I – I prigionieri

 

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Seguendo il sentiero che si arrampica sulla montagna, Denis è giunto in cima alla grande parete grigia e ora può vedere dall’alto l’accampamento cristiano: una distesa di tende sul terreno verdeggiante, che la calura estiva non ha ancora inaridito. I grandi teli bianchi paiono quasi vele di navi all’ancora in una baia. C’è un continuo movimento all’interno del campo: gli uomini si stanno preparando perché l’esercito saraceno non deve essere lontano e con ogni probabilità nei prossimi giorni ci sarà battaglia.

Denis osserva la tenda di Chrétien da Bayonne, il loro comandante: è la più grande e in cima sventola il vessillo rosso e giallo del nobile guerriero. Non molto lontano Denis può scorgere la tenda dove dorme con suo padre e altri soldati.

Dopo aver osservato l’accampamento, Denis scorre con lo sguardo il paesaggio circostante. Ai piedi della nuda parete la vegetazione è rigogliosa: sulle rive del fiume vi sono platani e frassini e più a monte un vasto bosco di querce. Aggrappandosi a un arbusto, Denis si sporge di più, per vedere l’area paludosa a valle dell’accampamento, ricoperta da un intrico di canne, tra cui spiccano alcuni alberi.

Se l’arbusto cedesse, Denis precipiterebbe e morirebbe sul colpo. Ma Denis d’Aguilard non ha paura. Sa che la morte può prenderlo in qualsiasi momento: in Terrasanta gli uomini e soprattutto i soldati non vivono a lungo, perché le guerre e le malattie fanno strage. Domani stesso la sua vita potrebbe finire, se ci sarà battaglia. Denis ha visto morire molti di coloro che combattevano con suo padre e con lui. Ha visto uomini mutilati, saccheggi e stragi. Fin da bambino Denis è sempre vissuto tra soldati e ha già partecipato a diversi scontri, pur avendo appena sedici anni. Allevato da un padre guerriero, Denis è divenuto più abile a maneggiare la spada di molti altri soldati che hanno un’esperienza di gran lunga maggiore.

L’idea di affrontare il nemico, di rischiare la vita, di uccidere o di venire ucciso, non spaventa Denis. Ma oggi Denis è teso, di una tensione che ha ben altra origine: il suo corpo desidera, con violenza. È un desiderio dai contorni confusi, che si accende alla vista di un guerriero che si lava in un torrente, di uno schiavo sul cui torace scivolano goccioline di sudore, di un maschio steso sul giaciglio a riposare. Denis non ama: in questa vita errante di duri esercizi militari e battaglie, non ha ancora scoperto l’amore. Ma il desiderio preme.

Denis pensa a Mathieu, anche lui giovanissimo. È bello Mathieu, un bel volto dai lineamenti regolari, grandi occhi scuri, riccioli neri che gli incorniciano il viso, labbra carnose e un naso diritto. Piace a molti, questo ragazzo di sedici anni che combatte con i franchi. Piace anche a Denis. Mathieu non disdegna le attenzioni di alcuni dei cavalieri: Denis lo ha visto appartarsi con il sassone, quello dalla barba rossa. Denis si chiede se Mathieu sarebbe disposto a donargli un po’ di piacere. Il sassone deve avere cinquant’anni. È un uomo molto forte, ma non è bello come altri, ad esempio il conte d’Espinel. Eppure Mathieu va con lui…

Denis è incerto. In battaglia Denis è sicuro di sé e molti si stupiscono per il suo coraggio, ma suo padre l’ha allenato a combattere fin da quando era bambino. Le schermaglie amorose gli sono invece del tutto ignote. E Denis sa bene di non essere bello. Ha un viso dai tratti molto irregolari, che in molte donne suscitano repulsione. La sua unica bellezza sono gli occhi, di un azzurro molto intenso. Pochi mesi fa durante un banchetto, dopo un combattimento, un cavaliere ha detto a suo padre:

- Tuo figlio è tanto valoroso quanto brutto.

Suo padre ha riso: in un guerriero il valore conta molto di più della bellezza. Ma in altri combattimenti, la bellezza è un’arma importante.

 

Denis decide di cercare Mathieu. Sa dove trovarlo: tra le tende dei provenzali. Denis scende lungo il sentiero. A un certo punto una vipera gli passa davanti, scomparendo rapidamente tra le rocce. Alcuni dei soldati vedrebbero nel serpente un cattivo presagio, ma Denis non se ne preoccupa, non crede che il movimento di un animale possa essere un segno del destino. Denis raggiunge l’accampamento e passando davanti alla tenda dove dorme vede suo padre, che sta controllando lo scudo.

- Sei pronto per la battaglia, Denis? Hai preparato tutto?

È una domanda che non richiede davvero una risposta: Pierre d’Aguilard sa bene che suo figlio è meticoloso.

Denis risponde:

- Sì, padre. Ho provveduto a tutto.

Pierre annuisce. È inutile che interroghi il figlio, che gli chieda conto di ogni dettaglio, come faceva un tempo: sa benissimo che Denis non ha dimenticato nulla, non ha trascurato nulla. Pierre sorride. È orgoglioso di suo figlio, del suo senso di responsabilità, del suo coraggio, della sua lealtà.

Pierre spera che un giorno possa raggiungere una buona posizione in queste terre che i franchi hanno strappato ai saraceni. Forse sarà a capo delle truppe di qualche signore, forse diventerà barone. Ma ci sono dei momenti in cui Pierre ha dei dubbi, si chiede se non farebbe meglio a mandare Denis nella loro terra natia, dal proprio fratello maggiore, l’erede del piccolo feudo di Bellerivière, in Francia. Qui in Terrasanta lo espone a continui pericoli. Ma quando la madre di Denis è morta, Pierre ha preferito prendere il figlio con sé e insegnargli il mestiere delle armi.

Denis fa un cenno di saluto e si dirige verso le tende dei provenzali. Mathieu è seduto vicino all’ingresso di una tenda, da solo. Denis si dice che è fortunato: non deve cercarlo, non deve chiedere di lui. Il loro incontro può apparire del tutto casuale. Ma Denis si sente irrequieto. Forse preferirebbe affrontare un guerriero saraceno in battaglia: saprebbe come muoversi.

Denis si avvicina a Mathieu, che lo saluta: si conoscono e il fatto di essere i più giovani tra i soldati li ha portati a fraternizzare in alcune occasioni.

Denis si siede di fronte a Mathieu e gli dice:

- Mio padre è sicuro che domani o dopodomani i saraceni daranno battaglia.

- Sì, l’ho sentito dire anch’io. Hanno già attraversato il Giordano.

Denis non sa come proseguire, si rende conto di non essere bravo con le parole come lo è con le armi. Dice:

- Domani potremmo morire.

Mathieu si fa il segno della croce:

- Perché dici queste cose, stupido? Non chiamare la morte, che viene anche quando nessuno la cerca.

Denis non crede che nominare la morte possa portare male, ma asseconda Mathieu.

- Hai ragione. È che… mi chiedevo…

Denis si è perso. Non sa più che cosa dire. Guarda il viso di Mathieu, che è troppo bello, e pensa all’immagine che gli rimanda l’acqua di uno stagno.

- Che hai, Denis?

Mathieu sorride dello sconcerto di Denis. E in quel sorriso Denis legge un incoraggiamento. Fosse più esperto, saprebbe leggere nel sorriso di Mathieu un po’ di scherno, ma la concentrazione di cui Denis dà prova quando combatte ha lasciato il posto a una grande confusione. Denis annaspa, cercando di rimanere a galla, e non si rende conto che i suoi movimenti scomposti lo trascinano a fondo.

- Pensavo che mi piacerebbe, prima di combattere…

Denis non sa che parole usare. Quelle che sente dagli altri soldati, e che a volte lui stesso usa per non apparire bambino, quando si trova con loro, ora non gli sembrano adatte. Denis riesce ancora a dire:

- Perché non ci cerchiamo un posto tranquillo, Mathieu, io e te?

Mathieu lo guarda, poi dice:

- Un posto tranquillo… io e te?!

Mathieu scoppia a ridere, una risata irrefrenabile. Ha le lacrime agli occhi dal gran ridere. A Denis sembra di aver ricevuto una frustata in faccia.

- Che hai da ridere, briccone?

A parlare è stato il sassone dalla barba rossa, quello che Denis ha visto in altre occasioni con Mathieu. Deve essersi avvicinato mentre Denis parlava. Denis spera che non abbia sentito le sue parole.

Mathieu scuote la testa, ancora scosso dalle risa. Il sassone dice:

- Vieni con me.

Mathieu si alza. Guarda un attimo Denis, con una smorfia di scherno in viso. Poi se ne va, senza dire nulla. Denis guarda il sassone, osserva il viso possente segnato dalle rughe che vent’anni di guerra e vento hanno scavato sul suo volto, la barba rossiccia, i capelli che conservano solo una traccia del colore originario.

Quando Mathieu e il sassone scompaiono, Denis rimane a fissare il vuoto. Ci vuole un buon momento perché trovi la forza di alzarsi. Allora si dirige di gran fretta alla sua tenda.

- Che c’è Denis?

- Nulla, padre. Desidero riposare un momento.

- È successo qualche cosa?

- No, padre.

Pierre d’Aguilard non insiste. Se Denis sente l’esigenza di stare da solo, non vuole interferire. Ma il repentino cambiamento di umore del figlio lo lascia perplesso.

Denis si stende e rimane in silenzio, dando le spalle all’ingresso della tenda. Si è comportato da idiota, si è messo in ridicolo. Come ha potuto pensare che qualcuno potesse essere attratto da lui, con la faccia che si ritrova? Perché si è scoperto in quel modo goffo e stupido con Mathieu?

Denis ha le lacrime agli occhi. Sono lacrime di rabbia, non di dolore, se ne rende conto.

 

Mathieu si allontana dall’accampamento con Egbert, il guerriero sassone che alcuni chiamano Barbarossa: è il soprannome dell’imperatore Federico, che da tempo promette di partire per la Terrasanta. Federico I non l’ha mai fatto, ma Egbert di Hagon sì e da allora non ha mai smesso di combattere. Ora è al servizio del conte Tancrède d’Espinel, un valoroso guerriero franco.

Egbert cammina davanti a Mathieu e i due raggiungono l’area paludosa dove canne, alberi e arbusti offrono un riparo dagli sguardi. Egbert si guarda intorno e sceglie un’area dove un platano spezzato appoggia i rami sul terreno. Intorno un intrico di canne e arbusti li nasconde completamente.

Egbert mette le mani sui fianchi di Mathieu e solleva la tunica con un gesto brusco, togliendogliela e gettandola sul tronco dell’albero. Mathieu sente un brivido di piacere corrergli lungo la schiena al contatto di quelle mani forti.

Egbert contempla Mathieu.

- Sei bello, Mathieu. Sei bello.

Lo afferra e lo avvicina a sé. Ora i loro corpi aderiscono e le mani di Egbert scorrono lungo la schiena del ragazzo, in una vigorosa carezza, poi si fermano sulle natiche e stringono il culo, facendogli male. Due dita scivolano lungo il solco a cercare l’apertura, l’indice si infila dentro.

- Cristo! Ho una voglia… Stenditi, dai.

Egbert fa voltare Mathieu, ma, prima che questi possa appoggiarsi al tronco, gli afferra di nuovo il culo, poi lo cinge con le braccia. Le sue mani percorrono il corpo del ragazzo, in una carezza ruvida che sale al collo e al viso, per poi scendere lungo il torace glabro fino al ventre e al sesso.

- Fa’ piano, Egbert. Io…

Egbert ride. Una risata che graffia.

- Sta’ tranquillo. Non ti do niente di più di quello che vuoi gustare.

Egbert spinge Mathieu ad appoggiarsi sul tronco del platano crollato a terra. Contempla il culo del ragazzo, le natiche lisce e rosee, che la peluria non ricopre ancora. Bruscamente si china su Mathieu e affonda i denti nella carne delicata, lasciando un segno rosso.

- Ahi! Mi hai fatto male.

Egbert ride e morde ancora, meno forte. Guarda la traccia lasciata dai denti nella carne. È bello questo culo giovane, snello e armonioso.

- Ora mi prendo questo bel culo.

Egbert ride ancora. Mathieu allarga un po’ le gambe. Egbert solleva la sua tunica e si prende con la destra il cazzo vigoroso. Si sputa nel palmo della sinistra e inumidisce la cappella, poi sputa sul solco e con le dita sparge la saliva intorno all’apertura. L’indice e il medio indugiano in una carezza e poi s’infilano, dilatando la carne. Egbert sente che il desiderio cresce, famelico.

Mathieu geme al contatto di quelle dita ruvide. Egbert toglie le dita e avvicina la cappella al buco. Guarda il proprio cazzo vigoroso e la cappella violacea. Prova una sensazione di forza e nuovamente ride. Poi appoggia il cazzo contro il buco e, lentamente, spinge dentro.

Mathieu sente la pressione del palo caldo che sta penetrandolo. Ha paura: l’ha fatto poche volte e con Egbert è sempre doloroso. Eppure non vuole sottrarsi: il piacere che prova tra le braccia di questo guerriero forte e potente è intensissimo; nessuno degli altri soldati a cui si è dato gli ha trasmesso le stesse sensazioni. Egbert avanza lentamente, lasciando a Mathieu il tempo di abituarsi a questa invasione. Mathieu geme.

- Hai un gran bel culo, Mathieu. Un bel culetto sodo e caldo come piace a me.

Egbert spinge più a fondo. Mathieu geme di nuovo: un gemito di dolore, questa volta, perché il dilatarsi delle sue viscere per la pressione provoca sofferenza, per quanto possa essere piacevole. Ma Mathieu non chiede a Egbert di fermarsi: di fronte a questo guerriero la sua resa è totale.

Egbert avanza ancora. Ora sente che il suo cazzo è per intero dentro Mathieu e per un momento gusta il piacere intenso che gli trasmette il fodero di carne in cui ha infilato la propria spada. Poi Egbert si ritrae, per avanzare nuovamente, in un movimento ritmico che strappa nuovi gemiti a Mathieu. La scorza dell’albero è ruvida e sfrega contro la pelle del ragazzo, ma la sensazione che sale dal suo culo è troppo forte: Mathieu non si accorge neppure che un po’ di sangue cola dal torace, dove un rametto ha lacerato in superficie la pelle.

Mathieu si abbandona completamente alle sensazioni che salgono dal suo culo, a questa mescolanza di piacere e dolore che lo inebria. Mormora solo:

- Egbert!

- Ti piace, eh?

Le mani di Egbert stringono le natiche di Mathieu, mentre il suo spiedo lavora a fondo, con grande energia. Mathieu chiude gli occhi.

Egbert si muove con tanta foga che per due volte esce completamente dal culo di Mathieu, per poi rientrare con decisione. Mathieu non avverte più il dolore, ma solo il piacere che cresce e percorre tutto il suo corpo. Quando infine Egbert viene dentro di lui, riempiendogli il culo del suo seme, Mathieu geme, preda di un piacere che non è meno forte di quello provato da Egbert, anche se non è venuto.

Egbert si abbandona sul corpo di Mathieu.

- Hai un bel culo, ragazzo. Proprio un bel culo.

Egbert stringe ancora le natiche del ragazzo tra le mani, poi esce da lui e si rialza. Guarda Mathieu, ancora appoggiato al tronco. Sorride. Il cazzo sta perdendo volume e consistenza. Egbert si sposta leggermente e piscia tra le canne. Poi si rassetta rapidamente. Mathieu è ancora appoggiato al tronco.

- Io vado, Mathieu.

Mathieu annuisce. Lentamente si stacca dall’albero, stordito dal piacere.

Egbert si allontana senza voltarsi.

Allora Tancrède d’Espinel esce dal canneto dove si era nascosto per vedere la scena. Si avvicina a Mathieu, che ancora non lo vede, perché è rivolto in direzione opposta. Gli afferra le braccia, prendendolo di sorpresa. Mathieu sussulta, volta il capo e vede il conte.

- Conte… che fate?

- Non fare la verginella, Mathieu. Ti ho visto con Egbert. Adesso io faccio la stessa cosa con te.

- Conte, no, vi prego, io…

- Tu fai quello che ti dico, Mathieu, o racconterò a tutti che Egbert di Hagon ti fotte. Vuoi che tutto il campo sappia che sei una troietta in calore?

Mathieu tace, incerto. Se si sapesse che lui e Egbert scopano, correrebbero entrambi dei rischi: la sodomia, per quanto largamente diffusa negli eserciti cristiani di Terrasanta, è condannata dalla Chiesa. E in ogni caso Mathieu non vuole che tutti lo sappiano e che magari si ritengano autorizzati a prenderlo, come fosse davvero una troia.

Mathieu sa che è più prudente cedere. Non gli costa molta fatica: il conte d’Espinel è un bell’uomo, ricco e potente. Ed Egbert combatte alle sue dipendenze.

