomo cerca di trattenerli perché non si sentano troppo. Ferdinando avverte che il corpo sotto il suo si tende in uno spasimo di piacere. E allora imprime al suo movimento un’accelerazione. Il piacere sale dentro di lui, sempre più forte, fino a che non può più essere contenuto e allora dai coglioni sale al cazzo, lo percorre e sgorga impetuoso.

Ferdinando recupera lentamente il fiato. È stato bello. Non sa chi è l’uomo, ma lo scoprirà. Ferdinando esce dal culo dello sconosciuto e si stende di fianco. L’uomo si alza, gli accarezza il viso e se ne va. Ferdinando vorrebbe vedere dove si dirige, ma è troppo buio: sa solo che è andato verso il fondo della stanza.

L’altra ombra è ancora al suo fianco, seduta, muta. Che cosa vuole? Ferdinando si sistema sul giaciglio. Sente contro il culo qualche cosa di umido e appiccicoso: lo sborro dell’uomo che in questo momento ha dentro di sé quello di Ferdinando.

E mentre lo pensa, avverte una mano che si posa delicatamente sul suo petto. L’altra ombra ha deciso che non le basta sentire. La mano accarezza, giocherella con la peluria, stringe un capezzolo, poi l’altro. Ora sono due le mani, che continuano a percorrere il torace, alternando carezze e strette. Una risale al viso, accarezza la barba, poi scivola sulle labbra. Due dita si infilano. Ferdinando schiude i denti, lascia che le dita tocchino la lingua, poi morde leggermente. L’ombra ritira la mano e dà un buffetto sulla guancia di Ferdinando, ma poi ritorna e le dita vengono di nuovo morse. E mentre una mano percorre il viso, l’altra sta scendendo sul ventre, si infila nel fitto vello che ne copre la parte inferiore, sfiora appena il cazzo, non più – o non ancora – teso, si impadronisce di uno dei coglioni e stringe. Ferdinando emette un grugnito.

L’ombra non ha fretta. Le mani percorrono il corpo di Ferdinando, scendono fino ai piedi, risalgono lungo i fianchi, accarezzano le braccia, il collo, il viso. Ora l’ombra si china e mordicchia un capezzolo del siciliano, prima delicatamente, poi con maggiore decisione. È il turno di Ferdinando di mollare una sberla. L’ombra incassa e percorre con la lingua il torace di Ferdinando, scende fino all’ombelico, vi si infila, lecca, poi scende ancora, sfiora appena il cazzo che sta riguadagnando volume e consistenza e si ferma sui coglioni. Li lecca, poi la bocca li avvolge, uno per volta. La bocca indugia a lungo e Ferdinando sente che la tensione cresce di nuovo.

Solo a questo punto la lingua ritorna al cazzo, i denti mordicchiano con delicatezza l’asta tesa, poi la bocca avvolge la cappella e incomincia a succhiare. Ferdinando sente il calore e l’umidità della lingua e del palato e quella carezza morbida lo fa impazzire. L’ombra ci sa fare, cazzo! L’ombra lavora con sicurezza e nuovamente il desiderio si dilata, riempie di sangue il cazzo, stringe i coglioni e proietta il seme nella bocca che lo accoglie.

Ferdinando chiude gli occhi. L’ombra raccoglie ogni goccia, poi si dilegua.

 

Denis è steso sul giaciglio a un passo da Ferdinando. È perfettamente conscio di ciò che è avvenuto. E ha capito che altri nel locale stanno facendo cose simili. Il desiderio cresce e Denis si accarezza. Sa che nessuno verrà da lui: il suo viso non è certo attraente e il suo corpo, per quanto forte, non ha la potenza di quello di Ferdinando. Sapeva che spesso i soldati scopano tra di loro. Ma non pensava che avvenisse così: aveva sempre immaginato che due uomini si isolassero, non che nella camerata ci fosse questo gioco dei corpi, che il buio vela senza coprire completamente.

 

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Chrétien da Bayonne è stupito che il conte d’Espinel intenda unirsi a lui. Teme che il comando della spedizione possa in qualche modo sfuggirgli di mano, anche se nulla nelle parole del conte tradisce un’intenzione di questo tipo. D’altra parte è anche ben contento di poter contare su truppe più numerose. Chrétien sa di giocare il tutto per tutto in questa impresa: si è indebitato fino al collo con usurai cristiani ed ebrei per poter arruolare i soldati necessari e assicurarsi l’approvvigionamento. Se questa spedizione fallisse, si ritroverebbe sommerso dai debiti.

- Sarò ben felice della vostra partecipazione, conte. È un onore avervi al mio fianco.

- Incomincerò oggi stesso a raccogliere le truppe, ma questo richiederà un po’ di tempo. Quando avete intenzione di partire?

- Tra due giorni.

- Non credo che potrò provvedere a tutto prima di una settimana. Ma poi procederemo a tappe forzate, in modo da raggiungervi prima che impegniate i saraceni in battaglia.

 

Le truppe di Chrétien da Bayonne si mettono in marcia due giorni dopo, come previsto. Per il momento esse si muovono in territorio sotto controllo cristiano, per cui non temono attacchi e possono procedere liberamente. Non è un esercito tanto numeroso da creare gravi problemi di approvvigionamento o tensioni con la popolazione locale. Non è neanche tanto consistente da dare buone garanzie di vittoria. Baldovino III, re di Gerusalemme, ha appena sconfitto Nur ad-Din, emiro di Damasco e signore della Siria: non è stata una vittoria tale da cambiare gli equilibri di forza, ma sufficiente a garantire un periodo di relativa tranquillità e a dare al sovrano un’aureola di gloria, tanto da permettergli di chiedere la mano di una principessa bizantina. Baldovino non intende avviare una nuova campagna militare: se questo avventuriero franco saprà conquistare nuove terre, il re lo ricompenserà. Se troverà la morte in battaglia, peggio per lui. Anche Nur ad-Din non intende impegnare le sue forze in questo scontro. Se la vedranno l’emiro di Afrin e l’ambizioso franco. Ma l’emiro avrà al suo fianco le spie del signore di Damasco.

Se poi i risultati degli scontri fossero tali da alterare gli equilibri di potere, il re di Gerusalemme e l’emiro di Damasco, signore di tutta la Siria, valuteranno se intervenire. Di certo Nur ad-Din non accetterà che al-Hamra, la perla della Palestina, cada in mano ai Franchi.

 

*

 

Il conte d’Espinel raggiunge Chrétien da Bayonne vicino al passo del Falco. I suoi soldati sono a un giorno di marcia e il conte li ha preceduti per concordare con Chrétien la strategia da seguire. Oltre il passo l’emiro ha radunato le sue truppe, con l’intenzione di sbarrare la strada ai cristiani prima che questi mettano piede nel suo territorio. Non appena l’esercito cristiano avanzerà, la battaglia divamperà.

Dall’accampamento di Chrétien il passo è ben visibile. Tancrède guarda il sentiero che conduce al valico: se attaccheranno da quella parte, le truppe si troveranno in una posizione di forte svantaggio. Ma la cresta è raggiungibile anche per altre vie, per cui sarà difficile per i saraceni impedire l’avanzata dell’esercito franco.

