Seguendo
il sentiero che si arrampica sulla montagna, Denis è giunto in cima alla
grande parete grigia e ora può vedere dall’alto l’accampamento cristiano: una
distesa di tende sul terreno verdeggiante, che la calura estiva non ha ancora
inaridito. I grandi teli bianchi paiono quasi vele di navi all’ancora in una
baia. C’è un continuo movimento all’interno del campo: gli uomini si stanno
preparando perché l’esercito saraceno non deve essere lontano e con ogni
probabilità nei prossimi giorni ci sarà battaglia. Denis
osserva la tenda di Chrétien da Bayonne, il loro comandante: è la più grande
e in cima sventola il vessillo rosso e giallo del nobile guerriero. Non molto
lontano Denis può scorgere la tenda dove dorme con suo padre e altri soldati. Dopo
aver osservato l’accampamento, Denis scorre con lo sguardo il paesaggio
circostante. Ai piedi della nuda parete la vegetazione è rigogliosa: sulle
rive del fiume vi sono platani e frassini e più a monte un vasto bosco di
querce. Aggrappandosi a un arbusto, Denis si sporge di più, per vedere l’area
paludosa a valle dell’accampamento, ricoperta da un intrico di canne, tra cui
spiccano alcuni alberi. Se
l’arbusto cedesse, Denis precipiterebbe e morirebbe sul colpo. Ma Denis
d’Aguilard non ha paura. Sa che la morte può prenderlo in qualsiasi momento:
in Terrasanta gli uomini e soprattutto i soldati non vivono a lungo, perché
le guerre e le malattie fanno strage. Domani stesso la sua vita potrebbe finire,
se ci sarà battaglia. Denis ha visto morire molti di coloro che combattevano
con suo padre e con lui. Ha visto uomini mutilati, saccheggi e stragi. Fin da
bambino Denis è sempre vissuto tra soldati e ha già partecipato a diversi
scontri, pur avendo appena sedici anni. Allevato da un padre guerriero, Denis
è divenuto più abile a maneggiare la spada di molti altri soldati che hanno
un’esperienza di gran lunga maggiore. L’idea
di affrontare il nemico, di rischiare la vita, di uccidere o di venire ucciso,
non spaventa Denis. Ma oggi Denis è teso, di una tensione che ha ben altra
origine: il suo corpo desidera, con violenza. È un desiderio dai contorni
confusi, che si accende alla vista di un guerriero che si lava in un
torrente, di uno schiavo sul cui torace scivolano goccioline di sudore, di un
maschio steso sul giaciglio a riposare. Denis non ama: in questa vita errante
di duri esercizi militari e battaglie, non ha ancora scoperto l’amore. Ma il
desiderio preme. Denis
pensa a Mathieu, anche lui giovanissimo. È bello Mathieu, un bel volto dai
lineamenti regolari, grandi occhi scuri, riccioli neri che gli incorniciano
il viso, labbra carnose e un naso diritto. Piace a molti, questo ragazzo di
sedici anni che combatte con i franchi. Piace anche a Denis. Mathieu non
disdegna le attenzioni di alcuni dei cavalieri: Denis lo ha visto appartarsi
con il sassone, quello dalla barba rossa. Denis si chiede se Mathieu sarebbe
disposto a donargli un po’ di piacere. Il sassone deve avere cinquant’anni. È
un uomo molto forte, ma non è bello come altri, ad esempio il conte
d’Espinel. Eppure Mathieu va con lui… Denis
è incerto. In battaglia Denis è sicuro di sé e molti si stupiscono per il suo
coraggio, ma suo padre l’ha allenato a combattere fin da quando era bambino.
Le schermaglie amorose gli sono invece del tutto ignote. E Denis sa bene di
non essere bello. Ha un viso dai tratti molto irregolari, che in molte donne
suscitano repulsione. La sua unica bellezza sono gli occhi, di un azzurro
molto intenso. Pochi mesi fa durante un banchetto, dopo un combattimento, un
cavaliere ha detto a suo padre: -
Tuo figlio è tanto valoroso quanto brutto. Suo
padre ha riso: in un guerriero il valore conta molto di più della bellezza.
Ma in altri combattimenti, la bellezza è un’arma importante. Denis
decide di cercare Mathieu. Sa dove trovarlo: tra le tende dei provenzali.
Denis scende lungo il sentiero. A un certo punto una vipera gli passa
davanti, scomparendo rapidamente tra le rocce. Alcuni dei soldati vedrebbero
nel serpente un cattivo presagio, ma Denis non se ne preoccupa, non crede che
il movimento di un animale possa essere un segno del destino. Denis raggiunge
l’accampamento e passando davanti alla tenda dove dorme vede suo padre, che
sta controllando lo scudo. -
Sei pronto per la battaglia, Denis? Hai preparato tutto? È
una domanda che non richiede davvero una risposta: Pierre d’Aguilard sa bene
che suo figlio è meticoloso. Denis
risponde: -
Sì, padre. Ho provveduto a tutto. Pierre
annuisce. È inutile che interroghi il figlio, che gli chieda conto di ogni
dettaglio, come faceva un tempo: sa benissimo che Denis non ha dimenticato
nulla, non ha trascurato nulla. Pierre sorride. È orgoglioso di suo figlio,
del suo senso di responsabilità, del suo coraggio, della sua lealtà. Pierre
spera che un giorno possa raggiungere una buona posizione in queste terre che
i franchi hanno strappato ai saraceni. Forse sarà a capo delle truppe di
qualche signore, forse diventerà barone. Ma ci sono dei momenti in cui Pierre
ha dei dubbi, si chiede se non farebbe meglio a mandare Denis nella loro
terra natia, dal proprio fratello maggiore, l’erede del piccolo feudo di
Bellerivière, in Francia. Qui in Terrasanta lo espone a continui pericoli. Ma
quando la madre di Denis è morta, Pierre ha preferito prendere il figlio con
sé e insegnargli il mestiere delle armi. Denis
fa un cenno di saluto e si dirige verso le tende dei provenzali. Mathieu è
seduto vicino all’ingresso di una tenda, da solo. Denis si dice che è
fortunato: non deve cercarlo, non deve chiedere di lui. Il loro incontro può
apparire del tutto casuale. Ma Denis si sente irrequieto. Forse preferirebbe
affrontare un guerriero saraceno in battaglia: saprebbe come muoversi. Denis
si avvicina a Mathieu, che lo saluta: si conoscono e il fatto di essere i più
giovani tra i soldati li ha portati a fraternizzare in alcune occasioni. Denis
si siede di fronte a Mathieu e gli dice: -
Mio padre è sicuro che domani o dopodomani i saraceni daranno battaglia. - Sì,
l’ho sentito dire anch’io. Hanno già attraversato il Giordano. Denis
non sa come proseguire, si rende conto di non essere bravo con le parole come
lo è con le armi. Dice: -
Domani potremmo morire. Mathieu
si fa il segno della croce: -
Perché dici queste cose, stupido? Non chiamare la morte, che viene anche
quando nessuno la cerca. Denis
non crede che nominare la morte possa portare male, ma asseconda Mathieu. -
Hai ragione. È che… mi chiedevo… Denis
si è perso. Non sa più che cosa dire. Guarda il viso di Mathieu, che è troppo
bello, e pensa all’immagine che gli rimanda l’acqua di uno stagno. -
Che hai, Denis? Mathieu
sorride dello sconcerto di Denis. E in quel sorriso Denis legge un
incoraggiamento. Fosse più esperto, saprebbe leggere nel sorriso di Mathieu
un po’ di scherno, ma la concentrazione di cui Denis dà prova quando combatte
ha lasciato il posto a una grande confusione. Denis annaspa, cercando di
rimanere a galla, e non si rende conto che i suoi movimenti scomposti lo
trascinano a fondo. -
Pensavo che mi piacerebbe, prima di combattere… Denis
non sa che parole usare. Quelle che sente dagli altri soldati, e che a volte
lui stesso usa per non apparire bambino, quando si trova con loro, ora non
gli sembrano adatte. Denis riesce ancora a dire: -
Perché non ci cerchiamo un posto tranquillo, Mathieu, io e te? Mathieu
lo guarda, poi dice: - Un
posto tranquillo… io e te?! Mathieu
scoppia a ridere, una risata irrefrenabile. Ha le lacrime agli occhi dal gran
ridere. A Denis sembra di aver ricevuto una frustata in faccia. -
Che hai da ridere, briccone? A
parlare è stato il sassone dalla barba rossa, quello che Denis ha visto in
altre occasioni con Mathieu. Deve essersi avvicinato mentre Denis parlava.
Denis spera che non abbia sentito le sue parole. Mathieu
scuote la testa, ancora scosso dalle risa. Il sassone dice: -
Vieni con me. Mathieu
si alza. Guarda un attimo Denis, con una smorfia di scherno in viso. Poi se
ne va, senza dire nulla. Denis guarda il sassone, osserva il viso possente
segnato dalle rughe che vent’anni di guerra e vento hanno scavato sul suo
volto, la barba rossiccia, i capelli che conservano solo una traccia del
colore originario. Quando
Mathieu e il sassone scompaiono, Denis rimane a fissare il vuoto. Ci vuole un
buon momento perché trovi la forza di alzarsi. Allora si dirige di gran
fretta alla sua tenda. -
Che c’è Denis? -
Nulla, padre. Desidero riposare un momento. - È
successo qualche cosa? -
No, padre. Pierre
d’Aguilard non insiste. Se Denis sente l’esigenza di stare da solo, non vuole
interferire. Ma il repentino cambiamento di umore del figlio lo lascia
perplesso. Denis
si stende e rimane in silenzio, dando le spalle all’ingresso della tenda. Si
è comportato da idiota, si è messo in ridicolo. Come ha potuto pensare che
qualcuno potesse essere attratto da lui, con la faccia che si ritrova? Perché
si è scoperto in quel modo goffo e stupido con Mathieu? Denis
ha le lacrime agli occhi. Sono lacrime di rabbia, non di dolore, se ne rende
conto. Mathieu
si allontana dall’accampamento con Egbert, il guerriero sassone che alcuni
chiamano Barbarossa: è il soprannome dell’imperatore Federico, che da tempo
promette di partire per la Terrasanta. Federico I non l’ha mai fatto, ma
Egbert di Hagon sì e da allora non ha mai smesso di combattere. Ora è al
servizio del conte Tancrède d’Espinel, un valoroso guerriero franco. Egbert
cammina davanti a Mathieu e i due raggiungono l’area paludosa dove canne,
alberi e arbusti offrono un riparo dagli sguardi. Egbert si guarda intorno e
sceglie un’area dove un platano spezzato appoggia i rami sul terreno. Intorno
un intrico di canne e arbusti li nasconde completamente. Egbert
mette le mani sui fianchi di Mathieu e solleva la tunica con un gesto brusco,
togliendogliela e gettandola sul tronco dell’albero. Mathieu sente un brivido
di piacere corrergli lungo la schiena al contatto di quelle mani forti. Egbert
contempla Mathieu. -
Sei bello, Mathieu. Sei bello. Lo
afferra e lo avvicina a sé. Ora i loro corpi aderiscono e le mani di Egbert
scorrono lungo la schiena del ragazzo, in una vigorosa carezza, poi si
fermano sulle natiche e stringono il culo, facendogli male. Due dita
scivolano lungo il solco a cercare l’apertura, l’indice si infila dentro. -
Cristo! Ho una voglia… Stenditi, dai. Egbert
fa voltare Mathieu, ma, prima che questi possa appoggiarsi al tronco, gli
afferra di nuovo il culo, poi lo cinge con le braccia. Le sue mani percorrono
il corpo del ragazzo, in una carezza ruvida che sale al collo e al viso, per
poi scendere lungo il torace glabro fino al ventre e al sesso. -
Fa’ piano, Egbert. Io… Egbert
ride. Una risata che graffia. -
Sta’ tranquillo. Non ti do niente di più di quello che vuoi gustare. Egbert
spinge Mathieu ad appoggiarsi sul tronco del platano crollato a terra.
Contempla il culo del ragazzo, le natiche lisce e rosee, che la peluria non
ricopre ancora. Bruscamente si china su Mathieu e affonda i denti nella carne
delicata, lasciando un segno rosso. -
Ahi! Mi hai fatto male. Egbert
ride e morde ancora, meno forte. Guarda la traccia lasciata dai denti nella
carne. È bello questo culo giovane, snello e armonioso. -
Ora mi prendo questo bel culo. Egbert
ride ancora. Mathieu allarga un po’ le gambe. Egbert solleva la sua tunica e
si prende con la destra il cazzo vigoroso. Si sputa nel palmo della sinistra
e inumidisce la cappella, poi sputa sul solco e con le dita sparge la saliva
intorno all’apertura. L’indice e il medio indugiano in una carezza e poi
s’infilano, dilatando la carne. Egbert sente che il desiderio cresce, famelico. Mathieu
geme al contatto di quelle dita ruvide. Egbert toglie le dita e avvicina la
cappella al buco. Guarda il proprio cazzo vigoroso e la cappella violacea.
Prova una sensazione di forza e nuovamente ride. Poi appoggia il cazzo contro
il buco e, lentamente, spinge dentro. Mathieu
sente la pressione del palo caldo che sta penetrandolo. Ha paura: l’ha fatto
poche volte e con Egbert è sempre doloroso. Eppure non vuole sottrarsi: il
piacere che prova tra le braccia di questo guerriero forte e potente è intensissimo;
nessuno degli altri soldati a cui si è dato gli ha trasmesso le stesse
sensazioni. Egbert avanza lentamente, lasciando a Mathieu il tempo di
abituarsi a questa invasione. Mathieu geme. -
Hai un gran bel culo, Mathieu. Un bel culetto sodo e caldo come piace a me. Egbert
spinge più a fondo. Mathieu geme di nuovo: un gemito di dolore, questa volta,
perché il dilatarsi delle sue viscere per la pressione provoca sofferenza,
per quanto possa essere piacevole. Ma Mathieu non chiede a Egbert di
fermarsi: di fronte a questo guerriero la sua resa è totale. Egbert
avanza ancora. Ora sente che il suo cazzo è per intero dentro Mathieu e per
un momento gusta il piacere intenso che gli trasmette il fodero di carne in
cui ha infilato la propria spada. Poi Egbert si ritrae, per avanzare
nuovamente, in un movimento ritmico che strappa nuovi gemiti a Mathieu. La
scorza dell’albero è ruvida e sfrega contro la pelle del ragazzo, ma la
sensazione che sale dal suo culo è troppo forte: Mathieu non si accorge
neppure che un po’ di sangue cola dal torace, dove un rametto ha lacerato in
superficie la pelle. Mathieu
si abbandona completamente alle sensazioni che salgono dal suo culo, a questa
mescolanza di piacere e dolore che lo inebria. Mormora solo: -
Egbert! - Ti
piace, eh? Le
mani di Egbert stringono le natiche di Mathieu, mentre il suo spiedo lavora a
fondo, con grande energia. Mathieu chiude gli occhi. Egbert
si muove con tanta foga che per due volte esce completamente dal culo di
Mathieu, per poi rientrare con decisione. Mathieu non avverte più il dolore,
ma solo il piacere che cresce e percorre tutto il suo corpo. Quando infine
Egbert viene dentro di lui, riempiendogli il culo del suo seme, Mathieu geme,
preda di un piacere che non è meno forte di quello provato da Egbert, anche
se non è venuto. Egbert
si abbandona sul corpo di Mathieu. -
Hai un bel culo, ragazzo. Proprio un bel culo. Egbert
stringe ancora le natiche del ragazzo tra le mani, poi esce da lui e si
rialza. Guarda Mathieu, ancora appoggiato al tronco. Sorride. Il cazzo sta
perdendo volume e consistenza. Egbert si sposta leggermente e piscia tra le
canne. Poi si rassetta rapidamente. Mathieu è ancora appoggiato al tronco. - Io
vado, Mathieu. Mathieu
annuisce. Lentamente si stacca dall’albero, stordito dal piacere. Egbert
si allontana senza voltarsi. Allora
Tancrède d’Espinel esce dal canneto dove si era nascosto per vedere la scena.
