| 
   
 7 Nella caserma al Cap il
  tenente Bernaud aspettava. Era tornato da otto giorni, ma il maggiore
  Verneuil non l’aveva ancora chiamato. Quell’attesa era un’altra forma di
  tortura, la più dolorosa. Il maggiore lo ignorava. Lui era stato via una
  dozzina di giorni e non veniva chiamato. Eppure Gaspard Bernaud sapeva
  benissimo che il maggiore desiderava un loro incontro quanto lui. Gaspard fremeva ed il suo
  corpo ardeva, ma si rifiutava di spegnere il suo desiderio da solo: il
  maggiore era l’unico proprietario del suo corpo e gli aveva vietato di
  toccarsi.  Infine, la sera, un soldato
  venne da lui. - Il maggiore l’aspetta.       Gaspard
  annuì, e si avviò verso l’appartamento del maggiore, sotto lo sguardo del
  soldato. Sapeva che cosa pensava quell’uomo, come tutti gli altri soldati: il
  maggiore l’avrebbe inviato in qualche missione pericolosa. Questo era quanto
  si credeva, quanto il maggiore faceva credere.       Qualche
  volta in effetti Gaspard era stato utilizzato in imprese rischiose: era il
  miglior tenente di stanza al Cap. Ma le missioni da cui Bernaud tornava a
  volte malconcio, zoppicante, con segni di violenza sulla faccia, erano ben
  altre. Ed una di questa stava per incominciare.       Gaspard
  bussò alla porta. - Avanti. Il maggiore era seduto alla
  scrivania e lo guardò per un attimo, un ghigno di disprezzo stampato in
  faccia.       - Ah, è lei, Bernaud.        Come
  se non lo sapesse benissimo, era stato lui a convocarlo!       -
  Sì, signor maggiore. Mi ha mandato a chiamare?       -
  Sì.       Il
  maggiore non disse altro. Riprese a controllare le sue carte, lasciando
  Bernaud in piedi, sull’attenti, davanti a lui. Si muoveva come se Bernaud non
  esistesse, come se nella stanza non ci fosse nessun altro.       Passarono
  almeno venti minuti prima che il maggiore alzasse la testa e lo guardasse,
  quasi stupito di vederlo lì, come se avesse dimenticato la sua presenza.       -
  Calati i pantaloni, Bernaud.       L’ordine
  era stato dato senza che l’espressione della faccia del maggiore cambiasse in
  alcun modo.       Bernaud
  slacciò la cintura e lasciò cadere i pantaloni.       -
  Anche le mutande, stronzo. Devo dirti tutto?        Bernaud
  eseguì. L’asta guizzò fuori, tesa allo spasimo.       -
  La solita troia!       Il
  maggiore si alzò lentamente. Il rigonfio dei pantaloni non lasciava nessun
  dubbio sulla sua eccitazione, ma Bernaud tacque.        Il
  maggiore prese dalla scrivania un frustino per cavalli. Bernaud ebbe un
  leggero fremito.       -
  Non riesci proprio a controllarti, troia?       Il
  maggiore era dietro di lui. Bernaud, i pantaloni calati ed il sesso duro come
  una roccia, attendeva.       Il
  colpo arrivò secco, sulla natica. Il dolore al culo fu subito forte, ma
  Bernaud non si mosse. Un secondo colpo, più forte del primo, lacerò la pelle
  e Bernaud fece fatica a rimanere impassibile.       Altri
  due colpi moltiplicarono il dolore. Era come un ferro ardente che si posava
  sulla carne e per un attimo rimaneva fermo, ustionando, per poi ritirarsi.       La
  punta del frustino ora correva lungo il solco tra le natiche di Bernaud. Il
  tenente si tese. Una goccia di sborro apparve sulla cappella.       -
  Sei una troia, Bernaud.       La
  punta del frustino stuzzicava l’apertura tra i fianchi. Bernaud sentiva la
  tensione crescere.       -
  Appoggiati alla scrivania, troia.       Bernaud
  fece due passi in avanti, impacciato dai pantaloni che aveva attorno alle
  caviglie, e si appoggiò sul ripiano, piegando le braccia.        Il
  colpo del frustino, proprio sul solco, quasi gli strappò un gemito.       -
  È quello che vuoi, no, troia? Prima di prendertelo in culo, vuoi sentire la
  frusta.       Era
  vero, lo sapevano entrambi e quel gioco lo avevano giocato molte volte, ma
  sempre con nuove variazioni ed era proprio l’incertezza su ciò che lo
  aspettava ad eccitare Bernaud allo spasimo.       Il
  frustino passò tra le gambe divaricate di Bernaud e stuzzicò i coglioni del
  tenente. Bernaud deglutì.        -
  Hai ubbidito ai miei ordini? O ti sei fatto una sega come un ragazzino?       -
  Non mi sono mai toccato, maggiore.       La
  frustata sul culo fu più violenta delle precedenti.       -
  Hai scopato con qualcuno?       -
  Sì, signor maggiore.       Nel
  loro patto, questo non era vietato, ma Bernaud sapeva benissimo quali
  conseguenze avrebbe avuto la sua confessione. Ogni piacere preso al di fuori
  del loro rapporto sarebbe stato pagato, a caro prezzo.       -
  Bravo. Ti sei fatto mettere un grosso cazzo in culo?       -
  No, signor maggiore.       -
  Hai succhiato un cazzo?       -
  No, signor maggiore.       -
  Perché no? A te piace. Vero che ti piace?       -
  Sì, signor maggiore.       -
  E allora, perché non l’hai fatto?       -
  Era un ragazzo, signor maggiore.       Il
  colpo ai coglioni arrivò da sotto, molto leggero, ma il dolore fu tanto
  intenso che Bernaud fu sul punto di perdere i sensi. L’estremità del frustino
  stuzzicava i coglioni doloranti, senza lasciare un attimo di tregua. Bernaud
  sentiva le lacrime salirgli agli occhi, ma si dominò.       -
  Gliel’hai messo in culo?         -
  Sì, signor maggiore.       La
  pressione del frustino divenne più forte. Bernaud chinò il capo, cercando di
  trattenere l’urlo che gli saliva da dentro e gli premeva in gola.       -
  Te lo sei fatto succhiare?       -
  Sì, signor maggiore.       Il
  nuovo colpo fu più deciso. La testa di Bernaud ebbe un guizzo, le mani che
  premevano sulla scrivania cedettero ed il tenente si afflosciò.       Immediatamente,
  mentre lottava per non svenire, sentì la pressione del grosso cazzo del
  maggiore che gli entrava in culo. Il dolore, violento come sempre, lo scosse
  e gli restituì la lucidità. Il maggiore aveva spinto con forza ed il cazzo
  era entrato fino in fondo.       -
  Allora, troia, ti è piaciuto?       Gaspard
  trovò la voce per dire:       -
  Sì, signor maggiore.       Ed
  era la verità, perché malgrado il dolore terribile, Gaspard era eccitato al
  massimo.       Il
  maggiore si ritrasse completamente e Gaspard sentì l’arma formidabile uscire
  da lui.       Un
  colpo deciso del frustino sul culo lo fece sobbalzare.       In
  quel momento l’arma avanzò nuovamente, si spinse fino in fondo ed ebbe inizio
  un intenso movimento. Bernaud si sforzò di non gemere, ma il dolore era
  violento ed il piacere altrettanto intenso.       Una