Tancrède esercita una leggera pressione, spingendo Mathieu contro l’albero. Mathieu lo lascia fare. Tancrède fa scorrere due dita lungo il solco. Sente il liquido appiccicaticcio intorno al buco. Infila con decisione l’indice, poi lo estrae e guarda il liquido biancastro. Esita un attimo. Mathieu non può vederlo: sta guardando in avanti. Tancrède si porta il dito alla bocca e lo fa scorrere tra le labbra. Il gusto dello sborro di Egbert di Hagon. Il conte ripete l’operazione. E il cazzo gli si tende ancora di più. Lo sborro di Egbert, il capo delle sue guardie.

Tancrède ha visto Egbert e Mathieu allontanarsi dal campo e ha intuito: aveva già sentito delle voci su loro due. Li ha seguiti a distanza, si è nascosto nella macchia e ha guardato Egbert fottere Mathieu. Il desiderio si è acceso subito, prepotente.

Tancrède non riusciva a distogliere gli occhi. Egbert è un uomo forte, di cui Tancrède ammira la potenza. Vederlo scopare è stata una sensazione violenta. Per un attimo gli ha visto anche il cazzo teso. Ha desiderato toccarlo, stringerlo tra le dita.

Quando Egbert se n’è andato, ha deciso che avrebbe preso il suo posto su Mathieu. Vuole infilare il cazzo nello stesso culo che Egbert di Hagon ha posseduto. Vuole mescolare il suo sborro con quello del sassone. Vuole stringere lo stesso corpo.

Tancrède entra con decisione: l’apertura è già stata lubrificata dalla saliva e dal seme di Egbert e dilatata dal potente cazzo del sassone. Mathieu geme, ma l’ingresso, per quanto deciso, non ha procurato dolore.

Tancrède afferra con le mani il culo di Mathieu e rivede Egbert che lo stringeva, che lo fotteva. Il suo cazzo è al posto di quello di Egbert, nello stesso culo. Tra poco il suo seme si mescolerà a quello del sassone.

Mathieu non dice nulla. Assapora questo sperone che penetra dentro di lui. Non è grande e forte come quello di Egbert, ma rinnova le sensazioni piacevoli che l’altro gli ha trasmesso.

Tancrède spinge e nella sua mente le immagini si confondono. Egbert che possiede Mathieu. Tancrède che possiede Mathieu. Il grosso cazzo di Egbert che preme. Tancrède non sa che cosa sta facendo, non sa se sta possedendo Mathieu o se è Egbert a prenderlo. Tancrède emette un singhiozzo e viene, con una serie di spinte violente. Nella sua mente c’è l’immagine di Egbert.

Si ritrae, ansimante. Non dice nulla, non prende commiato. Si sistema la tunica e si dirige verso il campo.

Mathieu si stacca dal tronco. Si nasconde nella macchia per liberarsi dal seme che i due uomini hanno riversato dentro di lui, poi raggiunge il ruscello e si lava. Infine si riveste e ritorna all’accampamento. È confuso da quello che è successo. Il conte d’Espinel è un bell’uomo, a Mathieu non spiace aver scopato con lui. Spera di poterlo fare ancora.

 

È scesa la notte e gli uomini dormono. Ormai appare sicuro che domani mattina ci sarà battaglia: le truppe saracene puntano direttamente contro l’esercito cristiano. Gli uomini cercano nel sonno di ristorare le forze per poter affrontare le fatiche dello scontro.

Pierre d’Aguilard ed Egbert di Hagon riposano tranquilli: hanno visto molte battaglie e non hanno paura di affrontare la morte. Anche Mathieu riposa: per quanto ciò che è successo oggi lo abbia turbato, non crea in lui tanta ansia da impedirgli di riposare.

Non tutti però riescono a dormire.

Denis d’Aguilard ascolta il respiro pesante di suo padre. C’è abituato: dorme con lui tutte le notti, da quando, a sei anni, ha perso la madre e suo padre lo ha portato con sé in Terrasanta, alla ricerca di un futuro che la Francia non offriva. Ma questa notte gli sembra che quel respiro sia insopportabile. Denis si rigira sul giaciglio e il pensiero corre ossessivo a Mathieu, a quella risata che era uno schiaffo. Denis vorrebbe non aver mai parlato, non aver mai incontrato Mathieu. Vorrebbe scomparire per la vergogna.

Tancrède d’Espinel veglia disteso sul suo letto da campo. Ciò che è successo oggi lo ha turbato. Ha preso il ragazzo con una minaccia, ma non è certo questo a impedirgli di dormire: Mathieu non ha davvero opposto resistenza e prima aveva lasciato che Egbert di Hagon lo prendesse. È il pensiero di Egbert a ossessionare Tancrède. Egbert è il capo della sua guardia, un uomo che gli deve obbedienza. Tancrède sa di aver seguito lui e Mathieu perché voleva vederli scopare. Ma non è il corpo di Mathieu ad attrarlo, anche se è Mathieu che lui ha posseduto. Vedere Egbert fottere Mathieu è stata un’esperienza sconvolgente. E dentro la testa di Tancrède vi è una grande confusione, vorticano pensieri e desideri che preferisce non definire.

 

*

 

È molto presto quando la sveglia viene data nell’accampamento franco: i saraceni sono ormai molto vicini e occorre prepararsi per una battaglia che appare inevitabile. I guerrieri lasciano l’accampamento e si dirigono verso l’imbocco della valle. Qui le pareti sono meno scoscese ed è possibile occupare una posizione elevata, che costituisce un vantaggio nella battaglia.

I franchi occupano i due versanti: all’ala destra, sotto il comando di Tancrède d’Espinel, sono schierati anche Pierre e Denis d’Aguilard; lo schieramento centrale, che blocca la valle, è guidato dal comandante delle truppe, Chrétien da Bayonne; l’ala sinistra, sull’altra collina, è guidata da un altro cavaliere franco, Renaud di Soissons.

Due ore dopo i nemici compaiono sulla riva del fiume. Vi sono fanti e cavalieri. Non è un grande esercito, ma neanche le truppe cristiane sono numerose: non è una di quelle battaglie destinate a mutare le sorti della guerra più o meno continua che oppone franchi e saraceni. È solo un piccolo scontro in cui si cancelleranno alcune centinaia di vite umane.

Denis d’Aguilard guarda l’esercito saraceno, che avanza compatto, e ne valuta la forza, come ha imparato a fare: ha già combattuto più volte e ha assistito a battaglie fin da quando era bambino. Pur essendo, insieme a Mathieu e due o tre altri, il più giovane guerriero del campo, gode già di una meritata fama di soldato molto valoroso. Benché non provi paura, come sempre in queste occasioni avverte la tensione nel suo corpo. Sa che tutte le loro vite sono in gioco.

Gli arcieri saraceni sono in posizione. Una pioggia di frecce si abbatte sullo schieramento franco. Nonostante gli scudi e i ripari offerti dai massi e dagli alberi, sono diversi i guerrieri franchi che vengono feriti o uccisi. Uno cade di fianco a Denis con un grido.

Appena gli arcieri hanno smesso di lanciare frecce, un gruppo di saraceni attacca l’ala destra, dove si trovano Denis e suo padre. Salgono lungo il pendio a cavallo, rapidi. I franchi mettono mano alle lance, facendo strage dei cavalieri e colpendo i cavalli. I saraceni appiedati vengono uccisi con le spade.

Il primo assalto è stato respinto e i saraceni sembrano abbandonare il proposito di conquistare la collina. Ora il loro impeto si concentra sul lato opposto dello schieramento, dove la battaglia infuria più sanguinosa. Le truppe di Renaud di Soissons sono sotto pressione, ma il grosso dell’esercito cristiano, sotto la guida di Chrétien da Bayonne, va in loro soccorso.

E proprio mentre il fondovalle rimane sguarnito di uomini, improvvisamente nuove truppe saracene appaiono sul fianco della collina su cui combatte Denis. I soldati sono tantissimi, molti di più dei cristiani: l’esercito nemico è assai più numeroso di quanto sembrasse.

Ai cristiani appare subito evidente che non è possibile resistere a truppe di tanto più forti. Il conte d’Espinel, che comanda l’ala destra, ordina di ripiegare verso il centro dello schieramento, ma l’attacco nemico è troppo impetuoso e impedisce ai guerrieri franchi di ricongiungersi con il resto dell’esercito, impegnato sul lato opposto della valle.

A guidare le nuove truppe è un comandante che sprona i suoi uomini e non lascia tregua ai cristiani. I suoi uomini lo chiamano al-Majid, il glorioso. L’ala destra dell’esercito cristiano, ormai decimata dallo scontro, si stringe compatta, in un vano tentativo di difesa contro forze di gran lunga soverchianti. Pierre d’Aguilard ed Egbert di Hagon combattono con foga, abbattendo uno dopo l’altro i guerrieri che attaccano. A un certo punto al-Majid li nota e si scaglia contro questi avversari che paiono vanificare tutti i suoi sforzi. Al-Majid cerca di colpire Pierre d’Aguilard con la spada, ma Pierre para il colpo con lo scudo e a sua volta attacca. Tra i due guerrieri incomincia un duello, che per un momento pare quasi interrompere il combattimento in corso. Il comandante saraceno incalza Pierre d’Aguilard, ma questi non cede, limitandosi a piccoli spostamenti. Vicino a loro l’aiutante di al-Majid attacca Egbert e il loro scontro non è meno feroce.

Al-Majid riesce a colpire Pierre al braccio sinistro. Il sangue scorre dalla ferita, ma Pierre non cede. Con un movimento improvviso si lancia sull’avversario, che riesce a parare il primo colpo, ma Pierre muove rapidissimo la spada e la passa sotto lo scudo di al-Majid, ferendo il saraceno al ventre. Questi lancia un grido e si ritrae, ma Pierre lo incalza e mena un fendente sul collo di al-Majid, recidendogli il capo. Intanto Egbert ha avuto ragione del suo antagonista e gli ha trapassato il cuore con la spada. I cristiani gridano la loro gioia a vedere crollare i due avversari, ma la loro allegria si tramuta presto in sgomento. Intenti a osservare i combattenti e a difendersi dai saraceni, gli uomini dell’ala destra non si sono resi conto che il grosso dell’esercito cristiano si sta ritirando progressivamente, non potendo resistere agli attacchi. L’ala destra è ormai completamente isolata e i saraceni hanno circondato i sopravvissuti, togliendo loro ogni possibilità di unirsi agli altri.

Denis guarda oltre le file dei nemici, sperando di vedere che le truppe cristiane si muovono in loro soccorso, ma nell’esercito in ritirata nessuno sembra occuparsi del drappello che è rimasto isolato. Denis si rende conto che per tutti loro è la fine: li attende la prigionia o la morte.

I saraceni sono molto più numerosi. Ora li guida un altro ufficiale, che li sprona. Furiosi per la morte del loro comandante e imbaldanziti dalla certezza della vittoria, i saraceni si fanno sotto, massacrando senza pietà chi cerca di resistere. Uno dopo l’altro, cavalieri e fanti cadono, trafitti dalle frecce, dalle lance o dalle spade. Il conte d’Espinel viene ferito a una spalla e catturato. Pierre d’Aguilard ed Egbert di Hagon continuano a combattore valorosamente. Pierre incoraggia i soldati cristiani a resistere, si avventa sui saraceni, fa strage dei nemici. Egbert è al suo fianco. L’ufficiale che ha preso il posto di al-Majid alla guida dei saraceni si slancia su Pierre d’Aguilard. Non riesce a ferirlo, ma il suo colpo sbilancia Pierre e lo fa cadere. Un saraceno gli è addosso e gli preme la lama alla gola, intimandogli di arrendersi. Pierre d’Aguilard non ha scelta.

Mentre combatte con un avversario, Egbert viene attaccato alle spalle da due uomini, che riescono a mandarlo a terra. Prima che possa rialzarsi, diversi saraceni gli sono addosso e lo immobilizzano.

La battaglia è conclusa: l’esercito cristiano è in ritirata, alcuni soldati cristiani, tra cui il comandante dell’ala destra, il conte d’Espinel, sono prigionieri.

Denis è sgomento. Sono in mano ai saraceni: li aspetta una vita di schiavitù. Ma almeno sono ancora vivi. Forse alcuni di loro, come il conte, potranno riottenere la libertà, se la famiglia accetterà di pagare il riscatto. Denis guarda gli uomini sopravvissuti. Tra loro vi è Mathieu. I loro sguardi si incrociano, ma negli occhi di Mathieu non vi è più scherno, solo angoscia.

 

I saraceni spogliano i cadaveri dei vinti e raccolgono i propri morti. Mentre sono intenti a questa operazione, giunge il comandante in capo dell’esercito saraceno. Si avvicina al corpo di al-Majid e pronuncia una breve preghiera. Poi si sofferma davanti al cadavere dell’aiutante e chiede a uno degli ufficiali chi ha ucciso i due uomini.

Denis, che parla benissimo l’arabo, sente l’angoscia stringergli il cuore. Nel viso dell’uomo legge una rabbia che cerca vendetta.

L’ufficiale indica Pierre d’Aguilard ed Egbert. Il comandante li fa trascinare davanti a lui. Poi si rivolge a Pierre:

- Hai ucciso tu al-Majid, vero?

Pierre non mostra paura. Risponde con voce ferma:

- Sì, in combattimento leale.

- Sarai giustiziato ora: inginocchiati.

Denis urla:

- No!

Pierre d’Aguilard si mette in ginocchio e si rivolge al figlio:

- Taci, Denis. Devi mostrarti forte.

Il comandante si rivolge a uno dei soldati:

- Tagliagli la testa.

Il soldato sguaina la scimitarra, che, come altri guerrieri saraceni, usa al posto della spada.

Pierre d’Aguilard dice:

- Non chiudere gli occhi, Denis. E non guardare da un'altra parte. 

Denis ricaccia dentro di sé l'angoscia che preme.

- Sì, padre.

Denis guarda il viso del padre, impassibile. Denis vorrebbe urlare, vorrebbe fermare il boia che si prepara a vibrare il colpo mortale, vorrebbe poter morire ora, prima di vedere la morte di suo padre.

- Addio, Denis. Tieni sempre fede alla tua parola.

La lama cala, fulminea, e la testa di Pierre d’Aguilard cade nella sabbia. Per un attimo il corpo rimane immobile, poi crolla a terra, mentre il sangue si sparge tutt’intorno.

Ora Denis chiude gli occhi, che si stanno riempiendo di lacrime. Vorrebbe non aprirli mai più, sprofondare nel nulla.

Il comandante ordina a Egbert di Hagon di inginocchiarsi di fianco al corpo di Pierre. Egbert conosce poco l’arabo, ma ha capito che cosa gli viene chiesto. Sa che sta per morire. Si inginocchia, senza mostrare paura.

- Fermati, comandante.

È stato Tancrède d’Espinel a parlare. Il comandante lo guarda.

- Quest’uomo è al mio servizio. Sono il conte di Espinel e pagherò il riscatto per lui e per me. Ha combattuto lealmente.

Il comandante guarda il conte, poi Egbert. Annuisce. Dà ordine di risparmiarlo.

Denis guarda Egbert che si alza. Perché Egbert ha avuto la vita salva e suo padre no? Perché il conte non è intervenuto anche per suo padre? Probabilmente il conte non avrebbe potuto salvarlo. Ma Denis vorrebbe gridare.

 

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Denis fa parte del bottino della battaglia: è uno dei tanti franchi che sono stati catturati. Alcuni di loro possono sperare di riscattarsi. Non Denis, che non ha più nessun contatto con lo zio, signore di Bellerivière, in Francia. Il suo destino è diventare schiavo.

Denis ha sentito raccontare storie terribili sulla condizione degli schiavi dei saraceni. In ciò che si narra vi sono indubbiamente esagerazioni: la realtà non è sempre così orrenda. Ma di certo lo aspetta un futuro molto difficile.

In questo momento non gli importa nulla della schiavitù e di tutte le umiliazioni che potrà subire, della fatica e della sofferenza fisica, della morte che è il destino di molti schiavi: a Denis sembra di essere già morto; solo il suo corpo, vigoroso, continua a esistere, ma dentro di lui ogni luce è spenta.

Mentre gli altri prigionieri si angosciano e s’interrogano reciprocamente, cercando rassicurazione e trovando solo nuovi motivi di ansia, Denis vive nella più completa indifferenza. Non risponde neppure a chi gli parla. Rimane in silenzio, lo sguardo fisso nel vuoto.

I prigionieri vengono divisi alla presenza del comandante in capo dell’armata saracena: egli vigila che ognuno ottenga gli uomini che ha catturato, tolta la quota del sovrano.

L’uomo che ha catturato Denis e suo padre è uno dei capitani, Abdul-Qaadir ibn Abd Allah. Denis spetta a lui. Anche Mathieu è stato catturato da Abdul-Qaadir, ma quando viene presentato al comandante in capo, questi lo osserva e dice:

- Un ragazzo così bello dovrebbe essere riservato al sovrano.

