I – I prigionieri |
III – Il Cane dagli
occhi azzurri |
IV – I briganti |
V – Rougegarde |
VI – L’ultimo
tradimento -
Non avete saputo impedire la conquista di al-Hamra, né quella di Afrin. - E
come avrei potuto? Il duca non mi ha informato dei suoi piani. - A
Damasco dubitano della vostra lealtà. Tancrède
d’Espinel ha l’impressione che il caldo nella stanza sia soffocante, anche se
è inverno. - Vi
dico che il duca D’Aguilard non mi ha messo al corrente dei suoi piani. È un
uomo molto diffidente. -
Dovrete dimostrare la vostra lealtà. Tancrède
si siede. È stanco, sempre più stanco. Ha permesso il massacro della
spedizione di Chrétien da Bayonne, ha consigliato al re il medico che l’ha
avvelenato, ha abbandonato Amalrico in battaglia, ha continuato a passare
informazioni. E dubitano ancora! -
Che cosa devo fare? -
Tra qualche giorno, quando ve lo dirò, partirete come se voleste visitare le
vostre terre nella valle del Leonte. Chiederete ospitalità al castello di
Jibrin. Il
castello è una delle basi dei templari. Tancrède tace. Jacques Longuemain prosegue: -
Quando sarà giunta la notte, ucciderete le sentinelle alla porta e aprirete
le porte del castello. Tancrède
si alza di scatto. -
No, no! Denunciatemi, lasciate che mi ammazzino. Il
mercante scuote la testa. -
Pensate davvero che potrei denunciarvi? Le nostre vite sono legate. Tancrède
lo fissa. Certo, se qualcuno lo denunciasse, Tancrède sarebbe torturato e
farebbe il nome del mercante. Come il mercante farebbe il suo. - I
templari catturati capiranno che sono stato io a tradirli e quando torneranno
in libertà mi denunceranno. -
Non ci saranno prigionieri. Le regole dell’ordine vietano di pagare il
riscatto. Non correte rischi. Non
ci saranno prigionieri. Verranno tutti uccisi. -
Non lo farò. -
Avete già fatto molto. Vi spaventate di questo? Ci saranno trenta monaci e
forse venti servitori al castello, nulla di più. Tancrède
china la testa. È vero, ha già fatto molto di più. Quanti sono morti per
colpa sua? - Ne
ho abbastanza! Mi denuncerò. Jacques Longuemain ride. Scuote la testa. -
Volete essere castrato e squartato nella piazza, tra la folla che vi insulta
e vi dileggia? Tancrède
lo guarda. Odia quest’uomo, con tutto se stesso. - La
stessa fine che vi attende. La
risata di Jacques Longuemain si spegne. Sibila: -
Sì. Io e voi non abbiamo nessuna scelta, conte. Siamo legati a doppio filo.
Le scelte sono state fatte in altro tempo, in altro luogo. Ora possiamo solo
proseguire per la strada che altri tracciano. Tancrède
si siede, sconfitto. -
Gli uomini che porterò con me, per quanto fidati… loro sapranno. Potranno
ricattarmi in futuro, potrebbero raccontare quello che è successo, magari
dopo aver bevuto troppo all’osteria. - Se
non volete che possano parlare, ci occuperemo anche di questo. Il
mercante se ne va. Tancrède
ordina che gli portino da bere. Da tempo beve molto, troppo. Spesso è tanto
ubriaco da essere impotente. Anche questa sera beve a lungo. -
Chiamate Baudri. E Jehan. E Raoul. Le
tre guardie arrivano. Non è l’ora a cui vengono chiamati abitualmente, ma non
è neppure la prima volta che vengono convocati fuori orario. Sanno che cosa
li aspetta. -
Ragazzi, ho voglia di divertirmi. Fatemi gustare i vostri cazzi. Gli
uomini sono abituati a questi ordini. Si spogliano in fretta: Tancrède
d’Espinel non ama attendere. Baudri afferra il conte e lo forza a piegarsi in
avanti: non usa riguardi, sa che il conte vuole le maniere forti. Jehan si
mette davanti al conte e gli afferra i capelli, costringendolo ad abbassare
ulteriormente la testa e a prendergli in bocca il cazzo. Intanto Baudri si
accarezza e non appena la sua arma è in tiro, solleva la tunica di Tancrède,
gli cala le brache e lo infilza da dietro, senza nessun riguardo. Il conte
urlerebbe, ma il cazzo di Jehan soffoca il suo grido. Le spinte vigorose di
Baudri e di Jehan lo scuotono tutto. Il dolore di questa violenza e
l’ebbrezza cancellano pensieri e ricordi. La realtà si allontana e rimangono
solo questi tre maschi vigorosi che lo fottono, l’odore intenso di sudore, le
loro mani forti che gli stringono il culo, gli tirano i capelli, gli
afferrano i coglioni, questi cazzi da succhiare e leccare, da prendere in
culo, con il loro sapore di sborro e piscio. Quando
Baudri ha finito, Raoul prende il suo posto. Baudri attende che Jehan abbia
concluso la sua opera, riempiendo la bocca del conte di sborro, e poi si fa
pulire il cazzo. Anche Raoul conclude la sua opera e Tancrède si lascia
cadere a terra, esausto. Gli uomini lo colpiscono con i piedi, facendolo
rotolare sul pavimento. Baudri gli preme con il piede sui coglioni, facendolo
gemere. - Ho sete. Baudri, fammi bere. Baudri
gli solleva la testa, tirandola per i capelli. Al conte sfugge un gemito.
Baudri avvicina la cappella alle labbra del conte, che apre la bocca. Il
getto di piscio gli scende in gola. Jehan piscia sul culo del conte, mentre
Raoul gli irrora la faccia. Sanno i suoi gusti, sanno che cosa devono fare.
Ormai sono abituati. Ridono, gli chiedono se gli piace. Gli sputano addosso. Non
hanno finito. Bevono ancora e poi riprendono. Forzano Tancrède a sollevarsi,
a succhiare il cazzo di Raoul, poi lo fanno appoggiare sul tavolo e Jehan lo
incula con una spinta decisa. Tancrède urla. Vanno avanti a lungo, fottendo
Tancrède e pisciandogli in bocca o addosso. E quando il desiderio è sazio,
incominciano a colpirlo. Pugni al ventre, ceffoni sul viso, calci alle
costole e ai coglioni. Tancrède si contorce e infine crolla, semisvenuto, un
po’ di sangue che cola dal naso, i segni dei colpi sul corpo. Il
conte ha avuto quello che voleva. Gli uomini si allontanano. Raoul
esce per ultimo. Guarda il conte, immerso in una pozza di piscio. E
d’improvviso si rende conto che prova pena per quest’uomo. * Jibrin
è un nido d’aquila. La poderosa fortezza è situata su uno sperone roccioso,
un cuneo che su due lati ha precipizi vertiginosi: il fiume Nahr e un suo
affluente hanno scavato l’altopiano, creando due gole profonde, che si
uniscono ai piedi del castello. Le pareti a picco offrono ben pochi appigli e
l’unica via d’accesso che non espone il viaggiatore a gravi rischi è quella
che scende dal Nord, lungo l’altopiano. Sul lato settentrionale il castello
presenta una doppia cinta di mura, con otto torri. All’interno della fortezza
vi è un pozzo profondo, che fornisce l’acqua necessaria. Jibrin si può
conquistare solo con un assedio che costringa alla resa una guarnigione
stremata dalla fame. O con il tradimento. Jibrin,
che i saraceni chiamano Qasr al-Hashim, è stato occupato dai templari quando
Denis d’Aguilard si è impadronito di Rougegarde e di Afrin. Esso rientra nel
territorio di Jabal al-Jadid, ma era in rovina e non aveva una guarnigione:
prima della conquista di Rougegarde a opera di Denis d’Aguilard, il castello
non aveva una grande importanza strategica e l’emiro lo aveva abbandonato
dopo che l’intera guarnigione era stata sterminata da un’improvvisa epidemia.
Da allora circolano voci sinistre su Qasr al-Hashim: molti ricordano che
anche la guarnigione precedente era stata massacrata in una guerra. Il
castello ha la fama di essere maledetto. I
templari l’hanno occupato e restaurato e ora esso costituisce un avamposto in
terra saracena. Guillaume
si trova nel castello di Jibrin da tre mesi. Prima è stato in altre
roccaforti. A Jibrin è uno dei monaci più giovani: qui vengono mandati solo
guerrieri esperti. Ma Guillaume, che ha ormai ventisette anni, si è distinto
in diverse occasioni. Il
comandante della guarnigione è Alain da Troyes, un uomo forte, con un grande
ascendente su tutti i monaci della guarnigione. Alain
sembra avere molta stima di Guillaume. Un
giorno Guillaume accompagna il comandante in una perlustrazione dell’area
montuosa a settentrione: Alain vuole verificare se esistono altre vie per
avvicinarsi al castello da nord, oltre a quella che scende dal passo. I
pastori che a volte frequentano l’area sembrano conoscere un sentiero che
permette di salire dalla pianura all’altopiano senza incrociare la pista che
viene abitualmente percorsa per raggiungere Jibrin. E poiché la pianura oltre
i monti è territorio saraceno, da quella direzione potrebbero provenire attacchi. Il
sole è ormai allo zenit, quando Guillaume e Alain si fermano tra le rocce per
lasciar riposare i cavalli e mangiare un po’ del cibo che si sono portati.
Cercano un posto in ombra perché là dove batte il sole il calore è troppo
forte, anche se si è appena all’inizio della primavera. Fino
a ora hanno parlato solo di ciò che vedevano. Adesso però Alain chiede: -
Come ti trovi a Jibrin, Guillaume? -
Bene, comandante. -
Molti lamentano la lontananza da qualsiasi villaggio e dalle terre cristiane.
È davvero un nido d’aquila, questo. -
Andiamo dove dobbiamo servire e non mi dispiace l’isolamento. Sono belli
questi monti selvaggi. Guillaume
guarda le cime intorno a sé, spoglie di vegetazione. Pareti scoscese,
pietraie, vette aguzze: un paesaggio che sembra voler respingere l’uomo, di
una bellezza aspra. -
Anch’io li amo, ma non tutti al forte sarebbero d’accordo con noi. Honoré
dice che sono più adatti alle capre che agli esseri umani. Guillaume
ride: -
Come dargli torto? Le capre si muovono di certo molto meglio di noi su queste
rocce. Eppure queste cime mi trasmettono un senso di pace che non provo
quando sono a Gerusalemme o ad Acri. Alain
annuisce. -
Sì, anch’io provo la stessa sensazione. Ma ad alcuni mancano le donne, ad
altri i ragazzi e i giovani. Poi ci sono quelli a cui va bene così, perché
qui hanno tutto ciò che vogliono. Alain
ride, una risata franca, che fuga ogni dubbio sul senso delle sue parole. Guillaume
è incerto. La franchezza di Alain lo disorienta. -
Noi dovremmo rimanere casti. Guillaume
si pente subito della sua risposta, pavida e falsa, perché non corrisponde né
alle sue azioni, né tanto meno ai suoi pensieri. Alain annuisce. -
Sì, Guillaume. Ma siamo uomini, soggetti al peccato. Siamo guerrieri e
dobbiamo mantenere la nostra forza. Non possiamo spegnere i desideri con
digiuni e penitenze che ci impedirebbero di combattere al servizio di Dio. Alain
fa una pausa, poi prosegue: - Se
il Gran Maestro sentisse quello che ti sto dicendo, mi caccerebbe
dall’ordine. Eppure in tutti i castelli vivono uomini fatti di carne, che
hanno bisogno di soddisfare i loro desideri e lo fanno. Non siamo tra le
ridenti colline di Francia, qui. E io non costringo i miei uomini
all’astinenza. Intervengo a frenarli solo quando qualcuno vuole imporsi con la
forza. Guillaume
sa benissimo che le parole di Alain corrispondono alla verità: si è presto
reso conto che il voto di castità non è osservato dalla maggioranza dei
monaci dell’ordine. Alcuni cercano la compagnia di donne: nelle città non
pochi monaci hanno un’amante, parecchi frequentano le prostitute o cercano
rapporti occasionali. Altri vanno con uomini, o perché ci sono molte più
occasioni, essendovi poche donne cristiane in Terrasanta, o perché risponde
ai loro desideri. I più prendono ciò che possono, senza porsi troppi
problemi. Pochi sono casti. Guillaume
ha colto alcune opportunità che gli si sono presentate, senza mai ricercarle
attivamente. Ma il suo corpo lo tormenta, perché molto di rado ha rapporti. Il
comandante lo attrae, ma Guillaume non sa se sia il caso di farglielo capire.
E non saprebbe come farlo. Tace e anche Alain rimane in silenzio. Mangiano
senza più scambiare parole. A Guillaume spiace che la conversazione sia
finita così. Nel
pomeriggio riprendono il giro di perlustrazione. In effetti c’è un sentiero
da cui pare possibile superare le montagne e scendere verso Jabal al-Jadid. A
differenza della pista principale, non è percorribile a cavallo. Guillaume e
Alain legano le loro cavalcature e si inerpicano fino a raggiungere il passo,
da cui la vista spazia. C’è davvero una traccia che scende dal passo, lungo
una parete a strapiombo: sentiero per capre, più che per uomini, ma che
probabilmente può essere percorso per arrivare fino alla pianura e
raggiungere la città. Molto più sotto c’è un laghetto, dove il fianco della
montagna diventa meno scosceso e si copre di alberi. Difficile che un
esercito salga da questa parte, anche se non si può escludere. - Di
qui il paesaggio è una meraviglia. Ma io sono fradicio. Questa salita mi ha
fatto sudare… -
Sì, anch’io sono tutto sudato. Guillaume
pensa al torrentello che hanno attraversato salendo. Potrebbero lavarsi.