  spinta più forte gli strappò un urlo che non riuscì a ricacciare in gola.       -
  Taci, troia!       I
  colpi divennero sempre più forti e la sofferenza tanto intensa da mozzargli
  il fiato. Una mano del maggiore gli passò sotto il culo e gli afferrò i
  coglioni doloranti.       A
  quel ruvido contatto, Bernaud urlò di nuovo. Il maggiore strinse.        Gaspard
  cercò di controllare l’urlo, ma le lacrime gli scesero lungo le guance.       In
  quel momento le spinte raggiunsero il parossismo e Gaspard sentì lo sborro
  del maggiore riempirgli il culo.       Le
  spinte rallentarono, la mano che stringeva i coglioni diede una strizzata e
  la massa che riempiva il culo scomparve.       -
  Finisci di spogliarti.       Gaspard
  fece per girarsi, ma un colpo violentissimo al culo lo bloccò.       -
  Non ti ho detto che puoi voltarti!       Gaspard
  si liberò degli indumenti, che poggiò sulla scrivania.       -
  Voltati e prendilo in bocca.       Gaspard
  ubbidì. Si mise in ginocchio e fece per prendere in bocca il cazzo del
  maggiore, ma un violento ceffone lo prese in pieno sulla faccia. Il maggiore
  rise.       Bernaud
  protese di nuovo il capo per eseguire l’ordine, ma gli arrivò un nuovo
  ceffone, che questa volta gli fece sanguinare il labbro. Il maggiore rise di
  nuovo.       Per
  la terza volta il tenente cercò di prendere in bocca il cazzo, che stava
  nuovamente irrigidendosi, ma un altro colpo gli fece colare sangue dal naso.       Bernaud
  non si scoraggiò e tentò ancora di ubbidire all’ordine ricevuto, ma ogni
  volta un colpo violento glielo impediva.       Stordito,
  Gaspard rinunciò al tentativo ed allora il maggiore lo prese per i capelli e
  lo attirò a sé, infilandogli con prepotenza il cazzo in bocca, fino in fondo,
  finché l’arma poderosa gli bloccò il respiro. Il tenente cercò di respirare
  con il naso, ma ad ogni spinta del maggiore i peli del pube quasi gli
  chiudevano le narici.       Il
  maggiore venne una seconda volta e Gaspard bevve, cercando di non perdere una
  goccia. Il culo e la gola gli facevano male, ma il cazzo era una lama
  d’acciaio.       Il
  maggiore rise. Gli diede una sberla violenta, poi un’altra. Con il piede lo
  spinse a terra.       Intontito
  dai colpi, Bernaud aspettava. Tra poco sarebbe stato il suo turno e la
  pressione intollerabile del suo cazzo sarebbe esplosa in un piacere
  indicibile.       Il
  comandante poggiò la punta dello stivale sul cazzo di Bernaud, mentre il
  tacco premeva sui coglioni doloranti. La pressione divenne più forte e
  Gaspard gemette, prima una volta, poi altre, mentre in tutto il suo corpo la
  tensione raggiungeva il culmine e si scioglieva in un getto impetuoso, che
  gli ricadde sul ventre, sul torace e sul mento.       Il
  maggiore mosse ancora il piede sul suo ventre, poi si mise in piedi sopra di
  lui, i due piedi poggiati a terra, a lato del corpo di Gaspard. Incominciò a
  pisciare, irrorando il tenente. Qualche schizzò di piscio colpì gli stivali.       Quando
  ebbe finito, il maggiore si guardò gli stivali e disse:       -
  Ci sono degli schizzi. Puliscili con la lingua.       Gaspard
  fece per sollevarsi, ma una violenta pedata lo ributtò a terra.       -
  Mettiti sdraiato a pancia in giù.       Gaspard
  eseguì. Ora il ventre poggiava sulla pozza formata dal piscio del maggiore.
  Leccò con cura gli stivali.       Quando
  ebbe finito aveva di nuovo il cazzo in tensione.       -
  Mettiti in ginocchio.       Gaspard
  eseguì. Il maggiore scosse la testa.       -
  Sei di nuovo in calore.       Gaspard
  chinò il capo.       Il
  maggiore posò il frustino e prese una frusta. Passò dietro a Gaspard.       -
  Inizia a farti una sega.       Gaspard
  ubbidì, ma appena la sua mano si posò sul cazzo, un colpo violento si abbatté
  sulla sua schiena. Gaspard lasciò per un attimo la presa, ma subito
  riavvicinò la mano ed incominciò a muoverla rapidamente, mentre la frusta si
  abbatteva su di lui.       I
  colpi furono cinque ed al quinto Gaspard venne.       Il
  maggiore si tirò su i pantaloni e li chiuse.       -
  Pulisci bene per terra. Domani mattina tornerai nella tua camera.       Ed
  uscì senza voltarsi. *       I
  primi giorni Louis fece fatica a sopportare il silenzio forzato. In diverse
  occasioni avrebbe voluto poter spiegare la preparazione o l'uso di una
  medicina, dare una notizia precisa su qualche prigioniero.        Con
  il passare del tempo si rese conto che riusciva a farsi capire e soprattutto
  a capire assai meglio gli altri. Ora che non parlava, li ascoltava,
  realmente, ne leggeva gli sguardi, i gesti, con una sicurezza che a volte lo
  spaventava. Non doveva più pensare a tenere a freno la lingua. Si concentrava
  nel suo lavoro e commetteva meno errori.        Si
  sentì alleggerito, come se avesse buttato via un inutile fardello, e più
  sicuro di sé. Ma non era solo questo: nel silenzio trovava una forza che
  prima non aveva mai sentito. Era una forza che gli veniva dall'interno e che
  gli permetteva di affrontare l'angoscia che tutti riversavano su di lui, di
  dominare la paura.       I
  primi giorni era vissuto con la paura: sapeva benissimo che, anche se
  all'accampamento non c'era un medico o un curatore, non doveva illudersi di
  poter sopravvivere a lungo. Ora, che era ancora più sicuro che sarebbe stato
  ucciso, gli sembrava di essere in grado di affrontare la sua morte e le
  sofferenze che l'avrebbero accompagnata.       La
  sua vita proseguì come nei giorni precedenti, a parte il tormento della sete
  e delle ferite agli angoli della bocca: con le erbe riusciva ad evitare che
  l'infezione delle due piaghe progredisse, ma non poteva curarla
  completamente, perché aveva quasi sempre il bavaglio.        Spesso
  uno dei carcerieri, quando apriva la porta per portarlo fuori, gli ricordava
  che lui sarebbe stato uno dei prossimi. Louis lo sapeva. Kestania stava
  imparando in fretta. Gli mancavano ancora molte conoscenze, ma ormai sapeva
  l’essenziale sulla cura delle malattie più comuni e sul trattamento delle
  ferite.        Un
  giorno Kestania gli disse:       -
  Tutto quello che hai fatto oggi, lo so fare anch'io. Non hai altro da
  insegnarmi?       Louis non
  rispose. C'erano farmaci il
  cui uso era meno frequente, ma non poteva spiegarlo a gesti, né usarli per
  curare casi inesistenti. C'erano erbe che non crescevano in quella zona. Ma
  tutto questo non serviva. Pensò che Kestania sarebbe stato un buon guaritore.