Tancrède si chiede quale sarà il suo ruolo. Dovrà rivelare i piani di Chrétien, senza dubbio, permettendo ai saraceni di organizzare tempestivamente la difesa. Tancrède sente la rabbia salire dentro di sé, ma non ci sono vie d’uscita.

Tancrède entra nella tenda del comandante, dove si deve tenere un consiglio di guerra. Sono presenti Chrétien e i tre ufficiali ai suoi ordini: Tancrède d’Espinel, Renaud di Soissons e Bernard, che guida un gruppo di cavalieri templari.

Chrétien espone la situazione:

- Le truppe dell’emiro controllano il passo. Se le attacchiamo frontalmente, ci troveremo in una posizione di svantaggio e dalle informazioni che abbiamo non siamo più numerosi di loro.

Bernard replica:

- Se cerchiamo di passare in un altro punto, ci vedranno e potranno disporsi in modo da bloccarci.

- Certamente, ma non ci troveremmo in una posizione svantaggiosa. Io però ho un’idea migliore: possiamo cercare di prenderli di sorpresa.

- E come?

- Aggirando le loro posizioni. Ci sono altri due passi, non lontano da qui. Se una parte dell’esercito rimanesse qui, l’altra potrebbe raggiungere il passo delle Rocce sospese e attaccare l’emiro alle spalle.

- Come impedire che l’emiro si accorga della manovra? Di certo ci sono suoi uomini che controllano le piste e i sentieri.

- Sposteremo l’esercito di notte. Non possono sapere che l’esercito del conte è in arrivo. Le truppe del conte arriveranno domani notte e prenderanno il posto di quelle che sono già qui. Le nostre partiranno per aggirare le posizioni dell’emiro.

- Perché non mandare le truppe del conte ad aggirare le posizioni dell’emiro, visto che sono  già in movimento?

- Perché arriveranno nella notte dopo una lunga marcia e non saranno in grado di proseguire per tutta la notte e poi affrontare il nemico. Le nostre truppe invece si saranno riposate.

Renaud di Soissons e Tancrède d’Espinel non sono intervenuti nella discussione, ma ora entrambi si dichiarano d’accordo con la strategia delineata da Chrétien.

- Nessuno deve sapere le nostre intenzioni. Ai soldati diremo solo che domani è giorno di riposo e che nella notte avanzeremo verso il passo del Falco. In questo modo se l’emiro avesse delle spie, crederà che attaccheremo dal passo.

Dopo che sono stati definiti tutti i dettagli, Tancrède si prepara a partire per raggiungere le sue truppe nella notte, insieme a Egbert e altri otto cavalieri che lo hanno accompagnato. Ma mentre si accinge a partire, un soldato di alta statura gli si avvicina.

- Posso parlarvi da solo, conte?

L’uomo ha al collo un ciondolo che Tancrède conosce bene. È giunto il momento. Ora Tancrède deve scegliere tra tradire e morire. Sa di aver già scelto, ma ora il tradimento assume contorni precisi. Risponde brusco:

- Adesso non ho tempo.

L’uomo prende con una mano il ciondolo, come se fosse un gesto istintivo e non calcolato, e sorride:

- Solo un momento.

Tancrède vorrebbe uccidere quest’uomo, questo schifoso traditore, che di certo si è venduto per denaro. Ma Tancrède annuisce. Fa allontanare i suoi uomini.

Nel tono dell’uomo non c’è più traccia della deferenza di prima.

- Ditemi il vostro piano. Badate, non trascurate nulla.

È un ordine. Tancrède ribolle di rabbia, ma sa di non avere altra scelta. Rivela tutto.

L’uomo lo saluta e se ne va. Tancrède sale sul cavallo e lo sprona, furente, verso le proprie truppe.

 

*

 

Gli uomini sono seduti a conversare, quando uno degli ufficiali passa a comunicare che domani è giorno di riposo, poi nella notte seguente ci si sposterà verso il passo. I soldati sono sollevati all’idea che lo scontro non avverrà il giorno dopo. Non moriranno domani. Hanno ancora una notte e un giorno davanti a sé, prima della marcia che potrà portarli alla vittoria o alla sconfitta, al bottino o alla morte.

Quando scende la notte, i soldati si stendono sulle coperte. Dormono in maggioranza all’aperto: solo alcuni degli ufficiali riposano in tende. Molti di loro non intendono dormire, non subito, almeno: tanto anche domani sarà giorno di riposo e potranno recuperare. Questa notte potrebbe essere l’ultima occasione per scopare.

C’è la luna, una luna indiscreta, che dal cielo limpido illumina l’accampamento. Ma ci sono vaste aree d’ombra, tra le pareti rocciose, dove è possibile sfuggire agli sguardi.

Ferdinando sa che cercherà una di queste aree, per godere ancora una volta prima della battaglia. Ferdinando vuole un corpo da stringere e possedere. Sa che altri verranno da lui, com’è successo più volte. Forse più d’uno cercherà la sua compagnia nella notte. E Ferdinando non si negherà.

E infatti, non molto dopo che Ferdinando si è coricato, uno dei suoi commilitoni, Manasse, si avvicina a lui. Non occorre che Manasse dica nulla: hanno già scopato due volte, il guerriero franco è l’uomo che gli si è offerto la prima notte in cui Ferdinando ha dormito con i suoi compagni, dopo essersi arruolato. Ferdinando si alza e insieme si dirigono tra le rocce ai piedi della parete. Trovano un angolo che la luce della luna illumina, ma che grandi massi coprono alla vista.

Manasse inizia a spogliare Ferdinando. Gli piace guardare il corpo forte del guerriero siciliano, passargli la mano sul petto, farla scendere fino a perdersi tra i peli del ventre e afferrare il cazzo glorioso. Gli piace inginocchiarsi davanti a lui, sentire l’odore forte del cazzo di Ferdinando, quell’odore di sudore e di piscio, poi prenderlo in bocca e prepararlo per l’opera. Gli piace sentirlo crescere dentro la propria bocca, sempre più rigido e grosso, fino a che Manasse fa fatica ad accoglierlo. Gli piace passare la lingua sulla cappella, stringerla con le labbra, mordicchiarla con i denti. E gli piace quando Ferdinando lo fa appoggiare su un masso, gli solleva la tunica, gli sputa sul buco del culo, prepara il terreno con due dita e poi, lentamente, lo infilza, facendolo sussultare.

Ci sa fare, Ferdinando. È davvero uno stallone di razza. Spinge a fondo e poi si ritrae, esce e si immerge nuovamente. E ogni volta che lo spiedo trafigge Manasse, questi geme. Il dolore che sale dal culo, squassato dalle spinte impetuose, è puro piacere, che si diffonde in tutto il corpo del soldato, gli riempie di sangue il cazzo e preme sui suoi coglioni.

 

*

 

I cavalieri templari si sono stesi a dormire un po’ appartati, dopo le preghiere serali. Qualcuno veglia, perché il sonno non viene. Tra di loro Guillaume di Hautlieu, che è alla sua prima battaglia: come Ferdinando, ha solo vent’anni. È entrato nell’ordine un anno fa, da sei mesi è in Terrasanta. Non è un vile, ma la coscienza che domani notte – o il mattino del giorno seguente – si troveranno a combattere gli ha messo addosso un’irrequietezza che gli impedisce di prendere sonno.