Abdul-Qaadir sembra irritato, ma cerca di nasconderlo.

- Se questa è la tua volontà, comandante, mi inchino. Ma io credo che il conte Tancrède d’Espinel, la cui famiglia certo verserà un riscatto, possa essere più apprezzato dal nostro emiro.

Mentre lo dice, Abdul-Qaadir fa avanzare Tancrède. Il comandante in capo lo interroga, nella lingua dei franchi:

- La tua famiglia ti riscatterà?

- Sì. I miei parenti pagheranno per me e per Egbert di Hagon.

- Bada, se menti, se la tua famiglia rifiuta di pagare il riscatto, finirai nelle miniere di sale. Il nostro sovrano Nur ad-Din Abu al-Qasim Mahmud ibn Imad ad-Din Zangi non tollera inganni.

- Non mento. Posso riscattarmi.

Il comandante annuisce. Non vuole scontentare uno dei suoi migliori capitani, per cui dice, in arabo:

- Va bene, Abdul-Qaadir, puoi tenerti il giovane. Il sovrano avrà il nobile franco e il suo servitore.

 

I sei prigionieri di Abdul-Qaadir vengono riportati nelle tende del capitano. Abdul-Qaadir si rivolge a loro usando la lingua dei franchi. Ne conosce solo alcune parole ed espressioni, ma non ha bisogno di dire molto: si limita a comunicare che sono suoi schiavi, che ogni tentativo di fuga sarà punito con la morte e che la loro vita è nelle sue mani.

Denis ascolta. Non dice nulla, non rivela di conoscere perfettamente l’arabo. Sente ciò che dicono gli uomini intorno a lui, indifferente a tutto.

La sera il capitano Abdul-Qaadir si avvicina ai prigionieri, che dormono per terra, vicino alle tende. Un servitore con la torcia accompagna il capitano, che si rivolge a Mathieu.

- Tu, vieni con me.

Mathieu si alza e segue il comandante. Entrano nella tenda di Abdul-Qaadir. La torcia illumina l’interno della tenda, proiettando le ombre degli occupanti sul telo. Denis guarda la tenda del comandante. Mathieu ha sempre le mani legate. Il comandante si sta spogliando: si vede la sua ombra sfilarsi la tunica. Poi il comandante poggia una mano sulla testa di Mathieu e lo forza a inginocchiarsi davanti a lui. L’ombra di Abdul-Qaadir è di profilo ora. Mathieu avvicina la testa. Che cosa stia succedendo, si può intuire. Il capo del ragazzo sembra premere contro il ventre dell’uomo. La testa di Mathieu si ritrae e una mano del comandante si abbatte sul viso del giovane. La mano afferra i capelli e forza la testa contro il ventre.

Le voci vicino a Denis lo fanno sussultare: non si è accorto dei due soldati che si sono avvicinati in silenzio e ora stanno parlando tra di loro, a bassa voce, in piedi di fianco a lui. Probabilmente non sospettano che il prigioniero conosca l’arabo. O forse non si pongono nemmeno il problema.

- Il comandante si fa succhiare il cazzo.

- Poi glielo metterà in culo.

- Lo invidio. Quel ragazzo ha una bocca…

- E un culo…

Scoppiano a ridere entrambi.

- Shhh, non così forte: se ci sente, finiamo nei guai.

- Voglio vederli.

- Anch’io. Fermiamoci qui.

- Piacerebbe anche a me assaggiare quel culo.

- Potremmo prenderci l’altro. C’è un altro ragazzo, no? Dev’essere qui tra i prigionieri.

A Denis manca il fiato.

- Quel cane con gli occhi azzurri? È brutto come un demone malvagio.

- Di viso sì, ma ha un bel corpo. Non mi spiacerebbe gustare il suo culo.

Denis pensava di essere giunto al fondo, ma si accorge che c’è ancora lo spazio per precipitare. L’altro soldato risponde:

- No, non mi va. E comunque se il comandante lo viene a sapere, io e te finiamo nelle miniere di sale.

- Nelle miniere di sale ci finirà lui! Comunque hai ragione. Non ne vale la pena.

- Guarda!

Ora l’ombra del comandante ha il grande uccello teso, perfettamente visibile, e Mathieu ne sta succhiando la cappella. Denis guarda, senza riuscire a distogliere gli occhi.

Poco dopo Mathieu si stacca, si alza e si volta, poi piega il corpo in avanti, poggiandosi sui cuscini. Ora Denis può guardare l’uccello che avanza verso il culo del ragazzo. Il comandante porta la mano alla bocca e poi la fa scorrere tra i fianchi del ragazzo. Poi avvicina ancora l’uccello e le due ombre si fondono. Denis vede l’ombra di Mathieu sollevare la testa di scatto: il comandante è entrato dentro di lui.

Denis guarda il movimento ritmico del culo del comandante, che spinge in avanti l’uccello, facendolo penetrare a fondo, e poi lo ritrae, mentre le sue mani poggiano sulla schiena di Mathieu. A tratti si tira indietro quasi completamente e allora Denis può vedere l’ombra dell’arma, che poi viene immersa nuovamente tra i fianchi del ragazzo.

I due soldati commentano, a bassa voce:

- Ci dà dentro, il capitano.

- Lo schiavo avrà male al culo questa notte.

Ridono di nuovo, ma nelle loro voci Denis ha avvertito una tensione diversa, quella di un desiderio che cresce. Denis si chiede se non cambieranno idea e decideranno di prenderlo. Se lo faranno, urlerà. Non vuole subire questa violenza.

La cavalcata procede a lungo, poi il ritmo diventa più rapido e Abdul-Qaadir solleva la testa all’indietro, mentre le sue mani poggiano sul culo di Mathieu.

Il capitano si ferma, poi si stacca. Per un momento Denis può vedere il profilo dell’uccello, ancora gonfio di sangue, ma non più teso verso l’alto, poi Abdul-Qaadir si gira.

I due soldati si allontanano rapidamente e poco dopo il servitore riaccompagna Mathieu tra gli altri prigionieri. Denis finge di dormire. Mathieu non dice nulla e si corica. A Denis sembra di sentirlo soffocare i singhiozzi, ma forse è solo un’impressione.

 

Il giorno dopo l’accampamento viene smontato e incominciano il viaggio verso Damasco. Attraversano aree semidesertiche, dove i cavalieri sollevano nuvole di polvere, e altre verdeggianti. Denis guarda il paesaggio intorno a sé senza vederlo, indifferente a tutto: del ragazzo curioso, affascinato da ogni novità, sembra non essere rimasta traccia.

La sera Mathieu viene spesso chiamato da Abdul-Qaadir. Torna più tardi, il capo chino, silenzioso. Lui e Denis non parlano quasi mai.

Il terzo giorno però il capitano si avvicina mentre Mathieu e Denis stanno raccogliendo e pulendo le stoviglie usate per il pranzo nella tenda.

Abdul-Qaadir guarda Mathieu e sorride.

- Appoggiati sui cuscini.

Il comandante non sembra preoccuparsi della presenza di Denis, che per un attimo si blocca, poi riprende a pulire con cura.

Mathieu si stende sui cuscini, divaricando le gambe.

Abdul-Qaadir solleva la tunica di Mathieu e gli abbassa i pantaloni, scoprendo il culo. Denis si interrompe un momento e lo fissa ammaliato: è bello il culo di Mathieu, stretto e armonioso. Denis avverte una tensione nel basso ventre. Vorrebbe ignorarla, ma il suo corpo non glielo permette.

Con uno sforzo di volontà Denis si scuote e distoglie lo sguardo, rimettendosi al lavoro. Quando Abdul-Qaadir si volta per vedere se lo schiavo li sta osservando, Denis sta passando lo straccio su un piatto: sembra concentrato nel suo compito e del tutto indifferente a ciò che succede. Ma non appena il padrone si gira nuovamente e si abbassa i pantaloni, Denis lo guarda, con la coda dell’occhio.

Abdul-Qaadir si è sfilato anche la tunica. Ora è nudo, un corpo forte, le gambe e il culo ombreggiati da una leggera peluria scura, le braccia vigorose che poggiano sui fianchi del giovane schiavo.

Abdul-Qaadir sputa sul culo di Mathieu, poi con un dito sparge la saliva intorno all’apertura. Volta ancora la testa a controllare l’altro schiavo, ma Denis pare continuare il suo lavoro senza badare a ciò che succede. Denis si chiede perché il padrone non l’ha mandato via, se non vuole che lui li veda. Ma probabilmente ad Abdul-Qaadir non importa che lo schiavo lo veda. Vuole solo controllare che non smetta di lavorare.

Il padrone infilza lo schiavo con un colpo secco. Mathieu emette un grido.

- Taci, stronzo!

Con la mano aperta, Abdul-Qaadir colpisce Mathieu sulla guancia destra. Poi incomincia la sua cavalcata, spingendo con forza avanti e indietro. Denis continua a lavorare, ma non perde di vista neppure per un attimo la scena che si svolge sotto i suoi occhi. Si sposta leggermente, in modo da poter vedere meglio, senza smettere di eseguire il compito assegnatogli.

Ha energia il padrone, ci dà dentro con forza. Il suo cazzo affonda nel culo di Mathieu fino alle palle, poi esce completamente. Rientra impetuoso, affonda senza pietà e poi esce di nuovo, oppure solo la cappella rimane dentro. Le spinte vigorose schiacciano Mathieu contro i cuscini. Denis può vedere che il ragazzo ha le lacrime agli occhi e che un filo di sangue cola dal labbro inferiore. Ora prova pena per Mathieu, una pena che non spegne il desiderio.

Denis vorrebbe non guardare, vorrebbe non avvertire la tensione che cresce nel ventre, ma il suo corpo impone la propria volontà.

Abdul-Qaadir imprime una brusca accelerata al suo movimento e si affloscia sul corpo di Mathieu. Poi si solleva. Si guarda il cazzo.

- In ginocchio, stronzo! Puliscimi.

Mathieu si volta, fissa il padrone. Scuote il capo. Il ceffone arriva violento, tanto che dalla ferita al labbro cola altro sangue.

- Puliscimi, ti ho detto.

Mathieu si solleva e si mette in ginocchio. Esita un attimo, ma quando Abdul-Qaadir fa per colpirlo di nuovo, avvicina la bocca rapidamente e obbedisce all’ordine ricevuto.

Denis ha smesso di guardare. Ha finito il suo lavoro e riordina con cura.

- Basta così, stronzo.

Il padrone si riveste e se ne va. Prima di uscire dice ancora:

- Rimettiti al lavoro.

Mathieu si tira su i pantaloni. Poi s’inginocchia accanto a Denis per sistemare le stoviglie. Sta piangendo.

Denis vorrebbe consolarlo, ma non sa che parole dire.

 

Abdul-Qaadir giunge a Damasco con i nuovi schiavi. Due dei prigionieri vengono mandati al mercato degli schiavi, per essere venduti; un terzo viene inviato in una proprietà di campagna di Abdul-Qaadir. Solo uno rimane nella casa, insieme a Mathieu e Denis. A tutti e tre vengono assegnati alcuni lavori da svolgere. Abdul-Qaadir ha una moglie, ma ogni tanto manda a chiamare il giovane schiavo.

 

*

 

Anche Tancrède d’Espinel ed Egbert di Hagon hanno viaggiato fino a Damasco, dove sono stati consegnati agli uomini del sovrano, l’emiro Nur ad-Din. Non è l’emiro a occuparsi di loro, ma uno dei suoi funzionari, Firas, che parla abbastanza bene la lingua dei franchi.

Firas comunica a Tancrède la cifra che l’emiro chiede per il riscatto del conte e del suo servitore. È una somma consistente e Tancrède cerca di ottenere una riduzione, ma Firas rifiuta ogni trattativa. In ogni caso il conte d’Espinel è un uomo ricco e suo cugino, che amministra il patrimonio in assenza del conte, provvederà a pagare.

Firas fa scrivere a Tancrède una lettera in cui egli chiede di essere riscattato dalla prigionia, insieme a uno dei suoi uomini, e fornisce tutte le indicazioni necessarie per il pagamento.

Tancrède ed Egbert rimarranno prigionieri in una caserma di Damasco, in attesa del riscatto. Hanno una piccola cella per loro due, con due giacigli. Durante il giorno possono uscire in un minuscolo cortiletto interno, su cui affacciano altre tre celle.

La prima sera si stendono e si addormentano entrambi quasi subito, stanchi del viaggio. Il giorno seguente le ore trascorrono lente, fino a quando la cella non viene aperta. Nel cortile si aggirano alcuni altri prigionieri cristiani e Tancrède ed Egbert possono parlare con loro. Due degli uomini sono stati catturati in battaglia, pochi mesi fa. Altri provengono da un villaggio cristiano che l’emiro ha attaccato e saccheggiato. Tutti sperano di essere riscattati.

Nelle ore centrali il caldo è intollerabile e tutti i prigionieri preferiscono rimanere nelle loro celle. Egbert si spoglia completamente prima di stendersi. Tancrède, che è sdraiato sul giaciglio, lo può osservare da dietro. Guarda il culo muscoloso, dove la peluria rossiccia forma una copertura continua, le gambe forti, le spalle larghe. Tancrède ha la gola secca. Deglutisce. Vorrebbe distogliere lo sguardo, ma non ci riesce. Egbert si stende. Lo sguardo di Tancrède indugia un attimo sul torace villoso, sulle braccia robuste, scivola verso il grosso sesso che svetta dalla foresta di peli del ventre. Poi Tancrède volge lo sguardo verso la parete opposta.

Il desiderio brucia e più volte Tancrède è sul punto di parlare, ma non trova le parole. Che cosa potrebbe dire?

Dopo un po’ Tancrède sente che il respiro di Egbert è diventato più pesante: si è addormentato. Allora Tancrède si volta e osserva il corpo steso accanto a lui. Guarda il torace sollevarsi e abbassarsi ritmicamente. Tancrède si solleva a sedere. Fissa il magnifico cazzo. Vorrebbe prenderlo in bocca, sentirne il gusto, la consistenza, il calore. Guarda i coglioni, grossi e coperti dalla peluria rossiccia presente su tutto il corpo del guerriero. Tancrède si dice che impazzirà di desiderio. Sono sempre insieme in questa cella minuscola, non possono separarsi, non hanno mai un momento in cui possano rimanere soli. Anche durante il giorno, quando possono uscire, il piccolo cortile non offre nessuno spazio in cui appartarsi.

 

*

 

Quattro giorni dopo essere giunto a Damasco insieme ai suoi nuovi schiavi, Abdul-Qaadir riceve una visita di un uomo. Denis, che è presente, capisce dai discorsi dei due che si tratta del fratello del suo padrone, Nawfal. Costui deve avere almeno vent’anni in più di Abdul-Qaadir ed è completamente diverso: è un uomo piuttosto corpulento, che sembra indolente, tutto il contrario del giovane e vigoroso capitano. Con ogni probabilità, data la differenza di età, non sono figli della stessa madre.

Mathieu e Denis assistono al dialogo, ma Mathieu non conosce abbastanza l’arabo per capire che cosa si dicono i due.

- So che ti sei coperto d’onore in battaglia, fratello.

- Sì, fratello, e il comandante in capo mi ha ricompensato con alcuni schiavi, tra cui questi due giovani.

Nawfal osserva i due ragazzi.

- Molto giovani entrambi, ma assai diversi: uno bello come il sole, l’altro brutto come la morte.

Abdul-Qaadir sorride.

- So che hai bisogno di uno schiavo per i lavori nella tua casa in campagna. Ti cederò volentieri quello che non ti piace, così non ti indurrò a peccare.

Nawfal ride e dice:

- E tu invece continuerai a peccare con l’altro.

Anche Abdul-Qaadir ride.

- Credo proprio di sì, fratello. Ci sa fare con la bocca e ha un bel culo. Quando sarò sazio, vedrò se venderlo al mercato o farne un dono prezioso per il comandante della guarnigione.

Nawfal annuisce, poi guarda Denis, dubbioso:

- Mi sembra giovane. È forte abbastanza?

- Sì, lo è. È ubbidiente, ma fa’ attenzione a lui: è un guerriero, benché sia così giovane. Non gli lasciare libertà.

- Mi inquieta, con quegli occhi azzurri e quei capelli rossicci. Non mi ispira fiducia.

- Al campo lo chiamavano il cane dagli occhi azzurri.

Nawfal e Abdul-Qaadir chiacchierano ancora un po’. Poi Nawfal si prepara ad andarsene. Denis guarda Mathieu: sa che probabilmente non si vedranno mai più.

- Addio.

Mathieu lo guarda, senza capire. Denis gli sussurra:

- Il padrone mi ha ceduto a suo fratello. Tu rimarrai con lui.

Denis non dice altro. Mathieu avrà modo di scoprire i progetti di Abdul-Qaadir: sarebbe crudele svelarglieli ora, visto che non può fare nulla per evitare che si realizzino.