  Almeno, avrebbe saputo usare bene le erbe. Forse anche lui avrebbe dovuto
  passare attraverso il fuoco per essere veramente un guaritore.       Il
  giorno successivo la figlia di uno degli aiutanti di Jeannot fu colpita da
  una febbre violenta. Louis rimase a curarla, alternando medicine diverse. La
  cura richiedeva una presenza costante e quel giorno Louis si assentò solo per
  brevi momenti, su richiesta di qualche malato. Anche dalle donne fece solo
  una breve visita. Verso sera la febbre era leggermente diminuita, ma la
  bambina non era ancora fuori pericolo.          
  La guardia voleva riportarlo alla capanna.       -
  Deve dormire con gli altri.       Il
  padre della bambina si oppose.       -
  No, la bambina ha bisogno delle sue cure.       -
  La può curare Kestania.       Era
  vero, il giovane aveva assistito Louis per tutta la giornata, ponendogli
  molte domande, e probabilmente era in grado di somministrare i medicinali nel
  modo giusto. Ma Kestania rifiutò:       -
  No, non ne sono capace. Morirebbe.       -
  Va' a dire a Jeannot che il dottore dorme qui. È sotto la mia sorveglianza.       -
  Bada, se cerca di scappare è la fine anche per te.       -
  Non temere.       Kestania
  se ne andò. Uscendo lanciò uno sguardo a Louis e poi al padre della bambina.       Louis
  passò la notte al capezzale della piccola, senza dormire. Man mano che la
  febbre calava, variava il dosaggio delle medicine. Alla fine della notte la
  bambina era fuori pericolo. Louis lo fece capire al padre, poi si stese nella
  capanna per riposare un po'.       Il
  nero guardò la figlia, poi mise una mano sulla spalla di Louis e con l'altra
  gli indicò la porta. Louis scosse la testa; tese l'indice in direzione
  dell'abitazione di Jeannot, poi indicò il nero, la donna e la bambina e fece
  il segno di tagliare la gola. L'uomo chinò la testa. Louis si stese
  nuovamente e riposò. Più tardi arrivò la guardia e venne anche Kestania.
  Quando ripresero il loro giro, Kestania gli disse:       -
  Hai fatto male a non andartene. Ormai manca poco.       Mancava
  poco. Lo sospettava. Due mesi erano passati da quando era stato imbavagliato.
         Kestania
  non si sbagliava. Quello stesso giorno Louis venne portato da Jeannot.       -
  Allora, Kestania, hai imparato abbastanza dal dottore?       -
  Ho imparato molto, ma non abbastanza. Ogni giorno imparo cose nuove.        Louis
  fu stupito, il ragazzo non si rendeva certo conto dei propri limiti. Stava
  cercando di salvarlo. Ma Jeannot era ormai stufo. Decise che il prossimo
  prigioniero al palo sarebbe stato lui e che avrebbero cominciato quattro
  giorni dopo.       Louis
  sapeva che le date fissate venivano sempre rispettate. Aveva ancora quattro
  giorni, quattro giorni da vivere.       La
  sua ora era arrivata. Aveva paura, ma non più nel modo violento di quando lo
  avevano catturato, di quando aveva risposto a Jeannot. Accettava la sua morte
  ed anche la sofferenza. Aveva visto troppo dolore, per poter pensare di
  esserne esente. Per poterlo volere.        La
  notizia si diffuse nel campo molto rapidamente.       Tra
  i neri alcuni lo guardavano ghignando, qualcuno gli disse in faccia che era
  ben contento all'idea di vederlo crepare presto, ma molti non dissero nulla.
  Negli occhi di alcuni Louis lesse solidarietà o pietà. Molti di quelli che
  aveva curato più a lungo, quando si avvicinava guardavano a terra. Se
  alzavano lo sguardo, nei loro occhi Louis spesso leggeva la vergogna.       Anche
  le donne erano venute a saperlo. Si strinsero angosciate intorno a lui,
  sperando in una smentita. Era inutile ingannarle. Louis confermò. Ci fu un
  momento di profonda disperazione, che colpì Louis e lo fece soffrire più del
  pensiero della propria morte. Non voleva provocare altro dolore: ognuna di
  quelle donne ne aveva avuto a sufficienza.       Cercò
  di consolarle. Le sue mani cercarono i movimenti giusti. Non si rese nemmeno
  conto che stava consolandole per la sua morte. Fu Madeleine a dirlo:       -
  Lei va a morire e consola noi.       Pensò
  che era giusto, perché per lui sarebbe finito ogni dolore, mentre loro
  avrebbero sofferto della sua morte, aggiungendo dolore ad altro dolore.       Il
  giorno seguente, quando giunsero nuovamente al recinto delle donne, Louis
  prese Kestania per il braccio, per farlo entrare. Kestania si irrigidì:       -
  Ho detto che dalle donne non vado.       Louis
  lo guardò. Avrebbe voluto dirgli che se era un guaritore, lo doveva essere
  per tutti, ma non sapeva se Kestania avrebbe capito. Kestania distolse lo
  sguardo. Louis entrò da solo.       Negli
  ultimi giorni l'attività di Louis fu molto intensa. Fece ripetere a Kestania
  ciò che gli aveva insegnato e fu contento di vedere che il ragazzo se la
  cavava bene. Fece una provvista di erbe per le donne e le mostrò a Kestania
  prima di portarle. Kestania capì e disse che avrebbe provveduto a rifornire
  le prigioniere, ma ribadì che non le avrebbe curate.        Infine,
  venne l'ultimo giorno. Le visite furono anche un addio. Quella dalle donne fu
  molto dolorosa. Louis si accomiatò da tutte e molte, quando se le strinse al
  petto, scoppiarono a piangere. Louis le teneva strette fino a che smettevano.       Madeleine
  era rimasta in disparte, con le lacrime agli occhi. Ma quando Louis si
  avvicinò, fu lei a prenderlo tra le braccia e a stringerlo a sé. Louis
  appoggiò il suo viso sul seno della donna e pianse.       Sapeva
  di non piangere perché stava per morire o almeno di non piangere la sua
  morte. Piangeva l'infinita angoscia di quei due mesi trascorsi al campo,
  delle morti, delle torture, del dolore che gli altri avevano riversato su di
  lui. Ora quella sofferenza l'aveva riempito completamente e traboccava. Era
  bello poter piangere su qualcuno, qualcuno in grado di raccogliere un po' di
  quel dolore. 