Questo significherebbe spogliarsi. Guillaume lancia la sua proposta come se
fosse del tutto innocente. -
Possiamo rinfrescarci al torrente che abbiamo visto sotto. Guillaume
è in tensione. Spera che il comandante accetti. Alain
annuisce. -
Sì, mi sembra una bella idea. Dopo
aver studiato l’altro versante, Guillaume e Alain scendono fino al torrente, alimentato
da una sorgente. L’acqua è fredda, ma a Guillaume non dispiace. Alain
incomincia a spogliarsi. Quando rimane a torso nudo, in Guillaume il
desiderio si accende. Merda! E adesso? Come può farsi vedere così dal
comandante? Guillaume indugia. Alain
finisce di spogliarsi. Guillaume osserva il corpo forte che si offre al suo
sguardo, le spalle larghe, i fianchi robusti, le gambe e le braccia nerborute
e villose, la peluria più rada sul torace e più fitta sul ventre. Guillaume
cerca di non guardare il sesso del comandante, i suoi coglioni. Ma lo sguardo
scivola in basso. Guillaume
ha la bocca secca. -
Allora, non ti spogli? Devo spogliarti io? Alain
ghigna. Guillaume annuisce, ma non si muove. Alain
si avvicina e gli cala i pantaloni, scoprendo il cazzo teso di Guillaume. -
Vedo che sei già pronto… Alain
ride e la sua risata scioglie le paure di Guillaume. Le loro bocche si
incontrano e i loro corpi si stringono in un abbraccio. Le mani di Alain
stringono forte il culo di Guillaume, poi passano avanti, per afferrare il
cazzo e i coglioni. -
Vuoi che ti prenda, Guillaume? -
Sì. Alain
guida Guillaume a stendersi su una roccia. Gli accarezza la schiena e il culo
con le mani, poi divarica le natiche. Avvicina la cappella, la inumidisce con
la saliva e con lentezza la spinge dentro. Il gemito di Guillaume è di
piacere puro. Alain
spinge in avanti, fino in fondo, finché le palle toccano il culo di Guillaume
e l’arma è tutta dentro. Poi si ritrae e dà inizio alla sua cavalcata.
Guillaume è stato posseduto altre volte, quando ha lasciato che un compagno
lo prendesse, in uno scambio delle parti. In quelle occasioni ha provato un
certo piacere, ma assai meno di quando era lui a penetrare. Adesso invece il
piacere che cresce dentro di lui è forte e anche il cazzo gli si tende. Alain
si muove con un ritmo regolare, a lungo, e Guillaume si abbandona
completamente alle sensazioni che gli trasmette il cazzo che scava dentro di
lui, al leggero dolore che avverte, al calore che gli trasmette il corpo di
Alain sul suo, il cazzo di Alain dentro di lui. È bello essere posseduto, è
bello sentire l’arma che lo riempie. Infine
Alain viene e un fiotto di seme si riversa nelle viscere di Guillaume. La
mano di Alain gli stringe il cazzo e lo guida con pochi colpi al piacere. La
sensazione è tanto forte che Guillaume lancia un grido. Dopo
si lavano al torrente. Alain bacia ancora Guillaume, poi si rivestono
entrambi. Mentre guarda il suo comandante, Guillaume prova una sensazione di
grande gioia. Da quanto tempo non si è sentito così bene? * Il
conte Tancrède d’Espinel arriva al forte di Jibrin nel tardo pomeriggio del
giorno successivo, con due guardie del suo seguito, Raoul e Thierry. Sono
uomini di cui si fida: faranno quello che lui ha ordinato, senza porsi troppe
domande. Ha detto loro che ha un conto in sospeso con il comandante del forte
e che intende saldarlo. Chiede
ospitalità per la notte e ovviamente gli viene accordata subito. Alain da
Troyes è stupito che da queste parti giunga un nobile franco: Jibrin non si
trova lungo le vie di comunicazione che percorrono i territori franchi o
quelli saraceni. Ma il conte racconta di aver deciso di raggiungere Jabal
al-Jadid percorrendo questa strada per essere sicuro di non incontrare
nessuno. Non spiega i motivi che lo spingono ad addentrarsi in territorio
saraceno e Alain non chiede. Poco
dopo arriva uno dei monaci che controllano le vie di accesso al castello: ci
sono truppe saracene in avvicinamento. Alain
decide di mandare un uomo ad avvisare la guarnigione del forte di Pontnoir,
il più vicino. Fa chiamare Guillaume. -
Guillaume, ci sono movimenti di truppe saracene. Pare che si stiano
avvicinando al castello. È opportuno che avvisiamo la guarnigione di
Pontnoir. Preferisco farlo subito, perché domani mattina i saraceni potrebbero
essere vicino al forte, se davvero sono diretti qui, e quindi non sarebbe più
possibile comunicare con Pontnoir. Guillaume
ascolta, senza dire nulla. -
Partirai subito. Tu conosci bene l’area. Procedi con prudenza: i saraceni non
sono molto lontani. Tieniti ai margini della pista e poi prendi il sentiero
per il passo del Cane. Per alcune ore avrai la luce della luna a guidarti,
poi sarà più difficile, ma il buio ti nasconderà agli occhi di eventuali
spie. È tutto chiaro? -
Sì, comandante. -
Devo ancora dirti una cosa. Con
un gesto Alain da Troyes congeda il monaco che ha portato la notizia. Questi
esce. Alain
si avvicina a Guillaume, gli prende il viso tra le mani e lo bacia sulla
bocca. -
Fa’ attenzione, Guillaume. Non esporti invano. Il
desiderio afferra Guillaume. Vorrebbe stringere Alain, amarlo, ora, ma non è
possibile. A fatica si stacca dal comandante. Lo guarda, immobile e
sorridente alla luce della lanterna. Sente un brivido, un presagio di morte.
Cerca di dissiparlo. Esce dalla stanza. Prende il suo cavallo e lascia il
castello. L’aria
fredda della notte dissipa il senso di angoscia che lo ha preso prima.
Cavalcando Guillaume pensa ad Alain come lo ha visto al torrente e il suo
desiderio si accende in un attimo: il rapporto con il comandante ha risvegliato
un animale per troppo tempo tenuto in gabbia. Guillaume si china in avanti
sul cavallo, in modo che il cazzo prema contro la sella. È il movimento
stesso del cavallo a trasmettergli sensazioni violente, che dal cazzo si
diffondono in tutto il corpo. Guillaume rivede nella mente Alain, il corpo
forte che lo ha posseduto, che lo prenderà altre volte. E il fiotto prorompe. Guillaume
si rimette in posizione sulla sella. Non ha saputo controllarsi: è assurdo,
non è più un ragazzo. Ma il desiderio era troppo violento. Guillaume
percorre la pista fino a un bivio; qui prende in direzione del castello di
Pontnoir. La
luna è tramontata e la pista è avvolta nell’oscurità, quando arrivano le
truppe saracene comandate da Abdul Qaadir. * Alain
si sveglia nel cuore della notte. Le grida che sente non lasciano dubbi: il
castello è attaccato, la battaglia è già in corso. Come è possibile che le
sentinelle non abbiano dato l’allarme, perché nessuno è venuto a chiamarlo? A
Jibrin la vigilanza è continua. Alain
sta vestendosi rapidamente, quando i soldati saraceni irrompono nella sua
stanza. Il nemico è già dentro il castello, ogni difesa è impossibile. Prima
che Alain riesca a brandire la spada, i soldati gli sono addosso e lo
bloccano. Alain viene trascinato fuori, dove, alla luce delle torce, può
vedere diversi dei suoi uomini, molti dei quali nudi, che sono stati appena
catturati: l’attacco è avvenuto di sorpresa e pochi hanno avuto la
possibilità di difendersi. Quei pochi sono morti. Ai
prigionieri vengono legate le mani dietro la schiena, poi vengono spinti
nella cella sotterranea, ammassati come bestie. Nella cella a fianco vengono
rinchiusi i servitori. C’è
un momento di grande confusione: non c’è nessuna luce nelle due celle e,
spinti dentro dai carcerieri, molti templari sono finiti gli uni addosso agli
altri. Tra imprecazioni e qualche bestemmia, riescono infine a sistemarsi.
Devono stare seduti, perché lo spazio non è sufficiente per distendersi. All’inizio
parlano tutti insieme, poi Alain riesce a farsi sentire. -
Tacete, ora. Cerchiamo di capire che cosa è successo. -
Non so, ce li siamo trovati addosso mentre dormivamo. -
Perché le sentinelle non hanno dato l’allarme? - Li
hanno ammazzati. Ho visto il corpo di Guillaume con la gola tagliata ai piedi
delle mura. Per
un attimo Alain pensa a Guillaume di Hautlieu, poi si ricorda che di guardia
era Guillaume Muset e che Guillaume di Hautlieu è lontano dal forte.
Mentalmente ringrazia Dio di questo. -
Come è stato possibile? Non possono essersi arrampicati sulle mura senza che
le sentinelle li vedessero: stavano in guardia, sapevano che c’erano truppe
saracene nella zona. -
Qualcuno ha tradito. -
Che importa? Ci uccideranno tutti. Siamo vitelli da scannare, ormai. Tutti
sanno che le regole dell’ordine vietano di pagare il riscatto di chi cade
prigioniero: li aspetta la morte o, nel migliore dei casi, una schiavitù
sotto stretta sorveglianza. -
Potrebbero mandarci nelle miniere. -
Per morire di stenti dopo mesi di lavoro al buio? Meglio essere uccisi
subito. Alain
tace. Si sente in colpa. Gli sembra di essere venuto meno al suo dovere nei
confronti di questi uomini, che gli erano stati affidati e che non ha saputo
proteggere. Poi si riscuote. -
Preghiamo. Alain
recita le preghiere ad alta voce e gli altri monaci si uniscono. Poi Alain
invita tutti a cercare di riposare. Cala il silenzio. Alain
rimane sveglio. Cerca una spiegazione, ma non riesce a capire. Forse un
tradimento, come ha detto Louis? È possibile? Ma chi, come? È
difficile dormire così ammassati, con la certezza della morte incombente.
Molti non provano neppure. Alcuni pregano ancora. Quando
sorge il sole, i prigionieri vengono fatti uscire dalle celle e portati nello
spiazzo davanti al castello. Tutti hanno le mani legate dietro la schiena.
Alain guarda i suoi uomini, che tra poco verranno uccisi. Thibault
è il primo a morire. Verso mattino è riuscito a sciogliere la corda che gli
legava le mani. Ha provato a liberare uno dei compagni, ma non c’è riuscito.
Adesso finge di avere ancora le mani legate, ma quando esce, si scaglia su
uno dei soldati e riesce a prendergli la spada. Prima che possa usarla, un
altro soldato gli infila la lancia nella schiena. La punta esce poco sopra
l’ombelico. Thibault lascia cadere la spada. La sua testa ondeggia un momento,
poi il soldato ritira la lancia e il corpo di Thibault cade a terra. Thibault
boccheggia. Del sangue gli esce dalla bocca. Alain
si guarda intorno. I suoi uomini ci sono quasi tutti: pochi sono stati uccisi
quando il castello è stato conquistato. Alain però non vede né il conte
d’Espinel, né i suoi due uomini. Saranno stati uccisi nella stanza in cui
riposavano? I
saraceni costringono tutti a inginocchiarsi. Poi, a un cenno di Abdul-Qaadir,
i servi sono sgozzati, uno dopo l’altro, nonostante le loro suppliche e le
grida. Alain si stupisce: i servitori di solito vengono catturati per essere
utilizzati o rivenduti come schiavi; non c’è motivo per ucciderli. Sembra
quasi che vogliano eliminare ogni testimone di quanto è avvenuto. Di
colpo Alain capisce. È davvero così. Il conte d’Espinel non è stato ucciso
con i suoi uomini. Ha tradito. È stato lui a uccidere le sentinelle, aprire
la porta della fortezza e permettere ai saraceni di entrare. Di certo è già
lontano. Alain
fissa Abdul-Qaadir e gli sibila: - Vigliacco.
Con il tradimento, nel buio della notte, hai preso questa fortezza. Non hai
avuto il coraggio di assaltarla a viso aperto. Le
parole di Alain irritano Abdul-Qaadir. Poco gli importa della lealtà, quando
si tratta di combattere i nemici del vero Dio, ma sentirsi dare del vigliacco
non gli piace, tanto più sapendo che nelle parole del comandante c’è molto di
vero. -
Bada a quello che dici, porco cristiano. Alain
ha una smorfia di disprezzo. - È
così, sei un vile. Abdul-Qaadir
sguaina la spada. -
Bada, ti farò pentire delle tue parole. Alain
ha un sorriso di scherno. -
Non ti temo, vigliacco. Abdul-Qaadir
si volge a due dei suoi uomini. -
Spogliatelo. Gli
uomini afferrano Alain, lo sollevano e gli tagliano la tunica e i pantaloni,
lasciandolo nudo: altro Alain non ha fatto in tempo a mettersi prima di
essere catturato. -
Mettetelo su quel masso, a pancia in giù. Alain
non capisce che cosa vuole fare il comandante nemico. Lo farà fustigare? -
Musa, Taslim, incominciate voi. Inculate questo finocchio. Alain
grida: -
Infame! Non puoi fare questo! Abdul-Qaadir
ride. I
due uomini sono alti e massicci: Abdul-Qaadir non li ha scelti a caso. Alain
cerca di alzarsi, ma quattro soldati lo tengono in posizione. Musa entra con
una spinta decisa e Alain fa fatica a non urlare. Il soldato fotte il
comandante nemico con grande gusto e Alain sente il cazzo del saraceno
lacerargli le viscere. Si morde il labbro. Il soldato ci dà dentro e quando
infine viene e si ritrae, ha il cazzo sporco di sangue. Il suo posto è preso
dal secondo soldato. L’ingresso strappa un gemito ad Alain. Il cazzo scava
nella carne martoriata, a fondo. Il dolore cresce. L’uomo continua a fottere
e infine viene, con un urlo di soddisfazione. Anche lui ha la cappella
insanguinata. Dopo
di loro altri quattro uomini inculano il comandante, davanti a tutti i
monaci. Quando
hanno finito, sangue e sborro colano in abbondanza dal culo di Alain. -
Sollevatelo e tenetelo fermo. Alain
guarda il comandante saraceno. Abdul-Qaadir ha sguainato la sua scimitarra.