Si avvicina a Mathieu, che ancora non lo vede, perché è rivolto in direzione
opposta. Gli afferra le braccia, prendendolo di sorpresa. Mathieu sussulta,
volta il capo e vede il conte. -
Conte… che fate? -
Non fare la verginella, Mathieu. Ti ho visto con Egbert. Adesso io faccio la
stessa cosa con te. -
Conte, no, vi prego, io… - Tu
fai quello che ti dico, Mathieu, o racconterò a tutti che Egbert di Hagon ti
fotte. Vuoi che tutto il campo sappia che sei una troietta in calore? Mathieu
tace, incerto. Se si sapesse che lui e Egbert scopano, correrebbero entrambi
dei rischi: la sodomia, per quanto largamente diffusa negli eserciti
cristiani di Terrasanta, è condannata dalla Chiesa. E in ogni caso Mathieu
non vuole che tutti lo sappiano e che magari si ritengano autorizzati a
prenderlo, come fosse davvero una troia. Mathieu
sa che è più prudente cedere. Non gli costa molta fatica: il conte d’Espinel
è un bell’uomo, ricco e potente. Ed Egbert combatte alle sue dipendenze. Tancrède
esercita una leggera pressione, spingendo Mathieu contro l’albero. Mathieu lo
lascia fare. Tancrède fa scorrere due dita lungo il solco. Sente il liquido
appiccicaticcio intorno al buco. Infila con decisione l’indice, poi lo estrae
e guarda il liquido biancastro. Esita un attimo. Mathieu non può vederlo: sta
guardando in avanti. Tancrède si porta il dito alla bocca e lo fa scorrere
tra le labbra. Il gusto dello sborro di Egbert di Hagon. Il conte ripete
l’operazione. E il cazzo gli si tende ancora di più. Lo sborro di Egbert, il
capo delle sue guardie. Tancrède
ha visto Egbert e Mathieu allontanarsi dal campo e ha intuito: aveva già
sentito delle voci su loro due. Li ha seguiti a distanza, si è nascosto nella
macchia e ha guardato Egbert fottere Mathieu. Il desiderio si è acceso
subito, prepotente. Tancrède
non riusciva a distogliere gli occhi. Egbert è un uomo forte, di cui Tancrède
ammira la potenza. Vederlo scopare è stata una sensazione violenta. Per un
attimo gli ha visto anche il cazzo teso. Ha desiderato toccarlo, stringerlo
tra le dita. Quando
Egbert se n’è andato, ha deciso che avrebbe preso il suo posto su Mathieu.
Vuole infilare il cazzo nello stesso culo che Egbert di Hagon ha posseduto.
Vuole mescolare il suo sborro con quello del sassone. Vuole stringere lo
stesso corpo. Tancrède
entra con decisione: l’apertura è già stata lubrificata dalla saliva e dal
seme di Egbert e dilatata dal potente cazzo del sassone. Mathieu geme, ma
l’ingresso, per quanto deciso, non ha procurato dolore. Tancrède
afferra con le mani il culo di Mathieu e rivede Egbert che lo stringeva, che
lo fotteva. Il suo cazzo è al posto di quello di Egbert, nello stesso culo.
Tra poco il suo seme si mescolerà a quello del sassone. Mathieu
non dice nulla. Assapora questo sperone che penetra dentro di lui. Non è
grande e forte come quello di Egbert, ma rinnova le sensazioni piacevoli che
l’altro gli ha trasmesso. Tancrède
spinge e nella sua mente le immagini si confondono. Egbert che possiede
Mathieu. Tancrède che possiede Mathieu. Il grosso cazzo di Egbert che preme.
Tancrède non sa che cosa sta facendo, non sa se sta possedendo Mathieu o se è
Egbert a prenderlo. Tancrède emette un singhiozzo e viene, con una serie di
spinte violente. Nella sua mente c’è l’immagine di Egbert. Si
ritrae, ansimante. Non dice nulla, non prende commiato. Si sistema la tunica
e si dirige verso il campo. Mathieu
si stacca dal tronco. Si nasconde nella macchia per liberarsi dal seme che i
due uomini hanno riversato dentro di lui, poi raggiunge il ruscello e si
lava. Infine si riveste e ritorna all’accampamento. È confuso da quello che è
successo. Il conte d’Espinel è un bell’uomo, a Mathieu non spiace aver
scopato con lui. Spera di poterlo fare ancora. È
scesa la notte e gli uomini dormono. Ormai appare sicuro che domani mattina
ci sarà battaglia: le truppe saracene puntano direttamente contro l’esercito
cristiano. Gli uomini cercano nel sonno di ristorare le forze per poter
affrontare le fatiche dello scontro. Pierre
d’Aguilard ed Egbert di Hagon riposano tranquilli: hanno visto molte
battaglie e non hanno paura di affrontare la morte. Anche Mathieu riposa: per
quanto ciò che è successo oggi lo abbia turbato, non crea in lui tanta ansia
da impedirgli di riposare. Non
tutti però riescono a dormire. Denis
d’Aguilard ascolta il respiro pesante di suo padre. C’è abituato: dorme con
lui tutte le notti, da quando, a sei anni, ha perso la madre e suo padre lo
ha portato con sé in Terrasanta, alla ricerca di un futuro che la Francia non
offriva. Ma questa notte gli sembra che quel respiro sia insopportabile.
Denis si rigira sul giaciglio e il pensiero corre ossessivo a Mathieu, a
quella risata che era uno schiaffo. Denis vorrebbe non aver mai parlato, non
aver mai incontrato Mathieu. Vorrebbe scomparire per la vergogna. Tancrède
d’Espinel veglia disteso sul suo letto da campo. Ciò che è successo oggi lo
ha turbato. Ha preso il ragazzo con una minaccia, ma non è certo questo a
impedirgli di dormire: Mathieu non ha davvero opposto resistenza e prima
aveva lasciato che Egbert di Hagon lo prendesse. È il pensiero di Egbert a
ossessionare Tancrède. Egbert è il capo della sua guardia, un uomo che gli
deve obbedienza. Tancrède sa di aver seguito lui e Mathieu perché voleva
vederli scopare. Ma non è il corpo di Mathieu ad attrarlo, anche se è Mathieu
che lui ha posseduto. Vedere Egbert fottere Mathieu è stata un’esperienza
sconvolgente. E dentro la testa di Tancrède vi è una grande confusione,
vorticano pensieri e desideri che preferisce non definire. * È
molto presto quando la sveglia viene data nell’accampamento franco: i
saraceni sono ormai molto vicini e occorre prepararsi per una battaglia che
appare inevitabile. I guerrieri lasciano l’accampamento e si dirigono verso
l’imbocco della valle. Qui le pareti sono meno scoscese ed è possibile
occupare una posizione elevata, che costituisce un vantaggio nella battaglia.
I
franchi occupano i due versanti: all’ala destra, sotto il comando di Tancrède
d’Espinel, sono schierati anche Pierre e Denis d’Aguilard; lo schieramento
centrale, che blocca la valle, è guidato dal comandante delle truppe,
Chrétien da Bayonne; l’ala sinistra, sull’altra collina, è guidata da un
altro cavaliere franco, Renaud di Soissons. Due
ore dopo i nemici compaiono sulla riva del fiume. Vi sono fanti e cavalieri.
Non è un grande esercito, ma neanche le truppe cristiane sono numerose: non è
una di quelle battaglie destinate a mutare le sorti della guerra più o meno
continua che oppone franchi e saraceni. È solo un piccolo scontro in cui si
cancelleranno alcune centinaia di vite umane. Denis
d’Aguilard guarda l’esercito saraceno, che avanza compatto, e ne valuta la
forza, come ha imparato a fare: ha già combattuto più volte e ha assistito a
battaglie fin da quando era bambino. Pur essendo, insieme a Mathieu e due o
tre altri, il più giovane guerriero del campo, gode già di una meritata fama
di soldato molto valoroso. Benché non provi paura, come sempre in queste
occasioni avverte la tensione nel suo corpo. Sa che tutte le loro vite sono
in gioco. Gli
arcieri saraceni sono in posizione. Una pioggia di frecce si abbatte sullo
schieramento franco. Nonostante gli scudi e i ripari offerti dai massi e
dagli alberi, sono diversi i guerrieri franchi che vengono feriti o uccisi.
Uno cade di fianco a Denis con un grido. Appena
gli arcieri hanno smesso di lanciare frecce, un gruppo di saraceni attacca
l’ala destra, dove si trovano Denis e suo padre. Salgono lungo il pendio a
cavallo, rapidi. I franchi mettono mano alle lance, facendo strage dei
cavalieri e colpendo i cavalli. I saraceni appiedati vengono uccisi con le
spade. Il
primo assalto è stato respinto e i saraceni sembrano abbandonare il proposito
di conquistare la collina. Ora il loro impeto si concentra sul lato opposto
dello schieramento, dove la battaglia infuria più sanguinosa. Le truppe di
Renaud di Soissons sono sotto pressione, ma il grosso dell’esercito
cristiano, sotto la guida di Chrétien da Bayonne, va in loro soccorso. E
proprio mentre il fondovalle rimane sguarnito di uomini, improvvisamente
nuove truppe saracene appaiono sul fianco della collina su cui combatte
Denis. I soldati sono tantissimi, molti di più dei cristiani: l’esercito
nemico è assai più numeroso di quanto sembrasse. Ai
cristiani appare subito evidente che non è possibile resistere a truppe di
tanto più forti. Il conte d’Espinel, che comanda l’ala destra, ordina di
ripiegare verso il centro dello schieramento, ma l’attacco nemico è troppo
impetuoso e impedisce ai guerrieri franchi di ricongiungersi con il resto
dell’esercito, impegnato sul lato opposto della valle. A
guidare le nuove truppe è un comandante che sprona i suoi uomini e non lascia
tregua ai cristiani. I suoi uomini lo chiamano al-Majid, il glorioso. L’ala
destra dell’esercito cristiano, ormai decimata dallo scontro, si stringe
compatta, in un vano tentativo di difesa contro forze di gran lunga
soverchianti. Pierre d’Aguilard ed Egbert di Hagon combattono con foga,
abbattendo uno dopo l’altro i guerrieri che attaccano. A un certo punto
al-Majid li nota e si scaglia contro questi avversari che paiono vanificare
tutti i suoi sforzi. Al-Majid cerca di colpire Pierre d’Aguilard con la
spada, ma Pierre para il colpo con lo scudo e a sua volta attacca. Tra i due
guerrieri incomincia un duello, che per un momento pare quasi interrompere il
combattimento in corso. Il comandante saraceno incalza Pierre d’Aguilard, ma
questi non cede, limitandosi a piccoli spostamenti. Vicino a loro l’aiutante
di al-Majid attacca Egbert e il loro scontro non è meno feroce. Al-Majid
riesce a colpire Pierre al braccio sinistro. Il sangue scorre dalla ferita,
ma Pierre non cede. Con un movimento improvviso si lancia sull’avversario,
che riesce a parare il primo colpo, ma Pierre muove rapidissimo la spada e la
passa sotto lo scudo di al-Majid, ferendo il saraceno al ventre. Questi
lancia un grido e si ritrae, ma Pierre lo incalza e mena un fendente sul
collo di al-Majid, recidendogli il capo. Intanto Egbert ha avuto ragione del
suo antagonista e gli ha trapassato il cuore con la spada. I cristiani
gridano la loro gioia a vedere crollare i due avversari, ma la loro allegria
si tramuta presto in sgomento. Intenti a osservare i combattenti e a
difendersi dai saraceni, gli uomini dell’ala destra non si sono resi conto
che il grosso dell’esercito cristiano si sta ritirando progressivamente, non
potendo resistere agli attacchi. L’ala destra è ormai completamente isolata e
i saraceni hanno circondato i sopravvissuti, togliendo loro ogni possibilità
di unirsi agli altri. Denis
guarda oltre le file dei nemici, sperando di vedere che le truppe cristiane
si muovono in loro soccorso, ma nell’esercito in ritirata nessuno sembra
occuparsi del drappello che è rimasto isolato. Denis si rende conto che per
tutti loro è la fine: li attende la prigionia o la morte. I
saraceni sono molto più numerosi. Ora li guida un altro ufficiale, che li sprona.
Furiosi per la morte del loro comandante e imbaldanziti dalla certezza della
vittoria, i saraceni si fanno sotto, massacrando senza pietà chi cerca di
resistere. Uno dopo l’altro, cavalieri e fanti cadono, trafitti dalle frecce,
dalle lance o dalle spade. Il conte d’Espinel viene ferito a una spalla e
catturato. Pierre d’Aguilard ed Egbert di Hagon continuano a combattore
valorosamente. Pierre incoraggia i soldati cristiani a resistere, si avventa
sui saraceni, fa strage dei nemici. Egbert è al suo fianco. L’ufficiale che
ha preso il posto di al-Majid alla guida dei saraceni si slancia su Pierre
d’Aguilard. Non riesce a ferirlo, ma il suo colpo sbilancia Pierre e lo fa
cadere. Un saraceno gli è addosso e gli preme la lama alla gola, intimandogli
di arrendersi. Pierre d’Aguilard non ha scelta. Mentre
combatte con un avversario, Egbert viene attaccato alle spalle da due uomini,
che riescono a mandarlo a terra. Prima che possa rialzarsi, diversi saraceni
gli sono addosso e lo immobilizzano. La
battaglia è conclusa: l’esercito cristiano è in ritirata, alcuni soldati
cristiani, tra cui il comandante dell’ala destra, il conte d’Espinel, sono
prigionieri. Denis
è sgomento. Sono in mano ai saraceni: li aspetta una vita di schiavitù. Ma
almeno sono ancora vivi. Forse alcuni di loro, come il conte, potranno
riottenere la libertà, se la famiglia accetterà di pagare il riscatto. Denis
guarda gli uomini sopravvissuti. Tra loro vi è Mathieu. I loro sguardi si
incrociano, ma negli occhi di Mathieu non vi è più scherno, solo angoscia. I
saraceni spogliano i cadaveri dei vinti e raccolgono i propri morti. Mentre
sono intenti a questa operazione, giunge il comandante in capo dell’esercito
saraceno. Si avvicina al corpo di al-Majid e pronuncia una breve preghiera.
Poi si sofferma davanti al cadavere dell’aiutante e chiede a uno degli
ufficiali chi ha ucciso i due uomini. Denis,
che parla benissimo l’arabo, sente l’angoscia stringergli il cuore. Nel viso
dell’uomo legge una rabbia che cerca vendetta. L’ufficiale
indica Pierre d’Aguilard ed Egbert. Il comandante li fa trascinare davanti a
lui. Poi si rivolge a Pierre: -
Hai ucciso tu al-Majid, vero? Pierre
non mostra paura. Risponde con voce ferma: -
Sì, in combattimento leale. -
Sarai giustiziato ora: inginocchiati. Denis
urla: -
No! Pierre
d’Aguilard si mette in ginocchio e si rivolge al figlio: -
Taci, Denis. Devi mostrarti forte. Il
comandante si rivolge a uno dei soldati: -
Tagliagli la testa. Il
soldato sguaina la scimitarra, che, come altri guerrieri saraceni, usa al
posto della spada. Pierre
d’Aguilard dice: -
Non chiudere gli occhi, Denis. E non guardare da un'altra parte. Denis
ricaccia dentro di sé l'angoscia che preme. -
Sì, padre. Denis
guarda il viso del padre, impassibile. Denis vorrebbe urlare, vorrebbe
fermare il boia che si prepara a vibrare il colpo mortale, vorrebbe poter
morire ora, prima di vedere la morte di suo padre. -
Addio, Denis. Tieni sempre fede alla tua parola. La
lama cala, fulminea, e la testa di Pierre d’Aguilard cade nella sabbia. Per
un attimo il corpo rimane immobile, poi crolla a terra, mentre il sangue si
sparge tutt’intorno. Ora
Denis chiude gli occhi, che si stanno riempiendo di lacrime. Vorrebbe non
aprirli mai più, sprofondare nel nulla. Il
comandante ordina a Egbert di Hagon di inginocchiarsi di fianco al corpo di
Pierre. Egbert conosce poco l’arabo, ma ha capito che cosa gli viene chiesto.
Sa che sta per morire. Si inginocchia, senza mostrare paura. -
Fermati, comandante. È
stato Tancrède d’Espinel a parlare. Il comandante lo guarda. -
Quest’uomo è al mio servizio. Sono il conte di Espinel e pagherò il riscatto
per lui e per me. Ha combattuto lealmente. Il
comandante guarda il conte, poi Egbert. Annuisce. Dà ordine di risparmiarlo. Denis
guarda Egbert che si alza. Perché Egbert ha avuto la vita salva e suo padre
no? Perché il conte non è intervenuto anche per suo padre? Probabilmente il
conte non avrebbe potuto salvarlo. Ma Denis vorrebbe gridare. Denis
fa parte del bottino della battaglia: è uno dei tanti franchi che sono stati
catturati. Alcuni di loro possono sperare di riscattarsi. Non Denis, che non
ha più nessun contatto con lo zio, signore di Bellerivière, in Francia. Il
suo destino è diventare schiavo. Denis
ha sentito raccontare storie terribili sulla condizione degli schiavi dei
saraceni. In ciò che si narra vi sono indubbiamente esagerazioni: la realtà
non è sempre così orrenda. Ma di certo lo aspetta un futuro molto difficile. In
questo momento non gli importa nulla della schiavitù e di tutte le
umiliazioni che potrà subire, della fatica e della sofferenza fisica, della
morte che è il destino di molti schiavi: a Denis sembra di essere già morto;
solo il suo corpo, vigoroso, continua a esistere, ma dentro di lui ogni luce
è spenta. Mentre
gli altri prigionieri si angosciano e s’interrogano reciprocamente, cercando
rassicurazione e trovando solo nuovi motivi di ansia, Denis vive nella più
completa indifferenza. Non risponde neppure a chi gli parla. Rimane in
silenzio, lo sguardo fisso nel vuoto. I
prigionieri vengono divisi alla presenza del comandante in capo dell’armata
saracena: egli vigila che ognuno ottenga gli uomini che ha catturato, tolta
la quota del sovrano. L’uomo
che ha catturato Denis e suo padre è uno dei capitani, Abdul-Qaadir ibn Abd
Allah. Denis spetta a lui. Anche Mathieu è stato catturato da Abdul-Qaadir,
ma quando viene presentato al comandante in capo, questi lo osserva e dice: - Un
ragazzo così bello dovrebbe essere riservato al sovrano. Abdul-Qaadir
sembra irritato, ma cerca di nasconderlo. - Se
questa è la tua volontà, comandante, mi inchino. Ma io credo che il conte
Tancrède d’Espinel, la cui famiglia certo verserà un riscatto, possa essere
più apprezzato dal nostro emiro. Mentre
lo dice, Abdul-Qaadir fa avanzare Tancrède. Il comandante in capo lo
interroga, nella lingua dei franchi: - La
tua famiglia ti riscatterà? -
Sì. I miei parenti pagheranno per me e per Egbert di Hagon. -
Bada, se menti, se la tua famiglia rifiuta di pagare il riscatto, finirai
nelle miniere di sale. Il nostro sovrano Nur ad-Din Abu al-Qasim Mahmud ibn
Imad ad-Din Zangi non tollera inganni. -
Non mento. Posso riscattarmi. Il
comandante annuisce. Non vuole scontentare uno dei suoi migliori capitani,
per cui dice, in arabo: - Va
bene, Abdul-Qaadir, puoi tenerti il giovane. Il sovrano avrà il nobile franco
e il suo servitore. I
sei prigionieri di Abdul-Qaadir vengono riportati nelle tende del capitano.