 8       Nella
  capanna, alcuni degli altri prigionieri gli espressero la loro solidarietà.
  Louis però sapeva bene che a tutti, o quasi, importava ben poco di lui: non
  aveva fatto molto per farsi amare. E per alcuni sapere che quel giorno
  avrebbero ucciso lui era quasi un sollievo: voleva dire che avevano un altro
  giorno di vita davanti, che non era ancora il loro turno.        Il
  mattino seguente li portarono tutti fuori e li fecero assistere ai
  preparativi: faceva parte dello spettacolo.       C'erano
  dei pali piantati nel terreno. Lì venivano spesso legati i prigionieri per
  essere torturati. Due neri stavano attaccando su un palo alcune travi
  orizzontali. Poi i due presero alcuni lunghi chiodi di ferro e li piantarono
  sul lato posteriore delle travi, in modo che la punta sporgesse di qualche
  centimetro sul davanti. Louis capì a che cosa servivano: aveva visto e
  sentito abbastanza per sapere che uno dei divertimenti di Jeannot era quello
  di vedere i prigionieri procurarsi da soli sofferenza e morte. Lui sarebbe
  stato legato a quel palo, con una corda che gli avrebbe lasciato poca
  possibilità di movimento: quel tanto da non farsi infilzare dai chiodi.
  Quando avesse perso i sensi o comunque non fosse più riuscito a stare in
  piedi, il corpo si sarebbe appoggiato alle travi ed i chiodi lo avrebbero
  trafitto. Non erano abbastanza lunghi da ucciderlo, ma gli avrebbero inflitto
  una nuova sofferenza.  Poi i due piantarono
  numerosi chiodi più sottili ed acuminati attraverso un'assicella, che venne
  fissata perpendicolarmente al palo, abbastanza in basso. Finché fosse rimasto
  in piedi, l'avrebbe avuta tra le gambe. Quando non fosse più riuscito a
  reggere, gli aghi gli avrebbero trapassato i testicoli ed il sesso.       Gli
  sembrava che la sua mente registrasse tutti i dettagli, ragionasse su ciò che
  vedeva, senza che ci fosse una reazione, un’emozione qualsiasi, come se gli
  fosse del tutto indifferente.  La sua vita finiva. A che
  cosa era servita? Aveva curato i malati, aveva salvato Guillaume, aveva
  cercato di dare consolazione. Qualche cosa di buono aveva fatto.        Dopo
  aver concluso la preparazione del palo, le guardie ricondussero tutti i
  prigionieri nella capanna. L'esecuzione sarebbe cominciata nel pomeriggio e
  si sarebbe conclusa il giorno successivo, come più volte era capitato.
  Jeannot non aveva fretta, gli piaceva gustare lo spettacolo un po' per volta.       Era
  abbastanza tardi quando vennero a prenderlo. Nella capanna lo slegarono, lo
  fecero spogliare completamente, poi lo spinsero fuori. Non gli tolsero il
  bavaglio.  C'era molta gente, venuta
  ad assistere da tutto l’accampamento, e il suo arrivo fu accolto da risate e
  commenti. Giunti davanti al palo, gli passarono una corda ai piedi, una al
  collo ed una alle mani, legandole al legno. Le corde erano della lunghezza
  giusta per permettergli di rimanere un po’ scostato dai chiodi.       Ci
  fu un momento di silenzio. Il carnefice si avvicinò e guardò Jeannot. Questi
  si rivolse a Louis:       -
  Bene, dottore, ti avevo detto che sarebbe venuto anche il tuo turno. Non hai
  niente da dire?       Jeannot
  sogghignò. Poi proseguì.       -
  La lingua te la tagliamo domani. Perciò, se vuoi dire qualche bella frase,
  hai tutta la notte per pensarci.       Louis
  lo guardava e riprovò, molto più forte, la sensazione di due mesi prima: lui
  era lontano, quell'uomo non poteva raggiungerlo.       Jeannot
  fece un segno. Il carnefice appoggiò il coltello sullo zigomo ed incise la
  guancia destra fino al mento. Non era un taglio profondo. Il dolore fu
  intenso, ma ben presto si ridusse, fino a diventare perfettamente
  tollerabile.       Sapeva,
  perché lo aveva visto e lo aveva sentito raccontare, che ora sarebbe passato
  un certo tempo. Jeannot non aveva fretta. Avrebbe aspettato. Si rese conto
  che in realtà non stava aspettando, non era in attesa del secondo colpo. Lui
  era da un'altra parte. Non sapeva dov'era, ma era lontano. Sapeva anche che
  stava negando a Jeannot il suo divertimento e che questo lo avrebbe spinto ad
  essere ancora più feroce.       Un
  quarto d'ora dopo, il carnefice fece un secondo taglio sul costato, sempre a
  sinistra. Anche questo un taglio non profondo, ma lungo, da subito sotto la
  clavicola all'ultima costola.       Poi,
  sempre a distanza di un quarto d'ora l'uno dall'altro, vennero un terzo
  taglio, al ventre, ancora sul lato sinistro, un quarto taglio, alla coscia
  sinistra e poi quattro tagli corrispondenti dalla parte destra. Ogni taglio
  sul lato destro era perfettamente simmetrico a quello sul lato sinistro:
  Jeannot era un artista e gli piacevano i lavori ben fatti.       Nessuno
  degli otto tagli era profondo, nessuno era mortale. Louis si sentiva debole,
  ma il dolore era tollerabile.       La
  notte era ormai scesa. L'ultimo taglio glielo avevano fatto, alla luce delle
  torce, quando il cielo era ormai blu scuro. Sapeva che non avrebbe retto per
  molto tempo ancora. Riportarono i prigionieri dentro la capanna. La gente si disperse.