Appoggia la lama sul cazzo di Alain, che impallidisce. La lama, mossa con un
gesto rapido e sicuro, recide il sesso. Alain grida, un “No” disperato. -
Legatelo per i piedi. Gli
uomini passano una corda alle caviglie di Alain e poi l’attaccano alla sella
di un cavallo. Abdul-Qaadir sale sul destriero e lo lancia al galoppo. Alain
cade subito e l’animale lo trascina sui sassi e gli sterpi. Quando
Abdul-Qaadir ritorna tra gli altri uomini, il corpo di Alain è una massa di
sangue e carne senza più una forma precisa. -
Adesso decapitate gli altri. L’ordine
viene eseguito. Nessuno sopravvive. Le teste dei templari vengono infilate su
picche, piantate davanti al castello. I corpi vengono gettati nel baratro che
si apre ai piedi della fortezza, dove avvoltoi e altri animali si ciberanno
di loro. Il corpo di Alain viene lasciato davanti alle mura. Gli uomini
pisciano sul cadavere prima di andarsene. Ora
che non è rimasto più nessuno della guarnigione cristiana, Abdul-Qaadir si
rivolge a Ramzi ibn Qais, che ha partecipato all’assalto con quindici dei
suoi uomini. Ramzi fa parte di un gruppo musulmano, i nizariti, che controlla
diversi castelli più a nord. Nur ad-Din ha deciso che il castello venga
consegnato a lui. -
Ramzi ibn Qais, come ha stabilito il mio signore, Nur ad-Din, ti affido Qasr
al-Hashim. Ramzi
fa un leggero cenno con la testa. Non è nemmeno un inchino, solo un movimento
del capo appena percettibile. Ramzi
guarda le truppe di Abdul-Qaadir allontanarsi. Sorride. Qasr al-Hashim è il
posto ideale per i suoi progetti: è difficile da espugnare, facile da
difendere, isolato, abbastanza lontano dalle città, in una posizione
strategica, con una fama di luogo maledetto che è un’ulteriore difesa. * Tancrède
d’Espinel cavalca lungo la pista che scende nei territori dell’emiro di Jabal
al-Jadid. Raoul e Thierry lo seguono, in silenzio. È ormai giorno, ma
procedono piano, perché sulla destra del sentiero si apre un precipizio. Raoul
pensa a quanto è successo nella notte. Tancrède aveva detto loro di avere un
conto in sospeso con Alain da Troyes e con la guarnigione del castello. C’era
qualcuno da uccidere. Non era un problema per Raoul e Thierry: entrambi hanno
già ucciso, in guerra e in tempo di pace. Hanno sgozzato le sentinelle come
il conte ha ordinato. Hanno aperto le porte. E sono entrati i saraceni.
Nessuno dei due se l’aspettava. Avrebbero dovuto pensarci: chi altri avrebbe
potuto voler prendere il castello? Nessuno
dei due ha detto niente, ma entrambi sono turbati. Tancrède
d’Espinel si ferma in un punto in cui c’è una biforcazione. -
Voi rimanete qui. Senza
dare nessuna spiegazione, il conte sprona il cavallo e prende un sentiero che
si dirige verso l’alto, lasciando i suoi due uomini sulla pista. Raoul
e Thierry si guardano. È il primo momento in cui sono da soli e possono
parlare liberamente, ma nessuno di loro trova le parole. Infine
Raoul dice: - Tu
non ne sapevi niente? Dei saraceni, intendo. -
No, neanche tu, vero? Raoul
scuote la testa. -
Merda! -
Non so che cosa gli avesse fatto Alain da Troyes, ma… consegnare un forte ai
nemici… merda! Nuovamente
rimangono in silenzio. C’è ben poco da dire. Raoul
alza la testa e guarda nella direzione in cui è scomparso il conte. Vede i
saraceni che stanno alzandosi per tendere l’arco e scagliare le frecce. Otto
arcieri, poco lontano. -
Via! Raoul
sprona il cavallo, Thierry lo segue, ma non è abbastanza rapido. Gli arcieri
hanno già teso l’arco e quattro frecce trafiggono Thierry alla schiena. Il
soldato si inarca e cade dal cavallo. A terra striscia ancora, per sfuggire a
una morte che lo ha già afferrato. Raoul
non viene colpito: Thierry si è trovato tra lui e gli arcieri. Ma il suo
cavallo è raggiunto alla coscia e si impenna con un nitrito. Raoul cade e
scivola lungo la parete a lato del sentiero, verso il precipizio e la morte. Raoul
riesce a fermare la sua caduta, aggrappandosi a un arbusto. Tra poco i
saraceni raggiungeranno la pista e si sporgeranno per controllare che sia
precipitato al fondo del burrone. Se lo vedono, lo uccideranno. Raoul vede
alcuni massi. Cercando di non scivolare, li raggiunge e si ripara sotto di
loro. Non vedendolo, forse penseranno che sia caduto in fondo al precipizio e
che sia morto. Thierry
si trascina ancora sulla pista, inseguendo una salvezza impossibile, ma un
saraceno è su di lui. Gli afferra la testa con la sinistra e gli taglia la
gola con un coltello. Poco
dopo Raoul vede il corpo di Thierry che precipita: i saraceni lo hanno
scagliato nel burrone. Raoul
si chiede se i saraceni crederanno davvero che sia morto, se riuscirà a
tornare alla pista, se potrà sfuggire a coloro che volevano ucciderlo. Per il
momento è vivo, questa è l’unica certezza. Mentre
attende che il tempo passi, Raoul riflette su ciò che è accaduto. I saraceni
erano lì solo per caso? Il conte li ha lasciati proprio nel punto in cui
erano appostati i saraceni per una coincidenza? A Raoul non sembra probabile.
Se è così, la vita di Raoul non vale nulla in territorio cristiano: Tancrède
d’Espinel cercherebbe di farlo di nuovo uccidere e se Raoul lo denunciasse,
anche lui verrebbe giustiziato, per aver ucciso le sentinelle del forte.
Raoul guarda in basso, verso il territorio di Jabal al-Jadid. In territorio
saraceno sarebbe riconosciuto come cristiano: i suoi capelli biondi non gli
permetterebbero certo di confondersi tra gli arabi. Ora che è in corso una
guerra, rischierebbe di diventare schiavo. Potrebbe cercare di unirsi a
qualche mercante cristiano che ha l’autorizzazione a viaggiare anche in tempo
di guerra e ritornare poi nei regni franchi lontano dal conte. Qualunque
strada presenta molte incognite e molti pericoli. Raoul
attende fino a sera. Poi, dopo che il sole è tramontato, si sporge dal suo
rifugio. In alto non sembra esserci nessuno. Non è facile risalire e
basterebbe mettere un piede in fallo per precipitare nell’abisso. Studiando
bene il percorso da seguire, Raoul raggiunge la pista. Non c’è nessuno. Raoul
si avvia in direzione di Jabal al-Jadid. La
riunione a palazzo si svolge in gran segreto. Amalrico ha invitato soltanto
quattro dei notabili più fidati, tra i quali Denis d’Aguilard. Con il re c’è
il provenzale Bertran di Cabestanh, il cavaliere templare a capo dell’ordine
in Terrasanta. -
Come di certo saprete, il castello di Jibrin è stato conquistato dai
saraceni. I templari che lo presidiavano sono stati tutti passati a fil di
spada. Le loro teste sono state infisse su picche davanti alle mura del
castello, che ora è in mano ai saraceni. Alain da Troyes… Amalrico
si passa una mano sulla fronte e conclude: -
…ha avuto una fine orrenda. Bertran
aggiunge: -
Qualcuno ha di certo tradito. La guarnigione del forte non può essersi lasciata
sorprendere in questo modo. C’è
un momento di silenzio. Denis sa di avere la risposta alla domanda inespressa
dal re: ha messo insieme le informazioni in suo possesso e non è stato
difficile giungere alla conclusione esatta. - In
alcune occasioni ho avuto dubbi sul ruolo del conte d’Espinel. - Il
conte d’Espinel? - Il
conte era al castello quando i saraceni lo hanno espugnato. Vi è giunto il
giorno di San Gregorio. -
Come potete dirlo? -
Guillaume di Hautlieu era al castello quando il conte vi arrivò, chiedendo
ospitalità per la notte. Il comandante inviò Guillaume ad avvertire la
guarnigione di Pontnoir, per cui è stato l’unico a scampare al massacro. C’è
un momento di silenzio. Tutti sanno che cosa significano le parole del duca
di Rougegarde. Amalrico
annuisce. -
Avevo anch’io dei dubbi, duca. Il comportamento del conte nella battaglia in
cui voi mi avete salvato la vita parve sospetto anche a me. Una ritirata
improvvisa, che non sembrava avere nessuna giustificazione. Allora avevo
pensato a viltà, ma poi, riflettendoci… Il
re non conclude il discorso. C’è un attimo di silenzio, poi interviene
Bertran. -
Scopriremo la verità. Il conte parlerà. Che
cosa intenda il templare, è evidente a tutti. C’è un solo modo per ottenere la
confessione di un crimine per cui è previsto un supplizio atroce: la tortura.
Bertran
guarda Amalrico, che annuisce. -
Prima di sottoporre a tortura un nobile, occorrono prove certe. Sentirete
l’uomo di cui ci parla il duca. Duca, non potrebbe essere stato questo
Guillaume a tradire? Potrebbe mentire per salvarsi. Denis
scuote la testa. - Lo
escludo, sire. Bertran
concorda: -
Anch’io sono sicuro che non può aver tradito. Conosco Guillaume di Hautlieu:
è uomo saggio e valoroso, che di certo non mente. Parlerò con lui al più
presto. Amalrico
annuisce ancora. Denis
dice: - So
che il conte si trova a San Giacomo d’Afrin. - Lo
faremo arrestare e interrogare là. Se gli ordinassi di venire a Gerusalemme,
potrebbe sospettare di essere stato scoperto e cercare di fuggire tra i
saraceni. * Tancrède
entra nella prigione. Sa che non ne uscirà vivo. Il supplizio che lo attende
è atroce, ma gli sembra che una parte di lui quasi provi sollievo al pensiero
che l’incubo stia per finire. - È
un piacere accoglierla, conte. Tancrède
guarda il carceriere. Gli sembra di aver già visto una volta, molti anni fa,
un viso completamente sfigurato come quello di quest’uomo, che ora gli
sorride. È orrendo il sorriso in questa faccia che per metà è solo una grande
cicatrice, estesa a coprire anche un occhio. -
Non si ricorda di me, signor conte? Mi chiamo Mathieu. Fummo catturati
insieme alla battaglia di Safad. Ma ci eravamo conosciuti già prima. Tancrède
ricorda. Il ragazzo che Egbert scopava, che anche lui scopò, il giorno prima
della battaglia. Il primo che aveva posseduto. Mathieu
sorride: -
Chi non muore si rivede. * - Il
conte Tancrède d’Espinel è un traditore. Ha consegnato il forte di Jibrin ai
saraceni. Jacques Longuemain è un suo complice. Lo ha rivelato il conte sotto
tortura. Quando
Renaud ha finito di parlare, Olivier aggiunge alcuni dettagli. Charles
di Soissons è furibondo. -
Merda! Questo significa che i suoi beni saranno sequestrati. Jeanne non
erediterà nulla. Bell’affare, questo cazzo di matrimonio che mi hai imposto. Renaud
storce la bocca. Anche lui non è per nulla contento dell’arresto del suocero
di Charles, che li priva di un facile accesso a grandi quantità di denaro, ma
le lamentele del fratello gli danno fastidio. - La
dote le rimane. E ci è servita. - È
servita a te per diventare signore di questa città. - Ed
è servita anche a te: sei barone. Charles
stringe i pugni. Non può più contare sulle ricchezze del suocero. Olivier
dice: -
Dovrai dare la notizia alla tua consorte. Charles
si volta verso il fratello, come se lo avesse morso un serpente: -
Dagliela tu, stronzo. Tanto… Non
completa la frase. Se ne va dalla stanza. Renaud
è pensieroso. - Il
tradimento di Jacques Longuemain è un bel problema. Speriamo di non venire
coinvolti anche noi. È il suocero di Charles. Olivier
scrolla le spalle. -
Non credo. Abbiamo sempre combattuto lealmente. Ed escludo che la piccola
Jeanne sospettasse alcunché delle attività del padre. È troppo stupida. * È
passato un mese dalla cattura del conte, che verrò giustiziato dopodomani.