Abdul-Qaadir si rivolge a loro usando la lingua dei franchi. Ne conosce solo
alcune parole ed espressioni, ma non ha bisogno di dire molto: si limita a
comunicare che sono suoi schiavi, che ogni tentativo di fuga sarà punito con
la morte e che la loro vita è nelle sue mani. Denis
ascolta. Non dice nulla, non rivela di conoscere perfettamente l’arabo. Sente
ciò che dicono gli uomini intorno a lui, indifferente a tutto. La
sera il capitano Abdul-Qaadir si avvicina ai prigionieri, che dormono per
terra, vicino alle tende. Un servitore con la torcia accompagna il capitano,
che si rivolge a Mathieu. -
Tu, vieni con me. Mathieu
si alza e segue il comandante. Entrano nella tenda di Abdul-Qaadir. La torcia
illumina l’interno della tenda, proiettando le ombre degli occupanti sul
telo. Denis guarda la tenda del comandante. Mathieu ha sempre le mani legate.
Il comandante si sta spogliando: si vede la sua ombra sfilarsi la tunica. Poi
il comandante poggia una mano sulla testa di Mathieu e lo forza a
inginocchiarsi davanti a lui. L’ombra di Abdul-Qaadir è di profilo ora.
Mathieu avvicina la testa. Che cosa stia succedendo, si può intuire. Il capo
del ragazzo sembra premere contro il ventre dell’uomo. La testa di Mathieu si
ritrae e una mano del comandante si abbatte sul viso del giovane. La mano
afferra i capelli e forza la testa contro il ventre. Le
voci vicino a Denis lo fanno sussultare: non si è accorto dei due soldati che
si sono avvicinati in silenzio e ora stanno parlando tra di loro, a bassa
voce, in piedi di fianco a lui. Probabilmente non sospettano che il
prigioniero conosca l’arabo. O forse non si pongono nemmeno il problema. - Il
comandante si fa succhiare il cazzo. -
Poi glielo metterà in culo. - Lo
invidio. Quel ragazzo ha una bocca… - E
un culo… Scoppiano
a ridere entrambi. -
Shhh, non così forte: se ci sente, finiamo nei guai. -
Voglio vederli. -
Anch’io. Fermiamoci qui. -
Piacerebbe anche a me assaggiare quel culo. -
Potremmo prenderci l’altro. C’è un altro ragazzo, no? Dev’essere qui tra i
prigionieri. A
Denis manca il fiato. -
Quel cane con gli occhi azzurri? È brutto come un demone malvagio. - Di
viso sì, ma ha un bel corpo. Non mi spiacerebbe gustare il suo culo. Denis
pensava di essere giunto al fondo, ma si accorge che c’è ancora lo spazio per
precipitare. L’altro soldato risponde: -
No, non mi va. E comunque se il comandante lo viene a sapere, io e te finiamo
nelle miniere di sale. -
Nelle miniere di sale ci finirà lui! Comunque hai ragione. Non ne vale la
pena. -
Guarda! Ora
l’ombra del comandante ha il grande uccello teso, perfettamente visibile, e
Mathieu ne sta succhiando la cappella. Denis guarda, senza riuscire a
distogliere gli occhi. Poco
dopo Mathieu si stacca, si alza e si volta, poi piega il corpo in avanti,
poggiandosi sui cuscini. Ora Denis può guardare l’uccello che avanza verso il
culo del ragazzo. Il comandante porta la mano alla bocca e poi la fa scorrere
tra i fianchi del ragazzo. Poi avvicina ancora l’uccello e le due ombre si
fondono. Denis vede l’ombra di Mathieu sollevare la testa di scatto: il
comandante è entrato dentro di lui. Denis
guarda il movimento ritmico del culo del comandante, che spinge in avanti l’uccello,
facendolo penetrare a fondo, e poi lo ritrae, mentre le sue mani poggiano
sulla schiena di Mathieu. A tratti si tira indietro quasi completamente e
allora Denis può vedere l’ombra dell’arma, che poi viene immersa nuovamente
tra i fianchi del ragazzo. I
due soldati commentano, a bassa voce: - Ci
dà dentro, il capitano. - Lo
schiavo avrà male al culo questa notte. Ridono
di nuovo, ma nelle loro voci Denis ha avvertito una tensione diversa, quella
di un desiderio che cresce. Denis si chiede se non cambieranno idea e
decideranno di prenderlo. Se lo faranno, urlerà. Non vuole subire questa
violenza. La
cavalcata procede a lungo, poi il ritmo diventa più rapido e Abdul-Qaadir
solleva la testa all’indietro, mentre le sue mani poggiano sul culo di
Mathieu. Il
capitano si ferma, poi si stacca. Per un momento Denis può vedere il profilo
dell’uccello, ancora gonfio di sangue, ma non più teso verso l’alto, poi
Abdul-Qaadir si gira. I
due soldati si allontanano rapidamente e poco dopo il servitore riaccompagna
Mathieu tra gli altri prigionieri. Denis finge di dormire. Mathieu non dice
nulla e si corica. A Denis sembra di sentirlo soffocare i singhiozzi, ma
forse è solo un’impressione. Il
giorno dopo l’accampamento viene smontato e incominciano il viaggio verso
Damasco. Attraversano aree semidesertiche, dove i cavalieri sollevano nuvole
di polvere, e altre verdeggianti. Denis guarda il paesaggio intorno a sé
senza vederlo, indifferente a tutto: del ragazzo curioso, affascinato da ogni
novità, sembra non essere rimasta traccia. La
sera Mathieu viene spesso chiamato da Abdul-Qaadir. Torna più tardi, il capo
chino, silenzioso. Lui e Denis non parlano quasi mai. Il
terzo giorno però il capitano si avvicina mentre Mathieu e Denis stanno
raccogliendo e pulendo le stoviglie usate per il pranzo nella tenda. Abdul-Qaadir
guarda Mathieu e sorride. -
Appoggiati sui cuscini. Il
comandante non sembra preoccuparsi della presenza di Denis, che per un attimo
si blocca, poi riprende a pulire con cura. Mathieu
si stende sui cuscini, divaricando le gambe. Abdul-Qaadir
solleva la tunica di Mathieu e gli abbassa i pantaloni, scoprendo il culo.
Denis si interrompe un momento e lo fissa ammaliato: è bello il culo di
Mathieu, stretto e armonioso. Denis avverte una tensione nel basso ventre.
Vorrebbe ignorarla, ma il suo corpo non glielo permette. Con
uno sforzo di volontà Denis si scuote e distoglie lo sguardo, rimettendosi al
lavoro. Quando Abdul-Qaadir si volta per vedere se lo schiavo li sta
osservando, Denis sta passando lo straccio su un piatto: sembra concentrato
nel suo compito e del tutto indifferente a ciò che succede. Ma non appena il
padrone si gira nuovamente e si abbassa i pantaloni, Denis lo guarda, con la
coda dell’occhio. Abdul-Qaadir
si è sfilato anche la tunica. Ora è nudo, un corpo forte, le gambe e il culo
ombreggiati da una leggera peluria scura, le braccia vigorose che poggiano
sui fianchi del giovane schiavo. Abdul-Qaadir
sputa sul culo di Mathieu, poi con un dito sparge la saliva intorno all’apertura.
Volta ancora la testa a controllare l’altro schiavo, ma Denis pare continuare
il suo lavoro senza badare a ciò che succede. Denis si chiede perché il
padrone non l’ha mandato via, se non vuole che lui li veda. Ma probabilmente
ad Abdul-Qaadir non importa che lo schiavo lo veda. Vuole solo controllare
che non smetta di lavorare. Il
padrone infilza lo schiavo con un colpo secco. Mathieu emette un grido. -
Taci, stronzo! Con
la mano aperta, Abdul-Qaadir colpisce Mathieu sulla guancia destra. Poi
incomincia la sua cavalcata, spingendo con forza avanti e indietro. Denis
continua a lavorare, ma non perde di vista neppure per un attimo la scena che
si svolge sotto i suoi occhi. Si sposta leggermente, in modo da poter vedere
meglio, senza smettere di eseguire il compito assegnatogli. Ha
energia il padrone, ci dà dentro con forza. Il suo cazzo affonda nel culo di
Mathieu fino alle palle, poi esce completamente. Rientra impetuoso, affonda
senza pietà e poi esce di nuovo, oppure solo la cappella rimane dentro. Le spinte
vigorose schiacciano Mathieu contro i cuscini. Denis può vedere che il
ragazzo ha le lacrime agli occhi e che un filo di sangue cola dal labbro
inferiore. Ora prova pena per Mathieu, una pena che non spegne il desiderio. Denis
vorrebbe non guardare, vorrebbe non avvertire la tensione che cresce nel
ventre, ma il suo corpo impone la propria volontà. Abdul-Qaadir
imprime una brusca accelerata al suo movimento e si affloscia sul corpo di
Mathieu. Poi si solleva. Si guarda il cazzo. - In
ginocchio, stronzo! Puliscimi. Mathieu
si volta, fissa il padrone. Scuote il capo. Il ceffone arriva violento, tanto
che dalla ferita al labbro cola altro sangue. -
Puliscimi, ti ho detto. Mathieu
si solleva e si mette in ginocchio. Esita un attimo, ma quando Abdul-Qaadir
fa per colpirlo di nuovo, avvicina la bocca rapidamente e obbedisce
all’ordine ricevuto. Denis
ha smesso di guardare. Ha finito il suo lavoro e riordina con cura. -
Basta così, stronzo. Il
padrone si riveste e se ne va. Prima di uscire dice ancora: -
Rimettiti al lavoro. Mathieu
si tira su i pantaloni. Poi s’inginocchia accanto a Denis per sistemare le
stoviglie. Sta piangendo. Denis
vorrebbe consolarlo, ma non sa che parole dire. Abdul-Qaadir
giunge a Damasco con i nuovi schiavi. Due dei prigionieri vengono mandati al
mercato degli schiavi, per essere venduti; un terzo viene inviato in una
proprietà di campagna di Abdul-Qaadir. Solo uno rimane nella casa, insieme a
Mathieu e Denis. A tutti e tre vengono assegnati alcuni lavori da svolgere.
Abdul-Qaadir ha una moglie, ma ogni tanto manda a chiamare il giovane
schiavo. * Anche
Tancrède d’Espinel ed Egbert di Hagon hanno viaggiato fino a Damasco, dove
sono stati consegnati agli uomini del sovrano, l’emiro Nur ad-Din. Non è
l’emiro a occuparsi di loro, ma uno dei suoi funzionari, Firas, che parla
abbastanza bene la lingua dei franchi. Firas
comunica a Tancrède la cifra che l’emiro chiede per il riscatto del conte e
del suo servitore. È una somma consistente e Tancrède cerca di ottenere una
riduzione, ma Firas rifiuta ogni trattativa. In ogni caso il conte d’Espinel
è un uomo ricco e suo cugino, che amministra il patrimonio in assenza del
conte, provvederà a pagare. Firas
fa scrivere a Tancrède una lettera in cui egli chiede di essere riscattato
dalla prigionia, insieme a uno dei suoi uomini, e fornisce tutte le
indicazioni necessarie per il pagamento. Tancrède
ed Egbert rimarranno prigionieri in una caserma di Damasco, in attesa del
riscatto. Hanno una piccola cella per loro due, con due giacigli. Durante il
giorno possono uscire in un minuscolo cortiletto interno, su cui affacciano
altre tre celle. La
prima sera si stendono e si addormentano entrambi quasi subito, stanchi del
viaggio. Il giorno seguente le ore trascorrono lente, fino a quando la cella
non viene aperta. Nel cortile si aggirano alcuni altri prigionieri cristiani
e Tancrède ed Egbert possono parlare con loro. Due degli uomini sono stati
catturati in battaglia, pochi mesi fa. Altri provengono da un villaggio
cristiano che l’emiro ha attaccato e saccheggiato. Tutti sperano di essere
riscattati. Nelle
ore centrali il caldo è intollerabile e tutti i prigionieri preferiscono
rimanere nelle loro celle. Egbert si spoglia completamente prima di
stendersi. Tancrède, che è sdraiato sul giaciglio, lo può osservare da
dietro. Guarda il culo muscoloso, dove la peluria rossiccia forma una
copertura continua, le gambe forti, le spalle larghe. Tancrède ha la gola
secca. Deglutisce. Vorrebbe distogliere lo sguardo, ma non ci riesce. Egbert
si stende. Lo sguardo di Tancrède indugia un attimo sul torace villoso, sulle
braccia robuste, scivola verso il grosso sesso che svetta dalla foresta di
peli del ventre. Poi Tancrède volge lo sguardo verso la parete opposta. Il
desiderio brucia e più volte Tancrède è sul punto di parlare, ma non trova le
parole. Che cosa potrebbe dire? Dopo
un po’ Tancrède sente che il respiro di Egbert è diventato più pesante: si è
addormentato. Allora Tancrède si volta e osserva il corpo steso accanto a
lui. Guarda il torace sollevarsi e abbassarsi ritmicamente. Tancrède si
solleva a sedere. Fissa il magnifico cazzo. Vorrebbe prenderlo in bocca,
sentirne il gusto, la consistenza, il calore. Guarda i coglioni, grossi e
coperti dalla peluria rossiccia presente su tutto il corpo del guerriero.
Tancrède si dice che impazzirà di desiderio. Sono sempre insieme in questa
cella minuscola, non possono separarsi, non hanno mai un momento in cui
possano rimanere soli. Anche durante il giorno, quando possono uscire, il
piccolo cortile non offre nessuno spazio in cui appartarsi. * Quattro
giorni dopo essere giunto a Damasco insieme ai suoi nuovi schiavi,
Abdul-Qaadir riceve una visita di un uomo. Denis, che è presente, capisce dai
discorsi dei due che si tratta del fratello del suo padrone, Nawfal. Costui
deve avere almeno vent’anni in più di Abdul-Qaadir ed è completamente
diverso: è un uomo piuttosto corpulento, che sembra indolente, tutto il
contrario del giovane e vigoroso capitano. Con ogni probabilità, data la
differenza di età, non sono figli della stessa madre. Mathieu
e Denis assistono al dialogo, ma Mathieu non conosce abbastanza l’arabo per
capire che cosa si dicono i due. - So
che ti sei coperto d’onore in battaglia, fratello. -
Sì, fratello, e il comandante in capo mi ha ricompensato con alcuni schiavi,
tra cui questi due giovani. Nawfal
osserva i due ragazzi. -
Molto giovani entrambi, ma assai diversi: uno bello come il sole, l’altro
brutto come la morte. Abdul-Qaadir
sorride. - So
che hai bisogno di uno schiavo per i lavori nella tua casa in campagna. Ti
cederò volentieri quello che non ti piace, così non ti indurrò a peccare. Nawfal
ride e dice: - E
tu invece continuerai a peccare con l’altro. Anche
Abdul-Qaadir ride. -
Credo proprio di sì, fratello. Ci sa fare con la bocca e ha un bel culo.