  Anche il carnefice e le guardie se ne andarono. L'indomani mattina lo
  avrebbero ritrovato infilzato sui chiodi, l'avrebbero risvegliato, ed
  avrebbero proseguito la loro azione: dopo l'antipasto, la grande abbuffata.       Louis
  sentì i rumori del campo attenuarsi, poi scese il silenzio. Provava un senso
  di vuoto e di pace. Il tempo passava. Stava cedendo. Cercava di resistere, ma
  le forze gli mancavano. Presto avrebbe perso i sensi e i chiodi l’avrebbero
  risvegliato. Improvvisamente sentì delle
  urla, poi degli spari. Ora c'erano parecchie voci. L'accampamento era in
  subbuglio. Che cosa succedeva? Louis pensò che, qualunque cosa stesse
  succedendo, per lui non aveva più molta importanza. Stava cedendo.       Qualcuno
  si stava avvicinando. Un gruppo di uomini che non conosceva, tra loro
  l'aiutante di Jeannot di cui lui aveva curato la figlia. L'uomo gli passò la
  destra dietro la schiena, tenendolo a distanza dai chiodi, e la sinistra
  sotto i testicoli, mentre gli altri recidevano le corde che lo bloccavano. Louis
  sentì la pressione delle mani del nero sul suo corpo e si lasciò andare.
  Perse i sensi. Non vide che il nero lo prendeva in braccio e lo portava fino
  all'accampamento di Biassou, un altro capo.       I
  capi-banda avevano deciso di eliminare Jeannot, la cui ferocia ostacolava un
  accordo con i bianchi. L'esecuzione di Louis aveva suscitato molto
  malcontento e gli altri capi avevano valutato che fosse il momento giusto per
  intervenire, penetrando nel campo di Jeannot, impadronendosi di lui e
  giustiziandolo subito. * Guillaume andò a dormire,
  seguito da Robert.  Jean incominciò a
  prepararsi. Quella era la notte in cui finalmente avrebbe pareggiato i conti.
  Quel bastardo sarebbe morto. Dopo, Jean sarebbe fuggito, avrebbe raggiunto i
  neri in rivolta. Ed un giorno sarebbe ritornato in quella casa da padrone.
  Perché quella casa apparteneva a lui, lui era l’ultimo dei Grossetête. Doveva aspettare un po’,
  per essere sicuro che dormissero, ma non voleva farlo tanto tardi, doveva
  avere il tempo di allontanarsi, prima che scoprissero i cadaveri. Nella sua
  camera, Jean ripassò mentalmente le cose da fare. Dopo aver ucciso Guillaume
  e Robert, avrebbe dovuto sgozzare anche Rose: la donna poteva sentirlo mentre
  prendeva le cose di valore che erano in casa. Ed in ogni caso il mattino
  seguente avrebbe scoperto che il padrone era morto ed avrebbe dato l’allarme
  molto presto. Meglio ucciderla e ritardare un po’ la scoperta. Dopo aver sgozzato Rose,
  avrebbe raccolto in un sacco tutto quanto poteva vendere facilmente. Sarebbe
  uscito dalla città prima dell’alba e nessuno lo avrebbe più catturato. Di lì a poco sarebbe andato
  a controllare che non ci fosse luce nella camera di Guillaume. Poi avrebbe
  lasciato passare un’ora e li avrebbe uccisi. Guillaume dormiva nel letto.
  Robert dormiva con lui, come era probabile, o sulla stuoia ai piedi del
  letto? Non poteva saperlo, ma non aveva molta importanza. Era meglio che
  ammazzasse prima Robert, che era più forte.       Robert
  posò la candela accanto al letto. Guillaume incominciò a spogliarsi. Era
  bello togliersi i vestiti mentre Robert lo guardava. Sapeva che anche a
  Robert piaceva. Quando fu nudo, Guillaume attese che Robert si svestisse.        Robert
  però rimase a guardarlo, senza dire una parola, sorridendo. Era un sorriso un
  po’ beffardo. Guillaume si avvicinò e, silenziosamente, prese a spogliarlo.
  Gli sfilò la giacca, poi le sue mani scesero sui fianchi del nero, estrassero
  la camicia e la sollevarono fino a toglierla. Robert lasciava fare,
  assecondando i movimenti di Guillaume, in modo da permettergli di denudarlo,
  ma senza partecipare attivamente.       Robert
  era a torso nudo e Guillaume chinò il viso per baciargli il torace, gli morse
  leggermente un capezzolo, poi si inginocchiò davanti a lui, gli slacciò la
  fibbia e gli calò i pantaloni e le mutande.       Guardò
  il sesso del nero, già rigido. Lo aveva ad una spanna dal viso e nuovamente
  lo prese il desiderio di accoglierlo in bocca, di succhiarlo, di leccarlo, ma
  temeva che Robert lo disprezzasse. Che cosa avrebbe pensato se il suo padrone
  si fosse messo a succhiargli l’uccello?       Si
  alzò, si avvicinò alla candela e con un soffio la spense. Poi guardò il corpo
  di Robert, ancora visibile nella luce lunare che entrava dalla finestra.       Robert
  si tolse le scarpe e raccolse i pantaloni che giacevano al suolo. Il
  desiderio lo faceva fremere, ma mille dubbi si affacciavano nella sua testa.
  Per un attimo aveva pensato che Guillaume glielo avrebbe succhiato. Lo
  desiderava, con tutta l’anima, ma non poteva certo chiederlo. Guillaume era
  il padrone e questo doveva fare attenzione a non dimenticarlo.        Eppure
  c’erano momenti in cui Guillaume sembrava essere solo il Guillaume ancora
  bambino che non conosceva differenze, che giocava insieme a lui. Ora
  giocavano ancora, ma tutti e due sapevano benissimo quali erano i propri
  ruoli.       La
  schiavitù sarebbe stata davvero cancellata? E se avesse ottenuto la libertà,
  che cosa avrebbe fatto? Non voleva lasciare Guillaume.       Guillaume
  si era di nuovo avvicinato. Lo abbracciò.       -
  Che cos’hai questa sera?       Forse
  sarebbe stato il momento di parlare, ma quel contatto gli bruciava la pelle e
  Robert si trovò a stringere il corpo che lo allacciava, ad accarezzarne la
  schiena, a baciare la bocca che gli offriva, a spingere la lingua tra i
  denti, mentre sentiva contro il ventre i due tizzoni ardenti, ugualmente
  gonfi e tesi.       Con
  una mano scese lungo la schiena di Guillaume, raggiunse il culo, un dito si
  aprì il varco tra i fianchi e quando stuzzicò l’apertura Guillaume gemette.