Oggi però c'è un'anteprima dello spettacolo e la piazza principale di San
Giacomo d'Afrin rigurgita di una folla vociante, che guarda le forche
drizzate su una piattaforma. Il brusio della folla si accentua quando
qualcuno annuncia l'arrivo dei condannati, che sfilano tra due ali di
soldati. Sono
gli uomini della guardia personale del conte d'Espinel, che verranno
impiccati oggi per tradimento. André
Saint-Martin cammina a fatica. Gli hanno ustionato le piante dei piedi e un
ginocchio è quasi slogato. Per due volte cade per terra e viene costretto a
rialzarsi dai calci dei soldati. Sono stati torturati tutti e infine molti
hanno confessato, per sfuggire ai tormenti. Confessioni fasulle: nessuno
sapeva del tradimento del conte. Nessuno è stato in grado di fornire
informazioni utili, ma ora verranno giustiziati per un tradimento a cui non
hanno preso parte. Ora
i dodici uomini sono sulla piattaforma. Il boia passa un cappio al collo di
Baudri e tirando la corda costringe il condannato a raggiungere una scala a
pioli appoggiata alla forca. Il boia sale la scala e Baudri, le mani legate
dietro la schiena, è forzato a mettere i piedi sui gradini, guardando la
folla che inveisce contro di lui. Il boia lega la corda alla forca e molla un
calcio a Baudri, facendolo cadere dalla scala. Il salto provoca la brusca
tensione della corda, che spezza il collo del condannato. La morte di Baudri
è immediata. Non
tutti sono ugualmente fortunati: il cappio di Gilbert, legato male, si
scioglie e l'uomo cade al suolo, spezzandosi le gambe. Il boia è costretto a
trascinarlo di peso una seconda volta lungo la scala, mentre Gilbert urla per
il dolore. Tre degli uomini non muoiono subito, ma penzolano a lungo,
scalciando disperatamente, mentre la corda lentamente si stringe intorno al
loro collo, mozzando loro il respiro. Due di loro sono ancora vivi quando
arriva il turno di André, il capo delle guardie, che viene impiccato per
ultimo. Anche
André non ha la fortuna di morire subito. Quando la corda incomincia a
stringersi, André incomincia una danza frenetica, che serve solo a far
stringere ancora di più la corda intorno al collo. Cerca invano di liberare
le mani e dai polsi martoriati dalla corda scende un po' di sangue. Il dolore
al collo e il fuoco che arde i suoi polmoni sono sensazioni violente, più
forti di tutto, anche dell'erezione provocata dalla pressione della corda.
André è ancora cosciente quando viene, tra i lazzi della folla che guarda
l'allargarsi della macchia sulla sua tunica. Solo lentamente la coscienza
svanisce, mentre la saliva gli cola dalla bocca e il muco dal naso. La
lingua, violacea, si sporge fuori. Infine il movimento si arresta e André
rimane immobile. * Mathieu
accompagna in cella Tancrède d’Espinel e lo spinge in avanti, bruscamente.
Quando i piedi ustionati toccano il pavimento della cella, il conte chiude un
attimo gli occhi, sopraffatto dal dolore. L’uomo richiude la porta alle
spalle di Tancrède. Tancrède
si inginocchia. Non vuole pregare, non è uomo da rivolgersi a Dio, neppure
ora che sta per morire: stare in ginocchio è la posizione meno dolorosa. Le
ferite aperte dalle frustate sulla schiena e sul culo gli impediscono di
sdraiarsi supino. Stendersi a pancia in giù significherebbe premere contro il
pavimento i coglioni gonfi e doloranti. Più
tardi, per l’ultima notte della sua vita, Tancrède cercherà di mettersi su un
fianco, perché non può rimanere tutto il tempo in ginocchio. È
sera, ormai. Tra poco gli porteranno da mangiare e da bere. Tancrède mangerà
dalla scodella chinandosi in avanti: non può usare le mani, perché le sue
dita sono state tutte spezzate. Alla
fine Tancrède ha confessato di aver consegnato Jibrin ai saraceni. Se
Tancrède avesse confessato subito, come gli era stato suggerito, sarebbe
stato decapitato, risparmiandosi le torture e la pena infamante che lo
aspetta domani. Ma il conte non voleva ammettere il tradimento e a lungo si è
rifiutato di riconoscersi colpevole, finché ha capito che la sua resistenza
era insensata. Ora
è per l’ultima notte nella prigione in cui ha trascorso un mese, in mano ai
suoi aguzzini. La
porta si apre. Entrano il boia e Mathieu. Non portano da mangiare, solo una
scodella con l’acqua. Del cibo poco importa a Tancrède, fino a domani mattina
può rimanere senza mangiare. Ma la gola è secca e berrà volentieri. Il
boia lo spinge a terra con un calcio ben assestato. Tancrède mette le braccia
in avanti, cercando di non toccare il pavimento con le dita, ma quando il suo
corpo urta contro il suolo, il dolore ai coglioni e alle mani è tanto forte
da accecarlo. -
Visto che domani ti squartano, adesso ci divertiamo un po’ con te. L’uomo
gli solleva la corta tunica, l’unico indumento che Tancrède indossa,
scoprendogli il culo. Il conte è stupito: sa benissimo che i carcerieri e i
boia spesso fottono le prigioniere e i giovani maschi. Ma Tancrède ha oltre
quarant’anni e la vita che ha condotto ha lasciato le pesanti tracce sul suo
viso e sul suo corpo, cancellando completamente l’antica bellezza. Si
sorprende che qualcuno possa desiderare il suo culo. Le parole del boia gli
spiegano le ragioni dell’uomo: -
Non capita tutti i giorni di metterlo in culo a un conte. Tancrède
non è in grado di difendersi. E di fronte a quanto ha passato in queste
quattro settimane, a quanto lo aspetta domani, non è certo una violenza a
spaventarlo. È solo un’umiliazione che si aggiunge alle altre subite. Per
molti anni ha amato essere posseduto. Possono prenderlo ancora una volta. -
Aspetta, Jaufré. Preparo la strada. Tancrède
non capisce le parole di Mathieu. Ma ora contro il buco del culo preme
qualche cosa, che non è il cazzo di Mathieu. Il conte impiega un momento per
capire che è una mano, con le dita strette le une contro le altre. Per quanto
l’apertura sia dilatata dai tanti rapporti avuti, l’ingresso è doloroso.
Tancrède geme. Mormora: -
Maledetto! Mathieu
ride. La
mano entra dentro e Tancrède geme più forte. Poi la mano si chiude a pugno e
Tancrède trattiene a fatica un urlo. Ma quando il pugno viene estratto con forza,
il grido prorompe, altissimo. Il conte perde i sensi. A
destarlo è l’ingresso del boia, che entra con violenza nell’apertura
sanguinante, facendo esplodere la sofferenza. L’uomo si appoggia su Tancrède
ed il peso di quel corpo riaccende il dolore delle ferite sulla schiena e sul
culo e quello, ancora più forte, dei coglioni martoriati. Eppure è nulla in
confronto a ciò che quell’uomo gli farà domani. E il conte si dice che è
giusto, che la violenza del boia è davvero l’ultima tappa da percorrere prima
della fine: l’uomo che lo castrerà e lo ucciderà, ora lo fotte. Può farlo. Un
mese fa il boia si sarebbe inchinato fino a terra davanti a lui. Ma Tancrède
non è più un conte, anche se ancora lo chiamano così, ironicamente: è stato
privato del titolo. Domani, prima di morire, non sarà più nemmeno un uomo. Il
boia ansima e bestemmia liberamente, tanto Tancrède non potrà raccontare più
nulla a nessuno: -
Dio bastardo, un culo di signore, di quelli che mangiano carne tutti i
giorni. L’uomo
lavora con energia e ogni spinta accende lampi di dolore nel corpo di
Tancrède. Non sono solo le ferite al culo ed alla schiena, i coglioni gonfi.
Ora che il cazzo dell’uomo gli dilata le viscere lacerate, il dolore che sale
dal culo è violento. Tancrède trattiene a fatica l’urlo, non vuole dare
questa soddisfazione al boia. Il
boia spinge a lungo, finché non viene. Geme forte, quasi un grugnito, spinge
ancora due volte e si ritrae. Appena
il peso dell’uomo scompare, subito un nuovo corpo schiaccia al suolo
Tancrède: Mathieu ha preso il suo posto. Ha il cazzo meno grosso ed il buco
del culo è lubrificato dallo sborro del boia, ma le viscere sono state
dilaniate e l’ingresso riaccende il dolore e lo fa crescere. Mathieu
spinge con violenza, ma viene in fretta e si ritrae. - Cazzo,
‘sto stronzo mi ha smerdato. Il
boia ride. - Ci
puliamo. C’è qui l’acqua. Prende
la scodella con l’acqua per il prigioniero e ci immerge il cazzo, ripulendolo
con le dita. Il carceriere ride e, quando il boia ha finito, fa altrettanto.
Una parte dell’acqua è caduta a terra, la scodella è mezza vuota. -
Forse questa acqua non ti basta. Ne aggiungiamo un po’. Il
boia riprende la scodella e la mette sotto il cazzo. Incomincia a pisciare,
fino a riempire il recipiente. -
Ora puoi dissetarti. Tancrède
si è messo in ginocchio, a fatica, facendo leva sui gomiti. Guarda il boia,
senza dire nulla. Guarda le mani dell’uomo, che domani lo castreranno. Il
carceriere dice: -
Bevi, conte, bevi! Il
boia gli avvicina la scodella alle labbra. Tancrède tiene la bocca chiusa, ma
il carceriere gli stringe il collo con una mano, costringendolo a socchiudere
la bocca. Il boia gli versa un po’ del liquido in bocca, altro gli cola dal
mento sul torace. Poi l’uomo passa la scodella al carceriere. Questi piscia
fino a riempirla e la posa a terra. -
Quando hai sete puoi bere, conte. I
due escono. Nella
notte Tancrède beve quello che rimane nella scodella. Il
mattino vengono a prenderlo. Aprono la porta della cella e Mathieu spinge
fuori Tancrède. Il tragitto dal carcere fino alla piazza dell’esecuzione è
breve, ma per i piedi di Tancrède è una tortura che solo la sua forza di
volontà gli permette di tollerare. I soldati imperiali si fanno strada tra la
folla che dileggia il conte, lo insulta, gli ricorda la fine che lo aspetta.
Un uomo gli sputa in faccia. Tancrède sente una trafittura al culo: una donna
lo ha ferito con uno spillone. Tancrède avanza, strattonato dai soldati che
cercano di farlo camminare più in fretta. Altri gli sputano addosso, piccole
ferite si aprono sul suo corpo, benché i soldati cerchino di tenere lontano
la gente. Tancrède
sente l’odio assoluto della folla. Sa che questi uomini, queste donne, questi
bambini – perché i bambini sono stati portati ad assistere allo spettacolo - vedono
in lui il nemico, vogliono distruggerlo come vorrebbero annientare i saraceni
che li minacciano. L’odio nasce dalla paura. Infine
Tancrède è in piazza e a fatica sale i gradini che portano al patibolo. Solo
quando è sull’ultimo gradino vede davanti a sé la forca, da cui pendono
dodici corpi. Sono gli uomini della sua guardia personale, che sono stati
impiccati, ieri o più probabilmente il giorno precedente, a giudicare
dall’odore che si sente. André Saint Martin, Jehan, Baudri, Gilbert e tutti
gli altri. Nessuno di loro sapeva, nessuno di loro ha tradito, ma ora sono
cadaveri in decomposizione, gli insetti camminano sui loro occhi spalancati,
sulle bocche aperte, sulle lingue che sporgono, sulle gambe e le braccia
nude, sulle tuniche, l’unico indumento che indossano. Il
boia strattona Tancrède, che si è fermato. Con l’aiutante, stende il conte a
braccia e gambe divaricate su una tavola di legno, legandogli le caviglie e i
polsi: il corpo di Tancrède forma una grande X. La tavola viene sollevata,
dalla parte dei piedi, per cui Tancrède si ritrova a testa in giù: ora il
ripiano è messo quasi in verticale, in modo che tutti possano vedere la
tortura del conte. Il boia è davanti a lui. Ha un cappuccio nero ed è a torso
nudo. Tancrède solleva un po’ la testa e gli guarda le grosse mani pelose.
Rabbrividisce. Poi guarda il rigonfio dei pantaloni e pensa che quell’uomo
che sta per castrarlo lo ha inculato ieri sera. Il
boia ha un grosso coltello, con cui taglia la tunica di Tancrède,
strappandola via. Ora il conte è nudo. Le urla della folla crescono di
intensità. Il
boia prende un attrezzo di legno, una piccola morsa con due rotelle per
stringere. L’uomo afferra i coglioni di Tancrède con la mano e il conte
sussulta: lo scroto è gonfio e violaceo per i colpi subiti e il semplice
contatto accende scintille di dolore. Il boia dispone la morsa in modo che i
coglioni rimangano tra le due assicelle di legno. Poi guarda il viso di
Tancrède, sorride, e incomincia a girare una rotella. Nella
piazza si è creato un grande silenzio. Tancrède non si rende conto di aver
incominciato a gemere. La folla beve i suoi lamenti. Il
boia stringe ora una rotella, ora l’altra. Le due assi si avvicinano,
schiacciando i coglioni di Tancrède. Il gemito diventa una specie di rantolo,
che si interrompe continuamente e poi riprende, spasmodico. Il corpo di
Tancrède è percorso da rivoli di sudore che scendono dal ventre e dal torace
alle spalle. Tancrède
solleva la testa e guarda il boia che continua la sua opera. Il dolore cresce
a livelli che Tancrède non ha mai provato, per quanto nelle ultime settimane
abbia subito torture di ogni genere. Il conte non riesce a tollerare questa
sofferenza atroce. E poi, di colpo, uno dei coglioni cede. Tancrède perde i
sensi. Il boia sistema meglio l’altro coglione nella morsa e riprende a
girare la rotella. Il dolore risveglia Tancrède, che urla, con una voce roca,
tre volte: -
No! No! No! Di
nuovo un dolore tremendo. Il boia toglie la morsa. Il mondo sembra oscillare
davanti agli occhi del conte. La mano del boia afferra la sacca in cui i
coglioni del conte sono ormai una poltiglia. Il contatto di quelle dita
strappa un nuovo urlo a Tancrède. Il
boia ha un grande coltello in mano e lo mostra a Tancrède. Lo alza, per farlo
vedere bene alla folla. Infinite urla si levano. Il boia abbassa il braccio e
allora ritorna il silenzio. Il corpo di Tancrède è ricoperto di sudore. Dal
culo del condannato un po’ di merda scivola sulla tavola. Il
boia passa la lama dietro alla sacca dei coglioni e incomincia a tagliare. Il
coltello recide. Tancrède vorrebbe urlare, ma non ha più voce. Nuovamente
perde i sensi, ma l’incoscienza dura solo un attimo, la sofferenza lo riporta
alla realtà. Riapre gli occhi e vede che il boia mostra il suo trofeo alla
folla esultante. Il
boia getta sulla piattaforma lo scroto di Tancrède. La tavola viene calata e
le corde che tengono il conte sciolte. Tancrède
viene sollevato. Si china in avanti e vomita, mentre solo le braccia dei due
aiutanti del boia lo tengono in piedi. I due uomini lo trascinano verso la
scala che scende dall’estremità opposta della piattaforma, dove è stato
costruito un vasto recinto. Tutt’intorno la folla preme. Tancrède
fa fatica a stare in piedi, gli uomini lo sostengono e lo fanno scendere.