Guillaume si alza e decide di camminare un po’. La luna illumina la valle e permette di muoversi con sicurezza. Guillaume si aggira per l’accampamento senza una meta precisa. Qua e là alcuni soldati parlano tra di loro, ma ormai sono pochi. In alcuni punti Guillaume sente un ansimare che potrebbe essere il respiro affannoso di qualcuno che ha un incubo, ma che forse è altro. Guillaume non guarda: il corpo lo tormenta e non vuole versare altro olio sulla fiamma.

Guillaume pensa al suo arrivo in Terrasanta, alla scoperta di questa terra dove tutto parla del Cristo. I dubbi che lo avevano assalito in passato parevano svaniti: gli sembrava di sentire la presenza di Dio in ogni momento, sotto il cielo limpido, tra gli ulivi secolari, a una fonte cristallina.

Ma le sensazioni così intense dei primi mesi si sono affievolite. La realtà dell’ordine appare molto diversa da quella che Guillaume aveva sognato: anche qui, come in Francia, rivalità e lotte per il potere e la tentazione della carne. Certo, ci sono alcuni monaci guerrieri che sembrano condurre un’esistenza pura, con il pensiero sempre rivolto a Dio, pronti al martirio. Ma non è così per molti. Anche per Guillaume non è così, lo sa benissimo. Non gli interessa il potere, è pronto a morire in battaglia, per contribuire alla diffusione della fede e alla liberazione della Terrasanta. Ma non è puro.

Guillaume non ha mai avuto rapporti. Sa che, per i voti pronunciati, dovrebbe essere casto. Ma si rende conto che, come molti dei suoi compagni, non attribuisce alla castità una grande importanza. Se non ha mai peccato con le azioni, è solo perché ha cercato di evitare le tentazioni, ben sapendo che la sua carne è debole. Con il pensiero ha peccato spesso.

Guillaume si spinge verso un’estremità del campo, per allontanarsi. Preferisce rimanere da solo, lontano dai rumori dell’accampamento. Si rifugia tra le rocce ai piedi della parete. Si issa su di un masso e si siede, con il viso rivolto verso le tende. Ma un gemito alle sue spalle lo fa voltare. Il suo sguardo cade su due uomini appoggiati a una roccia, a pochi passi da lui. Un robusto soldato è appoggiato sopra un altro e lo sta possedendo. Guillaume vorrebbe distogliere lo sguardo, ma non ci riesce. Il movimento ritmico del culo del soldato che sta fottendo l’altro lo inchioda al suo posto.

Guillaume rimane impietrito, a guardare la scena che la luce della luna illumina. Dovrebbe distogliere lo sguardo, subito, allontanarsi. Ma non riesce a farlo. Il suo corpo reagisce con violenza. Quando infine il soldato che sta possedendo l’altro emette un suono sordo, Guillaume riesce a scivolare a terra. Un’altra ombra gli sbarra la strada. Guillaume sussulta.

- Bella scena, vero? Ferdinando ci sa fare.

Guillaume non conosce l’uomo che gli sta parlando e di cui la luna illumina il viso, di certo non è uno dei cavalieri templari. Dev’essere uno dei compagni di questo Ferdinando. L’uomo prosegue:

- Che ne diresti di darci da fare anche noi?

La mano dell’uomo si posa sul ventre di Guillaume, preme contro il cazzo teso sotto la tunica. L’uomo ride:

- Direi che sei già pronto. E io ho voglia di gustare un buon cazzo. Vieni.

E, tenendo la mano sul cazzo di Guillaume, l’uomo si muove verso l’ombra delle rocce. Guillaume lo segue. Gli pare di muoversi in un sogno. Pensa che non dovrebbe farlo, ma il pensiero non riesce a tradursi in azione: lascia che lo sconosciuto lo guidi tra le rocce, gli sfili la tunica, si spogli, si inginocchi davanti a lui e gli prenda in bocca il cazzo.

È una frustata. Per un attimo il fiato gli manca. Mai ha sentito il calore e l’umidità di una bocca accogliere il suo cazzo, mai ha sentito la carezza di una lingua. Dura poco, solo un momento: l’uomo si stende a pancia in giù.

- Inumidisci un po’ e poi dacci dentro.

Guillaume annuisce. Con le mani divarica le natiche. Sputa sull’apertura. Passa due dita, mentre l’uomo geme leggermente. Poi si stende su di lui e con la mano guida il cazzo verso l’apertura. Scivola dentro, incontrando poca resistenza.

- Piano.

Guillaume si ferma, poi riprende ad avanzare. Si abbandona completamente alle sensazioni prepotenti che salgono dal cazzo. Gode del contatto con questa guaina di carne, che gli trasmette ondate di piacere ad ogni movimento. Gode del calore che lo avvolge. Gode di questo corpo su cui poggia il suo.

Guillaume è giunto in fondo. Ora prende a muoversi avanti e indietro, lentamente, assaporando il piacere. Vuole rimanere in questo paradiso il più a lungo possibile. Ma la sua cavalcata non dura a lungo: troppo forte è il desiderio, troppo lunga l’astinenza. Poco dopo Guillaume viene, con un grido soffocato. Gli sembra che il seme che sgorga sia la sua stessa vita, che lo lascia in un’estasi quale non ha mai conosciuto. Si abbandona completamente sul corpo che ha posseduto. Vorrebbe ringraziare Dio, ma si rende conto che sarebbe blasfemo, perché quello che ha fatto va contro le regole del suo ordine e della sua religione. Ha peccato, lo sa, prima di una battaglia in cui potrebbe perdere la vita. Ma non è pentito di aver ceduto al desiderio, di avere per la prima volta conosciuto il corpo di un altro maschio, di aver scoperto il piacere.

 

*

 

Verso sera arrivano alcuni soldati del conte d’Espinel. Le altre truppe giungeranno solo nella notte, perché le sentinelle nemiche non possano vederle. Nessuno sospetta che i nemici siano meglio informati dei soldati cristiani.

Tutto è pronto e quando scende il buio, gli uomini di Chrétien da Bayonne finiscono di prepararsi e si mettono in marcia. Hanno l’ordine di rimanere in assoluto silenzio. Ben presto è chiaro che non stanno salendo verso il passo, come tutti si aspettavano, ma si muovono in un’altra direzione: si tenta una manovra di sorpresa.

La luna illumina la strada da percorrere, ma dopo alcune ore tramonta. La luce delle stelle permette di muoversi, ma nei tratti in ombra per i soldati è difficile vedere dove mettono i piedi.

Le truppe continuano a camminare a lungo, seguendo i sentieri che solo la guida siriana conosce. Il cielo è ancora scuro, ma il mattino non è lontano, quando giungono in una stretta valle. Ora il sentiero si inerpica sul fianco di una parete che a tratti è a strapiombo: basterebbe mettere un piede in fallo per precipitare e schiantarsi sul greto del torrente che corre al fondo della gola. Anche i cavalieri sono smontati e procedono a piedi, tenendo i cavalli per le redini. Ormai hanno quasi completato la manovra di aggiramento: oltre il passo che chiude la valle, si trova l’accampamento dell’emiro. Lo attaccheranno di sorpresa, da un punto dove di certo non sono state realizzate grandi opere di difesa e nessuno dei saraceni si aspetta il loro arrivo.