  Robert lo spinse sul letto, senza togliere il dito, gli mordicchiò una
  spalla, poi gli passò la lingua sui capezzoli ed infine, lo voltò,
  sistemandolo a pancia in giù, il torace sopra lenzuolo, il culo sul bordo del
  letto. Guillaume aprì le gambe.       Che
  cosa si provava a prenderselo in culo? Guillaume sentiva piacere, un piacere
  tanto violento che a volte veniva. Era davvero così bello? Che cosa avrebbe
  provato se Guillaume lo avesse penetrato?       Era
  una domanda assurda. Guillaume era il padrone e faceva quello che voleva.       Scacciò
  le domande e si abbandonò al piacere che saliva. Afferrò con forza il culo di
  Guillaume, pizzicò, morse, più volte, strappando gemiti soffocati, poi
  avvicinò l’asta all’apertura, ne bagnò la punta con la saliva ed entrò,
  prendendo possesso del suo regno. Era uno schiavo, ma il corpo del padrone
  gli apparteneva. Per quei momenti intensi era davvero suo. Il resto non aveva
  importanza.              Incominciò
  a muoversi con forza. Era bello sentire la carne cedere, tenere tra le mani
  quel culo, avere vicino alla sua bocca la testa di Guillaume, che accoglieva
  i suoi baci.       Dopo
  che furono entrambi venuti, rimasero ancora un buon momento ad accarezzarsi.
  E nuovamente nella testa di Robert guizzavano pensieri che lo disturbavano.
  Ma Guillaume lo provocava, lo mordeva, mentre Robert cercava di tenerlo
  fermo. Ad un certo punto lo spinse giù dal letto, ma Robert lo afferrò per le
  gambe e lo costrinse a scendere.       Si
  amarono sul pavimento e questa volta il gioco fu più violento. Vennero
  entrambi, uno dopo l’altro, e rimasero un momento, sazi, al suolo. Poi si
  alzarono, si pulirono e si misero sotto il lenzuolo.       Erano
  a letto da pochi minuti, quando Robert si rese conto che qualcuno stava
  aprendo la porta con molta cautela. Da tempo sospettava che Jean stesse
  architettando qualche cosa ed aveva messo in guardia il padrone. Pensò che si
  trattasse di lui.       Mise
  una mano sulla bocca di Guillaume, perché tacesse. Guillaume non capì subito,
  ma poi vide il battente che si apriva. Robert ritirò la mano e rimase
  immobile. Una testa fece capolino, guardando dentro.       Quando
  l’intruso avanzò nella stanza, Robert intuì che era effettivamente Jean. In
  mano stringeva qualche cosa, probabilmente un’arma, sì, un coltello.       Jean
  si stava avvicinando al letto. Doveva essere ben sicuro di sé per pensare di
  poterli ammazzare entrambi con un coltello, ma in effetti, se fossero stati
  addormentati, avrebbe potuto colpire al cuore uno dei due e se l’altro fosse
  stato svegliato dal rumore della lama che lacerava la carne o da un ultimo
  gemito, sarebbe stato trafitto a sua volta prima di rendersi conto di ciò che
  stava succedendo.       Jean
  era ormai vicinissimo al letto. Alzò la lama per uccidere.       Allora
  Robert si mise a sedere di scatto e gli bloccò il polso con la sinistra, mentre
  con la destra gli sferrava un pugno in faccia. Non lo colpì in pieno e Jean
  non mollò il coltello. Robert, senza lasciare la presa, saltò su di lui e
  rotolarono a terra. Jean era forte, ma Robert era più giovane.        Guillaume
  si alzò e si avvicinò, per dare man forte a Robert, ma la lotta si concluse
  subito. Si sentì un urlo strozzato ed i due corpi si immobilizzarono.       Guillaume
  si sentì gelare. La voce non gli era sembrata quella di Robert, ma non poteva
  esserne sicuro.       In
  quel momento Robert si rialzò. Ai suoi piedi rimase Jean, mentre una grande
  macchia scura si allargava intorno a lui.       Guillaume
  tremava. Robert accese una candela. Jean aveva il coltello piantato nel
  torace, poco sotto il cuore. Stringeva ancora l’impugnatura nella sua mano:
  Robert era riuscito a dirigere la lama verso il suo avversario e con il
  proprio peso l’aveva fatta affondare nel corpo di Jean.       Robert
  avvicinò la candela al viso di Jean. Respirava ancora, a fatica. C’era uno
  sguardo di odio nei suoi occhi. Cercò di dire qualche cosa, ma del sangue gli
  uscì dalla bocca. Ebbe un sussulto, poi rimase immobile.           
   
 9       Louis
  riprese conoscenza solo nel pomeriggio del giorno successivo. Si sentiva
  ancora debole, ma le ferite non gli facevano quasi più male. Passando una
  mano sui tagli scoprì che mentre riposava qualcuno vi aveva spalmato un
  unguento. Anche le piaghe agli angoli della bocca erano state medicate, ma
  rimaneva un dolore sordo, che divenne subito acuto quando provò ad aprire la
  bocca.       Era
  solo in una capanna, immersa nella penombra. Con una certa fatica si mise
  seduto, poi si alzò in piedi. Le gambe lo reggevano. Ancora una volta era
  sfuggito alla morte. Per quanto?       Mentre
  era in piedi, alla porta della capanna si affacciò un uomo, un nero sui
  vent'anni. Lo vide e gli disse:       -
  Aspetta.       L'uomo
  si allontanò e tornò poco dopo accompagnato da un nero meno giovane. Il
  ragazzo si mostrava molto deferente nei confronti dell'altro, che doveva
  avere una posizione importante.        -
  Sta meglio?       Louis
  annuì.       -
  Bene. So che lei è un medico e che è molto bravo. Avrei piacere che vedesse
  un malato. Dubito che ci sia qualche cosa da fare, ma non voglio lasciare
  nulla di intentato.       Louis
  annuì di nuovo. Non se la sentiva di parlare, ma l'uomo sembrava accettare il
  suo silenzio senza stupirsi.       Il
  giovane prese dalla parete la borsa in cui Louis teneva le sue erbe. Louis
  non si era nemmeno accorto che fosse lì. Si infilò un vecchio paio di
  pantaloni, laceri e sporchi, che qualcuno aveva appeso alla parete, poi
  uscirono dalla capanna. Louis vide che si trovava in un ampio accampamento,
  con molte capanne e ripari costruiti tra gli alberi. In giro si vedevano solo
  neri. Camminando, un po’ a fatica, seguì l'uomo che scendeva verso il
  torrente. Guardandosi intorno, vide alcune donne bianche che lavavano panni.