Tancrède incomincia a pisciare, senza nemmeno rendersene conto. In
mezzo al recinto ci sono quattro cavalli. Ognuno di essi ha sui fianchi due
stanghe, unite l’una all’altra da un asse di legno. Tancrède
respira a fondo e cerca di drizzarsi. Tra poco tutto sarà finito. Gli uomini
che lo sorreggono lo lasciano. Tancrède incomincia ad avanzare. Ogni passo è
una tortura, ma il conte non vuole cedere. Tancrède
arriva in mezzo al recinto, tra i quattro cavalli. A un
ordine del boia i due aiutanti forzano Tancrède a stendersi, a gambe e
braccia larghe. Poi gli prendono le gambe e ognuno dei due lega una gamba
alla stanga di un cavallo. Ora
è il turno delle braccia, che vengono legate alle stanghe degli altri due
cavalli. Tancrède si trova, come prima sulla tavola, a gambe e braccia divaricate.
Quando i cavalli incominceranno a muoversi, il conte sarà squartato. Il
boia è davanti a Tancrède. Ha le mani sporche di sangue e ha ancora il
coltello. Alla cintura ha una spada. Il boia fa un cenno e i quattro uomini
che tengono le redini dei cavalli li fanno muovere. Tancrède sente la
tensione nel suo corpo e ben presto si trova sollevato da terra. Il boia
muove di nuovo la testa. Gli uomini fermano i cavalli. Il
boia si avvicina a Tancrède, mettendosi tra le sue gambe divaricate, per
l’ultimo affronto. Il
boia gli sussurra, così piano che nessun altro può sentire: -
Ieri ti ho fottuto, non sei un maschio. Del cazzo non te ne fai niente. Tancrède
sapeva che neppure questo gli sarebbe stato risparmiato. Ma ormai non ha più
importanza, vuole solo finire, chiudere con la sofferenza, annullarsi. Il
boia si muove lentamente. Avvicina la lama al cazzo di Tancrède. Con la
sinistra lo afferra, con la destra fa un movimento rapido con il coltello,
avvicinandolo alla carne da recidere. La folla non può vedere, ma passando da
sotto, la lama ha tagliato la carne, dal buco del culo alla base del cazzo.
Un regalo personale del boia. Poi
il boia recide il cazzo. Il sangue schizza sul ventre del conte. Tancrède non
ha più la forza di urlare. Geme. Il boia alza il braccio, mostrando alla
folla il suo trofeo. È il segnale. Gli uomini incitano i cavalli, che si
muovono in quattro direzioni diverse, mentre il boia si sposta. Tancrède
sente la tensione spasmodica delle braccia e delle gambe, le articolazioni
che stanno cedendo. Emette un verso che non è più umano, mentre braccia e
spalle si slogano, i tessuti si lacerano e il sangue sgorga. Gli arti
incominciano a staccarsi dal tronco. Tutto il corpo di Tancrède è in tensione. In
quel preciso momento la spada del boia si abbatte sul suo collo, recidendogli
di netto la testa. La sofferenza svanisce. La
testa del conte viene infilzata su un palo collocato nella piazza. Il boia
completa l’opera dei cavalli, recidendo gli arti. Le braccia, le gambe e il
torace vengono presi dai suoi aiutanti per essere sistemati in punti diversi
della città, come monito per tutti i sudditi. * Denis
d’Aguilard ha assistito all’esecuzione. Non è un tipo di spettacolo che ama,
ma non poteva esimersi. Ogni tanto ha guardato Renaud di Soissons, che invece
apprezza moltissimo questo genere di divertimento. Anche
Jacques Longuemain ha assistito all’esecuzione, nascosto tra la folla. In
diversi momenti gli pareva di non riuscire a stare in piedi e ha dovuto
appoggiarsi per non cadere. Quando i cavalli hanno squartato il corpo,
Jacques ha vomitato. Jacques
si è fermato in una locanda a San Giacomo d’Afrin. Ha viaggiato in incognito,
con Guiot come unico servitore. Dopo l’esecuzione, scrive due righe a Charles
di Soissons: chiede un aiuto per fuggire nei territori sotto controllo
saraceno. Sa bene che se rimarrà nel regno di Gerusalemme, prima o poi verrà
scoperto. Rivolgersi
a Charles è un rischio: Jacques sa di non poter contare pienamente sul
genero. Perciò raccomanda a Guiot di non rivelare dove alloggiano: se il
barone gli negherà aiuto, Jacques cercherà di fuggire per conto proprio. Guiot
si presenta al palazzo del signore. Chiede di Charles, ma si presenta il suo
segretario. A lui Guiot consegna il biglietto scritto da Jacques Longuemain. Poco
dopo il segretario ritorna e dice a Guiot che il signore non può riceverlo,
ma si occuperà della faccenda. Gli chiede dove alloggia, ma Guiot dice che
per il momento il mercante non è ancora in città e che lui è venuto in
avanscoperta, per evitare rischi. Aggiunge che domani tornerà a prendere una
risposta. Il segretario gli fissa un’ora, poi lo congeda. Guiot
torna nella locanda e comunica la risposta di Charles. Jacques non è
soddisfatto di questo rinvio, ma non può rivolgersi a nessun altro. Poco
dopo il ritorno di Guiot, la porta viene spalancata. Quattro uomini in armi
irrompono nella stanza: Guiot è stato pedinato. Jacques corre alla finestra:
forse c’è una via di fuga. Ma nella viuzza ci sono altri armigeri. Gli
abitanti di Afrin avranno diritto a un altro spettacolo. Alla
notizia dell’arresto del padre, Jeanne Longuemain sembra impazzire dal
dolore. Invano cerca di ottenere un colloquio con lui, supplica che gli
vengano risparmiate le torture, chiede a Charles e ai cognati di intercedere:
nessuno di loro vuole esporsi. Un
giorno scopre che Denis d’Aguilard è a San Giacomo d’Afrin. Lo ha visto poche
volte in vita sua e ne ha sentito parlare in modo critico dai cognati. Ma
conosce la sua fama e l’ascendente di cui gode in tutti i territori cristiani
e presso il re. È la sua ultima speranza. Esce dal palazzo e raggiunge la
residenza dove alloggia il duca, che quando si reca ad Afrin non si ferma di
solito negli appartamenti baronali, ma preferisce alloggiare da un nobile suo
conoscente. Jeanne
chiede del duca. Denis si stupisce che la moglie di Charles gli voglia
parlare, ma dà ordine di farla entrare immediatamente. -
Duca, vi supplico di aiutarmi. -
Ditemi che cosa posso fare per voi. -
Sapete che mio padre è stato arrestato per tradimento. Fatemi parlare con
lui. Denis
vorrebbe rispondere che deve chiederlo a Renaud, suo cognato: è lui il
signore della città e, anche se Jacques Longuemain è prigioniero del re e non
del barone, è lui a poterle garantire il colloquio. Ma se Jeanne si rivolge a
lui, è perché Renaud non intende intercedere. Denis
riflette un attimo, poi dice: -
Venite con me. Denis
d’Aguilard non ha nessun diritto di parlare con il prigioniero. Ma il duca
d’Aguilard è uno degli uomini più potenti del regno, il baluardo della
cristianità in Terrasanta, colui che ha salvato la vita al re, colui che ha
conquistato Afrin stessa. È uno di quegli uomini che possono comandare anche
dove non avrebbero nessun potere. Per
lui le porte della prigione si aprono. Jeanne
guarda con orrore i corridoi bui che conducono alla cella del padre, il viso
deturpato del carceriere, la fetida cella in cui Jacques Longuemain attende
la morte. Ma infine può riabbracciare il padre. Dopo
il colloquio Jeanne esce in lacrime. Denis l’attende in uno dei locali della
prigione. -
Duca, vi ringrazio. Duca… potete salvarlo? Denis
scuote la testa. -
No, mi dispiace. La sua colpa è troppo grave, il re non accorderebbe mai la
grazia. Il suo tradimento ha provocato troppe vittime. -
Subirà l’orrenda fine del conte? Denis
vorrebbe negare, ma non vuole mentire. - Mi
spiace, baronessa, ma quello è il suo destino. Jeanne
si getta ai suoi piedi. -
Duca, vi prego, che non muoia così. Lui… non vuole morire così. Non vuole
soffrire. Fatelo… Jeanne
non riesce a completare la frase. Aggiunge: - Me
l’ha chiesto lui. Me l’ha chiesto lui. Non… non in quel modo… lui… Le
lacrime impediscono a Jeanne di proseguire. Denis si china sulla donna e la
solleva da terra. -
Baronessa, farò quel che potrò. Ma vi chiedo di giurare che non direte mai
una parola di questo. Jeanne
si asciuga le lacrime: - Ve
lo giuro. * Tre
giorni dopo, la sera, Mathieu va all’osteria, come fa molto spesso. Il vino
che gli danno gli sembra più forte del solito. Quando torna alla prigione fa
fatica a tenere gli occhi aperti. Mathieu congeda il soldato che fa la
guardia quando il carceriere è assente e si stende a dormire nella sua
cameretta. Anche
Jacques Longuemain dorme, un sonno agitato, come tutte le notti da quando è
stato arrestato. Ma i due uomini che sono entrati sono talmente silenziosi,
che Jacques non si è svegliato al loro ingresso. Uno
gli mette le mani sulla spalla e Jacques si sveglia di soprassalto. Alla
fioca luce della lampada a olio, guarda i due uomini, uno piccolo di statura,
l’altro un gigante. Gli paiono demoni dell’inferno, anche se nessuno dei due
è brutto. -
Vuoi scampare al supplizio, Jacques Longuemain? Jacques
annuisce. -
Allora di’ la tua ultima preghiera. Il
colosso ha una corda in mano, con un cappio. Jacques rabbrividisce. L’altro
ripete. -
Di’ la tua ultima preghiera, se vuoi. Jacques
annuisce, ma la sua mente non riesce a formulare parole. Guarda terrorizzato
le mani forti che legano la corda all’inferriata della minuscola finestrella. -
Muoviamoci Nicolas. Nicolas
annuisce. -
Sollevalo, Pierre. Il
gigante afferra il mercante, lo solleva senza fatica. Jacques vorrebbe
gridare il suo terrore, ma sa che è l’unica via per sfuggire a un supplizio
atroce. Nicolas gli passa la corda intorno al collo e stringe. Poi lo lascia
andare. I due si aggrappano ognuno a una gamba del mercante. L’agonia è
brevissima. L’indomani
Mathieu trova Jacques Longuemain impiccato nella cella. Capisce benissimo che
il suo vino era oppiato. Non sa come il mercante si sia procurato la corda,
ma quella puttana di Jeanne Longuemain è venuta a trovare il padre, di certo
gliel’ha data lei. Mathieu però non può dirlo: se il barone sapesse che lui
ha accettato del denaro per farla entrare di nascosto, lo punirebbe. Sarà
punito in ogni caso, per aver lasciato che il mercante scampasse al
supplizio. Il barone non accetterà di essere stato privato del suo
divertimento preferito. In
effetti Renaud di Soissons è furibondo. -
Quello stronzo prima ci ha fregato tutti i suoi soldi e poi anche lo
spettacolo. Un vero pezzo di merda. Impiccheremo il servitore, ma non è la
stessa cosa. * Ferdinando
ha preso possesso del suo feudo. Seguendo i consigli di Denis, ha espropriato
diverse terre dei signori più ricchi, in particolare di quelli che hanno
abbandonato la regione, e le ha ridistribuite ai contadini musulmani che già
abitavano nella vallata e a quelli cristiani che vi si sono stabiliti dopo la
conquista. Anche le terre che appartenevano allo sceicco sono state in
maggioranza assegnate ai contadini. Inoltre Ferdinando ha ridotto i tributi
che i lavoratori devono versare. I provvedimenti hanno suscitato il
malcontento dei pochi grandi proprietari rimasti nella valle, ma hanno reso
il signore cristiano popolare agli occhi di buona parte dei contadini
musulmani. Non è sufficiente per garantire una piena lealtà, ma di certo
riduce il rischio di ribellioni. Ferdinando
ha fatto venire dalla Sicilia diversi uomini che conosceva, alcuni dei quali
hanno portato con sé la famiglia: la vallata dell’Arram ha ora una
popolazione mista, cristiana e musulmana, oltre ad un esiguo gruppo di ebrei
in due dei villaggi dell’area. Quando
non è impegnato in guerra, Ferdinando va spesso a cacciare nei boschi della
regione, da solo o con alcuni dei suoi uomini. Ferdinando ama la caccia e il
castello dello sceicco era proprio una residenza di caccia, posta in un’area
ricca di boschi e di selvaggina. La
battuta di oggi si è conclusa con l’uccisione di un cervo, che sarà portato
al castello per essere cucinato. Berto,
un ragazzo giunto da poco dalla Sicilia insieme ai genitori e a due fratelli,
osserva: - Un
magnifico maschio. Come colui che lo ha ucciso. Ferdinando
guarda Berto. Non è bello di viso, ma è giovane e forte. Le parole di Berto
sono solo adulazione o il ragazzo vuole provare l’arma del conte? Ferdinando
ghigna, mentre dice: -
Che ne sai? Non hai mica provato, tu. Berto
si guarda un attimo intorno, per assicurarsi che gli altri uomini del conte
non possano sentire. Non sarebbe un grande problema: tra il gruppetto di
uomini fidati che accompagnano Ferdinando, siciliani, cristiani provenienti
da altre regioni e due musulmani, devono essere pochi quelli che non hanno
sperimentato lo sperone di Ferdinando. Spesso al ritorno dalla caccia il
conte chiama uno di questi uomini nella propria camera. Tutti sanno che cosa
significa quella chiamata: i gusti del conte non sono un segreto per nessuno
di coloro che vivono al castello. Dopo
essersi sincerato che nessuno senta, Berto dice: -
No, non ho avuto questo onore. C’è
ironia nel sorriso di Berto. Ferdinando risponde con la stessa ironia: -
Allora oggi sarai onorato. E
mentre lo dice, Ferdinando sente che il cazzo gli si tende: si accende sempre
rapidamente. Il castello non è lontano, ma ora Ferdinando ha fretta. È
contento che il ragazzo si sia fatto avanti. Succede spesso: sono gli uomini
stessi a proporsi, senza che Ferdinando debba sondare il terreno. Molti sono
ben felici di offrirsi al conte, attratti dalla sua virilità imponente o
dalla possibilità di ricavarne qualche vantaggio. Ferdinando
decide che non ha voglia di aspettare il momento in cui saranno al castello.