I soldati si muovono in assoluto silenzio: ora che il nemico è vicino, non devono farsi scoprire. Qualcuno impreca quando inciampa e rischia di cadere. Ferdinando bestemmia sottovoce scivolando su una roccia, ma riesce a evitare di precipitare.

Improvvisamente si sente il rumore di massi che rotolano proprio sopra di loro: è un tuono, assordante, che copre le urla dei soldati. La frana improvvisa travolge la guida e alcuni dei guerrieri che si trovano all’avanguardia. Il fragore si dissolve in una serie di rumori che vanno diminuendo d’intensità, fino a che si sente solo il gemito di alcuni dei feriti e il nitrito dei cavalli che i cavalieri cercano di calmare.

C’è un momento di panico tra i soldati, ma Chrétien da Bayonne li riconduce all’ordine, tra minacce e imprecazioni. Devono superare la frana, in fretta, prima che spunti l’alba, per poter attaccare il nemico senza essere avvistati.

Mentre le truppe si accingono a riprendere l’avanzata, si sente un altro boato e cala una nuova frana, proprio dove si trova la retroguardia. I pietroni travolgono diversi soldati, seminando morte e bloccando il sentiero.

Prima che i soldati si siano ripresi dallo sgomento provocato dalla nuova frana, l’aria si riempie di sibili: sono frecce, scagliate nel buio dall’altra parte della valle. Gli arcieri nemici non possono mirare, ma, anche se molte frecce colpiscono troppo in alto o troppo in basso, altre raggiungono il bersaglio. I soldati trafitti gridano: alcuni riescono a emettere appena un urlo strozzato prima di abbattersi al suolo, altri continuano a lamentarsi a lungo; qualcuno precipita nella voragine che si apre sotto il sentiero.

- Una trappola! Al riparo!

Alla fioca luce delle stelle non è facile trovare un riparo, ma il buio offre un minimo di protezione e per il momento i saraceni si limitano a lanciare le loro frecce nell’area delimitata dalle due frane che hanno provocato, senza poter vedere i loro bersagli.

Chrétien da Bayonne cerca di riorganizzare le sue truppe. Sono in trappola e la frana ha chiuso la possibilità di ritirarsi. Senz’altro deve essere possibile superare lo sbarramento formato dai massi, ma non di notte. E quando, tra poco, ci sarà abbastanza luce, anche il nemico li vedrà e loro saranno un facile bersaglio.

Ormai è chiaro che i nemici si aspettavano il loro arrivo. La sorpresa è fallita. O forse sarebbe più esatto dire che la loro sorpresa è fallita, quella dei saraceni è riuscita.

 

Alla prima luce del giorno, possono farsi un quadro della situazione, che appare disperata. Le due frane provocate dai saraceni rendono ugualmente difficile proseguire e tornare indietro: dovrebbero arrampicarsi sui massi, ma così facendo sarebbero del tutto esposti alle frecce degli arcieri, nascosti sulla parete opposta. In ogni caso non sarebbe facile portare con sé i cavalli.

Cercare di superare la frana e raggiungere ugualmente il passo, sapendo che i saraceni sono appostati tutt’intorno, sembra un’impresa folle: si troverebbero a dare battaglia in condizione di inferiorità, senza neppure i cavalli. Ma Chrétien non vuole mollare: ritirarsi significherebbe perdere ugualmente molti uomini e dover rinunciare definitivamente all’impresa. Chrétien parla con il comandante dei templari, Bernard, e con Renaud di Soissons. Vuole cercare di superare il colle per ingaggiare battaglia: se il conte d’Espinel raggiunge il passo del Falco in mattinata, potrà aiutarli. Basta che riescano a non farsi sopraffare prima dell’arrivo dei rinforzi.

Bernard e Renaud sono molto scettici sulla proposta di Chrétien: rischiano di perdere molti uomini e di trovarsi ad affrontare il nemico in condizioni di grande inferiorità numerica. Ma Chrétien insiste e infine impone il suo volere. Ai soldati viene comunicato che devono avanzare, superare la frana e attaccare il nemico, mentre gli arcieri franchi cercheranno di contrastare l’azione dei saraceni.

A Denis la decisione appare una follia: impossibile far passare oltre la frana il grosso delle truppe, sotto le frecce scagliate dai saraceni. Moriranno tutti. Ma Denis è soltanto un fante e non può certo contrastare la decisione dei comandanti.

Non appena le truppe si muovono, uscendo allo scoperto, gli arcieri saraceni fanno scoccare le loro frecce: alla luce del mattino non hanno difficoltà a colpire i loro bersagli e molti soldati cadono sul sentiero o precipitano nell’abisso. Chrétien e Bernard guidano le truppe, cercando di oltrepassare i massi che sono precipitati dall’alto della parete. Sembra che sia possibile superare la frana con i cavalli, anche se occorre condurli con molta prudenza per evitare di precipitare.

Gli arcieri saraceni lanciano nugoli di frecce, ma Chrétien continua a procedere e ora si trova su un grande pietrone, oltre il quale rimangono solo alcuni massi. Ma sotto il peso del cavallo e degli altri soldati il macigno oscilla e incomincia a scivolare. I soldati gridano, due di loro fanno in tempo a saltare su altri massi, ma prima che Chrétien riesca a far muovere il cavallo, il masso si stacca, trascinando nell’abisso il capitano, insieme a diversi dei suoi uomini. Chrétien urla mentre precipita, un “No!” disperato, e il suo grido scatena il panico tra i soldati. Bernard e Renaud di Soissons danno l’ordine di ritirarsi, ma una freccia colpisce al petto il capitano dei templari, che cade a terra. Uno dei suoi uomini si china su di lui per aiutarlo, ma viene raggiunto alla schiena e si abbatte sul corpo del suo comandante. Uno dopo l’altro i templari vengono abbattuti mentre cercano di soccorrere il loro comandante e i compagni feriti. Solo Guillaume, che chiudeva la colonna dei templari, sfugge alla morte, perché il suo cavallo viene ferito e non è in grado di proseguire.

Molti soldati si dirigono correndo verso la frana che blocca il sentiero dalla parte opposta, quella da cui sono arrivati: sperano di riuscire a sfuggire al nemico. Denis grida che è una follia, che saranno uccisi tutti, che occorre invece cercare riparo. Pochi lo ascoltano. I soldati cristiani vengono decimati mentre si arrampicano sui massi. Molti precipitano in fondo alla gola. Altri cadono sui massi e rimangono inerti o cercano ancora di strisciare verso un’impossibile salvezza. Vedendo i compagni cadere, molti rinunciano e cercano di tornare indietro, ma non sempre riescono a trovare un riparo prima di essere trafitti dalle frecce nemiche.

Denis si è rifugiato in uno dei punti in cui una cavità offre un buon riparo. Altri si sono uniti a lui, tra cui Ferdinando da Siracusa, Guillaume di Hautlieu, Renaud di Soissons e suo fratello Charles.

È stata una carneficina: di tutti gli uomini della spedizione sono forse venti quelli che sono al riparo delle rocce. Altri sono feriti o moribondi, ma non c’è modo di aiutarli.