  Tra di loro riconobbe Hélène, che aveva curato all'accampamento di Jeannot.
  Quindi i prigionieri erano stati portati qui. Per subire che sorte?       L'uomo
  camminò lungo il torrente, fino ad arrivare ai margini dell'accampamento. Qui,
  vicino ad una macchia di vegetazione più fitta, sorgeva una capanna isolata.
  L'uomo si fermò sulla soglia e con la testa indicò l'interno. Louis si
  affacciò e vide un uomo disteso nella penombra. Entrò nella capanna e
  riconobbe Llera.        Fu
  stupito di vedere che non era morto alla Fierté, ma si rese conto subito che
  era malato: era smagrito ed il suo colorito era terreo. Un acre odore di
  sudore e di escrementi riempiva la capanna. Si chinò al suo fianco e gli
  toccò la mano. Era caldissima.        Sentendosi
  toccare, Llera aprì gli occhi e lo guardò. Per un momento non sembrò neppure
  vederlo, poi lo riconobbe.         -
  Il dot...tore ... che parla... troppo. Non mi ... tirerà fuo... ri. La mia
  ora...        Non
  completò la frase, non riusciva più a parlare, era esausto. Louis gli tastò
  il collo, poi gli aprì la bocca ed ebbe una conferma ai suoi sospetti: la
  lingua era gonfia, come pure le ghiandole del collo.        Llera
  stava morendo di una malattia relativamente rara, tipica delle zone di
  palude, che non perdonava. I suoi maestri gli avevano insegnato che la
  malattia poteva essere arrestata se presa in fase iniziale, somministrando
  alcuni decotti, ma in fase avanzata diventava impossibile far bere il malato,
  che vomitava, e più tardi la lingua era talmente ingrossata che nulla
  passava: il malato moriva di sete o di asfissia. Era una morte orrenda.       Louis
  si chiese che cosa poteva fare. In quel momento arrivò un uomo anziano, che
  si mise al suo fianco.       -
  Ho provato a farlo bere, ma da questa mattina vomita ogni volta che gli do
  anche solo un sorso.        Louis
  fissò Llera negli occhi. L'uomo sapeva di essere condannato a morte, ma
  sembrava avere sulle labbra un mezzo sorriso, una specie di ghigno, mentre lo
  guardava. Quasi volesse dirgli che era curioso di vederlo alla prova, ora.       Avrebbe
  provato. Nel suo sacco aveva le erbe che gli servivano. Le tirò fuori e
  l'uomo più anziano gli disse:       -
  Se vuole metterle sul fuoco, qui c'è tutto l'occorrente.       Poi
  aggiunse:       -
  Io ripasserò più tardi. Qualsiasi cosa le serva, Pilon rimane qui a sua
  completa disposizione.       Louis
  preparò con cura il fuoco e mise le erbe nell'acqua. Lasciò che l'acqua
  bollisse per il tempo necessario, poi prese il recipiente e rientrò nella
  capanna. Sollevò Llera, mettendolo a sedere. Gli avvicinò la ciotola fumante
  alle labbra, in modo da inumidirle appena, poi la posò. Lasciò passare un po'
  di tempo, poi la riprese e cercò di versare poche gocce sulla lingua. Llera
  si contorse in un conato di vomito, poi cominciò a tremare. Louis lo mise
  nuovamente disteso. L'uomo era scosso da un tremore violento, che si calmò
  solo lentamente e sembrò lasciarlo ancora più sfinito.       Quando
  smise di tremare, Llera lo guardò e gli sorrise. Un sorriso diverso da prima,
  sembrava quasi che volesse dirgli che non aveva importanza. Poi chiuse gli
  occhi.       Louis
  rimase seduto al suo fianco e si sforzò di pensare, ma nella sua testa gli
  sembrava ci fosse un vuoto. Guardò nuovamente Llera. Cominciò a passare in
  rassegna le diverse erbe che conosceva ed i loro effetti. Ciò che gli avevano
  insegnato non era sufficiente. Doveva trovare soluzioni nuove. Pensò a come
  poteva combinare le erbe. Doveva riuscire a ridurre il gonfiore della lingua,
  altrimenti Llera sarebbe soffocato, e doveva eliminare la reazione di vomito,
  per non farlo morire di sete.       Erano
  passate due ore, quando si alzò. Llera non si era risvegliato. Respirava a
  fatica. Louis si mise sulla soglia della capanna. Era ormai sera. Si avvicinò
  subito il giovane che era rimasto di guardia, quello che l'anziano aveva
  chiamato Pilon. Gli chiese:       -
  Rimani qui o torni a mangiare alla tua capanna?       Louis
  gli fece segno che sarebbe rimasto lì. Pilon se ne andò. Tornò poco dopo con una ciotola piena di
  cibo. Louis si rese conto di quanto affamato fosse. Non mangiava dal mattino
  precedente. Divorò il cibo. Quando ebbe finito e posò la ciotola, pensò a
  Llera, che non era in grado di mangiare. Anche questo avrebbe indebolito il
  suo organismo.       Rientrò
  nella capanna. Si stese accanto a Llera e continuò a pensare alle possibili
  cure. Accanto a sé sentiva il respiro pesante ed irregolare di Llera.
  Probabilmente non avrebbe più ripreso conoscenza. Ad un certo punto Louis si
  addormentò.        Più
  tardi Pilon entrò e lo scosse. Alla luce della torcia lo guardò
  interrogativamente. Louis gli fece segno che sarebbe rimasto lì a dormire.       Il
  mattino dopo si svegliò molto presto, cominciava appena ad albeggiare.
  Accanto a lui Llera respirava affannosamente. Ne aveva ancora per due giorni,
  forse meno. Louis aveva un'idea. Non sapeva quando e come gli fosse venuta,
  non si ricordava di esserci arrivato con un ragionamento. Sapeva solo che
  aveva un'idea.       Mise
  alcune foglie a bagno, le lasciò per un po' di tempo, poi le avvolse in un
  sacchetto e le mise sulla fronte di Llera. Non sarebbero servito a curarlo,
  ma almeno gli avrebbero dato un po' di frescura. Poi gli bagnò le labbra, più
  volte.       In
  quel momento arrivò Pilon con la colazione. Louis la prese e l'uomo fece per
  andarsene, ma Louis gli fece segno di rimanere. Mangiò rapidamente, poi si
  guardò intorno. Per trovare quello che cercava, doveva salire, sopra la zona
  degli alberi più fitti. Fece segno a Pilon che voleva andare in alto e che
  gli facesse strada. Il giovane gli disse:       -
  Vuoi salire sulla montagna?       Louis
  annuì.       -
  Per cercare erbe per curare?       Louis
  annuì nuovamente.          -
  Aspetta.       Si
  allontanò rapidamente e ritornò di lì a poco con un fucile. Si avviò e Louis
  lo seguì.       Lasciarono
  l'accampamento e cominciarono a salire. Louis era ancora debole e procedeva
  più lentamente di quanto avrebbe voluto. Dopo un'ora si trovarono in una zona
  più brulla, da cui Louis poteva vedere meglio il territorio circostante.