Mathieu china il capo.

- Addio.

Nawfal porta Denis nella sua casa a Damasco e gli fa dare da mangiare, poi lo rinchiude in una stanza, con le catene ai piedi. 

Il giorno dopo raggiungono la tenuta che Nawfal possiede non lontano da Damasco, ai margini della Ghuta, la regione fertile che circonda la città. Gli edifici della fattoria sono raccolti al fondo della vallata, nei pressi di un torrente. Intorno la campagna è verdeggiante, ricca di frutteti e campi coltivati, oltre ai quali si trovano i pascoli. È un ambiente sereno, che sembra lontanissimo dai paesaggi aspri delle montagne e del deserto, di cui Denis ha conosciuto la durezza, ma anche il fascino. Qui anche la guerra appare lontana.

 

*

 

Sono quattro giorni che Tancrède ed Egbert dormono nella cella. L’estate è alle porte e nel piccolo locale il calore è soffocante. Dormono entrambi nudi, ma si svegliano ugualmente grondanti di sudore. Sono guerrieri, abituati alle privazioni e alla durezza della vita negli accampamenti, ma essere confinati nello spazio ristretto della cella è una tortura.

La prima luce del mattino filtra appena dalla finestrella: la cella è ancora immersa nella penombra. Tancrède di Espinel si è svegliato da tempo e non è più riuscito a prendere sonno. Ora che il buio diviene meno fitto, Tancrède può osservare il corpo di Egbert steso accanto al suo. Egbert ha un’erezione e il suo cazzo, gonfio di sangue, svetta, grande e invitante, sulla foresta di peli rossicci del ventre.

Tancrède si solleva e lo osserva, incapace di distogliere lo sguardo. Le sue mani vorrebbero toccare il corpo steso accanto al suo, afferrare l’arma poderosa, perdersi tra la peluria fitta, stringere i coglioni, accarezzare il ventre. La sua bocca vorrebbe baciare quella di Egbert, mordere il cazzo, leccarlo, succhiarlo. Tancrède fa fatica a resistere al desiderio che sale.

Tancrède tende la destra. Poi, con uno sforzo di volontà, si alza di scatto e si volta contro la parete.

Il suo movimento desta Egbert, che chiede:

- C’è qualche cosa che non va, conte?

Tancrède scuote la testa, senza voltarsi verso Egbert: non vuole che il sassone veda il suo cazzo teso allo spasimo, non vuole vedere il corpo di Egbert. Ma gli sembra di averlo davanti agli occhi.

Cerca di controllare la voce:

- No, tutto bene. Non reggo più questa cella, il caldo è atroce. Vorrei bagnarmi nell’acqua fredda.

- È quello che ci vorrebbe per rinfrescare il corpo e far intendere ragione a chi solleva la testa a sproposito.

Tancrède ha capito perfettamente l’allusione di Egbert.

- L’astinenza fa questo effetto.

- Siamo uomini, conte. E io non sono abituato a digiunare.

Egbert ride. Tancrède vorrebbe saziare la fame di Egbert, perché sazierebbe anche la propria, ma tace. Si sente ridicolo a rimanere in piedi, dando le spalle a Egbert. Si stende, cercando di non guardare il suo compagno di cella.

- Cerchiamo di riposare ancora un po’.

Chiude gli occhi, ma il corpo arde. Sa che il sonno non verrà più. Ma non può rimanere a occhi aperti: cederebbe al desiderio di guardare Egbert.

 

Quando i carcerieri aprono la cella e portano un po’ di cibo, Egbert e Tancrède si sono già rivestiti. Come tutti i giorni, Egbert va a svuotare il secchio che utilizzano per i loro bisogni corporali, poi rientra. Lasciano aperta la porta, perché entri un po’ d’aria e si disperda l’odore greve che riempie il locale: odore di sudore, di corpi mal lavati, di piscio e merda.

La giornata trascorre come sempre: conversano con i prigionieri cristiani, parlano tra di loro, imparano da uno degli altri reclusi a giocare a scacchi, si fanno insegnare da un mercante di Tiro che parla bene l’arabo qualche nuova parola. Nelle ore centrali spesso rientrano nella celletta e chiudono la porta, perché il calore del cortile non surriscaldi il locale. Nel tardo pomeriggio escono nuovamente nell’angusto spazio aperto che condividono con gli altri cristiani prigionieri.

Sono usciti da poco, quando Egbert dice:

- Conte, se permettete, rientro nel sontuoso appartemento regale in cui siamo ospiti. Vorrei rimanere un momento da solo.

Altre volte succede che uno dei due ritorni in cella, soprattutto nelle ore centrali del giorno, quando è impossibile resistere sotto il sole. Ma Egbert non ha mai espresso il desiderio di stare da solo. Tancrède lo interpreta alla luce di quanto è avvenuto in mattinata. All’idea che Egbert si masturberà, sente il sangue affluirgli al cazzo e il desiderio stordirlo.

Tancrède non dice nulla. Egbert entra nella cella e accosta la porta, come fanno sempre.

Tancrède guarda la porta di legno. Si avvicina, la apre qual tanto che basta per passare ed entra, richiudendola alle sue spalle.

Egbert è nudo, in piedi sul suo giaciglio. Dà le spalle alla porta. Quando Tancrède entra, rimane immobile, anche se non può non essersi accorto dell’ingresso del conte.

È forte il corpo di Egbert: una quercia che gli anni hanno segnato ma non hanno piegato.

Tancrède si toglie la tunica. Si avvicina a Egbert. Rimane in silenzio. Egbert si volta, lentamente. Il magnifico cazzo è eretto, la destra ancora lo stringe, sulla capella luccica una goccia. Egbert guarda il suo signore, in silenzio.

Tancrède scivola in ginocchio. Sa che è la resa completa, ma non c’è altra strada. Ora ha il cazzo di Egbert di fronte alla bocca. Lo guarda, smarrito, incerto. È il sassone a mettergli una mano dietro il collo e ad avvicinargli la testa al ventre, fino a che Tancrède si trova la cappella tra le labbra. Sente l’odore aspro, di piscio, sudore e sborro. Tancrède apre la bocca, lascia che il cazzo gli entri in bocca, ne assapora il gusto, acidulo, il calore, la durezza. Sa di desiderarlo, di averlo sempre desiderato. Ma ora non sa che cosa fare, come muovere le labbra o la lingua. Lascia che Egbert prenda di nuovo l’iniziativa. Il sassone incomincia a muovere il culo, tenendogli la testa ferma. Egbert lo fotte in bocca, lentamente, spingendo fino in fondo, fino a che Tancrède è preso da un conato di vomito. Egbert si ritrae, ma poi riprende a spingere, avanti e indietro. E Tancrède sente la pressione della massa che gli riempie la bocca. Nella mente di Tancrède passano domande, che il conte lascia senza risposta: non vuole sapere che cosa Egbert penserà di lui, non vuole sapere nulla. Vuole solo sentire il sapore di questa carne che ora gli riempie la bocca.

A un certo punto Egbert toglie la mano e si ritrae. Tancrède alza lo sguardo verso di lui: il sassone non è venuto, perché si ritrae? Tancrède non sa leggere negli occhi del soldato, che risponde alla domanda inespressa:

- Stenditevi, conte.

Tancrède sente un brivido corrergli lungo la schiena. Annuisce. Si stende sul proprio giaciglio. Allarga le gambe. Pensa che si sta offrendo a Egbert come una troia. Sta per essere inculato, per la prima volta. Il cazzo di cui ha ancora in bocca il gusto entrerà dentro di lui. Tancrède ha paura, ma vuole quello che sta per succedere, lo desidera.

Il sassone si è chinato. Tancrède sente un po’ di liquido colargli sul solco: Egbert ha sputato sull’apertura. Due dita di Egbert spargono la saliva e il contatto trasmette un brivido al conte. Le due dita premono sul buco ed entrano, facendo sussultare Tancrède. Il conte vorrebbe urlare, vorrebbe gridare a Egbert di farlo, di possederlo, di incularlo. Vuole sentire il cazzo del sassone dentro di sé. Ma le parole non escono.

Egbert ripete la manovra, poi si stende su Tancrède e, con un movimento continuo, avvicina la cappella all’ingresso, forza l’apertura e scivola dentro, bloccando il guizzo di Tancrède tra le sue braccia.

Il dolore è stato tanto intenso da cancellare ogni piacere. Ma a Tancrède va bene così.

Egbert continua a spingere. Tancrède vorrebbe gridare di fermarsi, ma non dice nulla. Accetta che il suo corpo sia penetrato, squassato dall’arma formidabile del sassone. Accetta la sofferenza.

Egbert si muove con vigore, stringendo forte con le braccia il corpo di Tancrède. Il dolore cresce, ma nella sofferenza che gli dilania il culo Tancrède sente la tensione di un desiderio violento e la stretta delle braccia di Egbert è il paradiso.

Quando infine, con una rapida successione di spinte più forti, Egbert gli riempie le viscere del suo seme, Tancrède chiude gli occhi e rimane inerte. Non ha goduto, il dolore è stato intenso, eppure questo è ciò che vuole.

E ora, ora che il cazzo di Egbert perde volume e consistenza, è piacevole sentirlo nel culo. È una sensazione intensa. Tancrède vorrebbe dirgli di rimanere così, ma la sua bocca non trova le parole.

Egbert esce da lui e si stende sul giaciglio a fianco. Non dice nulla. Neanche Tancrède parla.

Rimangono distesi, finché non viene distribuito il cibo. Mangiano in silenzio, poi la cella viene chiusa per la notte. Non hanno più scambiato parola, si sono appena guardati.

 

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Nawfal vive abitualmente in città e trascorre poco tempo in campagna. Nella tenuta vive invece Rajab, un altro fratello di Nawfal, più giovane di lui, ma più anziano di Abdul-Qaadir. Rajab fa da intendente nella proprietà di campagna di Nawfal.

Nawfal ritorna in città, dopo aver consegnato Denis al fratello e aver fatto un giro di controllo.

Nei giorni seguenti, ascoltando le conversazioni degli altri lavoratori della fattoria, schiavi e uomini liberi, Denis scopre che Rajab ha condotto una vita sregolata, spendendo molto di più di quanto poteva ricavare dalle proprietà che il padre gli aveva lasciato, per cui ora non gli è rimasto nulla. La tenuta che oggi appartiene a Nawfal era di Rajab stesso e il fratello gliel’ha comprata, in modo che Rajab potesse pagare i debiti. Adesso Rajab lavora per il fratello maggiore nella tenuta di cui un tempo era proprietario, ma per questo si rode e sembra detestare Nawfal, anche se in sua presenza è ossequioso.

Rajab conosce qualche parola della lingua dei franchi: quel tanto che basta per dare istruzioni a Denis. Gli altri si rivolgono a lui in arabo. Denis finge di non capire, ma quando gli fanno vedere i lavori da fare, imita i loro gesti. Denis impara in fretta: il suo corpo è abituato alla fatica e Denis riesce a svolgere bene tutti i compiti che gli vengono assegnati.

Inizialmente Denis trascorre le sue notti incatenato, in una minuscola stanza accanto al magazzino. La stanza ha un’unica finestrella, troppo piccola perché una persona possa passarvi. Il mattino la cella viene aperta e Denis viene liberato per lavorare.

La sua vita è fatta solo di lavoro e silenzio. Con il passare dei giorni, Denis si rende conto che è esattamente ciò di cui ha bisogno: la fatica fisica che gli impedisce di pensare, il silenzio che gli evita di dover cercare parole e rispondere a domande. È ben raro che qualcuno dimostri un minimo interesse nei suoi confronti e in questi casi, Denis finge di non capire, per cui tutti rinunciano a comunicare con questo schiavo infedele, che è bravo nei lavori, ma sembra poco intelligente, perché non riesce a imparare una parola della lingua che si parla.

L’unica persona che sembra badare a Denis è Suheila, la serva della casa che si occupa di cucinare. È una donna non più giovane, con un sorriso cordiale, che ha piccoli gesti di gentilezza nei confronti dello schiavo cristiano e non pare aver paura di lui. Ogni tanto gli porta dalla cucina un buon boccone, di nascosto dagli altri. Forse Suheila ha capito che Denis conosce l’arabo: gli parla spesso, dandogli piccoli consigli, lo mette in guardia contro un servitore astioso, gli suggerisce qualche espediente per accontentare l’intendente. Ma non si aspetta che lui risponda.

Man mano che si abituano alla sua presenza e al suo mutismo, tutti gli altri sembrano dimenticare lo schiavo. Ormai nessuno si preoccupa di lui: lavora, non parla e non sembra occuparsi degli affari altrui. La diffidenza iniziale lascia il posto all’indifferenza: Denis è docile, non sembra violento, non si ribella. Smettono di incatenarlo la sera: d’altronde, dove potrebbe fuggire lo schiavo dagli occhi azzurri e i capelli rossicci? Uno come lui non può sperare di passare inosservato. Non dorme con gli altri schiavi, che non lo vogliono vicino: rimane a dormire nella stanzetta vicino al magazzino, ma ormai la porta non viene chiusa a chiave.

I mesi passano e la sofferenza si attenua.

 

*

 

Tancrède si è svegliato prima di Egbert. Guarda il corpo steso accanto al suo. Il cazzo di Egbert è teso, come spesso succede il mattino. Tancrède si solleva per poterlo osservare meglio. La cappella violacea è del tutto scoperta. Lungo l’asta scorrono le vene in rilievo e la base del cazzo emerge dalla peluria che ricopre i coglioni.

Tancrède abbassa il capo e la sua lingua scorre sull’asta, dalla cappella fino alla base. Il conte avverte un leggero movimento nel corpo del soldato. Solleva lo sguardo e vede che Egbert, destato dal contatto, lo sta fissando, un sorriso sulle labbra. Anche Tancrède sorride e riprende il lavoro: la lingua scorre ancora sull’asta, scende tra i coglioni, la bocca ne avvolge uno, poi lo lascia, prende l’altro, molla anche questa preda e risale. I denti mordicchiano l’asta perfettamente tesa e infine le labbra avvolgono la cappella.

Sono mesi che ogni giorno si amano e Tancrède ha perso ogni pudore. Tancrède incomincia a succhiare avidamente il boccone di carne che ha inghiottito. Intanto le sue mani scorrono sul corpo di Egbert. La destra scivola sul ventre, indugia sul torace, tra la peluria rossiccia, risale ancora fino al collo, le dita si infilano tra i peli della barba, si appoggiano sulle labbra, premono, si infilano tra i denti, che si richiudono. La sinistra scende lungo le gambe nerborute, prima una, poi l’altra.

Tancrède succhia con energia, assaporando gli aromi del cazzo di Egbert. Le sue mani tornano indietro, una stringe i coglioni del soldato, l’altra si ferma sul ventre.

La voce di Egbert è roca:

- Conte, manca poco.

Abitualmente quando Egbert dice che sta per venire, Tancrède si stende sul giaciglio o assume una delle altre posizioni che hanno sperimentato in questi mesi. Ma oggi desidera sentire il gusto del seme di Egbert, vuole ingoiarlo, e allora prosegue. Egbert geme e Tancrède sente il fiotto che gli inonda la bocca, leggermente amaro. Inghiotte fino all’ultima goccia, ancora la sua lingua e le sue labbra stuzzicano, finché è Egbert a prendergli la testa tra le mani e ad allontanarla.

Rimangono un momento distesi, poi Egbert si alza e si dirige verso il secchio.

- Fermo!

Egbert si volta, stupito. Tancrède esita un attimo, ma il desiderio è troppo forte, l’odore del corpo di Egbert lo stordisce, il gusto che ha ancora in bocca gli toglie ogni remora. Tancrède si muove carponi e si mette in ginocchio davanti a Egbert. Prende il cazzo ancora turgido del soldato in bocca, gli mette le mani sui fianchi.

Egbert guarda il suo signore, che attende. Il soldato incomincia a pisciare, Tancrède beve, fino all’ultima goccia. È buono il piscio di Egbert. Tancrède non l’aveva mai assaggiato. Si dice che d’ora in poi lo berrà ogni mattina.

Hanno appena finito e Tancrède ha ancora il cazzo teso, quando sentono che la porta viene aperta. È molto presto, non è ancora l’ora in cui di solito portano la colazione e aprono le celle.

Tancrède fa appena in tempo a infilarsi la tunica, quando due soldati entrano e gli intimano di andare con loro.

 

*

 

Firas è furibondo: scaglia le sue parole su Tancrède come se fossero massi per schiacciarlo.

- Hai mentito, cane. La tua famiglia non può riscattarti.

- Ma non è possibile…

Tancrède sa benissimo che le sue proprietà hanno un valore di gran lunga superiore alla cifra richiesta.

Firas lo interrompe, ancora più rabbioso.

- Morirete entrambi, cani! Avete ingannato l’emiro. Vi attende il supplizio.

Tancrède conosce le pene atroci che i saraceni infliggono ai condannati e rabbrividisce.