Denis osserva con attenzione tutta l’area, cercando di non esporsi, poi dice:

- Andrò in esplorazione per vedere che cosa possiamo fare.

Renaud lo guarda:

- Tu sei pazzo, ragazzo. Appena sporgerai la testa, ti trafiggeranno. Sanno benissimo dove siamo e aspettano solo che usciamo dal riparo. Hanno una buona mira, quei figli di puttana.

- Non possiamo rimanere qui tutto il giorno senza capire com’è fatta la valle.

Renaud scuote la testa, ma Denis si è già mosso.

Lo vedono strisciare tra le rocce, muoversi rapidamente nei punti allo scoperto, sfuggendo per un pelo alle frecce, poi scompare.

Le ore passano, Denis non torna. Intorno c’è solo silenzio.

- Devono averlo scoperto e ucciso.

- Oppure è riuscito a superare la frana ed è fuggito.

Renaud scuote la testa:

- No, lo escludo. L’ho visto combattere più volte e ha sempre dimostrato più coraggio di molti guerrieri esperti.

- Allora è morto. Pace all’anima sua.

- Noi lo raggiungeremo presto.

- Non è detto. Questa notte cercheremo di tornare indietro.

La giornata è interminabile. Il nemico non si vede, ma non appena Ferdinando sporge fuori dal riparo un mantello, posto su una picca, una freccia lo trafigge.

- Porcoddio! Hanno davvero una buona mira.

Consumano quel poco di cibo e di acqua che hanno con sé, poi a turno cercano di riposare: avranno bisogno di tutte le loro forze per riuscire a tornare vivi.

La sera scende. Tra non molto sarà buio e potranno infine avviarsi.

Le pareti della valle diventano una massa scura indistinta. Non si sente nessun rumore. Si potrebbe pensare che i saraceni se ne siano andati, ma tutti sanno che non è così.

- Andiamo?

- No, non ancora.

- Non vedremo più niente.

- È più importante che non vedano niente loro.

Ora il buio è completo. Tra non molto sorgerà la luna, ma per il momento è possibile muoversi senza essere visti.

Renaud dà l’ordine:

- Muoviamoci.

- Fermi!

La voce li fa sussultare.

- Denis?

- Sì, sono io.

Denis scende con un salto e li raggiunge.

- Riuniamoci tutti.

Si stringono intorno a lui. Denis parla piano:

- Non è possibile tornare indietro lungo il sentiero: l’emiro ha mandato parecchi uomini a valle della frana e non avremmo scampo.

La notizia è una coltellata. Lo dice per tutti Charles di Soissons:

- Allora è la fine. Ci uccideranno o ci faranno schiavi.

- No, possiamo farcela. Si può scendere verso il precipizio, ci sono dei punti in cui è possibile calarsi e poi risalire.

- Al buio? Non ce la faremo mai.

- Non c’è altra via. Se volete seguirmi, vi guiderò.

Renaud di Soissons parla: è l’unico ufficiale rimasto e quindi la massima autorità, anche se solo alcuni dei sopravvissuti erano sotto il suo comando.

- Ti seguiremo, Denis d’Aguilard. Se qualcuno invece vuole provare un’altra strada, è libero di farlo.

Ferdinando bestemmia:

- Porcoddio! Preferisco crepare per una freccia o una picca che precipitare, ma ti seguo, ragazzo.

- In assoluto silenzio, cercando di non fare rumore.

Si muovono silenziosi, ombre nella notte. Scendono lungo una traccia, che sembra voler raggiungere il fondo del precipizio. A tratti Denis li fa fermare e poi va in esplorazione e ritorna. Dopo una mezz’ora, risalgono lungo un’altra traccia che talvolta li costringe ad arrampicarsi.

Hanno camminato quasi un’ora e alcuni pensano di essere ormai al sicuro, ma Denis raccomanda invece di rimanere in assoluto silenzio: sono nel punto più pericoloso. Il cielo si sta schiarendo, perché sta per spuntare la luna. Devono riuscire a percorrere l’ultimo pezzo prima che la luce lunare sveli ai nemici la loro presenza.

Si muovono pianissimo e a un tratto sentono subito sopra di loro le voci di due uomini che parlano in arabo. A tutti si gela il sangue nelle vene.

Procedono ancora un buon momento, scendendo e poi risalendo. Infine Denis va di nuovo in avanscoperta e torna dicendo che la strada è libera. Raggiungono il sentiero e possono infine avanzare più spediti. Rimangono ancora in silenzio, consapevoli che il nemico non è lontano e che potrebbero incontrarlo ancora.

Dopo mezz’ora di strada, la luce della luna mostra in mezzo al sentiero un corpo.

Denis si china, la spada in mano, per vedere chi sia quest’uomo, se sia vivo o morto. Ma è l’uomo stesso a parlare.

- Chi sei? Sei cristiano?

- Sì. Chi sei?

- Sono Roger da Albi. E voi, chi siete?

- Siamo i pochi che sono riusciti a scampare al massacro.

- Io ero con due che ce l’hanno fatta, ma sono stato ferito alla gamba. Per un po’ sono riuscito a camminare, appoggiandomi a Clovis e Silvan, ma poi quei due bastardi mi hanno abbandonato qui.

Ferdinando si fa avanti.

- Ti porto io.

Ferdinando si china, controlla dove si trova la ferita, poi si carica l’uomo sulla spalla destra e tutti riprendono la marcia.

È quasi mattina quando incontrano alcuni soldati mandati in perlustrazione e insieme a loro raggiungono l’accampamento, sfiniti per la lunga marcia.

Gli uomini del conte d’Espinel li accolgono. In mattinata sono saliti verso il passo, ma non sono andati oltre, perché hanno visto l’esercito dell’emiro schierato, senza che ci fosse traccia delle truppe che avrebbero dovuto aggirarlo. Hanno atteso alcune ore, poi sono scesi nuovamente al campo, in attesa di notizie. L’annuncio della disfatta è già stato dato da quattro soldati che sono riusciti a sfuggire alle frecce dei saraceni, superando la frana.

Nel campo la delusione è palpabile. Certo, gli uomini del conte si dicono che hanno ricevuto il soldo senza dover mai combattere e rischiare e che, pensando ai soldati di Chrétien e ai templari, possono dirsi ben fortunati a riportare a casa la pelle. Ma molti di loro speravano nella conquista di Afrin e nel saccheggio, che avrebbe offerto un’importante occasione di guadagno.

Per tutto il giorno i soldati parlano solo della spediazione fallita: discutono dell’agguato, della morte di Chrétien da Bayonne e del templare Bernard, del tradimento che ha provocato la disfatta e di Denis d’Aguilard, che con il suo coraggio e la sua intelligenza ha salvato la vita al capitano Renaud di Soissons e ad alcuni soldati. Anche il ritorno di Roger da Albi suscita discussioni: i due uomini che sono scappati con lui superando la frana lo hanno abbandonato ferito, invece di aiutarlo a tornare. Se non fosse stato per Ferdinando, che se l’è caricato sulle spalle, sarebbe rimasto a morire sul sentiero. Quando sono arrivati al campo, Clovis e Silvan si sono guardati bene dal raccontare che avevano lasciato Roger per strada.

Durante il mattino i sopravvissuti sono continuamente al centro dell’attenzione e devono raccontare più volte ciò che è successo. Dopo il pasto, il gruppo si stende in una zona appartata, cercando di riposare un po’.