Dice agli uomini di procedere con la preda e trattiene Berto. -
Non voglio farti aspettare troppo l’onore. Ferdinando
ferma il cavallo tra gli alberi e scende. Berto lega l’animale. Ferdinando
sorride, mentre si spoglia. Anche Berto incomincia a togliersi gli abiti.
Malgrado sia giovane, ha parecchio pelo sul petto. Quando finisce di
spogliarsi, Ferdinando nota che ha un cazzo magnifico. -
Porcoddio, ragazzo. Hai una buona attrezzatura. -
Mai come il signor conte. Ferdinando
ride e si avvicina. Stringe Berto tra le braccia, gli mette le mani sul culo
e stringe forte. Poi gli mette la destra sotto il mento e lo solleva. Si
china in avanti, perché il ragazzo è più basso di lui di oltre una spanna, e
lo bacia sulla bocca. Gli infila la lingua tra le labbra e Berto schiude la
bocca per accoglierla. Intanto la sinistra scivola lungo il solco e il dito
medio stuzzica l’apertura. La carne sembra opporre resistenza all’intruso.
Ferdinando interrompe il bacio e infila il dito in bocca a Berto. -
Inumidiscilo bene. Berto
obbedisce, leccando con la lingua il medio, che ritorna alla sua postazione,
premendo nuovamente contro l’ingresso posteriore. Questa volta il dito riesce
a infilarsi dentro, forzando l’anello di carne. Ferdinando
bacia di nuovo Berto, mentre con la destra gli pizzica il culo e con la
sinistra prepara la strada. Ferdinando
fa appoggiare Berto contro un albero e avvicina il cazzo all’apertura. Avanza
fino a quando la cappella non preme contro l’anello, poi si ferma un attimo
prima di entrare, con lentezza. Berto chiude gli occhi e rovescia indietro la
testa, sopraffatto dalla sensazione violenta, dal piacere del cazzo che
dilata le sue viscere, dal dolore per questo ingresso. Ferdinando
gli stringe le natiche con le dita, premendo con forza, e si spinge più
avanti, ancora più avanti. Berto geme: il dolore è troppo forte. Ferdinando
si ferma, arretra, esce. Poi ritorna. Ripete la manovra tre volte, poi la
quarta avanza fino in fondo, finché i coglioni battono contro il culo di
Berto, che ora respira affannosamente. Ferdinando
poggia le mani sui fianchi di Berto e incomincia la sua cavalcata. È un buon
cavaliere, il conte, sa andare al passo, al trotto e al galoppo, sa usare lo
sperone, che non perde la sua consistenza. Ferdinando è in grado di sfiancare
qualsiasi cavalcatura e anche oggi ci dà dentro con energia, per lungo tempo.
Berto regge a fatica, il dolore diventa troppo forte. Eppure anche questo
dolore accende il suo desiderio. Infine
Ferdinando accelera ancora il ritmo in un galoppo selvaggio, spingendo ogni
volta il cazzo fino in fondo, finché scompare completamente dentro il culo
del ragazzo. Ferdinando viene, in una rapida successione di spinte che fanno
scivolare Berto contro l’albero a cui si appoggia. Ferdinando
rimane un buon momento immobile, schiacciando contro l’albero Berto. Poi si
ritrae. Berto
ha gli occhi chiusi. Attende che il dolore si attenui. Poi si volta. Ha il
cazzo duro e, ora che è in erezione, appare davvero enorme. -
Porcoddio, ce l’hai davvero grosso anche tu. Berto
sorride, ancora un po’ pallido. -
Volete provarlo, conte? Ferdinando
scuote la testa sorridendo. Il ragazzo è davvero impudente. Però il cazzo è
una meraviglia e anche i coglioni, grossi e pelosi, sono attraenti. È
parecchio tempo che Ferdinando non se lo prende in culo, ma oggi questo cazzo
che svetta contro la peluria scura del ventre, con una goccia che luccica
sulla cappella, lo solletica. Gli piace questo ragazzo che non deve avere più
di diciott’anni, ma è villoso come un uomo fatto, compatto di statura, ma
dotato come un cavallo, agile e forte, sfacciato e disponibile a tutto. Ferdinando
si inginocchia. Adesso il cazzo è a una spanna dalla sua bocca. -
Vediamo che gusto ha. Ferdinando
avvolge la preda con le labbra. La succhia un po’, gusta la goccia di sborro
che luccicava al sole, poi libera lo sperone e passa la lingua dalla cappella
ai coglioni e dai coglioni alla cappella. Si stacca, guarda la magnifica
preda e dice: -
Sì, si può provare. - A
quattro zampe, conte, che vi cavalcherò. Ferdinando
ride e si mette a quattro zampe. Berto
è dietro di lui e Ferdinando sente la lingua scorrere sul solco, premere
contro il buco, poi i denti mordergli il culo. È piacevole, maledettamente
piacevole. Berto mordicchia più volte, poi passa di nuovo la lingua lungo il
solco, preme contro l’apertura. Infine si stacca, si stende sul corpo
massiccio di Ferdinando e muove lo sperone. Piano piano lo fa avanzare.
Ferdinando sente il grosso cazzo farsi strada dentro di lui, dilatargli le
viscere. Fa male, non poco, ma è maledettamente piacevole. Berto
è un buon cavaliere, ma la cavalcata non è lunga: il desiderio è stato tenuto
a freno troppo a lungo. Dal trotto si passa presto a un galoppo sfrenato, che
si conclude con un grido, mentre il seme si sparge nel culo di Ferdinando. Si
rialzano entrambi. -
Porcoddio, ragazzo, ci sai fare. Credo che ti onorerò spesso. -
Sono sempre disponibile a essere onorato conte. E a onorarvi. A
pochi giorni di distanza nascono due bambini: l’erede del duca d’Aguilard e
il secondogenito del barone Charles di Soissons. Nessuno dei due è figlio
dell’uomo che risulta essere suo padre. Il
figlio di Maria d’Aguilard, duchessa di Rougegarde, è nato sette mesi dopo il
matrimonio e questo alimenta certe dicerie, che circolano alla corte di
Gerusalemme e anche a Rougegarde: ma in città nessuno ne parla ad alta voce,
perché il duca d’Aguilard è uno degli uomini più potenti del regno e non
sarebbe saggio inimicarselo. Il
bimbo è bellissimo: non assomiglia in nulla a Denis, ma porterà il nome del
padre del duca, Pierre. Il
battesimo è fastoso e re Amalrico fa da padrino. A battezzare il piccolo è il
nuovo vescovo di Rougegarde e San Giacomo d’Afrin, Bohémond di Tours. Si è
appena insediato a Rougegarde e ha visto con sgomento che le dicerie udite
corrispondono a verità: in città le moschee sono ancora affollate, le
sinagoghe sono numerose e i cristiani vivono a fianco degli infedeli. Dovrà
parlarne al duca, Denis d’Aguilard, ma sa già che non sarà facile
convincerlo. Eppure non si può tollerare che in Terrasanta, sotto dominio
cristiano, vivano infedeli. Non
c’è la stessa festa per il figlio di Jeanne Longuemain, moglie di Charles di
Soissons. Al barone sembra importare poco di questo bimbo, che pure un giorno
potrebbe diventare signore di Afrin: Renaud e Olivier di Soissons non hanno
figli e Christine, la sorella maggiore del piccolo, non può ereditare il
feudo in presenza di eredi maschi. Jeanne
chiede che il bimbo si chiami Jacques, come il nonno. Non è una scelta
opportuna, visto che Jacques Longuemain era un traditore, ma di questo bimbo
importa poco a Charles e ancora di meno a Renaud, che non intende certo
lasciare Afrin al piccolo bastardo. Il bimbo si chiamerà Jacques. Quanto al
suo vero padre, poco si preoccupa di uno dei numerosi bastardi che ha
seminato per tutto il feudo: Olivier penserà ad assicurare l’avvenire dei
figli che porteranno il suo nome, quando ne avrà. * Denis
lascia passare un certo periodo dopo il parto. Poi una notte, prima di
ritirarsi, dice a Maria: - Più
tardi verrò da voi. Maria
non nasconde il suo turbamento. La richiesta l’ha presa di sorpresa, forse
pensava che Denis avesse rinunciato definitivamente ad avere rapporti. -
Scusate, duca, ma non mi sento bene. Denis
china leggermente il capo. - In
questo caso, sarà un’altra sera. Denis
lascia passare qualche giorno, prima di chiedere: -
Posso venire da voi questa sera? -
Sono i miei giorni, duca. Vi prego di scusarmi. -
Come desiderate, duchessa. Denis
non si stupisce: sospettava che Maria avrebbe cercato di negarsi. Non prova
altre volte: non ha mai imposto un rapporto a nessuno, uomo o donna, e
considera i rapporti coniugali soltanto un dovere a cui non gli pareva di
avere il diritto di sottrarsi. Ma se Maria non lo vuole nel suo letto, per
Denis non è un problema: ritiene di dover avere un erede, ma un figlio c’è
già e per Denis non ha grande importanza se non è del suo sangue. Denis si
ritiene libero di seguire le sue inclinazioni, rispettando soltanto le
apparenze. Anche a Maria non chiede altro, ma non gli è difficile accorgersi
che Maria non desidera un uomo accanto a sé: l’unico che vorrebbe è un re che
l’ha amata. * Dopo
la nascita del piccolo Jacques, il letto nuziale di Jeanne non accoglie più
nessun uomo. Non c’è più un suocero da non scontentare e Olivier non è
interessato a sostituirsi al fratello: ci sono altre donne più belle o più
esperte ad Afrin e molte sono ben liete di cedere a un barone, fratello del
signore della città. La figlia del mercante è un investimento che a suo tempo
ha dato i suoi frutti, ma ormai ha ben poco da offrire. A
Jeanne non importa: se un tempo andò sposa trepidante al bel Charles di
Soissons, la totale indifferenza dimostrata dal marito nei suoi confronti
l’ha allontanata da lui e i fugaci amplessi nel buio della camera non sono
certo stati sufficienti ad accendere i suoi sensi. A volte si è persino
domandata se l’uomo con cui si è congiunta è davvero suo marito. Ma
preferisce scacciare il pensiero fastidioso. Sa quel che si dice di Charles e
sa che le voci corrispondono a verità. Charles non si preoccupa di
nascondersi davanti a lei e Jeanne lo ha visto fare la corte a qualche nuovo
servitore o soldato come se lei non fosse in grado di accorgersi di ciò che
stava avvenendo sotto i suoi occhi. Jeanne tace: sa che le sue parole
sarebbero inutili e peggiorerebbero solo la sua situazione. Non vuole
compromettere i rapporti con Charles, per il bene dei suoi figli, di Jacques,
soprattutto. Sa che il loro futuro non sarà facile. Mentre
si dedica per intero ai due figli, apparentemente tranquilla, senza mai
lamentarsi di essere trascurata dal marito, riflette su come muoversi.
Nessuno sospetta che questa giovane donna, che sembra accettare senza
adombrarsi l’indifferenza e i tradimenti del marito, elabori strategie per essere
pronta ad affrontare i problemi che nasceranno. Jeanne
sa che non può contare su nessuno, a San Giacomo d’Afrin. Non si occupa del
governo della città, non ha nessun potere e non è interessata ad averne. Ma
ha capito benissimo l’ambizione di Olivier. Se Renaud non avrà figli, il
feudo dovrebbe passare a Charles e poi al piccolo Jacques. Ma di certo
Olivier non accetterà che qualcun altro regni su San Giacomo d’Afrin. Olivier
è ambizioso e la sua ambizione lo rende disposto a tutto. Jeanne ha paura di
Olivier. Per il momento il cognato non ha motivo di agire, ma Jeanne sa che
deve stare in guardia. Se Olivier dovesse impadronirsi del potere, Jeanne
dovrebbe fuggire il più in fretta possibile. Dove? Jeanne si è data una
risposta: a Rougegarde. Solo Denis d’Aguilard può assicurare un’efficace
protezione a lei e ai due figli. E Jeanne è sicura che Denis lo farà. Spera
che questo non sia necessario: sarebbe meglio che Renaud avesse figli, il
piccolo Jacques non correrebbe rischi. Ma Mélisende di Cesarea non è più
giovanissima e per il momento non ci sono segni di una gravidanza. Anche di
lei Jeanne diffida: la cognata la guarda con astio, Jeanne non ha fatto
fatica ad accorgersene, anche se non ne capisce la ragione. Sospetta che sia
proprio il fatto che ha dato a Charles un erede. E si parla di un matrimonio
di Olivier. È una nuova minaccia per il piccolo Jacques: se Renaud non avrà
eredi e Olivier sì, la vita del piccolo Jacques varrà ben poco. * Pierre
d’Aguilard è un bel bambino e Denis si mostra un padre premuroso, rivelando
un’attenzione e una dolcezza che stupisce molti: di solito i padri non sono
così attenti ai figli quando sono molto piccoli, preferiscono lasciare che se
ne occupino le madri. E Denis d’Aguilard è un temibile guerriero, uno da cui
non ci si aspetta certo tenerezza. Eppure con questo figlio, di cui si
mormora che non sia neppure suo, Denis passa molto tempo, circondandolo di
affetto. Il
duca e la duchessa continuano a dormire separati, ma con Maria i rapporti
sono sereni. Denis non fa mai nessun accenno alla loro situazione. Il bambino
li avvicina, perché se ne occupano entrambi. Denis
è attento a questa donna di cui il destino ha fatto sua moglie, senza che
nessuno dei due lo desiderasse. Dimostra nei suoi confronti un grande rispetto
e cerca di allietare il suo esilio: perché Maria è in esilio, questo Denis lo
sa bene, lontana dall'Armenia dove è nata e da Gerusalemme dove vorrebbe
essere, a fianco di un altro uomo. A
Gerusalemme Denis si reca spesso: è uno degli uomini di fiducia del re, tutti
sanno che Amalrico lo considera il migliore dei suoi feudatari e il più
valoroso tra i suoi guerrieri. Quando si ferma per alcuni giorni, chiede a
Maria se desidera accompagnarlo, ma Maria rifiuta sempre. Un giorno però, di
fronte alla domanda che ormai Denis fa solo per cortesia, Maria dice che
verrà volentieri. Denis
non mostra il suo stupore. Sa che Amalrico ha ottenuto l’annullamento del suo
matrimonio, per consanguineità, e che si accinge a sposare una principessa
imperiale, strumento di una desiderata alleanza politica con Costantinopoli.