- C’è certamente un errore…

- Un errore, cane?! In questa lettera Louis d’Espinel dichiara di non poter ricavare in nessun modo la somma richiesta per la tua liberazione.

Tancrède intuisce: il cugino ha addotto qualche pretesto per non pagare, sperando che Tancrède venga ucciso, per poter così ereditare le sue terre e le sue ricchezze. Quel figlio di puttana! 

- Mio cugino mente. Posso raccogliere la somma che è stata richiesta per la mia libertà.

E mentre lo dice, Tancrède si rende conto che non può farlo. Dovrebbe potersene occupare personalmente, ma di certo non lo lasceranno tornare nei territori franchi.

Firas sibila:

- E come, conte?

C’è molta ironia nel titolo nobiliare.

Tancrède china la testa, furente. Cerca disperatamente una soluzione che non vede.

Firas aspetta un momento, poi dice:

- Comunicherò all’eccellente Nur ad-Din la risposta di tuo cugino, cane.

Firas chiama una guardia e fa portare via Tancrède. L’uomo riporta il conte nella cella.

Egbert vede il viso di Tancrède e chiede:

- Che succede, conte?

Per quanto siano amanti ormai da mesi, Egbert continua a rivolgersi a Tancrède con il rispetto che si deve al proprio signore. Solo sul giaciglio dove i loro corpi si stringono, Egbert dimentica la distanza che li separa.

- Mio cugino non vuole pagare il nostro riscatto. Ha addotto qualche scusa. L’uomo dell’emiro ha minacciato di farci uccidere.

Egbert annuisce.

- Avrei preferito morire in battaglia. O decapitato subito dopo lo scontro, come Pierre d’Aguilard. Ma non possiamo scegliere la nostra morte.

 

*

 

Mathieu ha imparato un po’ di arabo in questi mesi a casa di Abdul-Qaadir. Ora ha capito che il suo padrone sta per prendere una seconda moglie e ha deciso di venderlo. Non sa chi lo comprerà. Mathieu non si trova bene da Abdul-Qaadir. Il comandante lo prende come se fosse un animale, senza preoccuparsi di non fargli male, e gli chiede cose che a Mathieu ripugnano. Negli ultimi mesi lo ha anche costretto a soddisfare alcuni dei suoi amici, durante i festini che si tengono a casa sua.

Perciò a Mathieu non dispiacerebbe cambiare padrone, se sperasse in un miglioramento della sua condizione, ma non sa che cosa succederà: sarà ancora usato per soddisfare i bisogni di qualche ricco saraceno? Sarà destinato ai lavori nei campi? O alle miniere di sale? Chi è mandato nelle miniere, non sopravvive a lungo. In campagna o in una casa di città, tutto dipende dal padrone: alcuni trattano con umanità i loro schiavi, altri sono implacabili, soprattutto con i cristiani.

Mathieu ha paura, attende con ansia il giorno in cui lo condurranno al mercato per venderlo. Ma Abdul-Qaadir non intende vendere Mathieu con gli altri schiavi: ha dato al suo segretario l’incarico di contattare alcuni uomini che hanno avuto modo di vedere il giovane nella casa del comandante e di apprezzarlo.

Mathieu unisce giovinezza e bellezza e perciò attira l’interesse dei possibili acquirenti, ma quello che è disponibile a sborsare il prezzo maggiore è quello che conta di ricavarne anche il maggior guadagno: Mathieu viene acquistato dal giovane Abdallah, che possiede il miglior bordello maschile di Damasco.

 

*

 

Una notte, un po’ prima dell’alba, Denis si sveglia ed esce nel cortile. Il freddo di questo giorno di fine inverno è intenso ed è ancora buio: solo a oriente il cielo è leggermente più chiaro. Sopra la testa di Denis sembra che l’universo abbia acceso tutte le sue stelle. Denis alza il capo e guarda la Via Lattea. Di colpo gli vengono le lacrime agli occhi. E per la prima volta da quasi un anno Denis si rende conto che qualche cosa dentro di lui si sta ridestando, che ha di nuovo voglia di vivere e che non può più accettare la situazione in cui si trova. Si dice che deve cercare un modo per recuperare la libertà. Suo padre certo non avrebbe voluto che lui rimanesse schiavo dei saraceni.

Sempre rinchiuso nel suo mutismo, ora Denis ascolta con attenzione tutto ciò che dicono le persone intorno a lui, cercando di raccogliere il maggior numero di informazioni sulla tenuta, su coloro che vi abitano e sulla regione circostante. Ogni volta che ha occasione di muoversi, osserva attentamente ciò che vede, alla ricerca di una via di fuga. Anche lui sa bene che quello che dicono gli altri è vero: non può pensare di scappare, perché non potrebbe confondersi tra i saraceni e sarebbe riacciuffato rapidamente.

Attende un’occasione, che infine giunge.

 

Tra gli uomini che lavorano per Nawfal vi è il pastore Tareef, che vive non lontano dalla tenuta. È un uomo sui quaranta, un corpo forte, un viso stretto, dai tratti molto duri, che i lunghi capelli neri e il naso prominente accentuano. Denis diffida di lui, anche se non saprebbe spiegare le ragioni del suo atteggiamento.

Una sera Denis esce per i suoi bisogni, quando il cielo è ormai completamente buio. Rientrando, vede arrivare Tareef, che si avvicina con fare guardingo ed entra nel magazzino. Denis si stupisce che la porta sia aperta: ogni sera Rajab controlla personalmente che tutte le porte siano state chiuse.

Denis rimane al buio, in attesa di vedere che cosa succederà: forse potrà scoprire qualche cosa di utile per realizzare i suoi sogni di libertà. Intanto Denis si pone una serie di domande: che cosa intende fare Tareef? Rubare? Forse. Sembrava sapere che il magazzino era aperto, perciò deve avere un complice, qualcuno che gli ha aperto la porta. Ma come è possibile, se Rajab controlla personalmente ogni sera che le serrature siano state tutte chiuse e nessun altro ha le chiavi? Gli altri servitori disprezzano Tareef, che non appare molto solerte nel suo lavoro e ha fama di uomo violento. Preferiscono evitarlo, anche perché l’uomo ha un odore molto forte. Eppure Rajab, che è molto severo come intendente, nei confronti di Tareef è sempre tollerante.

Una prima risposta arriva di lì a poco, quando Rajab esce dalla casa con una lanterna ed entra nel magazzino. Dal modo in cui si è mosso, è evidente che sapeva di trovare la porta aperta e questo significa che l’ha lasciata aperta lui. Perché? Che cosa vuole fare con Tareef? Lo vede tutti i giorni, perché un incontro segreto?

Denis si avvicina alla porta. Sa che sta correndo un grosso rischio: la sua stessa vita sarebbe in pericolo, se scoprisse un segreto che Rajab vuole tenere nascosto. Ma potrebbe invece esserci qualche possibilità di recuperare la libertà. Denis sa bene che non può lasciarsi sfuggire nessuna occasione, per quanto minima. L’uscio è stato accostato e la luce della lanterna non si vede. Con cautela, Denis spinge la porta. Il magazzino è immerso nel buio, solo al fondo si scorge una fioca luce. Denis avanza con cautela: conosce il locale, in cui spesso viene mandato a prendere o portare delle cose. All’altra estremità della sala, oltre alcune anfore che bloccano la visuale, incomincia a intravedere la luce della lanterna. Denis cerca tra le anfore un punto da cui gli sia possibile vedere ciò che succede. Infine trova uno spazio sufficientemente ampio da cui può osservare la scena che la lanterna illumina debolmente: sopra una pila di pelli, Rajab è disteso sulla schiena, nudo. Tareef è davanti a lui, anch’egli nudo, e gli sta sollevando le gambe, appoggiandole contro il proprio petto. Tareef si accarezza lentamente il cazzo. Rajab lo guarda e sorride. Ciò che sta per succedere è chiaro: Rajab si farà prendere da Tareef. Tareef non è bello, per nulla. Ma Rajab si sta offrendo a lui.

Ora il cazzo di Tareef è duro e teso. Tareef lo avvicina all’apertura e lo spinge dentro. Rajab sussulta: sul suo viso compare una smorfia di dolore, che però svanisce quasi subito. Tareef avanza, fino in fondo, poi si ritrae e incomincia a muoversi a un ritmo regolare. Rajab geme, ma i suoi sono gemiti di piacere. A Rajab piace farsi fottere dal pastore.

L’intendente sprona Tareef.

- Sì, ancora, dai! Forza, Tareef. Dacci dentro. Sfondami!

Tareef ride, mentre prosegue con la sua opera.

- Sei una troia, Rajab.

Rajab sorride, mentre si accarezza il cazzo con la destra. Tareef spinge con forza, accelerando il ritmo.

Denis guarda la scena. Una parte del suo cervello si chiede come può servirsi di quello che sta vedendo per ottenere la libertà, ma Denis sa benissimo che non sta seguendo ciò che succede solo per quello. Nel suo corpo si è acceso un desiderio violento e vorrebbe unirsi ai due uomini. Non può di certo farlo, ma continua a osservare. Quasi senza accorgersene porta la destra al cazzo ormai teso e lo stringe, come Rajab sta stringendo il proprio, ma poi lo lascia andare. Deve concentrarsi su quello che succede. Non è il momento, ora. Non è il luogo, questo. Dopo, nella sua camera.

Nel magazzino si sentono i gemiti di Rajab, sempre più forti, e l’ansimare di Tareef, che spinge con violenza, infilando ogni volta il cazzo fino in fondo e poi ritraendosi. Il viso di Rajab è deformato da una smorfia di piacere, quello di Tareef è irrigidito nella tensione di un desiderio che ancora non si scioglie.

Infine Tareef emette una serie di suoni gutturali e spinge ancora più forte, mentre Rajab imprime alla sua mano un movimento più rapido. Il seme di Rajab guizza in alto, sul torace e sul ventre dell’uomo, mentre quello di Tareef si versa nel corpo dell’intendente.

Tareef si ferma. Rimane un momento immobile, a occhi chiusi, poi imprime un’ultima spinta e si stacca. Denis può vedergli il grosso cazzo ancora gonfio di sangue. Anche Rajab lo guarda, sorridendo.

Tareef incomincia a rivestirsi. Rajab rimane disteso, spossato, il corpo sporco del proprio seme.

- A venerdì, Tareef. Va bene?

- Sì, ci sarò. Quando verrà tuo fratello?

- Ancora non lo so, non mi ha scritto.

- Va bene. Se viene prima di venerdì, me lo fai sapere.

- Certo. Non dobbiamo lasciarci sfuggire l’occasione.

- Ora è meglio che io vada.

Denis sa che deve allontanarsi prima che Rajab e Tareef escano: potrebbe nascondersi nel magazzino, ma Rajab sicuramente chiuderà a chiave la porta e Denis non potrebbe più uscire. In silenzio scivola fuori dal suo nascondiglio e raggiunge l’uscita.

Denis ritorna nella sua stanzetta. Dalla finestrella osserva Tareef scomparire e dopo un po’ Rajab uscire dal magazzino e chiudere la porta.

Denis riflette. Se minacciasse Rajab di rivelare quello che ha scoperto, probabilmente non otterrebbe nulla: Rajab non è sposato (Denis sa che lo era, ma quando ha perso tutti i suoi averi, la donna in qualche modo se n’è andata), non è facile ricattarlo. Potrebbe minacciarlo di raccontare tutto a Nawfal, ma Nawfal scherzava con Abdul-Qaadir su Mathieu: di certo non dà molta importanza a quanto succede, anche se probabilmente non sarebbe contento di sapere che suo fratello si fa inculare da un servitore.

Il dialogo finale faceva pensare a qualche piano. Qual è l’occasione che Rajab e Tareef non devono lasciarsi sfuggire? Denis sa che deve cercare di scoprirlo. Venerdì Denis sarà di nuovo nel magazzino.

Dopo aver riflettuto sul da farsi, Denis chiude gli occhi e rapidamente si addormenta. Ma nei suoi sogni torna la scena a cui ha assistito. Solo che questa volta è Denis a possedere Rajab, steso nello stesso modo, mentre Tareef lo guarda e ride. Denis sente l’ondata del piacere travolgerlo. Si sveglia mentre il suo seme si sparge.

 

Nei giorni seguenti, ogni volta che Denis ha modo di entrare nel magazzino, controlla la posizione degli oggetti, per individuare come muoversi e dove nascondersi. Sposta un po’ le anfore, in modo da procurarsi un nascondiglio migliore, sempre che qualche altro servitore non le muova.

Il venerdì notte piove, una pioggia continua, intensa, che dura da ore: meglio così, difficile che qualcuno vada in giro, a parte Rajab e Tareef. Denis esce silenziosamente e verifica che la porta del magazzino sia aperta. Entrare ora può essere azzardato, se per qualche motivo l’incontro non avvenisse e Rajab decidesse di chiudere la porta, ma entrare quando i due saranno già dentro presenta rischi maggiori. Denis raggiunge il suo posto di osservazione e si mette in attesa. Dopo un po’ la porta viene aperta. Nel buio è impossibile distinguere se sia il pastore o l’intendente, ma Denis è sicuro che si tratti di Tareef.

Dopo un momento arriva Rajab, con la lanterna. Questa volta Rajab fa scorrere il chiavistello e chiude la porta dall’interno. Denis ha un tuffo al cuore: come farà ad uscire senza che Rajab sospetti? Da fuori non può richiudere il chiavistello.

Tareef è rimasto vicino alla porta. Alla luce della lanterna, Denis può vedere che è tutto bagnato. Ora che Rajab è arrivato, i due si spostano verso il fondo del magazzino. Passano accanto a Denis, ma le anfore lo coprono e i due uomini non sospettano che qualcuno possa essersi nascosto nel magazzino.

Rajab posa la lampada, ma non si spoglia. Dice:

- Domani mio fratello verrà in visita a controllare la tenuta e riscuotere quanto gli spetta. È il momento di agire.

- Bene. Così possiamo sistemarlo. Al recinto delle pecore, allora?

- Sì. Prima dell’ora a cui tornate dal pascolo, gli dirò che dobbiamo andare al recinto. Mi inventerò la scusa di qualche lavoro da fare. Quando arriveremo al recinto, tu sarai nascosto dietro le rocce e…

- …gli taglierò la gola. Poi lo getterò nel vecchio pozzo vicino alla roccia della gazzella. Non lo troveranno mai.

Denis non perde una parola. Rimane assolutamente immobile: sa bene che se venisse scoperto ora, lo ucciderebbero.

Rajab e Tareef parlano ancora un momento, poi Rajab dice:

- Adesso però passiamo ad altro.

Tareef si spoglia in fretta, imitato da Rajab. Il cazzo del pastore non è ancora teso, ma è già gonfio di sangue.

- Mettiti a pancia in giù.

Rajab obbedisce: si appoggia sulle pelli e allarga le gambe, offrendo il culo, che è coperto da una peluria leggera. Dal suo punto di osservazione Denis può vedere bene la scena. Tareef si mette dietro a Rajab, si stringe il cazzo con la mano e incomincia a smenarselo, fino a che non è perfettamente teso. Denis fissa ammaliato il cazzo turgido, che si appoggia sul culo, premendo sull’apertura, e poi penetra nel corpo dell’uomo, fino a scomparire completamente dentro il culo dell’intendente. Rajab chiude gli occhi, una smorfia sul suo viso. Tareef attende un attimo, poi incomincia a spingere. 

Anche questa volta Denis sente il proprio corpo ardere di un desiderio violento.

Tareef fotte Rajab con lo stesso ritmo regolare della volta precedente, tenendo le sue mani sul culo dell’intendente. Non ci sono altri contatti tra i due corpi: solo il cazzo di Tareef dentro il culo di Rajab e le mani sulle natiche. Non c’è tenerezza, non ci sono carezze.

Tareef procede a lungo, con la stessa espressione concentrata sul viso, finché non chiude gli occhi e imprime una serie di spinte più violente. Il pastore viene, emettendo un suono gutturale. Si ferma un attimo e Rajab si raddrizza, prima che Tareef sia uscito da lui. Ora i loro due corpi aderiscono. L’intendente afferra la destra del pastore e la guida a stringergli il cazzo teso.

- Dai, Tareef, dai.

Tareef stringe il cazzo con forza e muove ritmicamente la mano. Rajab geme più forte e il seme esce in un getto che raggiunge la barba dell’intendente. Rajab chiude gli occhi, abbandonandosi contro il corpo del pastore.

E ora? Denis è in tensione. Non può uscire prima dei due senza farsi scoprire: lo sentirebbero far scorrere il chiavistello e anche se così non fosse, Rajab si accorgerebbe che la porta non è più chiusa. La sua vita è appesa a un filo.

Prima di lasciarsi, Rajab e Tareef ripassano ancora alcuni dettagli del piano. Denis ascolta con attenzione.

Rajab conclude:

- Adesso vai.