Quando sarò sazio, vedrò se venderlo al mercato o farne un dono prezioso per
il comandante della guarnigione. Nawfal
annuisce, poi guarda Denis, dubbioso: - Mi
sembra giovane. È forte abbastanza? - Sì,
lo è. È ubbidiente, ma fa’ attenzione a lui: è un guerriero, benché sia così
giovane. Non gli lasciare libertà. - Mi
inquieta, con quegli occhi azzurri e quei capelli rossicci. Non mi ispira
fiducia. - Al
campo lo chiamavano il cane dagli occhi azzurri. Nawfal
e Abdul-Qaadir chiacchierano ancora un po’. Poi Nawfal si prepara ad
andarsene. Denis guarda Mathieu: sa che probabilmente non si vedranno mai
più. -
Addio. Mathieu
lo guarda, senza capire. Denis gli sussurra: - Il
padrone mi ha ceduto a suo fratello. Tu rimarrai con lui. Denis
non dice altro. Mathieu avrà modo di scoprire i progetti di Abdul-Qaadir:
sarebbe crudele svelarglieli ora, visto che non può fare nulla per evitare
che si realizzino. Mathieu
china il capo. -
Addio. Nawfal
porta Denis nella sua casa a Damasco e gli fa dare da mangiare, poi lo
rinchiude in una stanza, con le catene ai piedi. Il
giorno dopo raggiungono la tenuta che Nawfal possiede non lontano da Damasco,
ai margini della Ghuta, la regione fertile che circonda la città. Gli edifici
della fattoria sono raccolti al fondo della vallata, nei pressi di un
torrente. Intorno la campagna è verdeggiante, ricca di frutteti e campi
coltivati, oltre ai quali si trovano i pascoli. È un ambiente sereno, che
sembra lontanissimo dai paesaggi aspri delle montagne e del deserto, di cui
Denis ha conosciuto la durezza, ma anche il fascino. Qui anche la guerra
appare lontana. * Sono
quattro giorni che Tancrède ed Egbert dormono nella cella. L’estate è alle
porte e nel piccolo locale il calore è soffocante. Dormono entrambi nudi, ma
si svegliano ugualmente grondanti di sudore. Sono guerrieri, abituati alle
privazioni e alla durezza della vita negli accampamenti, ma essere confinati
nello spazio ristretto della cella è una tortura. La
prima luce del mattino filtra appena dalla finestrella: la cella è ancora
immersa nella penombra. Tancrède di Espinel si è svegliato da tempo e non è
più riuscito a prendere sonno. Ora che il buio diviene meno fitto, Tancrède
può osservare il corpo di Egbert steso accanto al suo. Egbert ha un’erezione
e il suo cazzo, gonfio di sangue, svetta, grande e invitante, sulla foresta
di peli rossicci del ventre. Tancrède
si solleva e lo osserva, incapace di distogliere lo sguardo. Le sue mani
vorrebbero toccare il corpo steso accanto al suo, afferrare l’arma poderosa,
perdersi tra la peluria fitta, stringere i coglioni, accarezzare il ventre.
La sua bocca vorrebbe baciare quella di Egbert, mordere il cazzo, leccarlo,
succhiarlo. Tancrède fa fatica a resistere al desiderio che sale. Tancrède
tende la destra. Poi, con uno sforzo di volontà, si alza di scatto e si volta
contro la parete. Il
suo movimento desta Egbert, che chiede: -
C’è qualche cosa che non va, conte? Tancrède
scuote la testa, senza voltarsi verso Egbert: non vuole che il sassone veda
il suo cazzo teso allo spasimo, non vuole vedere il corpo di Egbert. Ma gli
sembra di averlo davanti agli occhi. Cerca
di controllare la voce: -
No, tutto bene. Non reggo più questa cella, il caldo è atroce. Vorrei
bagnarmi nell’acqua fredda. - È
quello che ci vorrebbe per rinfrescare il corpo e far intendere ragione a chi
solleva la testa a sproposito. Tancrède
ha capito perfettamente l’allusione di Egbert. -
L’astinenza fa questo effetto. -
Siamo uomini, conte. E io non sono abituato a digiunare. Egbert
ride. Tancrède vorrebbe saziare la fame di Egbert, perché sazierebbe anche la
propria, ma tace. Si sente ridicolo a rimanere in piedi, dando le spalle a
Egbert. Si stende, cercando di non guardare il suo compagno di cella. -
Cerchiamo di riposare ancora un po’. Chiude
gli occhi, ma il corpo arde. Sa che il sonno non verrà più. Ma non può
rimanere a occhi aperti: cederebbe al desiderio di guardare Egbert. Quando
i carcerieri aprono la cella e portano un po’ di cibo, Egbert e Tancrède si
sono già rivestiti. Come tutti i giorni, Egbert va a svuotare il secchio che
utilizzano per i loro bisogni corporali, poi rientra. Lasciano aperta la
porta, perché entri un po’ d’aria e si disperda l’odore greve che riempie il
locale: odore di sudore, di corpi mal lavati, di piscio e merda. La
giornata trascorre come sempre: conversano con i prigionieri cristiani,
parlano tra di loro, imparano da uno degli altri reclusi a giocare a scacchi,
si fanno insegnare da un mercante di Tiro che parla bene l’arabo qualche
nuova parola. Nelle ore centrali spesso rientrano nella celletta e chiudono
la porta, perché il calore del cortile non surriscaldi il locale. Nel tardo
pomeriggio escono nuovamente nell’angusto spazio aperto che condividono con
gli altri cristiani prigionieri. Sono
usciti da poco, quando Egbert dice: -
Conte, se permettete, rientro nel sontuoso appartemento regale in cui siamo
ospiti. Vorrei rimanere un momento da solo. Altre
volte succede che uno dei due ritorni in cella, soprattutto nelle ore
centrali del giorno, quando è impossibile resistere sotto il sole. Ma Egbert
non ha mai espresso il desiderio di stare da solo. Tancrède lo interpreta
alla luce di quanto è avvenuto in mattinata. All’idea che Egbert si
masturberà, sente il sangue affluirgli al cazzo e il desiderio stordirlo. Tancrède
non dice nulla. Egbert entra nella cella e accosta la porta, come fanno
sempre. Tancrède
guarda la porta di legno. Si avvicina, la apre qual tanto che basta per
passare ed entra, richiudendola alle sue spalle. Egbert
è nudo, in piedi sul suo giaciglio. Dà le spalle alla porta. Quando Tancrède
entra, rimane immobile, anche se non può non essersi accorto dell’ingresso
del conte. È
forte il corpo di Egbert: una quercia che gli anni hanno segnato ma non hanno
piegato. Tancrède
si toglie la tunica. Si avvicina a Egbert. Rimane in silenzio. Egbert si
volta, lentamente. Il magnifico cazzo è eretto, la destra ancora lo stringe,
sulla capella luccica una goccia. Egbert guarda il suo signore, in silenzio. Tancrède
scivola in ginocchio. Sa che è la resa completa, ma non c’è altra strada. Ora
ha il cazzo di Egbert di fronte alla bocca. Lo guarda, smarrito, incerto. È
il sassone a mettergli una mano dietro il collo e ad avvicinargli la testa al
ventre, fino a che Tancrède si trova la cappella tra le labbra. Sente l’odore
aspro, di piscio, sudore e sborro. Tancrède apre la bocca, lascia che il
cazzo gli entri in bocca, ne assapora il gusto, acidulo, il calore, la
durezza. Sa di desiderarlo, di averlo sempre desiderato. Ma ora non sa che
cosa fare, come muovere le labbra o la lingua. Lascia che Egbert prenda di
nuovo l’iniziativa. Il sassone incomincia a muovere il culo, tenendogli la
testa ferma. Egbert lo fotte in bocca, lentamente, spingendo fino in fondo,
fino a che Tancrède è preso da un conato di vomito. Egbert si ritrae, ma poi
riprende a spingere, avanti e indietro. E Tancrède sente la pressione della
massa che gli riempie la bocca. Nella mente di Tancrède passano domande, che
il conte lascia senza risposta: non vuole sapere che cosa Egbert penserà di
lui, non vuole sapere nulla. Vuole solo sentire il sapore di questa carne che
ora gli riempie la bocca. A un
certo punto Egbert toglie la mano e si ritrae. Tancrède alza lo sguardo verso
di lui: il sassone non è venuto, perché si ritrae? Tancrède non sa leggere
negli occhi del soldato, che risponde alla domanda inespressa: -
Stenditevi, conte. Tancrède
sente un brivido corrergli lungo la schiena. Annuisce. Si stende sul proprio
giaciglio. Allarga le gambe. Pensa che si sta offrendo a Egbert come una
troia. Sta per essere inculato, per la prima volta. Il cazzo di cui ha ancora
in bocca il gusto entrerà dentro di lui. Tancrède ha paura, ma vuole quello
che sta per succedere, lo desidera. Il
sassone si è chinato. Tancrède sente un po’ di liquido colargli sul solco:
Egbert ha sputato sull’apertura. Due dita di Egbert spargono la saliva e il
contatto trasmette un brivido al conte. Le due dita premono sul buco ed
entrano, facendo sussultare Tancrède. Il conte vorrebbe urlare, vorrebbe
gridare a Egbert di farlo, di possederlo, di incularlo. Vuole sentire il
cazzo del sassone dentro di sé. Ma le parole non escono. Egbert
ripete la manovra, poi si stende su Tancrède e, con un movimento continuo,
avvicina la cappella all’ingresso, forza l’apertura e scivola dentro,
bloccando il guizzo di Tancrède tra le sue braccia. Il
dolore è stato tanto intenso da cancellare ogni piacere. Ma a Tancrède va
bene così. Egbert
continua a spingere. Tancrède vorrebbe gridare di fermarsi, ma non dice
nulla. Accetta che il suo corpo sia penetrato, squassato dall’arma
formidabile del sassone. Accetta la sofferenza. Egbert
si muove con vigore, stringendo forte con le braccia il corpo di Tancrède. Il
dolore cresce, ma nella sofferenza che gli dilania il culo Tancrède sente la
tensione di un desiderio violento e la stretta delle braccia di Egbert è il
paradiso. Quando
infine, con una rapida successione di spinte più forti, Egbert gli riempie le
viscere del suo seme, Tancrède chiude gli occhi e rimane inerte. Non ha
goduto, il dolore è stato intenso, eppure questo è ciò che vuole. E
ora, ora che il cazzo di Egbert perde volume e consistenza, è piacevole
sentirlo nel culo. È una sensazione intensa. Tancrède vorrebbe dirgli di
rimanere così, ma la sua bocca non trova le parole. Egbert
esce da lui e si stende sul giaciglio a fianco. Non dice nulla. Neanche
Tancrède parla. Rimangono
distesi, finché non viene distribuito il cibo. Mangiano in silenzio, poi la
cella viene chiusa per la notte. Non hanno più scambiato parola, si sono
appena guardati. Nawfal
vive abitualmente in città e trascorre poco tempo in campagna. Nella tenuta
vive invece Rajab, un altro fratello di Nawfal, più giovane di lui, ma più
anziano di Abdul-Qaadir. Rajab fa da intendente nella proprietà di campagna
di Nawfal. Nawfal
ritorna in città, dopo aver consegnato Denis al fratello e aver fatto un giro
di controllo. Nei
giorni seguenti, ascoltando le conversazioni degli altri lavoratori della
fattoria, schiavi e uomini liberi, Denis scopre che Rajab ha condotto una
vita sregolata, spendendo molto di più di quanto poteva ricavare dalle
proprietà che il padre gli aveva lasciato, per cui ora non gli è rimasto
nulla. La tenuta che oggi appartiene a Nawfal era di Rajab stesso e il
fratello gliel’ha comprata, in modo che Rajab potesse pagare i debiti. Adesso
Rajab lavora per il fratello maggiore nella tenuta di cui un tempo era
proprietario, ma per questo si rode e sembra detestare Nawfal, anche se in
sua presenza è ossequioso. Rajab
conosce qualche parola della lingua dei franchi: quel tanto che basta per
dare istruzioni a Denis. Gli altri si rivolgono a lui in arabo. Denis finge
di non capire, ma quando gli fanno vedere i lavori da fare, imita i loro
gesti. Denis impara in fretta: il suo corpo è abituato alla fatica e Denis
riesce a svolgere bene tutti i compiti che gli vengono assegnati. Inizialmente
Denis trascorre le sue notti incatenato, in una minuscola stanza accanto al
magazzino. La stanza ha un’unica finestrella, troppo piccola perché una
persona possa passarvi. Il mattino la cella viene aperta e Denis viene liberato
per lavorare. La
sua vita è fatta solo di lavoro e silenzio. Con il passare dei giorni, Denis
si rende conto che è esattamente ciò di cui ha bisogno: la fatica fisica che
gli impedisce di pensare, il silenzio che gli evita di dover cercare parole e
rispondere a domande. È ben raro che qualcuno dimostri un minimo interesse
nei suoi confronti e in questi casi, Denis finge di non capire, per cui tutti
rinunciano a comunicare con questo schiavo infedele, che è bravo nei lavori,
ma sembra poco intelligente, perché non riesce a imparare una parola della
lingua che si parla. L’unica
persona che sembra badare a Denis è Suheila, la serva della casa che si
occupa di cucinare. È una donna non più giovane, con un sorriso cordiale, che
ha piccoli gesti di gentilezza nei confronti dello schiavo cristiano e non
pare aver paura di lui. Ogni tanto gli porta dalla cucina un buon boccone, di
nascosto dagli altri. Forse Suheila ha capito che Denis conosce l’arabo: gli
parla spesso, dandogli piccoli consigli, lo mette in guardia contro un
servitore astioso, gli suggerisce qualche espediente per accontentare
l’intendente. Ma non si aspetta che lui risponda. Man
mano che si abituano alla sua presenza e al suo mutismo, tutti gli altri
sembrano dimenticare lo schiavo. Ormai nessuno si preoccupa di lui: lavora,
non parla e non sembra occuparsi degli affari altrui. La diffidenza iniziale
lascia il posto all’indifferenza: Denis è docile, non sembra violento, non si
ribella. Smettono di incatenarlo la sera: d’altronde, dove potrebbe fuggire
lo schiavo dagli occhi azzurri e i capelli rossicci? Uno come lui non può
sperare di passare inosservato. Non dorme con gli altri schiavi, che non lo
vogliono vicino: rimane a dormire nella stanzetta vicino al magazzino, ma
ormai la porta non viene chiusa a chiave. I
mesi passano e la sofferenza si attenua. * Tancrède
si è svegliato prima di Egbert. Guarda il corpo steso accanto al suo. Il
cazzo di Egbert è teso, come spesso succede il mattino. Tancrède si solleva
per poterlo osservare meglio. La cappella violacea è del tutto scoperta.
Lungo l’asta scorrono le vene in rilievo e la base del cazzo emerge dalla
peluria che ricopre i coglioni. Tancrède
abbassa il capo e la sua lingua scorre sull’asta, dalla cappella fino alla
base. Il conte avverte un leggero movimento nel corpo del soldato. Solleva lo
sguardo e vede che Egbert, destato dal contatto, lo sta fissando, un sorriso
sulle labbra. Anche Tancrède sorride e riprende il lavoro: la lingua scorre
ancora sull’asta, scende tra i coglioni, la bocca ne avvolge uno, poi lo
lascia, prende l’altro, molla anche questa preda e risale. I denti
mordicchiano l’asta perfettamente tesa e infine le labbra avvolgono la
cappella. Sono
mesi che ogni giorno si amano e Tancrède ha perso ogni pudore. Tancrède
incomincia a succhiare avidamente il boccone di carne che ha inghiottito.
Intanto le sue mani scorrono sul corpo di Egbert. La destra scivola sul
ventre, indugia sul torace, tra la peluria rossiccia, risale ancora fino al
collo, le dita si infilano tra i peli della barba, si appoggiano sulle
labbra, premono, si infilano tra i denti, che si richiudono. La sinistra
scende lungo le gambe nerborute, prima una, poi l’altra. Tancrède
succhia con energia, assaporando gli aromi del cazzo di Egbert. Le sue mani
tornano indietro, una stringe i coglioni del soldato, l’altra si ferma sul
ventre. La
voce di Egbert è roca: -
Conte, manca poco. Abitualmente
quando Egbert dice che sta per venire, Tancrède si stende sul giaciglio o
assume una delle altre posizioni che hanno sperimentato in questi mesi. Ma
oggi desidera sentire il gusto del seme di Egbert, vuole ingoiarlo, e allora
prosegue. Egbert geme e Tancrède sente il fiotto che gli inonda la bocca,
leggermente amaro. Inghiotte fino all’ultima goccia, ancora la sua lingua e
le sue labbra stuzzicano, finché è Egbert a prendergli la testa tra le mani e
ad allontanarla. Rimangono
un momento distesi, poi Egbert si alza e si dirige verso il secchio. -
Fermo! Egbert
si volta, stupito. Tancrède esita un attimo, ma il desiderio è troppo forte,
l’odore del corpo di Egbert lo stordisce, il gusto che ha ancora in bocca gli
toglie ogni remora. Tancrède si muove carponi e si mette in ginocchio davanti
a Egbert. Prende il cazzo ancora turgido del soldato in bocca, gli mette le
mani sui fianchi. Egbert
guarda il suo signore, che attende. Il soldato incomincia a pisciare,
Tancrède beve, fino all’ultima goccia. È buono il piscio di Egbert. Tancrède
non l’aveva mai assaggiato. Si dice che d’ora in poi lo berrà ogni mattina. Hanno
appena finito e Tancrède ha ancora il cazzo teso, quando sentono che la porta
viene aperta. È molto presto, non è ancora l’ora in cui di solito portano la
colazione e aprono le celle. Tancrède
fa appena in tempo a infilarsi la tunica, quando due soldati entrano e gli
intimano di andare con loro. * Firas
è furibondo: scaglia le sue parole su Tancrède come se fossero massi per
schiacciarlo. -
Hai mentito, cane. La tua famiglia non può riscattarti. - Ma
non è possibile… Tancrède
sa benissimo che le sue proprietà hanno un valore di gran lunga superiore
alla cifra richiesta. Firas
lo interrompe, ancora più rabbioso. -
Morirete entrambi, cani! Avete ingannato l’emiro. Vi attende il supplizio. Tancrède
conosce le pene atroci che i saraceni infliggono ai condannati e
rabbrividisce. -
C’è certamente un errore… - Un
errore, cane?! In questa lettera Louis d’Espinel dichiara di non poter
ricavare in nessun modo la somma richiesta per la tua liberazione. Tancrède
intuisce: il cugino ha addotto qualche pretesto per non pagare, sperando che
Tancrède venga ucciso, per poter così ereditare le sue terre e le sue
ricchezze. Quel figlio di puttana! -
Mio cugino mente. Posso raccogliere la somma che è stata richiesta per la mia
libertà. E
mentre lo dice, Tancrède si rende conto che non può farlo. Dovrebbe potersene
occupare personalmente, ma di certo non lo lasceranno tornare nei territori
franchi. Firas
sibila: - E
come, conte? C’è
molta ironia nel titolo nobiliare. Tancrède
china la testa, furente. Cerca disperatamente una soluzione che non vede. Firas
aspetta un momento, poi dice: -
Comunicherò all’eccellente Nur ad-Din la risposta di tuo cugino, cane. Firas
chiama una guardia e fa portare via Tancrède. L’uomo riporta il conte nella
cella. Egbert
vede il viso di Tancrède e chiede: -
Che succede, conte? Per
quanto siano amanti ormai da mesi, Egbert continua a rivolgersi a Tancrède
con il rispetto che si deve al proprio signore. Solo sul giaciglio dove i
loro corpi si stringono, Egbert dimentica la distanza che li separa. -
Mio cugino non vuole pagare il nostro riscatto. Ha addotto qualche scusa.