Renaud di Soissons parla a lungo con Tancrède d’Espinel. Al termine del colloquio, il conte comunica che rimarranno ancora all’accampamento durante la giornata e che domani mattina faranno ritorno ad Acri.

 

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Denis è steso sulla coperta, ma non dorme. La morte di Chrétien da Bayonne e il fallimento della spedizione lo hanno riportato a una situazione di estrema precarietà: non può contare su nessuno.

Potrebbe chiedere a Tancrède d’Espinel di prenderlo a suo servizio, ma Denis ha dei dubbi sul conte. Tancrède è stato a lungo prigioniero e poi è stato liberato. Appena tornato ha trovato il denaro per arruolare in pochi giorni truppe numerose: se ha pagato il riscatto, viene da chiedersi come ha fatto a trovare così in fretta tutto quel denaro. E se non lo ha pagato, perché lo hanno liberato? Tancrède ha deciso di partecipare a una spedizione comandata da un altro, pur sapendo che la conquista di Afrin non gli avrebbe portato grandi vantaggi: perché? Tancrède conosceva il piano segreto. E qualcuno ha tradito. Il cugino di Tancrède, Louis, è stato assassinato poco prima che il conte tornasse. Un tagliagole, hanno detto. Ma forse c’è un’altra spiegazione.

Denis non può essere sicuro che sia stato Tancrède a tradire, ma di certo non vuole passare al servizio di qualcuno che potrebbe essersi venduto al nemico.

Denis non sa a chi rivolgersi. Cercherà altri uomini che abbiano combattuto con suo padre. Renaud di Soissons di certo lo prenderebbe volentieri al suo servizio, ma possiede ben poco oltre al titolo nobiliare e alle sue indubbie competenze militari, per cui gli viene spesso affidato il compito di guidare una parte delle truppe di qualche altro signore.

In mattinata molti soldati gli hanno parlato, tutti gli hanno fatto i complimenti. Ma questo non serve per ottenere un ingaggio.

Ferdinando si è svegliato e si volta verso Denis. Vede che non dorme.

- Porcoddio! Denis d’Aguilard, sei davvero in gamba! Senza di te sarei a ingrassare i vermi.

Denis sorride:

- Forse avrai occasione di rendermi il favore.

- Mi farebbe molto piacere. Non posseggo molto oltre la mia spada, ma sappi che per qualunque cosa puoi contare su di me. Per qualunque cosa.

- Grazie.

- Grazie a te.

- Quando sei arrivato in Terrasanta, Denis?

- Quando avevo otto anni.

- Porcoddio! A otto anni?! Ma come cazzo… non da solo, vero?

Ferdinando ride, sapendo di aver fatto una domanda assurda.

- Viaggiai con un barone a cui mi aveva affidato mio zio. Mio padre era già in Terrasanta e quando mia madre morì, mi volle con sé.

- È morto?

- Sì, un anno fa, poco più.

Ferdinando chiede, Denis racconta. Sono ricordi dolorosi, ma il tempo ha cicatrizzato la ferita.

 

*

 

In serata Denis si allontana dall’accampamento: ha bisogno di muoversi un po’. Mentre ritorna, gli viene incontro Charles di Soissons. È un bell’uomo, dai lineamenti molto regolari e occhi azzurri. È il fratello minore di Renaud e di solito combatte con lui. Un terzo fratello arriverà tra poco dalla Francia, per raggiungerli in Terrasanta: sono ambiziosi i fratelli, Renaud mira a diventare signore di qualche città. Ma, come ha dimostrato questa spedizione, l’unica terra che tanti avventurieri conquistano in Palestina è quella della loro fossa.

- Sei stato bravissimo, Denis. Senza di te saremmo morti tutti.

- Non è detto. Ma sono contento di aver contribuito a salvare alcune vite.

- Hai dimostrato coraggio e intelligenza, due doti che non sempre vanno insieme.

- Ma che non si escludono a vicenda.

Charles ride:

- No, per fortuna.

Poi esita un attimo e aggiunge:

- Hai voglia di fare due passi con me? Non riesco a dormire.

Denis si chiede che cosa voglia Charles da lui, ma comunque gli va bene: Charles gli piace molto. Di certo comunque Denis non farà il primo passo: l’esperienza con Mathieu gli brucia ancora. Si allontanano dal campo, finché Charles propone di sedersi ai piedi di alcuni alberi.

- Ho sempre ammirato gli uomini valorosi come te.

Denis non sa come rispondere. Non può nemmeno dire che anche Charles si è dimostrato valoroso, perché non hanno combattuto.

- So che anche tu sei un guerriero coraggioso.

Charles sorride:

- Sono arrivato pochi mesi fa e non ho avuto molte occasioni per dimostrare se valgo qualche cosa. Contavo che in questa spedizione…

Charles scuote la testa e conclude:

- …ma non è andata come ci aspettavamo.

Denis si limita a dire.

- No, di certo. Ma ci saranno altre occasioni. Qui la guerra non si ferma mai, fa solo finta ogni tanto. E la morte le sta a fianco.

Charles annuisce.

- Sì, so che possiamo morire in qualsiasi momento. Ma proprio per questo… non provi anche tu una voglia di vivere, di amare, di godere? Proprio perché tutto può finire domani.

Denis non si è mai posto il problema in questi termini. Ormai ha abbastanza chiaro dove vuole arrivare Charles. E ne è ben contento: Charles è un bell’uomo, uno di quelli che gli sembrano del tutto irraggiungibili.

- Sì, capisco che cosa intendi.

Charles sporge il viso verso il suo. Denis gli va incontro. Charles gli posa due mani sulle guance e per la prima volta Denis viene baciato da un uomo. Charles non si ferma al contatto con le labbra, ma infila con decisione la sua lingua nella bocca di Denis, che l’accoglie, troppo frastornato per capire se gli piace o no. Charles ritira la sua lingua, Denis spinge la sua nella bocca di Charles. È bello, sì, strano, ma bello.

Charles lo spinge a terra e incomincia a spogliarlo con gesti lenti. Quando ha finito, lo guarda. Il sole è ormai tramontato e la sera sta avvolgendo tutto il paesaggio in un’oscurità crescente. Sotto gli alberi si vede poco, ma a Denis va bene così.

- Hai un bel corpo, Denis.

Sì, Denis sa di avere un corpo forte e snello. Ma sa anche che per la sua faccia il buio è un vantaggio.

- Tu sei bello, Charles.

- Grazie.

Charles si china e bacia il torace di Denis, poi avvicina la bocca a un capezzolo e lo mordicchia. Passa all’altro, ma questa volta lo succhia. Denis prova sensazioni nuove, di cui non sospettava neppure l’esistenza. La bocca di Charles scende, tra baci e delicati passaggi della lingua. Arriva all’ombelico, si infila dentro. Poi scende ancora e Denis sente il contatto leggero della labbra sul cazzo, ormai teso, e sui coglioni. La bocca inghiotte uno dei coglioni, lo lascia, risale lungo il cazzo, avvolge la cappella. Charles incomincia a leccare e succhiare. Denis avverte sensazioni fortissime, un piacere che è quasi intollerabile. Chiude gli occhi, anche se già si vede pochissimo, e si abbandona all’ondata di piacere che sale.