Tareef raggiunge l’uscita e scompare. Denis sa che questo è il momento per agire. Gioca il tutto per tutto. Se Rajab si accorgerà che lui era nel magazzino, sicuramente lo farà uccidere, per sicurezza: anche se non sa che Denis conosce l’arabo, può temere che abbia capito qualche cosa e in ogni caso li ha visti scopare. Se però Rajab dovesse uscire e chiudere la porta, Denis rimarrebbe bloccato all’interno e la sua presenza sarebbe comunque scoperta l’indomani mattina.

Rajab è in piedi nello spazio tra le diverse merci presenti nel magazzino: potrebbe vederlo uscire, ma la lanterna è in parte oscurata e la zona vicino alla porta è in ombra. Denis si muove silenziosamente. Ora è vicino all’uscio. Può vedere Rajab, vicino alla lanterna, che sta lentamente rivestendosi. Sembra perso nei suoi pensieri.

Denis socchiude la porta e scivola fuori. Non piove più. Denis raggiunge la sua stanzetta in silenzio.

 

Una volta al sicuro, Denis rimane sveglio a pensare a come agire il giorno seguente. Deve trovare il modo di parlare a Nawfal mentre nessuno può vederli. Non sarà facile, perché non ha mai occasione di rimanere da solo con il padrone, ma deve riuscirci a qualsiasi costo. Prima che Rajab porti Nawfal al recinto delle pecore.

Il giorno dopo il sole splende e il calore asciuga in fretta il terreno bagnato. A mezzogiorno rimangono solo alcune pozzanghere fangose dove il suolo non è ricoperto dalla vegetazione. La pioggia ha reso brillante il verde tenero della vegetazione.

Nel pomeriggio Denis deve lavorare in un campo vicino alla casa. Sa che Nawfal trascorre sempre le ore dopo il pranzo riposando in una camera al primo piano.

Guardandosi attorno per accertarsi che nessuno possa vederlo, Denis si avvicina all’abitazione. Sa qual è la camera di Nawfal, ma non può raggiungerla passando per l’ingresso principale: qualcuno di certo lo vedrebbe e lo fermerebbe. Denis controlla ancora una volta che non ci sia nessuno e si arrampica sul grande fico. Di lì passa sul tetto della casa ed entra nella camera di Nawfal.

Nawfal dorme, disteso sul letto. È nudo e Denis osserva il corpo massiccio abbandonato al sonno, la peluria densa sul torace e sul ventre, il sesso vigoroso.

Non ha tempo da perdere.

- Padrone!

Nawfal apre gli occhi e sussulta. Si alza a sedere e lo fissa, senza parlare. Sembra quasi avere paura.

- Padrone, posso parlarti? È una cosa grave.

Nawfal sembra sbalordito.

- Tu parli la mia lingua?

- Sì, padrone.

- Perché non l’hai detto prima?

- Perché se l’avessi detto, questa sera tu saresti un uomo morto.

La risposta ottiene l’effetto desiderato. Nawfal aggrotta la fronte e dice:

- Che cosa stai dicendo?

- Vogliono ucciderti, oggi pomeriggio.

Nawfal è sconcertato e diffidente.

- Chi? Perché?

- Te lo dirò, ma tu mi restituirai la libertà?

Nawfal riflette un momento.

- Va bene. Se quello che mi dici è vero, riavrai la libertà. Dimmi.

Denis sa che non potrà costringere Nawfal a rispettare i patti, ma è l’unica arma a sua disposizione: sta giocando tutto su questa possibilità.

- Tuo fratello Rajab ha una tresca con Tareef, il pastore, e lo ha convinto ad ammazzarti. Ti attireranno in una trappola tra non molto. Lui ti chiederà di accompagnarlo al recinto delle pecore e lì Tareef ti ucciderà e poi getteranno il tuo corpo nel vecchio pozzo vicino alla roccia della gazzella.

- Rajab!

Nawfal fissa Denis. Gli dice, con durezza:

- Non ti credo, cane di un cristiano.

Denis alza le spalle:

- Se non mi credi, hai solo da accompagnare tuo fratello al recinto oggi pomeriggio, quando te lo chiederà, prima che i pastori siano di ritorno.

Nawfal non distoglie lo sguardo da Denis.

- Se non è vero, ti pentirai di essere nato.

- Lo vedrai da te. Bada solo a non lasciar trapelare nulla. Che tuo fratello non si insospettisca.

Nawfal lo guarda, pensieroso. Non dice nulla.

- Io devo andare. Non posso assentarmi a lungo.

- Dove stai lavorando?

- Nel campo vicino al palmeto.

Nawfal annuisce.

Denis esce sul terrazzo, controlla che non ci sia nessuno e si cala lungo l’albero del fico. Ritorna al lavoro.

Non è passato molto tempo, quando Denis vede Nawfal avvicinarsi.

Nawfal si guarda attorno, come se stesse dando un’occhiata alla tenuta, e intanto dice:

- Come posso scoprire che quanto mi hai raccontato è la verità, senza rischiare di farmi uccidere?

Denis riflette un attimo:

- Fai appostare due uomini vicino al recinto.

- Non so di chi posso fidarmi, tra gli uomini che sono qui. Sono uomini che ha scelto Rajab, molti lavoravano per lui quando la tenuta era sua.

Denis riflette un momento.

- Io posso proteggerti, se mi dai un’arma: ho combattuto.

La voce di Nawfal è aspra:

- Darti un’arma? Credi che io sia pazzo?

Denis non dice niente. C’è un lungo momento di silenzio. Poi Nawfal sibila:

- Hai inventato tutta questa storia solo per avere un’arma.

Denis si asciuga il sudore dalla fronte, poi riprende a lavorare e dice:

- Padrone, io ti ho detto la verità. Se puoi procurarti uomini davvero fidati, puoi dire a loro di mettersi vicino al recinto, per proteggerti. O puoi catturare Tareef e costringerlo a confessare. Lo troverai di certo al recinto all’ora stabilita. Io ti ho avvisato.

Nawfal si allontana, senza rispondere.

Non è passato molto tempo quando Nawfal ritorna. Ci sono altri due uomini, a lavorare il campo. Nawfal parla ad alta voce, usando la lingua dei franchi:

- Vieni con me.

Si allontanano. Quando sono nascosti da una macchia di alberi, Nawfal tira fuori dalla tunica un pugnale e lo porge a Denis, senza dire nulla.

Denis lo nasconde.

- Sei sicuro di potermi proteggere? Tareef è forte.

- Ne sono sicuro.

 

Il sole sta calando. Rajab si è avvicinato a Nawfal, che è rimasto per gran parte del pomeriggio inoperoso, contrariamente al solito.

Rajab dice:

- Non so dove sia lo schiavo cristiano. Dovrebbe essere al campo vicino al palmeto. Mi hanno detto che si è allontanato con te.

Nawfal risponde:

- Sì, l’ho mandato alla tenuta di Wadid, con un messaggio.

- Ma… perché? Tu stesso hai raccomandato di sorvegliarlo, Nawfal.

Nawfal alza le spalle.

- Mi hai detto che non ha mai cercato di scappare o di ribellarsi, che non hai mai dovuto ricorrere alla frusta. Se al tramonto non sarà di ritorno, lo faremo cercare: con quei capelli e quegli occhi di certo non passa inosservato, non può scappare.

- Sì, questo è vero.

Rajab esita un attimo, poi sorride e dice:

- Vorrei farti vedere una cosa. Vieni con me al recinto delle pecore, prima che tornino i pastori.

Nawfal fissa il fratello.

- È proprio necessario? Sono stanco e devo ancora rientrare in città.

Rajab sorride. Nawfal ha l’impressione che il fratello sia un po’ a disagio.

- Ma, sì, ci mettiamo solo un momento. Poi potrai riposarti.

- Ti seguo, fratello.

Nawfal ha calcato sulla parola “fratello”, ma Rajab non sembra averlo rilevato. Si avvia. Nawfal lo segue.

Ora sono vicino al recinto. Nawfal rallenta il passo, senza rendersene conto. Rajab dice, a voce troppo alta:

- Ecco, siamo arrivati.

Nawfal si guarda intorno, inquieto.

In quel momento compare Tareef. Ha un pugnale in mano e si scaglia su Nawfal. Prima che Nawfal abbia fatto in tempo a urlare, dall’alto di una delle rocce Denis si lancia su Tareef, lo afferra per il collo e gli immerge la lama nel petto. Tareef lancia un urlo strozzato e il pugnale gli cade di mano.

Denis si stacca da lui. Tareef barcolla e cade a terra.

- Tareef!

L’urlo di Rajab esprime tutta la sua angoscia.

Tutto si è svolto in un attimo. Nawfal guarda Tareef che agonizza, poi guarda il fratello. La sua voce è una lama tagliente.

- Volevi uccidermi.

- No, no, fratello… che dici?

Rajab si getta ai piedi di Nawfal.

- Era lui, Nawfal, era lui che mi ha convinto, mi ha detto che avrei ereditato la fattoria.

La voce di Tareef esce debole, soffocata dal sangue:

- Porco immondo… me l’hai… chiesto… tu…

Nawfal si volge verso Denis e gli dice:

- Avrei preferito che tu avessi mentito.

Denis non dice nulla. Spera che Nawfal mantenga la sua promessa: solo questo conta per lui.

Nawfal ordina a Denis di legare le mani di Rajab dietro la schiena, poi insieme si dirigono verso l’abitazione.

Nawfal fa rinchiudere il fratello nella stanza dove dorme Denis. Poi manda alcuni messaggeri in città e dà ordine di andare a prendere il corpo di Tareef.

Nawfal trascorrerà la notte nella tenuta. Denis rimane in disparte. Attende la liberazione che gli è stata promessa, ma non dice nulla: non è il momento per avvicinarsi a Nawfal, che è chiaramente di pessimo umore.

In serata arrivano due uomini inviati dall’emiro. Nawfal racconta loro che cosa è successo. Domani, rientrando in città, consegnerà alle guardie il fratello, perché venga processato.

È ormai buio e Denis si chiede dove dormirà. Nawfal lo lascerà libero? Denis ha bisogno di un documento che comprovi la sua nuova condizione di uomo libero, altrimenti sarà immediatamente catturato.

Alla fattoria arriva un uomo, accompagnato da due schiavi. Sembra un ricco mercante. Nawfal parla un po’ con l’uomo, poi fa chiamare Denis. Le sue parole sono una staffilata:

- Ti ho venduto al mercante Mufeed ad-Din.

Nawfal guarda Denis negli occhi. Attende una replica. Ma Denis d’Aguilard sa tacere. China gli occhi e il capo, in silenzio. Non saprebbe dire perché Nawfal non ha mantenuto la promessa: gli deve la vita. Ma Nawfal non gli è grato, in qualche modo scarica su di lui la rabbia che prova per il tradimento del fratello.

È tardi per rientrare in città. Mufeed ad-Din dormirà in una stanza della casa. Le sue guardie e Denis trascorreranno la notte con i servitori della tenuta.

Nawfal si ritira presto e tutti i servitori si sistemano per dormire. Denis si stende in un angolo e finge di addormentarsi subito. Alcuni servitori parlano di quanto è avvenuto: il tentato omicidio del loro padrone e la morte del pastore li hanno turbati. Alcuni si chiedono perché il padrone non conceda la libertà a Denis o almeno non lo prenda con sé come guardia, visto che gli ha salvato la vita. Non sanno della promessa mancata, ma gli sembrerebbe logico ricompensare un uomo che ha reso un servigio immenso, invece di venderlo a un mercante. Le loro chiacchiere vanno avanti a lungo: gli avvenimenti della giornata hanno provocato una grande eccitazione.

Infine cala il silenzio e tutti si abbandonano al sonno. Denis non dorme. Steso su una stuoia guarda attraverso il vano della porta, lasciata aperta per il caldo, un riquadro di cielo stellato. Prova una grande rabbia: sa di aver subito un’ingiustizia. Si chiede come sia il nuovo padrone e se avrà un’occasione di scappare. È un mercante: se lo accompagnerà nei suoi viaggi, forse avrà modo di fuggire; se invece Mufeed ad-Din lo lascerà in qualche sua proprietà, sarà più difficile. Come lo ha presentato Nawfal? Potrebbe aver detto che di Denis non bisogna fidarsi, che ha nascosto a tutti di saper l’arabo.

È trascorso parecchio tempo da quando tutti si sono messi a dormire. Denis non riesce a prendere sonno. Dall’angolo guarda il vano della porta. Potrebbe alzarsi e allontanarsi, ma non farebbe molta strada.

Un’ombra passa davanti all’uscio, qualcuno che proviene dalla casa ed esce nel cortile. Perché? L’ombra ritorna poco dopo. Forse era uno degli uomini che è uscito per i suoi bisogni.

Passano alcuni minuti e qualcuno arriva dal cortile, passa davanti all’uscio e scompare verso l’ingresso principale. A Denis pare di riconoscere il profilo: si tratta di Rajab. Qualcuno lo ha liberato. Ma se è così, perché non è fuggito? Vuole rubare qualche cosa da portare con sé nella fuga? Rischia di essere scoperto. Oppure…

Denis intuisce. Potrebbe svegliare il mercante, dare l’allarme. Ma non è affar suo: non salverà una seconda volta Nawfal.

Alcuni minuti dopo si sente un grido acutissimo, seguito da altri. Gli schiavi si svegliano e corrono verso la stanza del padrone, da cui provengono le urla. Anche Denis corre con gli altri, ma evita di essere il primo.

Alla luce di una lampada a olio accesa da un servitore, Nawfal appare a terra, in un lago di sangue, il ventre squarciato. Rajab lo sta ancora colpendo, in un parossismo di odio, ma all’arrivo dei servitori si alza. Li minaccia tutti con il coltello, perché si tengano a distanza, poi si volta per lanciarsi dalla finestra. Denis gli è addosso con un salto e lo fa cadere. Lottano, ma Denis è più forte e abile e riesce a bloccare un braccio di Rajab dietro la schiena. Gli altri servi si decidono infine a intervenire e legano l’assassino.

I servitori si affollano intorno a Nawfal, ma le ferite sono troppo gravi: Nawfal rantola e prima che arrivi un medico muore.

Viene mandato un messaggero in città e quattro guardie arrivano. L’indomani mattina giunge anche Abdul-Qaadir, insieme a un magistrato inviato dall’emiro.

Nessuno sa chi possa aver aiutato Rajab a uscire dalla cella. Il magistrato fa torturare i servi per ottenere informazioni e infine scopre che si tratta di uno dei pastori che intendeva salvare Rajab e lo ha liberato, senza pensare che avrebbe ucciso il fratello.

Quando le indagini sono concluse, il mercante Mufeed ad-Din ritorna in città con il suo nuovo schiavo.

 

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Tancrède è steso sul giaciglio. Egbert è sopra di lui, che lo infilza con il suo cazzo poderoso. Tancrède si abbandona completamente alle sensazioni violente che gli trasmette l’arma che lo trafigge, senza pietà. Con il tempo il dolore brutale dei primi giorni è svanito: ora le spinte, per quanto energiche, non provocano davvero sofferenza. O forse la sofferenza è essa stessa parte di un piacere più intenso. In questi ultimi giorni, in cui attendono la condanna a morte, i loro amplessi sono divenuti ancora più violenti, ma poi, quando entrambi hanno raggiunto il piacere, si sciolgono nella tenerezza di un abbraccio.

Egbert lavora con costanza, mentre le sue mani forti martoriano il culo di Tancrède, stringendo la carne: Tancrède si ritrova spesso i lividi che le dita di Egbert hanno lasciato. Ma non vorrebbe rinunciare a questa stretta feroce.

Infine Egbert viene e Tancrède gode insieme a lui: succede spesso che raggiungano il piacere nello stesso momento. Egbert avvolge Tancrède nella stretta delle sue braccia e giacciono tutti e due esausti, quando sentono un rumore di passi. Qualcuno è alla porta della cella. Rapidamente si separano e si infilano le tuniche, mentre la porta viene aperta.

Non dicono nulla, ma tutti e due sanno che è giunto il momento atteso: non è l’ora in cui le celle vengono aperte, questa. Sono passati otto giorni da quando Firas ha minacciato di farli uccidere entrambi, poiché il riscatto richiesto non è stato pagato. Ogni giorno Tancrède ed Egbert hanno aspettato che qualcuno annunciasse loro una condanna od offrisse uno spiraglio di salvezza. Ma il tempo è passato e la loro vita è trascorsa sempre uguale, tra notti ardenti e giorni che si sfilacciano nella noia.

Ci sono quattro guardie e un ufficiale, che ordina a Tancrède di alzarsi e seguirli. Anche Egbert si alza, ma l’uomo gli dice:

- Rimani al tuo posto, cane.

- Se il mio signore deve morire, voglio morire anch’io.

- Non spetta a te decidere, cane.

Una delle guardie fa balenare una lama e la punta alla gola di Egbert. Tancrède dice:

- Fermati, Egbert. Non sappiamo che cosa ci attende.