L’uomo dell’emiro ha minacciato di farci uccidere. Egbert
annuisce. -
Avrei preferito morire in battaglia. O decapitato subito dopo lo scontro,
come Pierre d’Aguilard. Ma non possiamo scegliere la nostra morte. * Mathieu
ha imparato un po’ di arabo in questi mesi a casa di Abdul-Qaadir. Ora ha
capito che il suo padrone sta per prendere una seconda moglie e ha deciso di
venderlo. Non sa chi lo comprerà. Mathieu non si trova bene da Abdul-Qaadir.
Il comandante lo prende come se fosse un animale, senza preoccuparsi di non
fargli male, e gli chiede cose che a Mathieu ripugnano. Negli ultimi mesi lo
ha anche costretto a soddisfare alcuni dei suoi amici, durante i festini che
si tengono a casa sua. Perciò
a Mathieu non dispiacerebbe cambiare padrone, se sperasse in un miglioramento
della sua condizione, ma non sa che cosa succederà: sarà ancora usato per
soddisfare i bisogni di qualche ricco saraceno? Sarà destinato ai lavori nei
campi? O alle miniere di sale? Chi è mandato nelle miniere, non sopravvive a
lungo. In campagna o in una casa di città, tutto dipende dal padrone: alcuni
trattano con umanità i loro schiavi, altri sono implacabili, soprattutto con
i cristiani. Mathieu
ha paura, attende con ansia il giorno in cui lo condurranno al mercato per
venderlo. Ma Abdul-Qaadir non intende vendere Mathieu con gli altri schiavi:
ha dato al suo segretario l’incarico di contattare alcuni uomini che hanno
avuto modo di vedere il giovane nella casa del comandante e di apprezzarlo. Mathieu
unisce giovinezza e bellezza e perciò attira l’interesse dei possibili
acquirenti, ma quello che è disponibile a sborsare il prezzo maggiore è
quello che conta di ricavarne anche il maggior guadagno: Mathieu viene
acquistato dal giovane Abdallah, che possiede il miglior bordello maschile di
Damasco. * Una
notte, un po’ prima dell’alba, Denis si sveglia ed esce nel cortile. Il
freddo di questo giorno di fine inverno è intenso ed è ancora buio: solo a
oriente il cielo è leggermente più chiaro. Sopra la testa di Denis sembra che
l’universo abbia acceso tutte le sue stelle. Denis alza il capo e guarda la
Via Lattea. Di colpo gli vengono le lacrime agli occhi. E per la prima volta
da quasi un anno Denis si rende conto che qualche cosa dentro di lui si sta
ridestando, che ha di nuovo voglia di vivere e che non può più accettare la
situazione in cui si trova. Si dice che deve cercare un modo per recuperare
la libertà. Suo padre certo non avrebbe voluto che lui rimanesse schiavo dei
saraceni. Sempre
rinchiuso nel suo mutismo, ora Denis ascolta con attenzione tutto ciò che
dicono le persone intorno a lui, cercando di raccogliere il maggior numero di
informazioni sulla tenuta, su coloro che vi abitano e sulla regione
circostante. Ogni volta che ha occasione di muoversi, osserva attentamente
ciò che vede, alla ricerca di una via di fuga. Anche lui sa bene che quello
che dicono gli altri è vero: non può pensare di scappare, perché non potrebbe
confondersi tra i saraceni e sarebbe riacciuffato rapidamente. Attende
un’occasione, che infine giunge. Tra
gli uomini che lavorano per Nawfal vi è il pastore Tareef, che vive non lontano
dalla tenuta. È un uomo sui quaranta, un corpo forte, un viso stretto, dai
tratti molto duri, che i lunghi capelli neri e il naso prominente accentuano.
Denis diffida di lui, anche se non saprebbe spiegare le ragioni del suo
atteggiamento. Una
sera Denis esce per i suoi bisogni, quando il cielo è ormai completamente
buio. Rientrando, vede arrivare Tareef, che si avvicina con fare guardingo ed
entra nel magazzino. Denis si stupisce che la porta sia aperta: ogni sera
Rajab controlla personalmente che tutte le porte siano state chiuse. Denis
rimane al buio, in attesa di vedere che cosa succederà: forse potrà scoprire
qualche cosa di utile per realizzare i suoi sogni di libertà. Intanto Denis
si pone una serie di domande: che cosa intende fare Tareef? Rubare? Forse.
Sembrava sapere che il magazzino era aperto, perciò deve avere un complice,
qualcuno che gli ha aperto la porta. Ma come è possibile, se Rajab controlla
personalmente ogni sera che le serrature siano state tutte chiuse e nessun
altro ha le chiavi? Gli altri servitori disprezzano Tareef, che non appare
molto solerte nel suo lavoro e ha fama di uomo violento. Preferiscono
evitarlo, anche perché l’uomo ha un odore molto forte. Eppure Rajab, che è
molto severo come intendente, nei confronti di Tareef è sempre tollerante. Una
prima risposta arriva di lì a poco, quando Rajab esce dalla casa con una
lanterna ed entra nel magazzino. Dal modo in cui si è mosso, è evidente che
sapeva di trovare la porta aperta e questo significa che l’ha lasciata aperta
lui. Perché? Che cosa vuole fare con Tareef? Lo vede tutti i giorni, perché
un incontro segreto? Denis
si avvicina alla porta. Sa che sta correndo un grosso rischio: la sua stessa
vita sarebbe in pericolo, se scoprisse un segreto che Rajab vuole tenere
nascosto. Ma potrebbe invece esserci qualche possibilità di recuperare la
libertà. Denis sa bene che non può lasciarsi sfuggire nessuna occasione, per
quanto minima. L’uscio è stato accostato e la luce della lanterna non si
vede. Con cautela, Denis spinge la porta. Il magazzino è immerso nel buio,
solo al fondo si scorge una fioca luce. Denis avanza con cautela: conosce il
locale, in cui spesso viene mandato a prendere o portare delle cose.
All’altra estremità della sala, oltre alcune anfore che bloccano la visuale,
incomincia a intravedere la luce della lanterna. Denis cerca tra le anfore un
punto da cui gli sia possibile vedere ciò che succede. Infine trova uno
spazio sufficientemente ampio da cui può osservare la scena che la lanterna
illumina debolmente: sopra una pila di pelli, Rajab è disteso sulla schiena,
nudo. Tareef è davanti a lui, anch’egli nudo, e gli sta sollevando le gambe,
appoggiandole contro il proprio petto. Tareef si accarezza lentamente il
cazzo. Rajab lo guarda e sorride. Ciò che sta per succedere è chiaro: Rajab
si farà prendere da Tareef. Tareef non è bello, per nulla. Ma Rajab si sta
offrendo a lui. Ora
il cazzo di Tareef è duro e teso. Tareef lo avvicina all’apertura e lo spinge
dentro. Rajab sussulta: sul suo viso compare una smorfia di dolore, che però
svanisce quasi subito. Tareef avanza, fino in fondo, poi si ritrae e
incomincia a muoversi a un ritmo regolare. Rajab geme, ma i suoi sono gemiti
di piacere. A Rajab piace farsi fottere dal pastore. L’intendente
sprona Tareef. -
Sì, ancora, dai! Forza, Tareef. Dacci dentro. Sfondami! Tareef
ride, mentre prosegue con la sua opera. -
Sei una troia, Rajab. Rajab
sorride, mentre si accarezza il cazzo con la destra. Tareef spinge con forza,
accelerando il ritmo. Denis
guarda la scena. Una parte del suo cervello si chiede come può servirsi di
quello che sta vedendo per ottenere la libertà, ma Denis sa benissimo che non
sta seguendo ciò che succede solo per quello. Nel suo corpo si è acceso un
desiderio violento e vorrebbe unirsi ai due uomini. Non può di certo farlo,
ma continua a osservare. Quasi senza accorgersene porta la destra al cazzo
ormai teso e lo stringe, come Rajab sta stringendo il proprio, ma poi lo
lascia andare. Deve concentrarsi su quello che succede. Non è il momento,
ora. Non è il luogo, questo. Dopo, nella sua camera. Nel
magazzino si sentono i gemiti di Rajab, sempre più forti, e l’ansimare di
Tareef, che spinge con violenza, infilando ogni volta il cazzo fino in fondo
e poi ritraendosi. Il viso di Rajab è deformato da una smorfia di piacere,
quello di Tareef è irrigidito nella tensione di un desiderio che ancora non
si scioglie. Infine
Tareef emette una serie di suoni gutturali e spinge ancora più forte, mentre
Rajab imprime alla sua mano un movimento più rapido. Il seme di Rajab guizza
in alto, sul torace e sul ventre dell’uomo, mentre quello di Tareef si versa
nel corpo dell’intendente. Tareef
si ferma. Rimane un momento immobile, a occhi chiusi, poi imprime un’ultima
spinta e si stacca. Denis può vedergli il grosso cazzo ancora gonfio di
sangue. Anche Rajab lo guarda, sorridendo. Tareef
incomincia a rivestirsi. Rajab rimane disteso, spossato, il corpo sporco del
proprio seme. - A
venerdì, Tareef. Va bene? -
Sì, ci sarò. Quando verrà tuo fratello? - Ancora
non lo so, non mi ha scritto. - Va
bene. Se viene prima di venerdì, me lo fai sapere. -
Certo. Non dobbiamo lasciarci sfuggire l’occasione. -
Ora è meglio che io vada. Denis
sa che deve allontanarsi prima che Rajab e Tareef escano: potrebbe nascondersi
nel magazzino, ma Rajab sicuramente chiuderà a chiave la porta e Denis non
potrebbe più uscire. In silenzio scivola fuori dal suo nascondiglio e
raggiunge l’uscita. Denis
ritorna nella sua stanzetta. Dalla finestrella osserva Tareef scomparire e
dopo un po’ Rajab uscire dal magazzino e chiudere la porta. Denis
riflette. Se minacciasse Rajab di rivelare quello che ha scoperto,
probabilmente non otterrebbe nulla: Rajab non è sposato (Denis sa che lo era,
ma quando ha perso tutti i suoi averi, la donna in qualche modo se n’è
andata), non è facile ricattarlo. Potrebbe minacciarlo di raccontare tutto a
Nawfal, ma Nawfal scherzava con Abdul-Qaadir su Mathieu: di certo non dà
molta importanza a quanto succede, anche se probabilmente non sarebbe
contento di sapere che suo fratello si fa inculare da un servitore. Il
dialogo finale faceva pensare a qualche piano. Qual è l’occasione che Rajab e
Tareef non devono lasciarsi sfuggire? Denis sa che deve cercare di scoprirlo.
Venerdì Denis sarà di nuovo nel magazzino. Dopo
aver riflettuto sul da farsi, Denis chiude gli occhi e rapidamente si
addormenta. Ma nei suoi sogni torna la scena a cui ha assistito. Solo che
questa volta è Denis a possedere Rajab, steso nello stesso modo, mentre
Tareef lo guarda e ride. Denis sente l’ondata del piacere travolgerlo. Si
sveglia mentre il suo seme si sparge. Nei
giorni seguenti, ogni volta che Denis ha modo di entrare nel magazzino,
controlla la posizione degli oggetti, per individuare come muoversi e dove
nascondersi. Sposta un po’ le anfore, in modo da procurarsi un nascondiglio
migliore, sempre che qualche altro servitore non le muova. Il
venerdì notte piove, una pioggia continua, intensa, che dura da ore: meglio
così, difficile che qualcuno vada in giro, a parte Rajab e Tareef. Denis esce
silenziosamente e verifica che la porta del magazzino sia aperta. Entrare ora
può essere azzardato, se per qualche motivo l’incontro non avvenisse e Rajab
decidesse di chiudere la porta, ma entrare quando i due saranno già dentro
presenta rischi maggiori. Denis raggiunge il suo posto di osservazione e si
mette in attesa. Dopo un po’ la porta viene aperta. Nel buio è impossibile
distinguere se sia il pastore o l’intendente, ma Denis è sicuro che si tratti
di Tareef. Dopo
un momento arriva Rajab, con la lanterna. Questa volta Rajab fa scorrere il
chiavistello e chiude la porta dall’interno. Denis ha un tuffo al cuore: come
farà ad uscire senza che Rajab sospetti? Da fuori non può richiudere il
chiavistello. Tareef
è rimasto vicino alla porta. Alla luce della lanterna, Denis può vedere che è
tutto bagnato. Ora che Rajab è arrivato, i due si spostano verso il fondo del
magazzino. Passano accanto a Denis, ma le anfore lo coprono e i due uomini
non sospettano che qualcuno possa essersi nascosto nel magazzino. Rajab
posa la lampada, ma non si spoglia. Dice: -
Domani mio fratello verrà in visita a controllare la tenuta e riscuotere
quanto gli spetta. È il momento di agire. -
Bene. Così possiamo sistemarlo. Al recinto delle pecore, allora? -
Sì. Prima dell’ora a cui tornate dal pascolo, gli dirò che dobbiamo andare al
recinto. Mi inventerò la scusa di qualche lavoro da fare. Quando arriveremo
al recinto, tu sarai nascosto dietro le rocce e… -
…gli taglierò la gola. Poi lo getterò nel vecchio pozzo vicino alla roccia
della gazzella. Non lo troveranno mai. Denis
non perde una parola. Rimane assolutamente immobile: sa bene che se venisse
scoperto ora, lo ucciderebbero. Rajab
e Tareef parlano ancora un momento, poi Rajab dice: -
Adesso però passiamo ad altro. Tareef
si spoglia in fretta, imitato da Rajab. Il cazzo del pastore non è ancora
teso, ma è già gonfio di sangue. -
Mettiti a pancia in giù. Rajab
obbedisce: si appoggia sulle pelli e allarga le gambe, offrendo il culo, che è
coperto da una peluria leggera. Dal suo punto di osservazione Denis può
vedere bene la scena. Tareef si mette dietro a Rajab, si stringe il cazzo con
la mano e incomincia a smenarselo, fino a che non è perfettamente teso. Denis
fissa ammaliato il cazzo turgido, che si appoggia sul culo, premendo
sull’apertura, e poi penetra nel corpo dell’uomo, fino a scomparire
completamente dentro il culo dell’intendente. Rajab chiude gli occhi, una
smorfia sul suo viso. Tareef attende un attimo, poi incomincia a spingere. Anche
questa volta Denis sente il proprio corpo ardere di un desiderio violento. Tareef
fotte Rajab con lo stesso ritmo regolare della volta precedente, tenendo le
sue mani sul culo dell’intendente. Non ci sono altri contatti tra i due
corpi: solo il cazzo di Tareef dentro il culo di Rajab e le mani sulle
natiche. Non c’è tenerezza, non ci sono carezze. Tareef
procede a lungo, con la stessa espressione concentrata sul viso, finché non
chiude gli occhi e imprime una serie di spinte più violente. Il pastore
viene, emettendo un suono gutturale. Si ferma un attimo e Rajab si raddrizza,
prima che Tareef sia uscito da lui. Ora i loro due corpi aderiscono.
L’intendente afferra la destra del pastore e la guida a stringergli il cazzo
teso. -
Dai, Tareef, dai. Tareef
stringe il cazzo con forza e muove ritmicamente la mano. Rajab geme più forte
e il seme esce in un getto che raggiunge la barba dell’intendente. Rajab
chiude gli occhi, abbandonandosi contro il corpo del pastore. E
ora? Denis è in tensione. Non può uscire prima dei due senza farsi scoprire:
lo sentirebbero far scorrere il chiavistello e anche se così non fosse, Rajab
si accorgerebbe che la porta non è più chiusa. La sua vita è appesa a un
filo. Prima
di lasciarsi, Rajab e Tareef ripassano ancora alcuni dettagli del piano.