Di certo anche Maria ne è informata. Maria vuole rivedere il re prima del
matrimonio? Denis non sa darsi un'altra spiegazione. Dal battesimo di Pierre,
tre anni fa, Maria non ha più visto Amalrico, troppo impegnato a combattere,
soprattutto in Egitto. A
Gerusalemme Maria entra con tutta la pompa che si addice a una duchessa,
moglie di uno dei campioni della cristianità nel Levante. Denis lascia a
Maria piena libertà, ma dopo tre giorni, lei gli chiede di poter tornare a
Rougegarde. Denis non le chiede i motivi della sua decisione: la fa
accompagnare da quasi tutto il suo seguito e rimane con pochi uomini.
D'altronde quando viaggia Denis d'Aguilard, duca di Rougegarde, lo fa quasi
sempre con un gruppo ristretto di soldati: solo la presenza di Maria lo ha
spinto a venire con molti uomini al seguito. Al
ritorno a Rougegarde, Denis si accorge che Maria è molto turbata e sembra
voler evitare la sua presenza. Denis fa in modo di non mostrarsi spesso. D’altronde
Denis è spesso assente per le esigenze del feudo e del regno di Gerusalemme.
Ora è necessaria una spedizione militare, da tempo in progetto: bisogna
conquistare Qasr Basir, una roccaforte saracena lungo l’alta valle
dell’Arram, dove risiede il fratello dell’emiro di Jabal al-Jadid. Il
castello è da lungo tempo una spina nel fianco dei domini di Ferdinando e dei
territori cristiani e Amalrico ha autorizzato la sua conquista. Nella
primavera successiva al matrimonio di Amalrico, la spedizione parte. Al
comando di Denis vi sono Ferdinando, conte dell'Arram, e un gruppo di
templari guidati da Guillaume di Hautlieu: saranno i templari a stabilirsi
nel castello, se verrà conquistato. * La
spedizione richiede tre mesi: vi sono due battaglie vittoriose e poi un lungo
assedio a Qasr Basir. Per
Denis e Ferdinando è un’occasione di ritrovarsi con Guillaume. La sera
mangiano spesso insieme, discutendo liberamente. -
Chi l’avrebbe detto, Guillaume, che un coglione come il sottoscritto sarebbe
diventato conte? Quando a Siracusa l’hanno saputo, non ci volevano credere.
Pensavano che li pigliassi per il culo. È
Denis a rispondere: -
Ferdinando, sei un guerriero leale e coraggioso, sei forte in battaglia e
capace di guidare i tuoi uomini. Ti sei meritato questo feudo. Ferdinando
scuote la testa. Guillaume
chiede: -
Sei soddisfatto della tua vita? Ferdinando
ride. -
Porcoddio, che cosa potrei chiedere di più? Sono conte, mangio, bevo, scopo,
vado a caccia senza problemi. Combattere non mi pesa. - Non
senti l’esigenza di avere qualcuno al tuo fianco? Un uomo, intendo. O hai
qualcuno? Per
un momento Ferdinando pensa a Baahir. Sei anni sono passati, il dolore non si
è spento, ma si è stemperato, il ricordo è ormai lontano. Alza le spalle. -
Non ho nessuno. O potrei dire che ho tutti quelli che voglio. Posso scopare
quando mi tira. No, va bene così. Berto ha un bel culo e un bel cazzo, ma ce
ne sono tanti altri. Uno solo non mi basta. Forse
uno solo sarebbe bastato, se... ma è un pensiero ozioso. Denis
interviene: - E
tu, Guillaume? Hai fatto strada nell’ordine. Sei soddisfatto della tua vita? Guillaume
annuisce. -
Sì. Guillaume
pare voler aggiungere altro, ma tace. Ferdinando
strizza l’occhio e dice, ridendo: - E
tu non senti l’esigenza di avere un uomo al tuo fianco? Guillaume
scuote la testa, sorridendo. - Lo
ammetto, non rispetto sempre il mio voto di castità, ma devo dire che lo
infrango sempre più di rado. - A
neanche trent’anni casto? Porcoddio! Ma come è possibile? Guillaume
pensa ad Alain da Troyes. Che cosa sarebbe successo se il comandante non
fosse morto? Il legame che stava nascendo si sarebbe consolidato? Oppure era
un fuoco di paglia destinato comunque a spegnersi in fretta? E gli altri,
quelli venuti dopo – o prima, come lo stesso Ferdinando? Sono stati il
piacere di un momento, un bisogno soddisfatto. Ma che importanza hanno avuto? Guillaume
si rende conto che non ha risposto a Ferdinando. Allora dice: - Se
è solo il bisogno del corpo, che importanza ha? -
Voi due non vi capisco. -
Parlavo per me, Ferdinando. Quanto a Denis, deve dire lui. Denis
guarda i suoi due amici, poi scrolla le spalle. -
Forse vorrei avere qualcuno al mio fianco, ma non è un problema. Denis
pensa a Charles, all’uomo che un tempo ha amato. Un tempo che ormai gli appare
lontanissimo, un tempo in cui Denis sognava ancora. Vuole bene a Nicolas,
come si vuole bene a un amico. È un compagno per le notti, non per la vita,
ma va bene così. Guillaume
fissa l’amico negli occhi. -
Sei soddisfatto della tua vita, Denis? - Ho
avuto più di quanto pensassi. - Ma
non tutto. -
Chi mai ha avuto tutto? Quando
infine tutti si coricano, Denis ripensa alla conversazione. Ha davvero avuto
dalla vita più di quanto pensasse. Non ha avuto l’amore, ma la natura non
l’ha fatto per questo. Charles gli ha fatto credere di poter essere amato, ma
Denis sa bene che si è illuso perché ha voluto illudersi. Gli piacerebbe
avere accanto a sé un uomo da amare, ma può farne a meno. Il desiderio trova
facilmente soddisfazione: il duca di Rougegarde non fa fatica a trovare
qualcuno che gli si offre. C’è stato Jeannot, ora è Nicolas. Sta bene con
Nicolas: quest’uomo che sembra non provare sentimenti, che sa dare e ricevere
piacere, che non ama e non desidera essere amato. È la persona giusta.
* Il
momento dell’attacco finale a Qasr Basir è giunto. La guarnigione è stata
decimata dalle battaglie e dall’assedio, le truppe inviate in soccorso due
volte dall’emiro di Jabal al-Jadid sono state sbaragliate. Il comandante
rifiuta di arrendersi, ma la sorte degli uomini assediati è ormai segnata. L’attacco
viene sferrato prima dell’alba e questa volta i difensori non riescono a
impedire che i cristiani salgano sulle scale fino alle mura. Un fiume di
uomini si riversa nel castello, facendo strage dei difensori. A
guidare gli attaccanti è Denis d’Aguilard, che affronta la resistenza degli
ultimi saraceni di fronte al mastio. Al suo fianco vi è Nicolas. Un guerriero
saraceno si getta su Nicolas e insieme rotolano per la scalinata di pietra.
Nella foga del combattimento molti non si accorgono dei due soldati
avvinghiati che lottano a terra in un angolo. Nella caduta entrambi hanno
perso la spada, ma il saraceno ha estratto un pugnale e ora cerca di colpire
il guerriero franco disarmato. Nicolas
ha un braccio dolorante per la caduta e fa fatica a difendersi. Il soldato
saraceno gli è sopra e cerca di colpire al petto Nicolas, che gli blocca il
polso con le mani. Nicolas si sforza di fermare il pugnale, ma può usare
pienamente solo un braccio, l’altro ha perso gran parte della sua forza.
Nicolas si rende conto che sta per morire: tra poco il suo avversario gli
squarcerà il petto, proprio ora che hanno vinto. Mentre
fa un ultimo sforzo per allontanare l’arma, vede guizzare una lama e il
saraceno si abbatte su di lui, la testa quasi troncata dal collo: Denis
d’Aguilard l’ha colpito. -
Sei ferito, Nicolas? -
No, mio signore. Ho solo male a un braccio, per la caduta. -
Rimani qui. Denis
d’Aguilard risale la scale: in cima i suoi uomini hanno abbattuto gli ultimi
difensori e stanno entrando nel mastio. Omar
ibn Samih, comandante del forte, si arrende e non viene ucciso. Di certo il
fratello, emiro di Jabal al-Jadid, lo riscatterà. Denis
accetta la sua resa, ma quando si volta per dare ordini, l’uomo estrae un
pugnale e si avventa su di lui. Denis si volta di scatto e lo ferisce al
braccio, facendo cadere l’arma. Denis
guarda il comandante e sibila: -
Vile. Pagherai con la vita. Omar
ibn Samih si tiene con la mano sinistra il braccio destro da cui cola sangue
in abbondanza. Sapeva bene che colpendo il duca di Rougegarde sarebbe morto,
ma sperava di liberare le terre dei credenti dal loro peggiore flagello.
Anche questa volta il Cane dagli occhi azzurri è sfuggito alla morte e il
sacrificio di Omar ibn Samih è stato inutile. Denis
sovrintende al saccheggio del mastio, Guillaume e Ferdinando a quello degli
altri edifici. Quando
tutti i prigionieri e i beni sono stati radunati, essi vengono spartiti. Il
conte Ferdinando prende per sé solo alcune suppellettili per la sua residenza
e due giovani prigionieri: il territorio conquistato passerà a lui e
aumenterà le sue rendite, per cui preferisce seguire le indicazioni di Denis
e lasciare la maggior parte del bottino ai suoi uomini. I templari
guidati da Guillaume riceveranno il castello da Ferdinando: Qasr Basir
diventerà Castello San Michele. A essi vanno anche diversi prigionieri, che
dovranno pagare il riscatto per liberarsi, e alcuni beni di valore. Il
duca sceglie per sé alcuni gioielli, di cui intende fare dono a Maria, e due
bellissime miniature. Non prende nessuno degli uomini: Denis d’Aguilard, duca
di Rougegarde, non tiene schiavi. Sa bene che cosa significa essere
considerato niente più che un animale al servizio di un padrone. Il
resto del bottino viene diviso tra i soldati, che ricevono più di quanto
avrebbero con altri comandanti: è uno dei motivi per cui gli uomini del duca
di Rougegarde danno sempre prova di grande attaccamento nei confronti del
loro signore, ma non è l’unico e neppure il principale. Più
tardi il comandante viene fatto inginocchiare. Il braccio non sanguina più,
ma Omar lo muove a fatica. Ormai non gli servirà più muoverlo. Un soldato con
una spada è dietro di lui. Omar ibn Samih attende senza paura, certo che
l’Onnipotente lo accoglierà tra i martiri. Ma sua moglie Munira arriva
gridando. Si getta ai piedi del duca e supplica pietà. Denis guarda questa
giovane donna che piange in ginocchio davanti a lui, osserva il viso
stravolto dal dolore. Il comandante merita la morte, per aver cercato di
colpirlo a tradimento, dopo aver finto di arrendersi. Denis sta per dire ai
soldati di allontanare la donna, quando un ricordo affiora, un ricordo di
undici anni fa, ma vivido come se risalisse a ieri. Denis non se la sente di
far eseguire la condanna di fronte a questa donna disperata. Ordina al
soldato di riporre la spada. La
ferita di Omar ibn Samih sarà curata, il comandante potrà ottenere la libertà
pagando. Ma suo fratello, l’emiro di Jabal al-Jadid, dovrà sborsare un forte
riscatto. * Ferdinando
lascerà il castello ai Templari, come pattuito, ma questa notte dormirà nella
camera del comandante. L’avrebbe ceduta a Denis, che ha guidato la
spedizione, ma il duca non ha voluto. Ferdinando ha fatto chiamare i due
prigionieri che ha scelto per sé. Sono
belli i due uomini ed è per questo che Ferdinando li ha scelti. Uno è un
soldato, probabilmente un ufficiale della guarnigione, sui venticinque anni.