Egbert rimane immobile. Le guardie legano le mani del conte dietro la schiena e si avviano. La cella viene richiusa.

Le guardie portano Tancrède verso una grande piazza, che rigurgita di folla. Il conte si chiede il motivo di quell’assembramento inusuale, ma gli basta guardare il palco delle esecuzioni per capire: oggi verrà giustiziato un uomo. Tancrède si domanda se sarà lui la vittima. Sente un brivido corrergli per la schiena. Non è un vile, ha affrontato la morte in battaglia, ma conosce i tormenti che i saraceni sanno infliggere ai loro nemici.

Le quattro guardie si fanno largo tra la folla a spintoni, provocando proteste. Parecchi imprecano, ma quando vedono che si tratta degli uomini dell’emiro, non dicono più nulla. I soldati forzano Tancrède ad avvicinarsi al palco. Il conte ora è certo che sarà lui a dare spettacolo a questa folla che attende impaziente. Gli sembra che le gambe non lo sostengano. Ma le guardie non lo fanno salire sul palco, si limitano a fermarsi in prima fila.

Tancrède si guarda intorno. Non molto lontano c’è un uomo che dall’aspetto sembra un mercante e al suo fianco, inconfondibile con i suoi capelli rossi e gli occhi azzurri, Denis d’Aguilard. Il giovane lo ha visto e fa un cenno di saluto. Tancrède china appena la testa.

In quel momento il condannato arriva nella piazza e tra la folla si alza un grande clamore. Tutti si voltano per vedere l’uomo, che è nudo e viene trascinato verso il palco. Passa di fronte a Tancrède e lo forzano a salire i gradini che portano alla grande ruota.

Il conte pensa che non è ancora il suo turno. Forse. Ma allora perché lo hanno portato lì, perché lo hanno messo in prima fila, in modo che non perda un dettaglio della cerimonia? Vogliono che veda un uomo morire tra i tormenti, per renderlo più malleabile?

Tancrède non conosce l’uomo. Conosce abbastanza l’arabo per capire, dalle conversazioni che sente, che si tratta di un fratricida, un certo Rajab ibn Abd Allah. Il carnefice, a torso nudo, gli lega le braccia e le gambe alla ruota, con cinghie di cuoio: ora il condannato è in posizione, pronto ad affrontare la morte. Tancrède sa che anche a lui potrebbe essere riservato quel supplizio. Lo giudica infame, ma la folla nella piazza preme per vedere meglio.

Il carnefice prende il grande martello di legno, con cui ucciderà il condannato. Non sarà breve: la folla vuole che lo spettacolo duri a lungo e l’esecuzione deve essere un ammonimento per tutti.

Rajab si tende quando vede che il carnefice sta per vibrare il colpo. Nei suoi occhi Tancrède legge l’angoscia, la faccia gli si distorce in una smorfia di terrore. Il martello si abbatte sulla coscia del condannato, che grida. Il carnefice solleva nuovamente il martello e colpisce l’altra coscia, poi le gambe, le braccia. L’uomo si contorce, il viso stravolto dal dolore, e cerca di liberarsi delle cinghie che lo tengono, ma non ci riesce. Il carnefice continua a colpire, in modo metodico, con violenza crescente. I colpi spezzano gli arti del condannato, che si affloscerebbe, se le cinghie non lo sostenessero. L’uomo perde il controllo della vescica e il piscio scende. Le urla di dolore che hanno accompagnato i primi colpi diventano singhiozzi, poi rantoli.

Ora il carnefice è tutto sudato. Si ferma e contempla la sua opera. Il condannato lo guarda, stravolto dal dolore, le sue labbra si muovono, sembrano formulare una preghiera, una richiesta di pietà o forse una maledizione per l’uomo che lo sta torturando. Il carnefice ha un ghigno, mentre di nuovo solleva il martello e lo abbatte contro il ventre dell’uomo, che di nuovo urla. Ora tra un colpo e l’altro il carnefice lascia passare un buon momento e non fa uso di tutta la sua forza: non vuole che l’agonia finisca tanto presto. I colpi lacerano la pelle e fanno scendere il sangue sul torace e sul ventre. Il condannato non ha più la forza di urlare. Solo un singulto accompagna ogni colpo.

Tancrède vede il carnefice portare il martello molto indietro, per dare più slancio. Si dice che l’uomo colpirà il prigioniero allo sterno o all’altezza del cuore, uccidendolo, ma il carnefice vibra il colpo sui genitali della vittima, che emette un grido straziante, solleva la testa, gli occhi sbarrati in un dolore senza limiti e poi la riabbassa. La folla urla la sua gioia feroce, dileggia l’uomo agonizzante, grida oscenità.

Un altro colpo violento al ventre, poi due al torace. Un ultimo singhiozzo e il prigioniero reclina la testa. Il sangue cola abbondante dalla bocca.

Rajab è infine sfuggito alla ferocia del carnefice.

Il carnefice si sposta, in modo che la folla possa vedere il cadavere attaccato alla ruota. E mentre si gira a ricevere l’omaggio della folla, fissa Tancrède e ghigna.

Il conte sente un brivido corrergli lungo la schiena.

 

Le guardie conducono Tancrède d’Espinel in una caserma. Lo fanno entrare in una stanza e lo lasciano lì. Il conte attende, ma nessuno si presenta. Il tempo passa. Fuori si sentono le voci dei soldati e i rumori delle attività militari. Pare che l’abbiano dimenticato. Tancrède vorrebbe che questa attesa durasse per sempre, perché a concluderla potrebbero essere la tortura e la morte. Rivede nella mente il corpo martoriato dell’uomo che è stato giustiziato, i colpi che si abbattevano su di lui.

Ma vorrebbe anche che questa attesa finisse, perché non regge più l’incertezza. Le ore passano. Tancrède ha sete. Il sole incomincia a calare. Tancrède si chiede se davvero non si siano dimenticati di lui.

La porta si apre, senza un rumore. Entra Firas, con un soldato e un uomo che Tancrède non ha mai visto, ma che dall’abito risulta essere sicuramente un funzionario importante.

La voce di Firas è dura:

- Alzati, cane.

Tancrède si alza a fatica, le gambe intorpidite dalla lunga immobilità, le braccia ancora bloccate dietro la schiena.

L’uomo si siede sui cuscini davanti a Tancrède. Firas rimane in piedi.

- Conte Tancrède d’Espinel, l’emiro non ama essere ingannato.

- Non ho…

La voce si trasforma in un gemito, perché a un cenno di Firas il pugno del soldato ha colpito Tancrède al ventre, mozzandogli il fiato.

- Parla quando sei interrogato, cane.

L’uomo seduto riprende, come se l’interruzione non fosse nemmeno avvenuta.

- Ci sono molti modi di giustiziare un uomo. Quello che hai visto oggi non è dei peggiori: si muore in fretta. Ce ne sono che ti lasciano il tempo di maledire tua madre per averti generato.

Tancrède fa per aprire bocca, ma lo sguardo di Firas lo raggela.

- Ascolta, l’emiro sa essere generoso e perdonare. Ma bisogna meritare il suo perdono. Noi potremmo lasciarti la vita, potremmo anche lasciarti la libertà…

C’è un momento di sosta, poi l’uomo prosegue:

- …o potremmo impalarti insieme al tuo servitore, come monito per tutti coloro che pensano di poter ingannare l’emiro.

Tancrède ha sentito parlare dell’impalamento, uno dei supplizi più atroci che esistano. Di nuovo sente un brivido lungo la schiena.

- Sta a te scegliere.

Tancrède guarda l’uomo. Che cosa significano le sue parole? Chi potrebbe scegliere di essere impalato, potendo invece vivere e essere libero?

- Tuo cugino, che ora amministra le tue sostanze, potrebbe essere ucciso uno di questi giorni. E tu potresti trovarti libero…

Tancrède non capisce. L’uomo fa un gesto e Firas estrae da una sacca che porta a tracolla un foglio. È una lettera, in cui il conte Tancrède d’Espinel promette di collaborare con l’emiro Nur ad-Din Abu al-Qasim Mahmud ibn Imad ad-Din Zangi, in cambio della libertà e dell’eliminazione di suo cugino, Jean d’Espinel.

La vita e la libertà in cambio del tradimento. Tancrède scuote la testa. L’uomo sorride e dice:

- Medita prima di rispondere, cristiano. Ma se hai deciso che preferisci morire, questa sera stessa impaleremo il tuo servitore. Così vedrai che cosa significa morire sul palo.

Tancrède ha la sensazione che il fiato gli manchi. Egbert, impalato, tra poco. E poi lui stesso. Un’agonia che può durare giorni.

Tancrède non vuole accettare l’infamia. Potrebbe fingere di accettare e poi rifiutarsi di tradire, ma se lui firmerà quel foglio o, com’è probabile che gli impongano, lo ricopierà di suo pugno, i saraceni avranno in mano la sua condanna a morte: gli basterà far giungere il documento a Gerusalemme per far cadere la testa di Tancrède. E di certo Jean sarà assassinato prima che Tancrède possa tornare a casa. Di Jean, che ha cercato di farlo morire, non gli importa nulla. Ma dopo quella morte nessuno potrà mettere in dubbio la veridicità del documento.

Tancrède tace.

- Firas, fa venire il servitore del conte e fa preparare il palo. Il conte ha bisogno di vedere.

- No!

L’urlo è sfuggito a Tancrède.

- Ricopierai di tuo pugno questo foglio e lo firmerai?

Tancrède si morde il labbro. Annuisce.

 

*

 

Mathieu è bravo, ci sa fare anche con la bocca. Mathieu è giovane. Mathieu è bello. Mathieu è molto richiesto.

Jamil ha molta esperienza, ma non ha più diciott’anni. Lavora bene con la bocca e con il culo, ma il suo viso mostra i segni del tempo: la vita che conduce lascia tracce sulla carnagione e la pelle di Jamil non ha più la freschezza di alcuni anni fa. I clienti si trovano bene con Jamil, ma Mathieu ha la pelle più morbida, ha il viso più bello, ha un corpo che non ha conosciuto anni di lavoro in un bordello, un culo che non è stato violato infinite volte.

I clienti chiedono Mathieu, per Jamil sono disposti a pagare di meno, ora che c’è uno schiavo più bello e più giovane.

La rabbia cresce in Jamil, una rabbia cieca.

Jamil attende Husaam, che viene ogni mercoledì. Husaam è uno dei comandanti del corpo di guardia di Damasco. È un uomo forte, che possiede Jamil con vigore, ma è anche un uomo istruito, che ama la poesia. Per Jamil non è un cliente qualsiasi. Di lui il giovane schiavo è innamorato. Una volta Husaam gli ha detto che gli piacerebbe avere Jamil accanto a sé ogni giorno. Ha aggiunto che lo riscatterà. Una di quelle frasi dette quando il piacere ottenuto dispone al sorriso e alla tenerezza, dopo un bicchiere di vino e una poesia di Abu Nuwas. Una di quelle frasi che si dimenticano subito dopo averle pronunciate. Jamil è stato tanto sciocco da non dimenticarla.

Jamil spia tra le tende gli uomini che bevono tè e chiacchierano nella sala comune. Husaam non è ancora arrivato, ma non tarderà: viene sempre alla stessa ora, quando smonta.

Husaam viene introdotto da un servitore. Husaam è bello, forte, alto. Gli occhi di Jamil brillano mentre fissa il comandante. Tra poco sarà da lui.

Un servitore si avvicina a Husaam e gli dice qualche cosa, ma il comandante ride e scuote la testa. Il servitore gli offre del tè e scompare. Husaam sorseggia il suo tè, parla con gli altri clienti. Non sembra aver fretta. Jamil invece è impaziente. Ma gli farà pagare questa scarsa sollecitudine. Si farà pregare, questa sera. Non può certo negarsi: Husaam è un cliente tra i più importanti e non accetterebbe un rifiuto, ma tra loro c’è una certa familiarità e Husaam dovrà pregarlo per ottenere ciò che vuole.

Jamil non perde di vista neppure per un attimo il suo comandante e intanto pensa a come lo stuzzicherà, negandosi, fino a farlo impazzire di desiderio.

Poco dopo arriva il padrone, che parla con Husaam. Discutono un buon momento. Il padrone non sembra soddisfatto, ma accenna un inchino e se ne va. Husaam si siede.

Che succede? Perché Husaam non viene da lui? Jamil non capisce.

Jamil guarda ancora un momento, poi cerca un servitore. Incontra Saalih.

- Perché il comandante Husaam ibn Imraan non entra?

A Saalih non piace Jamil, trova che si dà troppe arie perché ha ancora tanti clienti che chiedono di lui. È contento di poter dire:

- Il comandante ha chiesto del giovane cristiano, Tareq.

Tareq è il nome che danno a Mathieu nel bordello.

Jamil è annichilito. Guarda Saalih, in silenzio, poi esplode:

- Tu menti, cane. Lo dici per invidia. Non è vero.

Saalih ride, guardando le lacrime che spuntano negli occhi di Jamil. Poi il sorriso svanisce e risponde, sarcastico:

- Lo vedrai come viene da te.

Jamil ritorna alla tenda. Husaam chiacchiera e ride. Infine un servo viene a chiamarlo e Husaam lo segue. Jamil aspetta un momento, poi raggiunge la stanza di Mathieu. Oltre la tenda sente la voce del comandante.

- Sei bello, Tareq. La tua pelle è un petalo di rosa.

- Grazie, mio signore.

Jamil scosta leggermente la tenda e guarda dentro. Husaam sta spogliando Tareq, che ora è nudo davanti a lui. Husaam si spoglia con lentezza, poi fa inginocchiare Tareq e gli mette una mano sulla testa, avvicinandola al suo cazzo.

Mathieu prende in bocca il sesso di Husaam e incomincia a succhiare. Husaam recita una poesia di Abu Nuwas, la stessa che un tempo ha recitato a Jamil:

- Di quattro cose vivono il cuore, l’anima e il corpo: l’acqua, il giardino, il vino e il bel viso.

Una voce alle spalle di Jamil lo fa sussultare:

- Jamil! Se il padrone ti vede, ti frusta. Vattene subito, sfacciato.

Jamil sa che se rimanesse rischierebbe di essere denunciato da qualcuno dei servitori. Abdallah potrebbe davvero farlo frustare: guai se un cliente, soprattutto uno importante, venisse a sapere di essere spiato. Gli uomini che frequentano il bordello di Abdallah contano sulla discrezione del padrone e di tutto il personale.

Jamil si ritira. Ha visto più che abbastanza. Torna nella sua stanza e si stende. Ha di nuovo le lacrime agli occhi.

 

Jamil ha trascorso la notte insonne e il suo viso appare ancora più vecchio. Il padrone lo rimprovera: deve avere cura di sé, altrimenti dovrà venderlo e sostituirlo con un altro. Saalih e un altro servitore ridacchiano.

Jamil chiede di uscire. Il permesso gli viene concesso.

Jamil sa dove andare. Ha preso con sé due le monete che alcuni clienti gli hanno regalato. Torna dopo alcune ore, con una piccola boccetta che ha nascosto sotto la tunica.

Il pomeriggio scorre come sempre. Jamil ha due clienti. Altri arrivano la sera. Infine tutti se ne vanno e il bordello chiude. Ognuno ritorna nella sua camera.

Jamil attende che ci sia silenzio. Poi prende una lanterna e la boccetta e si muove, senza fare nessun rumore. Giunge davanti alla stanza di Mathieu. Scosta la tenda. Si avvicina fino alla stuoia dove riposa il giovane. Sorride.

- Per te, Tareq!

E mentre lo dice gli lancia sul viso il liquido contenuto nella boccetta.

Le parole hanno svegliato Mathieu, che sente un dolore atroce là dove il liquido è entrato in contatto con la pelle. Grida, grida con quanto fiato ha in corpo, chiede aiuto. Ma nessuno può fermare l’azione dell’olio di vetriolo.

 

*

 

A Damasco Mufeed ha venduto tutte le sue merci e ha realizzato un buon guadagno: Allah è stato generoso con lui. Con il denaro ricavato, ha comprato anche due schiavi. Uno è un ragazzo giovane, un cristiano. Lavorava al bordello di Abdallah, ma è stato sfigurato dall’olio di vetriolo: ha perso un occhio e tutta la parte destra del viso è devastata. Anche sul lato sinistro ci sono alcune lesioni. Di certo non può più lavorare in un bordello. Ma neanche in casa: chi vorrebbe uno schiavo così brutto da vedere? Mufeed l’ha ottenuto per poco: sembra abbastanza forte e può lavorare nei campi o nelle miniere.

Quando l’ha portato al caravanserraglio, ha scoperto che lo schiavo con il viso deturpato conosceva l’altro schiavo, quello che Nawfal gli ha venduto a basso prezzo, uno che non ha bisogno del vetriolo per essere brutto, ma è valoroso e ha salvato il suo padrone. Per il povero Nawfal non è stato sufficiente: ma nessuno può sfuggire al destino che Iddio ha scelto per lui.