- Charles, sto per venire…

Charles non si ritrae. Denis sente la scarica che percorre il cazzo, facendolo quasi urlare per il piacere, e si riversa fuori, nella bocca di Charles.

Charles continua a succhiare, ma ormai la sensazione di quella bocca è intollerabile e Denis dice:

- Basta!

Charles si ritira. Non si è spogliato.

Denis si dice che deve rendere il piacere che ha provato. Non sa come fare, si sente inadeguato, ma proverà. Con lentezza le sue mani spogliano Charles, che più volte interrompe la manovra per baciarlo. Quando sono entrambi nudi, Charles lo abbraccia, lo bacia di nuovo sulla bocca.

Rimangono così. Denis lascia che sia Charles a condurre il gioco. Gli piace rimanere tra le sue braccia, steso sotto di lui.

Dopo un po’, la mano di Charles incomincia a stuzzicare Denis, pizzicando un capezzolo, scendendo al cazzo in una carezza che diventa una presa vigorosa. Denis non ha neanche diciott’anni e il suo corpo reagisce al nuovo stimolo. Presto il cazzo si tende nuovamente. Charles lo accarezza a lungo, poi dispone a terra la sua tunica e vi si stende, a gambe larghe.

- Prendimi, Denis.

Denis accarezza il culo che gli si offre, che può appena vedere. Inumidisce la cappella, la avvicina al solco, spinge.

- Più sotto.

Denis corregge la direzione, trova l’apertura. Entra piano, timoroso di fare male, ma la carne sembra cedere senza sforzo e il gemito di Charles è di piacere.

Denis spinge più a fondo, finché è tutto dentro. È una sensazione bellissima. E questa volta non è un corpo che gli si offre per disperazione, non è un uomo dal viso deturpato: è un uomo bello, che desidera essere posseduto da lui.

Denis dà inizio a una lenta cavalcata, accompagnata dai mugolii di piacere di Charles. Affonda la spada fino all’elsa, la ritrae e affonda di nuovo. E intanto sente che il piacere cresce e si dilata, fino a che non può più essere contenuto ed esplode, mentre il suo seme si riversa nel culo di Charles.

Denis chiude gli occhi e si abbandona sul corpo di Charles. Mormora:

- Grazie.

Poi Denis fa scivolare una mano sotto il corpo di Charles, per guidarlo al piacere, ma Charles lo ferma.

- Va bene così.

Rimangono un momento distesi, poi Charles dice:

- Ora è meglio che vada.

Denis si solleva. Entrambi si rivestono. Charles bacia ancora Denis e si allontana. Denis aspetta un momento prima di rientrare. Ora è completamente buio.

Denis è frastornato. Non aveva mai conosciuto un tale piacere. Gli sembra che sia la cosa più bella che gli è capitata nella sua vita. Charles, un uomo bello, nobile, gli si è offerto, liberamente. Denis vorrebbe urlare dalla gioia.

Rimane a lungo tra gli alberi, i cui profili sono appena visibili nel buio della notte, assaporando la sensazione di benessere che prova.

Poi torna all’accampamento e si stende sul suo giaciglio.

Accanto a lui è disteso Guillaume di Hautlieu, uno dei pochi sopravvissuti alla spedizione: è l’unico dei templari ancora vivo.

Guillaume pensa che la sera prima di partire ha commesso un peccato mortale. Probabilmente è stato l’unico dei templari presenti a peccare, eppure è stato l’unico a sopravvivere. Conosceva appena la maggioranza dei suoi compagni, ma la loro morte gli pesa. Deve la sua vita a questo ragazzo, che ha pochi anni in meno di lui.

Dice:

- Grazie, Denis d’Aguilard.

Denis sussulta: concentrato nei suoi pensieri, non si è accorto che Guillaume è ancora sveglio. Denis ripete ciò che ha detto prima a Charles di Soissons:

- Sono contento di aver contribuito a salvare almeno alcune vite.

- Che farai ora?

- Non lo so. Cercherò un ingaggio: sono un guerriero, non conosco un altro mestiere.

- Vorrei combattere con te, ma ho preso i voti.

- Ci capiterà di ritrovarci in battaglia, probabilmente: il nemico comune è lo stesso.

- Spero che la prossima volta potremo combattere davvero.

 

*

 

Tancrède d’Espinel si è ritirato nella sua tenda, insieme a Egbert. Domani mattina leveranno il campo e torneranno ad Acri.

Tancrède è turbato. Sapeva benissimo che cosa sarebbe successo, ma confusamente sperava che Chrétien da Bayonne sarebbe riuscito a salvarsi, che la sconfitta non sarebbe stata un massacro totale, ma solo il fallimento della spedizione. E invece quasi tutti gli uomini hanno perso la vita.

Egbert è furibondo. Come tutti, ha capito che c’è stato un tradimento e per lui l’idea che un cristiano possa aver tradito i suoi confratelli, per denaro o per ambizione, è inaccettabile.

- Come hanno potuto scoprire il piano? Solo voi quattro lo conoscevate.

Tancrède vorrebbe parlare d’altro, sfuggire alle continue domande di Egbert, che gli ricordano il suo tradimento. Ma Egbert è ossessionato. Vuole capire, vuole vendicare la morte dei suoi compagni.

Tancrède fa finta di esaminare la lama della sua spada, come se volesse controllarla.

- Hanno i loro informatori, le loro spie, Egbert. Anche noi ne abbiamo.

- Non è quello. Qualcuno qui deve aver tradito.

Egbert non si dà pace.

- Qualcuno avrà origliato. O forse Chrétien o Bernard o Renaud ne hanno parlato a soldati di cui si fidavano e qualcun altro li ha sentiti. Sai come avviene, Egbert. Anche quando nessuno dovrebbe parlare, qualcuno lo fa e le voci circolano. Uno pensa che può fidarsi e invece…

Da fuori giunge la voce di una delle guardie.

- Conte, uno dei soldati vuole parlarvi.

- Fallo entrare.

Tancrède posa la spada e il pugnale sulla cassa di fianco al suo letto da campo. L’uomo che entra è il traditore, con una borsa in mano. L’uomo rimane un attimo interdetto, vedendo Egbert.

- Posso parlarvi da solo, conte?

Tancrède fa un cenno a Egbert, che esce. L’uomo parla pianissimo:

- Devo solo consegnarvi questo.

L’uomo posa una borsa accanto alla spada. Poi aggiunge, sempre molto piano.

- Chi rispetta i patti riceve la giusta ricompensa.

Il soldato si inchina ed esce. Tancrède non ha detto una parola. Prende la borsa e l’apre. Oro, molto oro. Le monete di Giuda.

Egbert rientra mentre Tancrède ha in mano la borsa. Non ha aspettato che Tancrède lo chiamasse: ha dato per scontato di poter entrare quando ha visto uscire il soldato, pensa che tra di loro non ci siano segreti. Tancrède posa la borsa sulla cassa accanto alla spada e al pugnale, come se non contenesse niente di importante.

- Tancrède, dobbiamo trovare il traditore. Deve ricevere una punizione tale da far passare la voglia di tradire.