È un uomo snello, ma muscoloso, con un corpo armonioso e un viso maschio,
capelli di un castano quasi nero, con riflessi ramati, barba di un rosso
scuro e occhi marroni. L’altro è un servitore, un ragazzo che forse non ha
nemmeno vent’anni. Ora
sono davanti a Ferdinando e Berto. Ferdinando
ha imparato un po’ di arabo, su consiglio di Denis, e ordina: -
Spogliatevi. I
due uomini obbediscono. Sanno di essere schiavi e non possono ribellarsi. Si
tolgono quello che indossano e rimangono nudi. Non sembrano aver capito che
cosa li aspetta, forse pensano che riceveranno altri abiti. Ferdinando
si avvicina al guerriero e gli prende il mento con la destra. Osserva il
viso, poi, rivolto a Berto, dice, in siciliano: -
Questo è bellissimo. Davvero un bocconcino da re. Ma dovrà accontentarsi di
un conte. Ferdinando
ride. Il
guerriero sembra aver intuito. Stringe i pugni. Ferdinando osserva: -
Secondo me il suo culo non l’ha gustato ancora nessuno. Che ne dici, Berto? -
Badate, conte, che tra poco vi salterà addosso. Ferdinando
annuisce. Si rende perfettamente conto che l’uomo non intende accettare la
violenza, anche se è uno schiavo. Ma l’idea che il soldato gli resista lo
stuzzica. Gli afferra le braccia ai polsi, lo spinge contro una parete e
avvicina la bocca per baciarlo, ma l’uomo volta il capo. -
Farò a meno di baciarti. Ma non farò a meno del tuo culo. L’uomo
non può capire le parole di Ferdinando, ma non può nemmeno impedire al conte
di afferrarlo e trascinarlo sul letto. Il guerriero si dibatte. È un uomo
forte, ma Ferdinando è un Ercole e gli impedisce di rialzarsi. Ferdinando si
mette a cavalcioni sopra di lui, lo schiaccia con il proprio peso, e intanto
si toglie la tunica. Altro non indossa, perché ha previsto la possibilità di
incontrare resistenza e non voleva abiti che lo impacciassero. L’uomo cerca
di disarcionarlo, ma Ferdinando si stende su di lui e lo blocca. Ora i loro
corpi aderiscono. Il soldato si oppone con tutte le sue forze, ma il cazzo di
Ferdinando già preme contro il suo culo e ora forza l’apertura, entrando.
L’uomo ha un guizzo disperato, grida, poi chiude gli occhi e si affloscia.
Ferdinando si ritira: vuole dare all’uomo il tempo di abituarsi. Non intende
rinunciare al suo piacere, ma non si diverte a far soffrire. Ora che il
soldato sembra aver rinunciato a ogni resistenza, Ferdinando si sputa sulla
mano e passa due dita lungo il solco, inumidendo l’apertura. Ripete
l’operazione. Poi si appoggia nuovamente sul soldato e spinge il suo poderoso
sperone dentro il corpo. L’uomo ha un nuovo guizzo, poi chiude gli occhi. La sensazione
di questo culo vergine che sta violando inebria Ferdinando. Il conte lavora a
lungo Il
servitore segue la scena, in silenzio. Ha capito benissimo che anche a lui
toccherà la stessa sorte. E
infatti, quando Ferdinando viene, riempiendo il culo del soldato del suo
seme, Berto dice al servitore: -
Ora tocca a te. Il
servitore non capisce la lingua dei suoi nuovi padroni, ma sa benissimo che
cosa lo attende. Non appare spaventato: probabilmente ha già avuto modo di
gustare il corno di cui cozzano gli uomini. A un cenno di Berto si stende sul
letto, a pancia in giù. Ferdinando
si solleva ed esce dal culo del soldato, che rimane immobile. Berto allora si
avvicina e con una corda lega i polsi del guerriero dietro la schiena, in
modo che non possa opporre resistenza. Berto non ha la forza del suo padrone
e in una lotta con il soldato potrebbe avere la peggio. Il soldato lo lascia
fare, pare rassegnato. Berto allora sposta il corpo, in modo che le gambe
poggino a terra e il torace rimanga sul letto. Poi si toglie la tunica e
avvicina la cappella all’apertura, ampiamente lubrificata dal seme di
Ferdinando. Il soldato capisce solo ora che lo attende un nuovo stupro.
Digrigna i denti e proferisce un insulto in arabo, ma Berto lo ignora e lo
infilza, con un colpo deciso: gli piace vedere il corpo guizzare. Ferdinando
assiste allo spettacolo e quando, dopo poco tempo, la tensione cresce
nuovamente in lui, sputa sul culo del servitore, inumidisce il buco e avanza
la sua arma. Non è un culo vergine, questo, ma è caldo e accogliente e
Ferdinando è ben contento di gustarlo. Il conte è soddisfatto della sua parte
di bottino. * Denis
si è sistemato in un’altra camera. Prima di coricarsi fa un giro del castello
con Guillaume, studiando la disposizione dei locali. Insieme discutono della
posizione del castello e della sua importanza strategica. Sarà una roccaforte
importante per la difesa della vallata dell’Arram e di Rougegarde stessa,
poiché i saraceni potrebbero attaccare solo attraverso la vallata o passando
per Afrin, a meno di non inerpicarsi sui sentieri che portano ad alcuni passi
ad alta quota, come il Passo della Caverna. Davanti
alla camera di Ferdinando sentono gemiti e mugolii. Guillaume scuote la
testa. Il comportamento dell’amico lo lascia alquanto perplesso. Non gli
piace l’idea di imporsi con la violenza, anche se dopo la conquista di Jibrin
da parte dei saraceni, si accorge di provare un’avversione profonda per
questi nemici che hanno martirizzato Alain da Troyes e ucciso a sangue freddo
tutti i suoi compagni. Guillaume
scuote la testa e osserva: -
Ferdinando sta certamente verificando la qualità dei suoi nuovi schiavi. Anche
Denis appare critico nei confronti di Ferdinando: -
Non è saggio da parte sua. Quel guerriero non accetterà la violenza. Essere stuprato
lo riempirà di odio. E non si tiene in casa uno schiavo che vuole solo
vendicarsi. -
Sai com’è fatto Ferdinando. Quando si tratta di scopare, non intende ragione. - È
vero. Ma stuprare un soldato… Lo fanno anche loro, ma non mi sembra un buon
motivo. Comunque domani vedrò di parlargli. È meglio che non tenga quell’uomo
presso di sé. Che lo venda o lo liberi. - Ti
ascolterà. Ha piena fiducia in te. Denis
sorride. -
Dopo aver scopato, sì. Prima… difficile farlo ragionare quando è in calore. -
Cioè sempre, se non ha appena scopato tre volte. Ridono
tutti e due. In
quel momento risuona una bestemmia, l’inconfondibile “Porcoddio” di
Ferdinando. Denis
e Guillaume scuotono il capo. Guillaume
raggiunge gli altri templari: dorme con loro, nel salone del castello. Denis
scende in infermeria e chiede notizia dei feriti. Nicolas non è tra loro: il
medico di Denis gli ha fasciato il braccio e lo ha rimandato tra gli altri.
Denis passa nell’alloggiamento dei soldati, dove ora sono sistemati molti dei
suoi uomini e di quelli di Ferdinando. Vuole avere notizie di Nicolas, non ha
altre intenzioni. Nello
stanzone gli uomini sono ancora tutti svegli, benché si siano alzati a notte
fonda e abbiano combattuto: il combattimento e il saccheggio li hanno
eccitati. Adesso discutono animatamente. Qualcuno ha bevuto troppo, molti
sono a torso nudo, qualcuno non ha indosso nulla. Quando
Denis entra, le conversazioni si interrompono, qualcuno grida “Viva il duca”
e tutti ripetono il grido. Denis chiede se tutto è a posto, poi li invita a
riprendere le loro conversazioni. Nicolas
è seduto su uno dei tavolacci che servono come giaciglio. È a torso nudo, con
il braccio al collo. Denis gli si avvicina. -
Come va, Nicolas? -
Bene, il medico dice che non è rotto. Devo solo tenerlo bloccato per qualche
giorno. Grazie per avermi salvato, duca. Denis
guarda il braccio bloccato dalla fasciatura. Sul torace ci sono alcune gocce
di sudore. Il
desiderio lo prende di colpo, lo afferra ai testicoli e sale a tendergli il
cazzo. Guarda negli occhi Nicolas. Denis
controlla che nessuno badi a loro e sussurra. - Ne
hai voglia, Nicolas? Nicolas
non dice nulla. Si limita a muovere un po’ la mano verso il basso, in modo da
indicare la protuberanza che si è formata nei suoi pantaloni. Denis sorride. Escono
insieme dallo stanzone e raggiungono la camera di Denis. Nicolas
può muovere solo un braccio, per cui è Denis a spogliarlo. Quando gli ha
calato le brache, osserva il cazzo, perfettamente in tiro. Nicolas si accende
in fretta, come Ferdinando. Denis prende in mano i coglioni di Nicolas, li
stringe un po’, poi afferra il cazzo e fa scorrere la mano tre volte dalla
base alla cappella. Poi
Denis si spoglia. Gli piace spogliarsi mentre Nicolas lo guarda, gli piace
leggere il desiderio negli occhi di quest’uomo, che è bello. Un uomo che non
dice di amarlo, non mente come Charles, ma lo desidera. Quando
è completamente nudo, Nicolas sorride e si inginocchia davanti a Denis. Gli
prende il cazzo in bocca e incomincia a succhiarlo. Una mano intanto stringe
una natica di Denis, le dita scorrono lungo il solco, scendono a stuzzicare i
coglioni del duca. E poi, quando ha lubrificato bene la cappella, Nicolas si
alza e si appoggia al tavolo. Denis
si mette dietro di lui, si afferra il cazzo e lentamente lo infila
nell’apertura. Poi si appoggia su Nicolas, gli cinge la vita con le mani, e
incomincia a spingere avanti e indietro. Procede a lungo così, poi quando
sente di essere ormai vicino a venire, afferra il cazzo di Nicolas con la
destra e prende a muovere la mano su e giù. Nicolas
mugola e viene, rovesciando la testa all’indietro, mentre anche Denis sente
la scarica che lo investe di un’onda di piacere. Quando
hanno concluso, Nicolas si riveste, con l’aiuto di Denis, e raggiunge i suoi
compagni. Rimasto
solo, Denis rimane a lungo pensieroso. Domani lasceranno il castello e si
dirigeranno verso Rougegarde. Denis
pensa a Maria, a Pierre. Si
alza, va a prendere le due miniature che ha scelto come parte del bottino.
Una raffigura una scena di caccia e l’altra una coppia in un giardino. Sono
eccezionali per la raffinatezza del disegno e la cura dei particolari.
Certamente sono opere prodotte per un grande signore, come Omar ibn Samih o
suo fratello, l’emiro di Jabal al-Jadid. Denis ha sentito parlare di un
giovanissimo artista, Waahid ibn Munthir, ormai noto in tutta la Siria. Sono
probabilmente opera sua, perché si distinguono da tutto ciò che Denis ha
visto fino ad ora. Guardandole,
Denis pensa che certamente Maria apprezzerà queste opere: la duchessa ama
l’arte ed è sensibile alla bellezza. A
volte Denis si dice che Amalrico è stato crudele a darla in sposa a un uomo
così brutto. Ma forse la scelta di Amalrico è stata dettata dal desiderio di
non crearsi un rivale nel cuore di Maria. Denis
ripone le miniature, soffia sulla candela e si spoglia al buio. * Una
settimana dopo Denis è di ritorno a Rougegarde. Si lava e si cambia, poi
raggiunge l’appartamento della moglie. Dopo che si sono scambiati notizie,
Maria gli chiede di raccontarle della spedizione. Denis le fa un resoconto
della loro impresa e quando ha concluso le porge ciò che ha portato per lei:
le miniature e i gioielli. -
Abbiamo trovato questi gioielli e le due miniature a Qasr Basir. Maria
ringrazia, osserva i gioielli e poi prende le due miniature. Denis aggiunge: -
Sono di certo di Waahid ibn Munthir, un pittore che forse conoscete. - Vi
ringrazio, duca. Maria
osserva con cura. -
Questa scena di caccia è magnifica. Non avevo mai visto un’opera così ricca e
raffinata. La gazzella sembra fuggire su un tappeto di fiori. E questi
cavalli… E i manti dei cavalieri. Maria
prende la seconda miniatura. Il suo sguardo cambia e gli occhi le si
inumidiscono. Mormora: -
Questa è ancora più bella. Solo
ora Denis si dice che l’uomo raffigurato, alto e corpulento, ha una certa
somiglianza con il re Amalrico, anche se certo non si tratta di lui. E la
donna, il cui viso è parzialmente velato, potrebbe essere Maria stessa. Non
sono loro i soggetti dell’immagine, ma Maria vi ritrova un ricordo, un
rimpianto. Denis
si sente di troppo. Si inchina e dice: - Io
vado. Ci vedremo più tardi. Maria
solleva lo sguardo. I suoi occhi luccicano. Dice. -
Grazie, duca. Grazie di tutto. Denis
capisce benissimo il senso di quelle parole. Si inchina nuovamente ed esce
senza dire nulla. Denis
prende il suo cavallo e lascia il palazzo. Passa per le strade della città e
cavalca fino a una delle porte. Poi lancia la cavalcatura al galoppo. È
strano che il duca esca senza nemmeno un soldato di scorta, ma non è un uomo
a cui qualcuno osi dire quello che deve o non deve fare. Oggi
Denis ha bisogno di rimanere da solo. Denis
sale fino al punto dove mostrò a Maria Rougegarde, il giorno in cui lei giunse
per il matrimonio, quattro anni fa. Dall’alto
del colle Rougegarde gli appare in tutto il suo splendore. Adesso accanto ai
minareti ci sono alcuni campanili, ma la capitale del ducato ha subito pochi
cambiamenti e rimane la perla della Terrasanta, la città più bella che Denis
abbia mai visto. Rougegarde,
il titolo di duca e il piccolo Pierre: questo è quanto possiede. Non
è poco, è molto più di quello che ha avuto suo padre, che, per quanto
magnanimo e valoroso, di questa terra non ha ottenuto nulla, nemmeno una
tomba. |