Denis ascolta con attenzione. Rajab
conclude: -
Adesso vai. Tareef
raggiunge l’uscita e scompare. Denis sa che questo è il momento per agire.
Gioca il tutto per tutto. Se Rajab si accorgerà che lui era nel magazzino,
sicuramente lo farà uccidere, per sicurezza: anche se non sa che Denis
conosce l’arabo, può temere che abbia capito qualche cosa e in ogni caso li
ha visti scopare. Se però Rajab dovesse uscire e chiudere la porta, Denis
rimarrebbe bloccato all’interno e la sua presenza sarebbe comunque scoperta
l’indomani mattina. Rajab
è in piedi nello spazio tra le diverse merci presenti nel magazzino: potrebbe
vederlo uscire, ma la lanterna è in parte oscurata e la zona vicino alla
porta è in ombra. Denis si muove silenziosamente. Ora è vicino all’uscio. Può
vedere Rajab, vicino alla lanterna, che sta lentamente rivestendosi. Sembra
perso nei suoi pensieri. Denis
socchiude la porta e scivola fuori. Non piove più. Denis raggiunge la sua
stanzetta in silenzio. Una
volta al sicuro, Denis rimane sveglio a pensare a come agire il giorno
seguente. Deve trovare il modo di parlare a Nawfal mentre nessuno può
vederli. Non sarà facile, perché non ha mai occasione di rimanere da solo con
il padrone, ma deve riuscirci a qualsiasi costo. Prima che Rajab porti Nawfal
al recinto delle pecore. Il
giorno dopo il sole splende e il calore asciuga in fretta il terreno bagnato.
A mezzogiorno rimangono solo alcune pozzanghere fangose dove il suolo non è
ricoperto dalla vegetazione. La pioggia ha reso brillante il verde tenero
della vegetazione. Nel
pomeriggio Denis deve lavorare in un campo vicino alla casa. Sa che Nawfal
trascorre sempre le ore dopo il pranzo riposando in una camera al primo
piano. Guardandosi
attorno per accertarsi che nessuno possa vederlo, Denis si avvicina
all’abitazione. Sa qual è la camera di Nawfal, ma non può raggiungerla
passando per l’ingresso principale: qualcuno di certo lo vedrebbe e lo
fermerebbe. Denis controlla ancora una volta che non ci sia nessuno e si
arrampica sul grande fico. Di lì passa sul tetto della casa ed entra nella
camera di Nawfal. Nawfal
dorme, disteso sul letto. È nudo e Denis osserva il corpo massiccio
abbandonato al sonno, la peluria densa sul torace e sul ventre, il sesso
vigoroso. Non
ha tempo da perdere. -
Padrone! Nawfal
apre gli occhi e sussulta. Si alza a sedere e lo fissa, senza parlare. Sembra
quasi avere paura. -
Padrone, posso parlarti? È una cosa grave. Nawfal
sembra sbalordito. - Tu
parli la mia lingua? -
Sì, padrone. - Perché
non l’hai detto prima? -
Perché se l’avessi detto, questa sera tu saresti un uomo morto. La
risposta ottiene l’effetto desiderato. Nawfal aggrotta la fronte e dice: -
Che cosa stai dicendo? -
Vogliono ucciderti, oggi pomeriggio. Nawfal
è sconcertato e diffidente. -
Chi? Perché? - Te
lo dirò, ma tu mi restituirai la libertà? Nawfal
riflette un momento. - Va
bene. Se quello che mi dici è vero, riavrai la libertà. Dimmi. Denis
sa che non potrà costringere Nawfal a rispettare i patti, ma è l’unica arma a
sua disposizione: sta giocando tutto su questa possibilità. -
Tuo fratello Rajab ha una tresca con Tareef, il pastore, e lo ha convinto ad
ammazzarti. Ti attireranno in una trappola tra non molto. Lui ti chiederà di
accompagnarlo al recinto delle pecore e lì Tareef ti ucciderà e poi
getteranno il tuo corpo nel vecchio pozzo vicino alla roccia della gazzella. -
Rajab! Nawfal
fissa Denis. Gli dice, con durezza: -
Non ti credo, cane di un cristiano. Denis
alza le spalle: - Se
non mi credi, hai solo da accompagnare tuo fratello al recinto oggi
pomeriggio, quando te lo chiederà, prima che i pastori siano di ritorno. Nawfal
non distoglie lo sguardo da Denis. - Se
non è vero, ti pentirai di essere nato. - Lo
vedrai da te. Bada solo a non lasciar trapelare nulla. Che tuo fratello non
si insospettisca. Nawfal
lo guarda, pensieroso. Non dice nulla. - Io
devo andare. Non posso assentarmi a lungo. -
Dove stai lavorando? -
Nel campo vicino al palmeto. Nawfal
annuisce. Denis
esce sul terrazzo, controlla che non ci sia nessuno e si cala lungo l’albero
del fico. Ritorna al lavoro. Non
è passato molto tempo, quando Denis vede Nawfal avvicinarsi. Nawfal
si guarda attorno, come se stesse dando un’occhiata alla tenuta, e intanto
dice: -
Come posso scoprire che quanto mi hai raccontato è la verità, senza rischiare
di farmi uccidere? Denis
riflette un attimo: -
Fai appostare due uomini vicino al recinto. -
Non so di chi posso fidarmi, tra gli uomini che sono qui. Sono uomini che ha
scelto Rajab, molti lavoravano per lui quando la tenuta era sua. Denis
riflette un momento. - Io
posso proteggerti, se mi dai un’arma: ho combattuto. La
voce di Nawfal è aspra: -
Darti un’arma? Credi che io sia pazzo? Denis
non dice niente. C’è un lungo momento di silenzio. Poi Nawfal sibila: -
Hai inventato tutta questa storia solo per avere un’arma. Denis
si asciuga il sudore dalla fronte, poi riprende a lavorare e dice: -
Padrone, io ti ho detto la verità. Se puoi procurarti uomini davvero fidati,
puoi dire a loro di mettersi vicino al recinto, per proteggerti. O puoi
catturare Tareef e costringerlo a confessare. Lo troverai di certo al recinto
all’ora stabilita. Io ti ho avvisato. Nawfal
si allontana, senza rispondere. Non
è passato molto tempo quando Nawfal ritorna. Ci sono altri due uomini, a
lavorare il campo. Nawfal parla ad alta voce, usando la lingua dei franchi: -
Vieni con me. Si
allontanano. Quando sono nascosti da una macchia di alberi, Nawfal tira fuori
dalla tunica un pugnale e lo porge a Denis, senza dire nulla. Denis
lo nasconde. -
Sei sicuro di potermi proteggere? Tareef è forte. - Ne
sono sicuro. Il
sole sta calando. Rajab si è avvicinato a Nawfal, che è rimasto per gran
parte del pomeriggio inoperoso, contrariamente al solito. Rajab
dice: -
Non so dove sia lo schiavo cristiano. Dovrebbe essere al campo vicino al
palmeto. Mi hanno detto che si è allontanato con te. Nawfal
risponde: -
Sì, l’ho mandato alla tenuta di Wadid, con un messaggio. - Ma…
perché? Tu stesso hai raccomandato di sorvegliarlo, Nawfal. Nawfal
alza le spalle. - Mi
hai detto che non ha mai cercato di scappare o di ribellarsi, che non hai mai
dovuto ricorrere alla frusta. Se al tramonto non sarà di ritorno, lo faremo
cercare: con quei capelli e quegli occhi di certo non passa inosservato, non
può scappare. -
Sì, questo è vero. Rajab
esita un attimo, poi sorride e dice: -
Vorrei farti vedere una cosa. Vieni con me al recinto delle pecore, prima che
tornino i pastori. Nawfal
fissa il fratello. - È
proprio necessario? Sono stanco e devo ancora rientrare in città. Rajab
sorride. Nawfal ha l’impressione che il fratello sia un po’ a disagio. -
Ma, sì, ci mettiamo solo un momento. Poi potrai riposarti. - Ti
seguo, fratello. Nawfal
ha calcato sulla parola “fratello”, ma Rajab non sembra averlo rilevato. Si
avvia. Nawfal lo segue. Ora
sono vicino al recinto. Nawfal rallenta il passo, senza rendersene conto.
Rajab dice, a voce troppo alta: -
Ecco, siamo arrivati. Nawfal
si guarda intorno, inquieto. In
quel momento compare Tareef. Ha un pugnale in mano e si scaglia su Nawfal.
Prima che Nawfal abbia fatto in tempo a urlare, dall’alto di una delle rocce
Denis si lancia su Tareef, lo afferra per il collo e gli immerge la lama nel
petto. Tareef lancia un urlo strozzato e il pugnale gli cade di mano. Denis
si stacca da lui. Tareef barcolla e cade a terra. -
Tareef! L’urlo
di Rajab esprime tutta la sua angoscia. Tutto
si è svolto in un attimo. Nawfal guarda Tareef che agonizza, poi guarda il
fratello. La sua voce è una lama tagliente. -
Volevi uccidermi. -
No, no, fratello… che dici? Rajab
si getta ai piedi di Nawfal. -
Era lui, Nawfal, era lui che mi ha convinto, mi ha detto che avrei ereditato
la fattoria. La voce
di Tareef esce debole, soffocata dal sangue: -
Porco immondo… me l’hai… chiesto… tu… Nawfal
si volge verso Denis e gli dice: -
Avrei preferito che tu avessi mentito. Denis
non dice nulla. Spera che Nawfal mantenga la sua promessa: solo questo conta
per lui. Nawfal
ordina a Denis di legare le mani di Rajab dietro la schiena, poi insieme si
dirigono verso l’abitazione. Nawfal
fa rinchiudere il fratello nella stanza dove dorme Denis. Poi manda alcuni
messaggeri in città e dà ordine di andare a prendere il corpo di Tareef. Nawfal
trascorrerà la notte nella tenuta. Denis rimane in disparte. Attende la
liberazione che gli è stata promessa, ma non dice nulla: non è il momento per
avvicinarsi a Nawfal, che è chiaramente di pessimo umore. In
serata arrivano due uomini inviati dall’emiro. Nawfal racconta loro che cosa
è successo. Domani, rientrando in città, consegnerà alle guardie il fratello,
perché venga processato. È
ormai buio e Denis si chiede dove dormirà. Nawfal lo lascerà libero? Denis ha
bisogno di un documento che comprovi la sua nuova condizione di uomo libero,
altrimenti sarà immediatamente catturato. Alla
fattoria arriva un uomo, accompagnato da due schiavi. Sembra un ricco
mercante. Nawfal parla un po’ con l’uomo, poi fa chiamare Denis. Le sue parole
sono una staffilata: - Ti
ho venduto al mercante Mufeed ad-Din. Nawfal
guarda Denis negli occhi. Attende una replica. Ma Denis d’Aguilard sa tacere.
China gli occhi e il capo, in silenzio. Non saprebbe dire perché Nawfal non
ha mantenuto la promessa: gli deve la vita. Ma Nawfal non gli è grato, in
qualche modo scarica su di lui la rabbia che prova per il tradimento del
fratello. È
tardi per rientrare in città. Mufeed ad-Din dormirà in una stanza della casa.
Le sue guardie e Denis trascorreranno la notte con i servitori della tenuta. Nawfal
si ritira presto e tutti i servitori si sistemano per dormire. Denis si
stende in un angolo e finge di addormentarsi subito. Alcuni servitori parlano
di quanto è avvenuto: il tentato omicidio del loro padrone e la morte del
pastore li hanno turbati. Alcuni si chiedono perché il padrone non conceda la
libertà a Denis o almeno non lo prenda con sé come guardia, visto che gli ha
salvato la vita. Non sanno della promessa mancata, ma gli sembrerebbe logico
ricompensare un uomo che ha reso un servigio immenso, invece di venderlo a un
mercante. Le loro chiacchiere vanno avanti a lungo: gli avvenimenti della
giornata hanno provocato una grande eccitazione. Infine
cala il silenzio e tutti si abbandonano al sonno. Denis non dorme. Steso su
una stuoia guarda attraverso il vano della porta, lasciata aperta per il
caldo, un riquadro di cielo stellato. Prova una grande rabbia: sa di aver
subito un’ingiustizia. Si chiede come sia il nuovo padrone e se avrà
un’occasione di scappare. È un mercante: se lo accompagnerà nei suoi viaggi,
forse avrà modo di fuggire; se invece Mufeed ad-Din lo lascerà in qualche sua
proprietà, sarà più difficile. Come lo ha presentato Nawfal? Potrebbe aver
detto che di Denis non bisogna fidarsi, che ha nascosto a tutti di saper
l’arabo. È
trascorso parecchio tempo da quando tutti si sono messi a dormire. Denis non
riesce a prendere sonno. Dall’angolo guarda il vano della porta. Potrebbe
alzarsi e allontanarsi, ma non farebbe molta strada. Un’ombra
passa davanti all’uscio, qualcuno che proviene dalla casa ed esce nel
cortile. Perché? L’ombra ritorna poco dopo. Forse era uno degli uomini che è
uscito per i suoi bisogni. Passano
alcuni minuti e qualcuno arriva dal cortile, passa davanti all’uscio e
scompare verso l’ingresso principale. A Denis pare di riconoscere il profilo:
si tratta di Rajab. Qualcuno lo ha liberato. Ma se è così, perché non è
fuggito? Vuole rubare qualche cosa da portare con sé nella fuga? Rischia di
essere scoperto. Oppure… Denis
intuisce. Potrebbe svegliare il mercante, dare l’allarme. Ma non è affar suo:
non salverà una seconda volta Nawfal. Alcuni
minuti dopo si sente un grido acutissimo, seguito da altri. Gli schiavi si
svegliano e corrono verso la stanza del padrone, da cui provengono le urla.
Anche Denis corre con gli altri, ma evita di essere il primo. Alla
luce di una lampada a olio accesa da un servitore, Nawfal appare a terra, in
un lago di sangue, il ventre squarciato. Rajab lo sta ancora colpendo, in un
parossismo di odio, ma all’arrivo dei servitori si alza. Li minaccia tutti
con il coltello, perché si tengano a distanza, poi si volta per lanciarsi
dalla finestra. Denis gli è addosso con un salto e lo fa cadere. Lottano, ma
Denis è più forte e abile e riesce a bloccare un braccio di Rajab dietro la
schiena. Gli altri servi si decidono infine a intervenire e legano
l’assassino. I
servitori si affollano intorno a Nawfal, ma le ferite sono troppo gravi:
Nawfal rantola e prima che arrivi un medico muore. Viene
mandato un messaggero in città e quattro guardie arrivano. L’indomani mattina
giunge anche Abdul-Qaadir, insieme a un magistrato inviato dall’emiro. Nessuno
sa chi possa aver aiutato Rajab a uscire dalla cella. Il magistrato fa
torturare i servi per ottenere informazioni e infine scopre che si tratta di
uno dei pastori che intendeva salvare Rajab e lo ha liberato, senza pensare
che avrebbe ucciso il fratello. Quando
le indagini sono concluse, il mercante Mufeed ad-Din ritorna in città con il
suo nuovo schiavo. Tancrède
è steso sul giaciglio. Egbert è sopra di lui, che lo infilza con il suo cazzo
poderoso. Tancrède si abbandona completamente alle sensazioni violente che
gli trasmette l’arma che lo trafigge, senza pietà. Con il tempo il dolore
brutale dei primi giorni è svanito: ora le spinte, per quanto energiche, non
provocano davvero sofferenza. O forse la sofferenza è essa stessa parte di un
piacere più intenso. In questi ultimi giorni, in cui attendono la condanna a
morte, i loro amplessi sono divenuti ancora più violenti, ma poi, quando
entrambi hanno raggiunto il piacere, si sciolgono nella tenerezza di un
abbraccio. Egbert
lavora con costanza, mentre le sue mani forti martoriano il culo di Tancrède,
stringendo la carne: Tancrède si ritrova spesso i lividi che le dita di
Egbert hanno lasciato. Ma non vorrebbe rinunciare a questa stretta feroce. Infine
Egbert viene e Tancrède gode insieme a lui: succede spesso che raggiungano il
piacere nello stesso momento. Egbert avvolge Tancrède nella stretta delle sue
braccia e giacciono tutti e due esausti, quando sentono un rumore di passi.
Qualcuno è alla porta della cella. Rapidamente si separano e si infilano le
tuniche, mentre la porta viene aperta. Non
dicono nulla, ma tutti e due sanno che è giunto il momento atteso: non è
l’ora in cui le celle vengono aperte, questa. Sono passati otto giorni da
quando Firas ha minacciato di farli uccidere entrambi, poiché il riscatto
richiesto non è stato pagato. Ogni giorno Tancrède ed Egbert hanno aspettato
che qualcuno annunciasse loro una condanna od offrisse uno spiraglio di
salvezza. Ma il tempo è passato e la loro vita è trascorsa sempre uguale, tra
notti ardenti e giorni che si sfilacciano nella noia. Ci
sono quattro guardie e un ufficiale, che ordina a Tancrède di alzarsi e
seguirli. Anche Egbert si alza, ma l’uomo gli dice: -
Rimani al tuo posto, cane. - Se
il mio signore deve morire, voglio morire anch’io. -
Non spetta a te decidere, cane. Una
delle guardie fa balenare una lama e la punta alla gola di Egbert. Tancrède
dice: -
Fermati, Egbert. Non sappiamo che cosa ci attende. Egbert
rimane immobile. Le guardie legano le mani del conte dietro la schiena e si
avviano. La cella viene richiusa. Le
guardie portano Tancrède verso una grande piazza, che rigurgita di folla. Il
conte si chiede il motivo di quell’assembramento inusuale, ma gli basta
guardare il palco delle esecuzioni per capire: oggi verrà giustiziato un
uomo. Tancrède si domanda se sarà lui la vittima. Sente un brivido corrergli
per la schiena. Non è un vile, ha affrontato la morte in battaglia, ma
conosce i tormenti che i saraceni sanno infliggere ai loro nemici. Le
quattro guardie si fanno largo tra la folla a spintoni, provocando proteste.