- Non è facile, Egbert. Bernard e Chrétien sono morti: come possiamo sapere se hanno parlato a qualcuno? Possiamo chiedere a Renaud. Ma qualcuno potrebbe averci spiati e ascoltati mentre eravamo dentro la tenda.

- Bisogna indagare.

- Lo faremo, Egbert, ma adesso lascia perdere. Ne parleremo domani mattina.

Egbert è inquieto. Tancrède vorrebbe mandarlo via con una scusa e far scomparire la borsa, ma non gli viene in mente nulla di credibile.

Tancrède inizia a spogliarsi. Egbert scuote ancora la testa, poi lo imita. Guarda il corpo del conte, il corpo forte di un giovane guerriero. Guarda il viso regolare, incorniciato dalla barba, i begli occhi grigi. È un gran bell’uomo, Tancrède d’Espinel.

Anche Tancrède guarda Egbert, il viso dai lineamenti forti dove il tempo ha scavato rughe profonde, i capelli in cui il rosso sta svanendo, i baffi e la barba ancora rossi, il torace largo, le braccia forti, la peluria rossastra, densa intorno ai capezzoli e al ventre, il cazzo poderoso che già si erge, i grossi coglioni, le cosce vigorose, le gambe robuste. Tancrède desidera Egbert alla follia, come sa di non aver mai desiderato nessuno. Vuole vivere con lui, per tutta la vita, dimenticando il tradimento. Forse potrebbero lasciare la Terrasanta e raggiungere la Francia o la Sassonia.

Tancrède si stende sul letto da campo, lasciando penzolare le gambe. Guarda Egbert, che si avvicina, sorridendo. Egbert gli accarezza il ventre con la mano, poi risale al torace. Lo attira a sé, si china su di lui, lo bacia sulla bocca.

Poi gli piega e solleva le gambe, appoggiandosele sul torace e avvicina il cazzo al buco del culo di Tancrède. Inumidisce la cappella e il buco e poi, come tante altre volte, spinge la sua arma possente a fondo. Tancrède geme.

Sussurra:

- Sì, fottimi, dai!

Egbert spinge con forza. Fa male, ma per Tancrède anche questo dolore è un piacere che lo squassa e lo inebria: Egbert gli trasmette le sensazioni più forti che abbia mai provato. Vorrebbe urlare il piacere che gli sale dal culo, ma fuori qualcuno potrebbe sentire. È il suo corpo ad agitarsi, a urlare senza parole ciò che Tancrède sta provando: il conte muove la testa a destra e a sinistra, agita le braccia.

La destra tocca l’elsa della spada, si sposta ancora e rovescia la borsa. Le monete d’oro si spargono sul coperchio della cassa, alcune cadono a terra.

Egbert le guarda.

- Oro… tutte quelle monete… La borsa l’aveva il soldato.

Egbert ha capito. Il suo viso è stravolto dalla furia.

- Tu, tu… sei stato tu…

- No, no… che dici?

La voce di Egbert è alterata, quasi grida:

- E quell’oro, quell’oro? Tu, tu hai venduto i nostri compagni. Giuda!

Tancrède sa che non può più mentire.

- Taci! Dovevo farlo, Egbert. Altrimenti ci avrebbero impalati, a Damasco.

- Traditore! Maledetto!

Le mani di Egbert si stringono intorno al collo di Tancrède. Tancrède sente che il fiato gli manca. Il sassone lo sta strangolando. Tancrède cerca di allontanare quelle mani, ma sono troppo forti. Tancrède non riesce più a respirare. Cerca sulla cassa qualche cosa per colpire Egbert. La sua mano incontra il pugnale.

Prima che le mani intorno alla gola lo uccidano, Tancrède afferra l’arma e l’immerge nel ventre di Egbert, sotto lo sterno, con tanta forza che la punta del lungo pugnale quasi esce dalla schiena. Egbert emette un singulto, per un attimo allenta la presa, ma poi stringe nuovamente, in preda a una furia cieca che per un momento ancora è più forte della morte che ormai lo sta ghermendo.

Tancrède ritira il pugnale e, mentre le mani di Egbert gli stringono ancora la gola, lo immerge di nuovo, sotto l’ombelico. Spinge con tutta la sua forza e infine sente che la stretta si allenta e Egbert crolla su di lui, il manico del pugnale che gli preme contro il ventre, il sangue che lo inonda.

Tancrède respira a fatica. Allontana le mani inerti che ancora gli stringono il collo. Il peso lo schiaccia. Con le braccia si libera del corpo di Egbert, facendolo cadere a terra. Chiude gli occhi.

Ha ucciso Egbert. Ha ucciso l’uomo che ama. Tancrède si alza. È in un lago di sangue. Guarda il corpo di Egbert a terra, la smorfia di dolore sulla sua faccia. Si china su di lui. Gli passa una mano sui capelli, con delicatezza. Vorrebbe urlare. Mormora il nome di Egbert.

Cade in ginocchio. Chiude gli occhi.

Quando li riapre il luccichio dell’oro attira il suo sguardo. Deve darsi da fare, non può perdere tempo.

Raccoglie rapidamente tutte le monete e le fa scomparire nella borsa, che nasconde nella cassa. Intanto pensa a che cosa dire ai soldati.

Guarda ancora il corpo di Egbert, steso a terra su un fianco, il pugnale infisso nel ventre, il cazzo ancora teso. Tancrède vorrebbe morire. Vorrebbe aver rifiutato la proposta che gli fecero a Damasco: sarebbe stato meglio morire insieme, tra i tormenti. Ora invece ha ucciso l’uomo che ama.

Tancrède chiama i soldati. Dice che Egbert di Hagon lo ha assalito e ha cercato di ucciderlo e che per difendersi lo ha dovuto colpire. Probabilmente è impazzito, sconvolto per la strage della spedizione.

Tutti rimangono allibiti, molti si pongono domande. È vero che in giornata Egbert sembrava fuori di sé dalla rabbia, ma perché prendersela con il conte, che di certo non può essere considerato responsabile della disfatta? Egbert era il capo della guardia personale del conte, l’uomo in cui Tancrède d’Espinel aveva più fiducia. Non aveva mai dato segni di squilibrio: come è possibile che improvvisamente sia impazzito? Di certo non era un uomo incapace di affrontare le difficoltà: aveva combattuto infinite battaglie, aveva subito un anno di prigionia. Forse è stato l’anno di prigionia a cambiarlo, a minare il suo equilibrio mentale?

Qualcuno sussurra che Egbert aveva un’erezione quando il conte lo ha ucciso. È possibile che volesse violare il suo signore, che il conte nasconda la verità per non infangare la memoria di Egbert? O ci sono altri motivi?

Nessuno è pienamente convinto della spiegazione del conte, ma è la parola del loro signore, che cosa possono dire?

 

Già nella notte la voce fa il giro del campo. Per Denis è una conferma dei suoi sospetti, il tassello mancante che trasforma i dubbi in certezze. Non può dire nulla, non ha prove. Ma se avrà ancora modo in futuro di avere a che fare con il conte d’Espinel, starà in guardia.

 

Il mattino seguente Egbert di Hagon viene sepolto, poi le truppe si rimettono in marcia verso Acri.


 

III – Il Cane dagli occhi azzurri

IV – I briganti

V – Rougegarde

VI – L’ultimo tradimento

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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