Ora Mufeed lascia Damasco con i suoi servitori e i due nuovi schiavi, dirigendosi verso Aleppo. Viaggia con numerosi altri mercanti: una precauzione contro le bande di infedeli che spesso attaccano le carovane arabe. E non ci sono solo i cani cristiani: vi sono anche briganti tra coloro che seguono il Profeta. Credenti che non esitano ad attaccare altri credenti, a rubare le merci, a uccidere chi cerca di resistere, che il Sommo li punisca nelle fiamme della Geenna. Come quel maledetto che si fa chiamare Hamza e che tutti temono.

Il nuovo schiavo rimane sempre silenzioso. È docile e fa quanto gli viene ordinato. Mufeed si chiede spesso perché Nawfal ha deciso di sbarazzarsi di lui dopo che gli aveva salvato la vita. Nawfal è stato ucciso la notte stessa. Forse Iddio onnipotente lo ha punito per non essere stato generoso. Sta scritto che Iddio ama le anime generose.

Il viaggio sembra svolgersi senza intoppi. Aleppo non è lontana: sarebbero già giunti se un forte vento dell’Est non avesse portato la sabbia del deserto sulla pista, in una tempesta che ha impedito loro di proseguire e li ha costretti a fermarsi. Ma domani sera, se Allah vuole, ci arriveranno.

Nel pomeriggio, quando ormai è quasi ora di fermarsi per la loro ultima notte di viaggio, i mercanti vedono una nuvola di polvere levarsi da una pista che scende dalle colline. Mufeed sa che cosa significa: cavalieri al galoppo, con ogni probabilità briganti.

La carovana si ferma. I mercanti vogliono tentare una difesa: sono in tanti, si sentono forti, sono sicuri che Iddio li guiderà. Mufeed dice che è follia, cerca invano di convincerli a non resistere: meglio perdere le merci che la vita. Gli altri non ascoltano, rifiutano di arrendersi senza combattere. Intanto i cavalieri si stanno avvicinando a gran velocità. Uno di loro, il capo, grida:

- Sono Hamza. Arrendetevi e avrete salva la vita.

Al sentire il nome di Hamza, uno dei briganti più temuti, a Mufeed pare di svenire. Supplica ancora i compagni di cedere e implorare pietà. Ma i suoi compagni sono giovani, forti e imprudenti. Uno di loro risponde per tutti:

- Ci difenderemo fino all’ultimo, cani!

I briganti si avventano sui mercanti.

Mufeed si dice che il suo ultimo giorno è arrivato. Perché i suoi compagni hanno reagito? Si illudono che riusciranno a respingere i briganti solo perché sono superiori di numero? È una follia: oltre a perdere le merci, perderanno anche la vita. Questa che hanno di fronte è gente abituata a combattere, che sa maneggiare la spada e la scimitarra come i mercanti sanno fare i conti.

Quasi a confermare le paure di Mufeed, Hamza, dopo aver trapassato con la spada uno dei suoi servitori, si avventa su di lui. Mufeed lo guarda, gli occhi sbarrati, paralizzato dal terrore. Non ha un’arma, non ha mai combattuto. Cade in ginocchio, mormorando:

- Testimonio che non vi è dio se non Iddio e che Muhammad è l'inviato di Dio.

Ma lo schiavo franco dai capelli rossi ha preso la scimitarra di un guerriero morto ed è balzato addosso al capo dei briganti. Questi non si aspettava un attacco da parte del ragazzo e si avventa su di lui, convinto di poterlo uccidere senza fatica. Hamza ha sottovalutato il suo giovane avversario e questo è il suo ultimo errore: Denis para il colpo, fa una finta e poi immerge la scimitarra nel petto di Hamza.

Il capo dei briganti lancia un urlo. Tutti guardano nella direzione dell’uomo, che barcolla, poi crolla in ginocchio. China la testa e vomita sangue. Denis abbassa con forza la scimitarra, recidendo di netto la testa del brigante, il cui corpo cade disteso al suolo. Poi infila l’arma nella testa recisa e la solleva. C’è un momento di panico tra gli attaccanti e i difensori ne approfittano per rovesciare le sorti dello scontro e mettere in fuga gli assalitori.

Tutti sono intorno allo schiavo. Gli fanno i complimenti: la sua azione ha salvato l’intera carovana. Mufeed ad-Din si avvicina. Gli tremano ancora le gambe e non si è accorto di essersi pisciato addosso. Mufeed abbraccia il suo schiavo. Mufeed non è un ingrato. Le sue prime parole sono:

- Il Corano dice: “Per coloro che credono e saranno generosi, ci sarà ricompensa grande”. Sei libero, cristiano.

 

Giunti a Damasco, Mufeed fa preparare tutti i documenti necessari per l’affrancamento dello schiavo cristiano. Gli altri mercanti della carovana hanno raccolto una somma consistente e la danno a Denis: senza l’intervento dello schiavo avrebbero perso i loro beni e le loro vite.

Denis d’Aguilard è di nuovo padrone di sé. E mentre sta per accomiatarsi, vede Mathieu che lo guarda. Allora si rivolge a Mufeed e gli dice:

- Vendimi lo schiavo con il viso deturpato.

Mufeed accetta. Si fa dare il prezzo che ha pagato per Mathieu, nulla di più.

 

*

 

Egbert attende nella cella. Non ha notizie di Tancrède dal mattino. Si chiede se l’hanno ucciso, se gli hanno inflitto uno di quei supplizi atroci in cui i saraceni eccellono.

È notte quando sente dei passi e la porta viene aperta. Alla luce della lanterna può vedere Tancrède, pallido. La guardia se ne va subito e la cella torna nel buio. Dalla finestrella entra la luce della luna, che illumina solo un riquadro della stanza.

- Conte! Temevo che vi avessero ucciso.

Tancrède si siede. Ha scritto di suo pugno la lettera con il patto infame. È un traditore e dovrà rispettare quel patto, per non perdere l’onore e la vita. Dovrà disonorarsi per conservare l’onore.

A Egbert non vuole parlarne: sa bene che il sassone non approverebbe e rifiuterebbe la libertà a quel prezzo.

- Credo che riusciremo a sistemarla, Egbert. Ho firmato alcune carte che permetteranno a un intermediario di farsi dare la somma del riscatto.

La cella è immersa nel buio, ma la voce di Tancrède tradisce l’angoscia.

- Non sembrate contento come dovreste essere, conte.

- Ho passato ore infernali. Mi hanno fatto assistere a un’esecuzione prima, poi mi hanno lasciato ad aspettare all’infinito.

Tancrède racconta. Tutto, tranne la verità.

E poi lascia che Egbert lo stringa, lo spogli e lo prenda.

 

*

 

Mathieu si è chiuso in un mutismo feroce. Denis conosce bene il silenzio del dolore, ma in Mathieu non legge solo sofferenza: c’è anche rabbia, molta, una rabbia cieca, che vorrebbe distruggere il mondo.

Ad Aleppo, nei tre giorni in cui rimangono in città prima di unirsi a una carovana di mercanti cristiani, Mathieu non parla quasi mai. Denis rispetta la scelta del suo compagno. Il primo giorno hanno camminato per strada e sono stati oggetto di battute: qualcuno ha detto che sono tutti e due brutti come il diavolo o come la morte, un altro che quello coi capelli rossi gira con lo sfregiato per apparire bello. Denis ha compreso benissimo ciò che dicevano di loro e anche Mathieu ha colto almeno il senso di quei commenti: dopo un anno di prigionia è in grado di capire l’arabo.

Denis si è occupato da solo di procurarsi tutto l’occorrente per il viaggio e di prendere accordi con i mercanti. E poi ha visitato la città. È rimasto ad ammirare la cittadella, in cima a una piccola collina: una fortificazione formidabile, che domina Aleppo. Si è perso per le vie coperte del mercato, che si aprono in improvvisi slarghi da cui è visibile il cielo. Ha camminato fino ai campi circostanti. Aleppo è la più bella città che abbia mai visto, assai più di Gerusalemme o di Baruth o di Tiro. Gli pare più bella anche di Damasco, che però Denis ha avuto modo di vedere appena e non di visitare. Forse solo la leggendaria al-Hamra, quella che i franchi chiamano Rougegarde, è più bella di Aleppo, ma Denis d’Aguilard non ha mai visto la perla della Terrasanta, saldamente in mano ai saraceni.

Denis va in uno dei numerosi bagni pubblici della città. Rimane a lungo nella stanza calda, satura di vapore. Poi si lava e infine, dopo essersi rivestito, si stende sui tappeti per bere il tè. Avverte una sensazione di profondo benessere. Non si trova in una situazione facile: non ha amici, non ha parenti, non ha un lavoro, nulla. Ma è un uomo libero e sta per tornare in territorio franco.

Il quarto giorno la carovana si mette in movimento, diretta verso Antiochia. La marcia procede senza incontrare difficoltà, tra valli dei monti del Libano che Denis non ha mai percorso. Molto in alto si vede ancora la neve, ma nelle vallate che attraversano la vegetazione è ricca: Denis può ammirare i maestosi cedri, le querce, i cipressi, i pini. Ogni tanto in lontananza scorge uno sciacallo o un falco in volo. Lungo la pista sorgono villaggi e altri si possono vedere arroccati sui fianchi delle montagne.

Denis ritrova dentro di sé la curiosità nei confronti di tutto ciò che è nuovo, il piacere di scoprire altre realtà.

Denis e Mathieu non parlano molto con i compagni di viaggio: Denis è di poche parole e Mathieu non apre mai bocca. Il suo comportamento stupisce gli altri viaggiatori, che però non dicono nulla. L’unico a chiedere è Riccardo Micheles, che viaggia con il padre e lo zio Giovanni. Riccardo ha appena dodici anni, è al suo primo viaggio in Terrasanta ed è curioso di tutto. Domanda se Mathieu è muto e alla risposta negativa di Denis gli chiede perché non parla e perché ha il viso deturpato. Denis risponde in modo generico alla prima domanda e quanto alla seconda, dice la verità: non lo sa. È sicuro che ciò che gli ha raccontato Mathieu, quando si sono ritrovati a Damasco, è una menzogna.

Una volta giunto in territorio cristiano, Denis comunica a Mathieu la sua intenzione di raggiungere i guerrieri con cui hanno combattuto, quelli che sono ancora vivi. Mathieu non vuole più combattere, ma chiede di venire con lui fino a Gerusalemme.

Passano insieme diverso tempo, ma, come ad Aleppo e durante il viaggio fino ad Antiochia, non si dicono quasi nulla: Mathieu tace sempre, a meno che non debba rispondere a una domanda o chiedere qualche cosa; Denis non è loquace per natura e non cerca di forzare il suo compagno a parlare.

Ad Acri Denis si procura l’equipaggiamento per la guerra: è ciò che gli servirà per guadagnarsi da vivere. Potrebbe anche comprarsi un cavallo e arruolarsi come cavaliere, ma spenderebbe quasi tutto il suo denaro e non è sicuro di trovare subito un ingaggio.

Dopo qualche giorno scopre che il conte Tancrède d’Espinel e Egbert di Hagon sono giunti da poco in città, dopo essere stati liberati dai saraceni. Denis si chiede se andare a trovarli: sono stati catturati insieme e liberati più o meno nello stesso periodo. Ma Denis è perfettamente conscio della distanza che lo separa dal conte e da Egbert, due uomini che sono conosciuti e stimati e hanno entrambi diversi anni in più di lui. Tra di loro non può esistere nessuna amicizia, al massimo Denis potrebbe chiedere al conte di prenderlo al suo servizio come soldato, ma preferisce rivolgersi a Chrétien da Bayonne, per cui lui e suo padre hanno combattutto in passato.

Denis sa che Mathieu aveva rapporti con il sassone. Si chiede se dirgli che Egbert è di nuovo un uomo libero e si trova in città. Dopo aver riflettuto, decide di farlo. Mathieu non dice nulla e Denis si pente di aver parlato. Ma qualche ora dopo, con stupore di Denis, Mathieu dice che vorrebbe parlare con il conte e con Egbert e chiede a Denis di accompagnarlo. Denis acconsente.

Alla porta della residenza del conte, Denis dice i loro nomi e spiega che hanno combattutto e sono stati catturati con lui. Poi chiede di parlare al conte o a Egbert di Hagon. L’attesa è breve: il servitore torna subito e li fa entrare.

Quando fanno il loro ingresso nella sala, Mathieu guarda il conte ed Egbert. Legge nel loro sguardo la sorpresa e poi lo stesso malcelato disgusto che appare sul viso di tutti quelli che lo vedono. Mathieu non dice nulla, anche se è lui che ha chiesto il colloquio: si chiude in un mutismo completo. È Denis a raccontare le loro vicende. Il conte chiede a Mathieu come mai è stato sfregiato. Solo allora Mathieu parla: risponde brevemente che è stato il suo padrone, perché ha cercato di fuggire. È la stessa risposta che ha dato a Denis, di fronte alla stessa domanda. Denis è sicuro che si tratti di una menzogna, ma ha finto di crederci. Mathieu non dice altro durante il colloquio.

Di fronte al mutismo di Mathieu, Denis si limita ad ascoltare quanto il conte gli dice e a rispondere con poche parole alle sue domande. Poi saluta.

Egbert lo abbraccia forte:

- Sei un giovane valoroso, Denis d’Aguilard, e sono sicuro che farai fortuna.

Il conte dice a Denis che se in futuro avrà bisogno di qualche cosa, può rivolgersi a lui: è una promessa molto vaga. Denis si dice che eviterà di chiedere al conte, a meno che non ci siano alternative. Ringrazia e si accomiatano. Tornano alla locanda in cui alloggiano. Mathieu rimane chiuso nel suo ostinato silenzio.

 

Dopo cena, quando si stendono per dormire, nel buio della stanza, Mathieu dice:

- Un tempo mi desideravi.

Denis vorrebbe rispondere che quel tempo è lontanissimo. Non è passato solo un anno: sono intere vite, generazioni. Di quel desiderio non è rimasto nulla e non solo perché il viso di Mathieu può ispirare unicamente orrore. Ma Denis avverte la sofferenza di Mathieu, la sua disperazione. E allora allunga la mano sul corpo che nel buio della stanza può vedere appena. Accarezza il viso di Mathieu, scende sul collo e poi sul torace. Scivola fino al ventre.

Mathieu si avvicina Denis, si stringe contro di lui. Denis lo abbraccia, gli accarezza la schiena, il culo.

Mathieu si scioglie dall’abbraccio. Denis sente le labbra di Mathieu premere contro il suo uccello, che viene inghiottito dalla bocca. La lingua accarezza la cappella e in Denis il desiderio si tende, sempre più forte. Mormora:

- Mathieu!

Mathieu lavora con la bocca, la lingua, i denti. Quando l’uccello di Denis è teso al massimo, Mathieu si volta, dando la schiena a Denis e appoggiandosi contro di lui.

Denis si bagna le dita e inumidisce l’apertura. Per la prima volta sta per possedere un altro corpo, per la prima volta conoscerà il piacere di un rapporto. Ma Denis sa bene che a guidarlo è la pietà, non il desiderio.

Ora Denis avvicina il suo uccello all’apertura. Preme leggermente: ha paura di fare male. Poi con lentezza entra. Per la prima volta sente il calore di un culo che avvolge il suo uccello, il piacere che dà muoversi dentro un fodero caldo. Si muove con lentezza, accarezzando Mathieu. Gli stringe l’uccello tra le dita, lo accarezza: vuole che Mathieu goda con lui.

Denis spinge con forza crescente, man mano che il desiderio lo trascina. La sua mano si muove con decisione. Denis sente l’ondata del piacere arrivare, inghiottirlo, trascinarlo in alto e poi abbandonarlo. La sua mano completa l’opera e il seme di Mathieu schizza.

Denis bacia Mathieu dietro la nuca e gli dice:

- Grazie.

Si accorge che Mathieu ha incominciato a piangere. Lo accarezza, mentre lo tiene tra le braccia, ma Mathieu si stacca, quasi con rabbia.

Denis non dice nulla. Si ritrae. A un certo punto scivola nel sonno.

Più tardi è un rumore a svegliarlo. Mathieu si sta alzando. Potrebbe aver bisogno di pisciare, ma Denis si accorge che sta vestendosi. Poco dopo lo sente frugare tra gli abiti: sta cercando la borsa con il denaro.

Quelle monete servono a Denis: non possiede altro e in attesa di trovare una sistemazione il denaro avuto dai mercanti saraceni è la sua unica risorsa. Ma Denis rimane immobile e non dice nulla.

Mathieu ha trovato quello che cercava. Prende la borsa e lascia la stanza.

Denis si dice che forse è meglio così.

 

 

II – La spedizione

III – Il Cane dagli occhi azzurri

IV – I briganti

V – Rougegarde

VI – L’ultimo tradimento

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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