Parecchi imprecano, ma quando vedono che si tratta degli uomini dell’emiro,
non dicono più nulla. I soldati forzano Tancrède ad avvicinarsi al palco. Il
conte ora è certo che sarà lui a dare spettacolo a questa folla che attende
impaziente. Gli sembra che le gambe non lo sostengano. Ma le guardie non lo
fanno salire sul palco, si limitano a fermarsi in prima fila. Tancrède
si guarda intorno. Non molto lontano c’è un uomo che dall’aspetto sembra un
mercante e al suo fianco, inconfondibile con i suoi capelli rossi e gli occhi
azzurri, Denis d’Aguilard. Il giovane lo ha visto e fa un cenno di saluto.
Tancrède china appena la testa. In
quel momento il condannato arriva nella piazza e tra la folla si alza un
grande clamore. Tutti si voltano per vedere l’uomo, che è nudo e viene
trascinato verso il palco. Passa di fronte a Tancrède e lo forzano a salire i
gradini che portano alla grande ruota. Il
conte pensa che non è ancora il suo turno. Forse. Ma allora perché lo hanno
portato lì, perché lo hanno messo in prima fila, in modo che non perda un
dettaglio della cerimonia? Vogliono che veda un uomo morire tra i tormenti,
per renderlo più malleabile? Tancrède
non conosce l’uomo. Conosce abbastanza l’arabo per capire, dalle
conversazioni che sente, che si tratta di un fratricida, un certo Rajab ibn
Abd Allah. Il carnefice, a torso nudo, gli lega le braccia e le gambe alla
ruota, con cinghie di cuoio: ora il condannato è in posizione, pronto ad
affrontare la morte. Tancrède sa che anche a lui potrebbe essere riservato
quel supplizio. Lo giudica infame, ma la folla nella piazza preme per vedere
meglio. Il
carnefice prende il grande martello di legno, con cui ucciderà il condannato.
Non sarà breve: la folla vuole che lo spettacolo duri a lungo e l’esecuzione
deve essere un ammonimento per tutti. Rajab
si tende quando vede che il carnefice sta per vibrare il colpo. Nei suoi
occhi Tancrède legge l’angoscia, la faccia gli si distorce in una smorfia di
terrore. Il martello si abbatte sulla coscia del condannato, che grida. Il
carnefice solleva nuovamente il martello e colpisce l’altra coscia, poi le
gambe, le braccia. L’uomo si contorce, il viso stravolto dal dolore, e cerca
di liberarsi delle cinghie che lo tengono, ma non ci riesce. Il carnefice
continua a colpire, in modo metodico, con violenza crescente. I colpi
spezzano gli arti del condannato, che si affloscerebbe, se le cinghie non lo
sostenessero. L’uomo perde il controllo della vescica e il piscio scende. Le
urla di dolore che hanno accompagnato i primi colpi diventano singhiozzi, poi
rantoli. Ora
il carnefice è tutto sudato. Si ferma e contempla la sua opera. Il condannato
lo guarda, stravolto dal dolore, le sue labbra si muovono, sembrano formulare
una preghiera, una richiesta di pietà o forse una maledizione per l’uomo che
lo sta torturando. Il carnefice ha un ghigno, mentre di nuovo solleva il
martello e lo abbatte contro il ventre dell’uomo, che di nuovo urla. Ora tra
un colpo e l’altro il carnefice lascia passare un buon momento e non fa uso
di tutta la sua forza: non vuole che l’agonia finisca tanto presto. I colpi
lacerano la pelle e fanno scendere il sangue sul torace e sul ventre. Il
condannato non ha più la forza di urlare. Solo un singulto accompagna ogni
colpo. Tancrède
vede il carnefice portare il martello molto indietro, per dare più slancio.
Si dice che l’uomo colpirà il prigioniero allo sterno o all’altezza del
cuore, uccidendolo, ma il carnefice vibra il colpo sui genitali della
vittima, che emette un grido straziante, solleva la testa, gli occhi sbarrati
in un dolore senza limiti e poi la riabbassa. La folla urla la sua gioia
feroce, dileggia l’uomo agonizzante, grida oscenità. Un
altro colpo violento al ventre, poi due al torace. Un ultimo singhiozzo e il
prigioniero reclina la testa. Il sangue cola abbondante dalla bocca. Rajab
è infine sfuggito alla ferocia del carnefice. Il
carnefice si sposta, in modo che la folla possa vedere il cadavere attaccato
alla ruota. E mentre si gira a ricevere l’omaggio della folla, fissa Tancrède
e ghigna. Il
conte sente un brivido corrergli lungo la schiena. Le
guardie conducono Tancrède d’Espinel in una caserma. Lo fanno entrare in una
stanza e lo lasciano lì. Il conte attende, ma nessuno si presenta. Il tempo
passa. Fuori si sentono le voci dei soldati e i rumori delle attività
militari. Pare che l’abbiano dimenticato. Tancrède vorrebbe che questa attesa
durasse per sempre, perché a concluderla potrebbero essere la tortura e la
morte. Rivede nella mente il corpo martoriato dell’uomo che è stato
giustiziato, i colpi che si abbattevano su di lui. Ma
vorrebbe anche che questa attesa finisse, perché non regge più l’incertezza.
Le ore passano. Tancrède ha sete. Il sole incomincia a calare. Tancrède si
chiede se davvero non si siano dimenticati di lui. La
porta si apre, senza un rumore. Entra Firas, con un soldato e un uomo che
Tancrède non ha mai visto, ma che dall’abito risulta essere sicuramente un
funzionario importante. La
voce di Firas è dura: -
Alzati, cane. Tancrède
si alza a fatica, le gambe intorpidite dalla lunga immobilità, le braccia
ancora bloccate dietro la schiena. L’uomo
si siede sui cuscini davanti a Tancrède. Firas rimane in piedi. -
Conte Tancrède d’Espinel, l’emiro non ama essere ingannato. -
Non ho… La
voce si trasforma in un gemito, perché a un cenno di Firas il pugno del
soldato ha colpito Tancrède al ventre, mozzandogli il fiato. -
Parla quando sei interrogato, cane. L’uomo
seduto riprende, come se l’interruzione non fosse nemmeno avvenuta. - Ci
sono molti modi di giustiziare un uomo. Quello che hai visto oggi non è dei
peggiori: si muore in fretta. Ce ne sono che ti lasciano il tempo di maledire
tua madre per averti generato. Tancrède
fa per aprire bocca, ma lo sguardo di Firas lo raggela. -
Ascolta, l’emiro sa essere generoso e perdonare. Ma bisogna meritare il suo
perdono. Noi potremmo lasciarti la vita, potremmo anche lasciarti la libertà… C’è
un momento di sosta, poi l’uomo prosegue: - …o
potremmo impalarti insieme al tuo servitore, come monito per tutti coloro che
pensano di poter ingannare l’emiro. Tancrède
ha sentito parlare dell’impalamento, uno dei supplizi più atroci che
esistano. Di nuovo sente un brivido lungo la schiena. -
Sta a te scegliere. Tancrède
guarda l’uomo. Che cosa significano le sue parole? Chi potrebbe scegliere di
essere impalato, potendo invece vivere e essere libero? -
Tuo cugino, che ora amministra le tue sostanze, potrebbe essere ucciso uno di
questi giorni. E tu potresti trovarti libero… Tancrède
non capisce. L’uomo fa un gesto e Firas estrae da una sacca che porta a tracolla
un foglio. È una lettera, in cui il conte Tancrède d’Espinel promette di
collaborare con l’emiro Nur ad-Din Abu al-Qasim Mahmud ibn Imad ad-Din Zangi,
in cambio della libertà e dell’eliminazione di suo cugino, Jean d’Espinel. La
vita e la libertà in cambio del tradimento. Tancrède scuote la testa. L’uomo
sorride e dice: -
Medita prima di rispondere, cristiano. Ma se hai deciso che preferisci
morire, questa sera stessa impaleremo il tuo servitore. Così vedrai che cosa
significa morire sul palo. Tancrède
ha la sensazione che il fiato gli manchi. Egbert, impalato, tra poco. E poi
lui stesso. Un’agonia che può durare giorni. Tancrède
non vuole accettare l’infamia. Potrebbe fingere di accettare e poi rifiutarsi
di tradire, ma se lui firmerà quel foglio o, com’è probabile che gli
impongano, lo ricopierà di suo pugno, i saraceni avranno in mano la sua
condanna a morte: gli basterà far giungere il documento a Gerusalemme per far
cadere la testa di Tancrède. E di certo Jean sarà assassinato prima che
Tancrède possa tornare a casa. Di Jean, che ha cercato di farlo morire, non
gli importa nulla. Ma dopo quella morte nessuno potrà mettere in dubbio la
veridicità del documento. Tancrède
tace. -
Firas, fa venire il servitore del conte e fa preparare il palo. Il conte ha
bisogno di vedere. -
No! L’urlo
è sfuggito a Tancrède. -
Ricopierai di tuo pugno questo foglio e lo firmerai? Tancrède
si morde il labbro. Annuisce. * Mathieu
è bravo, ci sa fare anche con la bocca. Mathieu è giovane. Mathieu è bello.
Mathieu è molto richiesto. Jamil
ha molta esperienza, ma non ha più diciott’anni. Lavora bene con la bocca e
con il culo, ma il suo viso mostra i segni del tempo: la vita che conduce
lascia tracce sulla carnagione e la pelle di Jamil non ha più la freschezza
di alcuni anni fa. I clienti si trovano bene con Jamil, ma Mathieu ha la
pelle più morbida, ha il viso più bello, ha un corpo che non ha conosciuto
anni di lavoro in un bordello, un culo che non è stato violato infinite
volte. I
clienti chiedono Mathieu, per Jamil sono disposti a pagare di meno, ora che
c’è uno schiavo più bello e più giovane. La
rabbia cresce in Jamil, una rabbia cieca. Jamil
attende Husaam, che viene ogni mercoledì. Husaam è uno dei comandanti del
corpo di guardia di Damasco. È un uomo forte, che possiede Jamil con vigore,
ma è anche un uomo istruito, che ama la poesia. Per Jamil non è un cliente
qualsiasi. Di lui il giovane schiavo è innamorato. Una volta Husaam gli ha
detto che gli piacerebbe avere Jamil accanto a sé ogni giorno. Ha aggiunto
che lo riscatterà. Una di quelle frasi dette quando il piacere ottenuto
dispone al sorriso e alla tenerezza, dopo un bicchiere di vino e una poesia
di Abu Nuwas. Una di quelle frasi che si dimenticano subito dopo averle
pronunciate. Jamil è stato tanto sciocco da non dimenticarla. Jamil
spia tra le tende gli uomini che bevono tè e chiacchierano nella sala comune.
Husaam non è ancora arrivato, ma non tarderà: viene sempre alla stessa ora,
quando smonta. Husaam
viene introdotto da un servitore. Husaam è bello, forte, alto. Gli occhi di
Jamil brillano mentre fissa il comandante. Tra poco sarà da lui. Un
servitore si avvicina a Husaam e gli dice qualche cosa, ma il comandante ride
e scuote la testa. Il servitore gli offre del tè e scompare. Husaam sorseggia
il suo tè, parla con gli altri clienti. Non sembra aver fretta. Jamil invece
è impaziente. Ma gli farà pagare questa scarsa sollecitudine. Si farà
pregare, questa sera. Non può certo negarsi: Husaam è un cliente tra i più
importanti e non accetterebbe un rifiuto, ma tra loro c’è una certa
familiarità e Husaam dovrà pregarlo per ottenere ciò che vuole. Jamil
non perde di vista neppure per un attimo il suo comandante e intanto pensa a
come lo stuzzicherà, negandosi, fino a farlo impazzire di desiderio. Poco
dopo arriva il padrone, che parla con Husaam. Discutono un buon momento. Il
padrone non sembra soddisfatto, ma accenna un inchino e se ne va. Husaam si
siede. Che
succede? Perché Husaam non viene da lui? Jamil non capisce. Jamil
guarda ancora un momento, poi cerca un servitore. Incontra Saalih. -
Perché il comandante Husaam ibn Imraan non entra? A
Saalih non piace Jamil, trova che si dà troppe arie perché ha ancora tanti
clienti che chiedono di lui. È contento di poter dire: - Il
comandante ha chiesto del giovane cristiano, Tareq. Tareq
è il nome che danno a Mathieu nel bordello. Jamil
è annichilito. Guarda Saalih, in silenzio, poi esplode: - Tu
menti, cane. Lo dici per invidia. Non è vero. Saalih
ride, guardando le lacrime che spuntano negli occhi di Jamil. Poi il sorriso
svanisce e risponde, sarcastico: - Lo
vedrai come viene da te. Jamil
ritorna alla tenda. Husaam chiacchiera e ride. Infine un servo viene a
chiamarlo e Husaam lo segue. Jamil aspetta un momento, poi raggiunge la
stanza di Mathieu. Oltre la tenda sente la voce del comandante. -
Sei bello, Tareq. La tua pelle è un petalo di rosa. -
Grazie, mio signore. Jamil
scosta leggermente la tenda e guarda dentro. Husaam sta spogliando Tareq, che
ora è nudo davanti a lui. Husaam si spoglia con lentezza, poi fa
inginocchiare Tareq e gli mette una mano sulla testa, avvicinandola al suo
cazzo. Mathieu
prende in bocca il sesso di Husaam e incomincia a succhiare. Husaam recita
una poesia di Abu Nuwas, la stessa che un tempo ha recitato a Jamil: - Di
quattro cose vivono il cuore, l’anima e il corpo: l’acqua, il giardino, il
vino e il bel viso. Una
voce alle spalle di Jamil lo fa sussultare: -
Jamil! Se il padrone ti vede, ti frusta. Vattene subito, sfacciato. Jamil
sa che se rimanesse rischierebbe di essere denunciato da qualcuno dei
servitori. Abdallah potrebbe davvero farlo frustare: guai se un cliente,
soprattutto uno importante, venisse a sapere di essere spiato. Gli uomini che
frequentano il bordello di Abdallah contano sulla discrezione del padrone e
di tutto il personale. Jamil
si ritira. Ha visto più che abbastanza. Torna nella sua stanza e si stende.
Ha di nuovo le lacrime agli occhi. Jamil
ha trascorso la notte insonne e il suo viso appare ancora più vecchio. Il
padrone lo rimprovera: deve avere cura di sé, altrimenti dovrà venderlo e
sostituirlo con un altro. Saalih e un altro servitore ridacchiano. Jamil
chiede di uscire. Il permesso gli viene concesso. Jamil
sa dove andare. Ha preso con sé due le monete che alcuni clienti gli hanno
regalato. Torna dopo alcune ore, con una piccola boccetta che ha nascosto
sotto la tunica. Il
pomeriggio scorre come sempre. Jamil ha due clienti. Altri arrivano la sera.
Infine tutti se ne vanno e il bordello chiude. Ognuno ritorna nella sua
camera. Jamil
attende che ci sia silenzio. Poi prende una lanterna e la boccetta e si
muove, senza fare nessun rumore. Giunge davanti alla stanza di Mathieu.
Scosta la tenda. Si avvicina fino alla stuoia dove riposa il giovane.
Sorride. -
Per te, Tareq! E
mentre lo dice gli lancia sul viso il liquido contenuto nella boccetta. Le
parole hanno svegliato Mathieu, che sente un dolore atroce là dove il liquido
è entrato in contatto con la pelle. Grida, grida con quanto fiato ha in
corpo, chiede aiuto. Ma nessuno può fermare l’azione dell’olio di vetriolo. * A
Damasco Mufeed ha venduto tutte le sue merci e ha realizzato un buon
guadagno: Allah è stato generoso con lui. Con il denaro ricavato, ha comprato
anche due schiavi. Uno è un ragazzo giovane, un cristiano. Lavorava al
bordello di Abdallah, ma è stato sfigurato dall’olio di vetriolo: ha perso un
occhio e tutta la parte destra del viso è devastata. Anche sul lato sinistro
ci sono alcune lesioni. Di certo non può più lavorare in un bordello. Ma
neanche in casa: chi vorrebbe uno schiavo così brutto da vedere? Mufeed l’ha
ottenuto per poco: sembra abbastanza forte e può lavorare nei campi o nelle
miniere. Quando
l’ha portato al caravanserraglio, ha scoperto che lo schiavo con il viso
deturpato conosceva l’altro schiavo, quello che Nawfal gli ha venduto a basso
prezzo, uno che non ha bisogno del vetriolo per essere brutto, ma è valoroso
e ha salvato il suo padrone. Per il povero Nawfal non è stato sufficiente: ma
nessuno può sfuggire al destino che Iddio ha scelto per lui. Ora
Mufeed lascia Damasco con i suoi servitori e i due nuovi schiavi, dirigendosi
verso Aleppo. Viaggia con numerosi altri mercanti: una precauzione contro le
bande di infedeli che spesso attaccano le carovane arabe. E non ci sono solo
i cani cristiani: vi sono anche briganti tra coloro che seguono il Profeta.
Credenti che non esitano ad attaccare altri credenti, a rubare le merci, a
uccidere chi cerca di resistere, che il Sommo li punisca nelle fiamme della
Geenna. Come quel maledetto che si fa chiamare Hamza e che tutti temono. Il
nuovo schiavo rimane sempre silenzioso. È docile e fa quanto gli viene
ordinato. Mufeed si chiede spesso perché Nawfal ha deciso di sbarazzarsi di
lui dopo che gli aveva salvato la vita. Nawfal è stato ucciso la notte
stessa. Forse Iddio onnipotente lo ha punito per non essere stato generoso.
Sta scritto che Iddio ama le anime generose. Il
viaggio sembra svolgersi senza intoppi. Aleppo non è lontana: sarebbero già
giunti se un forte vento dell’Est non avesse portato la sabbia del deserto
sulla pista, in una tempesta che ha impedito loro di proseguire e li ha
costretti a fermarsi. Ma domani sera, se Allah vuole, ci arriveranno. Nel
pomeriggio, quando ormai è quasi ora di fermarsi per la loro ultima notte di
viaggio, i mercanti vedono una nuvola di polvere levarsi da una pista che
scende dalle colline. Mufeed sa che cosa significa: cavalieri al galoppo, con
ogni probabilità briganti. La
carovana si ferma. I mercanti vogliono tentare una difesa: sono in tanti, si
sentono forti, sono sicuri che Iddio li guiderà. Mufeed dice che è follia,
cerca invano di convincerli a non resistere: meglio perdere le merci che la
vita. Gli altri non ascoltano, rifiutano di arrendersi senza combattere.
Intanto i cavalieri si stanno avvicinando a gran velocità. Uno di loro, il
capo, grida: -
Sono Hamza. Arrendetevi e avrete salva la vita. Al
sentire il nome di Hamza, uno dei briganti più temuti, a Mufeed pare di
svenire. Supplica ancora i compagni di cedere e implorare pietà. Ma i suoi
compagni sono giovani, forti e imprudenti. Uno di loro risponde per tutti: - Ci
difenderemo fino all’ultimo, cani! I
briganti si avventano sui mercanti. Mufeed
si dice che il suo ultimo giorno è arrivato. Perché i suoi compagni hanno
reagito? Si illudono che riusciranno a respingere i briganti solo perché sono
superiori di numero? È una follia: oltre a perdere le merci, perderanno anche
la vita. Questa che hanno di fronte è gente abituata a combattere, che sa
maneggiare la spada e la scimitarra come i mercanti sanno fare i conti. Quasi
a confermare le paure di Mufeed, Hamza, dopo aver trapassato con la spada uno
dei suoi servitori, si avventa su di lui. Mufeed lo guarda, gli occhi
sbarrati, paralizzato dal terrore. Non ha un’arma, non ha mai combattuto.
Cade in ginocchio, mormorando: -
Testimonio che non vi è dio se non Iddio e che Muhammad è l'inviato di Dio. Ma
lo schiavo franco dai capelli rossi ha preso la scimitarra di un guerriero
morto ed è balzato addosso al capo dei briganti. Questi non si aspettava un
attacco da parte del ragazzo e si avventa su di lui, convinto di poterlo
uccidere senza fatica. Hamza ha sottovalutato il suo giovane avversario e
questo è il suo ultimo errore: Denis para il colpo, fa una finta e poi
immerge la scimitarra nel petto di Hamza. Il
capo dei briganti lancia un urlo. Tutti guardano nella direzione dell’uomo,
che barcolla, poi crolla in ginocchio. China la testa e vomita sangue. Denis
abbassa con forza la scimitarra, recidendo di netto la testa del brigante, il
cui corpo cade disteso al suolo. Poi infila l’arma nella testa recisa e la
solleva. C’è un momento di panico tra gli attaccanti e i difensori ne
approfittano per rovesciare le sorti dello scontro e mettere in fuga gli
assalitori. Tutti
sono intorno allo schiavo. Gli fanno i complimenti: la sua azione ha salvato
l’intera carovana. Mufeed ad-Din si avvicina. Gli tremano ancora le gambe e
non si è accorto di essersi pisciato addosso. Mufeed abbraccia il suo schiavo.
Mufeed non è un ingrato. Le sue prime parole sono: - Il
Corano dice: “Per coloro che credono e saranno generosi, ci sarà
ricompensa grande”. Sei libero, cristiano. Giunti
a Damasco, Mufeed fa preparare tutti i documenti necessari per l’affrancamento
dello schiavo cristiano. Gli altri mercanti della carovana hanno raccolto una
somma consistente e la danno a Denis: senza l’intervento dello schiavo
avrebbero perso i loro beni e le loro vite. Denis
d’Aguilard è di nuovo padrone di sé. E mentre sta per accomiatarsi, vede
Mathieu che lo guarda. Allora si rivolge a Mufeed e gli dice: -
Vendimi lo schiavo con il viso deturpato. Mufeed
accetta. Si fa dare il prezzo che ha pagato per Mathieu, nulla di più. * Egbert
attende nella cella. Non ha notizie di Tancrède dal mattino. Si chiede se
l’hanno ucciso, se gli hanno inflitto uno di quei supplizi atroci in cui i
saraceni eccellono. È
notte quando sente dei passi e la porta viene aperta. Alla luce della
lanterna può vedere Tancrède, pallido. La guardia se ne va subito e la cella
torna nel buio. Dalla finestrella entra la luce della luna, che illumina solo
un riquadro della stanza. -
Conte! Temevo che vi avessero ucciso. Tancrède
si siede. Ha scritto di suo pugno la lettera con il patto infame. È un
traditore e dovrà rispettare quel patto, per non perdere l’onore e la vita.
Dovrà disonorarsi per conservare l’onore. A
Egbert non vuole parlarne: sa bene che il sassone non approverebbe e
rifiuterebbe la libertà a quel prezzo. -
Credo che riusciremo a sistemarla, Egbert. Ho firmato alcune carte che
permetteranno a un intermediario di farsi dare la somma del riscatto. La
cella è immersa nel buio, ma la voce di Tancrède tradisce l’angoscia. -
Non sembrate contento come dovreste essere, conte. - Ho
passato ore infernali. Mi hanno fatto assistere a un’esecuzione prima, poi mi
hanno lasciato ad aspettare all’infinito. Tancrède
racconta. Tutto, tranne la verità. E
poi lascia che Egbert lo stringa, lo spogli e lo prenda. * Mathieu
si è chiuso in un mutismo feroce. Denis conosce bene il silenzio del dolore,
ma in Mathieu non legge solo sofferenza: c’è anche rabbia, molta, una rabbia
cieca, che vorrebbe distruggere il mondo. Ad
Aleppo, nei tre giorni in cui rimangono in città prima di unirsi a una
carovana di mercanti cristiani, Mathieu non parla quasi mai. Denis rispetta
la scelta del suo compagno. Il primo giorno hanno camminato per strada e sono
stati oggetto di battute: qualcuno ha detto che sono tutti e due brutti come
il diavolo o come la morte, un altro che quello coi capelli rossi gira con lo
sfregiato per apparire bello. Denis ha compreso benissimo ciò che dicevano di
loro e anche Mathieu ha colto almeno il senso di quei commenti: dopo un anno
di prigionia è in grado di capire l’arabo. Denis
si è occupato da solo di procurarsi tutto l’occorrente per il viaggio e di
prendere accordi con i mercanti. E poi ha visitato la città. È rimasto ad
ammirare la cittadella, in cima a una piccola collina: una fortificazione
formidabile, che domina Aleppo. Si è perso per le vie coperte del mercato,
che si aprono in improvvisi slarghi da cui è visibile il cielo. Ha camminato
fino ai campi circostanti. Aleppo è la più bella città che abbia mai visto,
assai più di Gerusalemme o di Baruth o di Tiro. Gli pare più bella anche di
Damasco, che però Denis ha avuto modo di vedere appena e non di visitare.
Forse solo la leggendaria al-Hamra, quella che i franchi chiamano Rougegarde,
è più bella di Aleppo, ma Denis d’Aguilard non ha mai visto la perla della
Terrasanta, saldamente in mano ai saraceni. Denis
va in uno dei numerosi bagni pubblici della città. Rimane a lungo nella
stanza calda, satura di vapore. Poi si lava e infine, dopo essersi rivestito,
si stende sui tappeti per bere il tè. Avverte una sensazione di profondo
benessere. Non si trova in una situazione facile: non ha amici, non ha
parenti, non ha un lavoro, nulla. Ma è un uomo libero e sta per tornare in
territorio franco. Il
quarto giorno la carovana si mette in movimento, diretta verso Antiochia. La
marcia procede senza incontrare difficoltà, tra valli dei monti del Libano
che Denis non ha mai percorso. Molto in alto si vede ancora la neve, ma nelle
vallate che attraversano la vegetazione è ricca: Denis può ammirare i
maestosi cedri, le querce, i cipressi, i pini. Ogni tanto in lontananza
scorge uno sciacallo o un falco in volo. Lungo la pista sorgono villaggi e
altri si possono vedere arroccati sui fianchi delle montagne. Denis
ritrova dentro di sé la curiosità nei confronti di tutto ciò che è nuovo, il
piacere di scoprire altre realtà. Denis
e Mathieu non parlano molto con i compagni di viaggio: Denis è di poche
parole e Mathieu non apre mai bocca. Il suo comportamento stupisce gli altri
viaggiatori, che però non dicono nulla. L’unico a chiedere è Riccardo
Micheles, che viaggia con il padre e lo zio Giovanni. Riccardo ha appena
dodici anni, è al suo primo viaggio in Terrasanta ed è curioso di tutto.
Domanda se Mathieu è muto e alla risposta negativa di Denis gli chiede perché
non parla e perché ha il viso deturpato. Denis risponde in modo generico alla
prima domanda e quanto alla seconda, dice la verità: non lo sa. È sicuro che
ciò che gli ha raccontato Mathieu, quando si sono ritrovati a Damasco, è una
menzogna. Una
volta giunto in territorio cristiano, Denis comunica a Mathieu la sua
intenzione di raggiungere i guerrieri con cui hanno combattuto, quelli che
sono ancora vivi. Mathieu non vuole più combattere, ma chiede di venire con
lui fino a Gerusalemme. Passano
insieme diverso tempo, ma, come ad Aleppo e durante il viaggio fino ad
Antiochia, non si dicono quasi nulla: Mathieu tace sempre, a meno che non
debba rispondere a una domanda o chiedere qualche cosa; Denis non è loquace
per natura e non cerca di forzare il suo compagno a parlare. Ad
Acri Denis si procura l’equipaggiamento per la guerra: è ciò che gli servirà
per guadagnarsi da vivere. Potrebbe anche comprarsi un cavallo e arruolarsi
come cavaliere, ma spenderebbe quasi tutto il suo denaro e non è sicuro di
trovare subito un ingaggio. Dopo
qualche giorno scopre che il conte Tancrède d’Espinel e Egbert di Hagon sono
giunti da poco in città, dopo essere stati liberati dai saraceni. Denis si
chiede se andare a trovarli: sono stati catturati insieme e liberati più o
meno nello stesso periodo. Ma Denis è perfettamente conscio della distanza
che lo separa dal conte e da Egbert, due uomini che sono conosciuti e stimati
e hanno entrambi diversi anni in più di lui. Tra di loro non può esistere
nessuna amicizia, al massimo Denis potrebbe chiedere al conte di prenderlo al
suo servizio come soldato, ma preferisce rivolgersi a Chrétien da Bayonne,
per cui lui e suo padre hanno combattutto in passato. Denis
sa che Mathieu aveva rapporti con il sassone. Si chiede se dirgli che Egbert
è di nuovo un uomo libero e si trova in città. Dopo aver riflettuto, decide
di farlo. Mathieu non dice nulla e Denis si pente di aver parlato. Ma qualche
ora dopo, con stupore di Denis, Mathieu dice che vorrebbe parlare con il
conte e con Egbert e chiede a Denis di accompagnarlo. Denis acconsente. Alla
porta della residenza del conte, Denis dice i loro nomi e spiega che hanno
combattutto e sono stati catturati con lui. Poi chiede di parlare al conte o
a Egbert di Hagon. L’attesa è breve: il servitore torna subito e li fa entrare.
Quando
fanno il loro ingresso nella sala, Mathieu guarda il conte ed Egbert. Legge
nel loro sguardo la sorpresa e poi lo stesso malcelato disgusto che appare
sul viso di tutti quelli che lo vedono. Mathieu non dice nulla, anche se è
lui che ha chiesto il colloquio: si chiude in un mutismo completo. È Denis a
raccontare le loro vicende. Il conte chiede a Mathieu come mai è stato
sfregiato. Solo allora Mathieu parla: risponde brevemente che è stato il suo
padrone, perché ha cercato di fuggire. È la stessa risposta che ha dato a
Denis, di fronte alla stessa domanda. Denis è sicuro che si tratti di una
menzogna, ma ha finto di crederci. Mathieu non dice altro durante il
colloquio. Di
fronte al mutismo di Mathieu, Denis si limita ad ascoltare quanto il conte
gli dice e a rispondere con poche parole alle sue domande. Poi saluta. Egbert
lo abbraccia forte: -
Sei un giovane valoroso, Denis d’Aguilard, e sono sicuro che farai fortuna. Il
conte dice a Denis che se in futuro avrà bisogno di qualche cosa, può rivolgersi
a lui: è una promessa molto vaga. Denis si dice che eviterà di chiedere al
conte, a meno che non ci siano alternative. Ringrazia e si accomiatano.
Tornano alla locanda in cui alloggiano. Mathieu rimane chiuso nel suo
ostinato silenzio. Dopo
cena, quando si stendono per dormire, nel buio della stanza, Mathieu dice: - Un
tempo mi desideravi. Denis
vorrebbe rispondere che quel tempo è lontanissimo. Non è passato solo un
anno: sono intere vite, generazioni. Di quel desiderio non è rimasto nulla e
non solo perché il viso di Mathieu può ispirare unicamente orrore. Ma Denis
avverte la sofferenza di Mathieu, la sua disperazione. E allora allunga la
mano sul corpo che nel buio della stanza può vedere appena. Accarezza il viso
di Mathieu, scende sul collo e poi sul torace. Scivola fino al ventre. Mathieu
si avvicina Denis, si stringe contro di lui. Denis lo abbraccia, gli
accarezza la schiena, il culo. Mathieu
si scioglie dall’abbraccio. Denis sente le labbra di Mathieu premere contro
il suo uccello, che viene inghiottito dalla bocca. La lingua accarezza la
cappella e in Denis il desiderio si tende, sempre più forte. Mormora: -
Mathieu! Mathieu
lavora con la bocca, la lingua, i denti. Quando l’uccello di Denis è teso al
massimo, Mathieu si volta, dando la schiena a Denis e appoggiandosi contro di
lui. Denis
si bagna le dita e inumidisce l’apertura. Per la prima volta sta per
possedere un altro corpo, per la prima volta conoscerà il piacere di un
rapporto. Ma Denis sa bene che a guidarlo è la pietà, non il desiderio. Ora
Denis avvicina il suo uccello all’apertura. Preme leggermente: ha paura di
fare male. Poi con lentezza entra. Per la prima volta sente il calore di un
culo che avvolge il suo uccello, il piacere che dà muoversi dentro un fodero
caldo. Si muove con lentezza, accarezzando Mathieu. Gli stringe l’uccello tra
le dita, lo accarezza: vuole che Mathieu goda con lui. Denis
spinge con forza crescente, man mano che il desiderio lo trascina. La sua
mano si muove con decisione. Denis sente l’ondata del piacere arrivare,
inghiottirlo, trascinarlo in alto e poi abbandonarlo. La sua mano completa
l’opera e il seme di Mathieu schizza. Denis
bacia Mathieu dietro la nuca e gli dice: -
Grazie. Si
accorge che Mathieu ha incominciato a piangere. Lo accarezza, mentre lo tiene
tra le braccia, ma Mathieu si stacca, quasi con rabbia. Denis
non dice nulla. Si ritrae. A un certo punto scivola nel sonno. Più
tardi è un rumore a svegliarlo. Mathieu si sta alzando. Potrebbe aver bisogno
di pisciare, ma Denis si accorge che sta vestendosi. Poco dopo lo sente
frugare tra gli abiti: sta cercando la borsa con il denaro. Quelle
monete servono a Denis: non possiede altro e in attesa di trovare una
sistemazione il denaro avuto dai mercanti saraceni è la sua unica risorsa. Ma
Denis rimane immobile e non dice nulla. Mathieu
ha trovato quello che cercava. Prende la borsa e lascia la stanza. Denis
si dice che forse è meglio così. |