  Individuò un’area in cui avrebbe potuto trovare quello che gli serviva. La
  indicò a Pilon, che fece strada. In breve vi arrivarono.        Louis
  cominciò a raccogliere erbe. Non erano quelle che cercava, ma sapeva che
  avrebbero potuto essergli utili. Si spostarono poi più avanti, fino a che
  Louis trovò i piccoli frutti di cui aveva bisogno. Ne raccolse alcuni. Poi
  fece segno a Pilon che potevano andare.        Era
  stanco, ma dovevano muoversi in fretta. Llera stava morendo. Due volte nella
  discesa Louis fece cenno a Pilon di accelerare il passo. Giunsero rapidamente
  ai piedi della collina dove sorgeva l'accampamento.              Nella
  capanna l'odore era più forte e più aspro; il respiro di Llera era diventato
  più irregolare. Louis calcolò che se i suoi tentativi non avessero ottenuto
  nessun effetto, l'uomo sarebbe morto soffocato quella notte stessa. La
  malattia stava procedendo più rapidamente del previsto.       Louis
  prese i frutti che aveva raccolto, ne schiacciò alcuni con cura, ottenendo
  una pasta densa. Poi si mise di fianco a Llera e nuovamente lo sollevò. Il
  corpo era inerte. Louis cercò di aprirgli la bocca, ma i denti erano serrati
  e non riusciva a schiuderli. Adagiò Llera per terra ed uscì. Sulla soglia
  della capanna Pilon aspettava. Al suo fianco portava un coltello. Louis
  glielo indicò. L'uomo lo fissò negli occhi un momento, poi prese il coltello
  e glielo diede. Louis sollevò nuovamente il corpo di Llera e cominciò a far
  pressione con le dita sui muscoli della mandibola. Sentì un leggero
  movimento. Allora infilò il coltello tra i denti e fece di nuovo pressione,
  sempre massaggiando i muscoli. La bocca si aprì leggermente.       La
  lingua era enorme e scura, quasi nera. Louis prese la pasta che aveva
  ottenuto con i frutti e cominciò a spalmarla sulla punta della lingua. Poi,
  servendosi di uno straccio e di un bastoncino, la spalmò ancora più
  all'interno, su tutta la superficie. Il frutto era tossico, ma, usandolo in
  quantità limitata, Louis sperava di non provocare danni. Sperava: non aveva
  certezze, ma non c'erano alternative.       Posò
  di nuovo il corpo e preparò il decotto che serviva per bloccare il decorso
  della malattia.       Mezz'ora
  dopo sollevò nuovamente Llera. Il frutto aveva fatto effetto, perché la bocca
  non era più serrata come prima e la lingua era meno gonfia, anche se
  chiaramente irritata. Come aveva previsto, il frutto aveva ridotto il
  gonfiore.       Tenendo
  sollevato Llera, Louis gli versò una goccia del decotto sulla lingua.
  Aspettò. Poi un'altra goccia. Proseguì così per oltre un'ora. Quando ebbe
  finito di dargli goccia a goccia il contenuto dell'intera scodella, si
  distese, privo di forze. In quel momento arrivò il guaritore che era venuto
  il giorno precedente.       Osservò
  Llera, poi si rivolse a Louis:       -
  Lei non si è fatto nessun impacco: deve curarsi.       L'uomo
  gli spalmò un medicinale sulle ferite da taglio ed un altro sulle piaghe ai
  margini della bocca, poi se ne andò.       Louis
  rimase disteso ancora un momento, poi si rialzò. Toccò la fronte di Llera:
  era ancora caldissima. La febbre non accennava a diminuire. Gli fece un
  secondo impacco.              Per
  il resto del giorno Louis non si mosse dalla capanna. Pilon passava spesso
  a  chiedere se aveva bisogno di qualche
  cosa e gli portava da mangiare e da bere. Gli aveva lasciato il suo coltello.
   Louis diede a Llera altre
  tre volte il decotto e verso sera, poiché la lingua era nuovamente gonfia,
  ripeté il trattamento con i frutti. Fece un ulteriore impacco che mise sulla
  fronte del malato e si distese.       Il
  mattino seguente si risvegliò molto presto. Llera aveva ancora una febbre
  molto alta, ma la lingua era meno gonfia e Louis pensò con sollievo che non
  doveva più far ricorso al frutto, i cui effetti conosceva solo in parte.
  Ripeté il trattamento con il decotto.       Stava
  finendo, quando arrivò Pilon, che si sedette ed aspettò che avesse concluso,
  guardandolo.       -
  Puoi lasciarlo, ora? C'è bisogno di te.       Louis
  annuì, anche se, come sempre dopo il trattamento, era esausto.       Pilon
  lo accompagnò da un uomo che aveva una brutta ferita al fianco. La ferita non
  era stata curata nel modo giusto ed aveva fatto infezione. Lo assisteva il
  guaritore che aveva medicato Louis. Questi gli spiegò la situazione e gli
  chiese consiglio. Louis si sedette e cominciò a pensare. Poi fece segno che
  sarebbe tornato più tardi ed andò alla capanna.       Mentre
  dava nuovamente il decotto a Llera, Louis rifletté, fino a giungere ad una
  possibile soluzione. Dopo aver finito, si distese a riposare. Si alzò dopo un
  quarto d'ora, meditò ancora un buon momento, modificando la soluzione
  individuata, poi prese la sua borsa e raggiunse la capanna in cui c'era
  l'uomo ferito. Cominciò a preparare un miscuglio di erbe, sotto gli occhi
  attenti dell'uomo anziano.        Quando
  ebbe finito, tornò da Llera. La febbre non calava, ma la lingua era
  decisamente meno gonfia. Louis fece segno a Pilon che voleva mangiare e
  questi disse che gli avrebbe portato qualche cosa. Louis scosse la testa ed
  indicò Llera.       -
  Per lui? Che cosa può mangiare?       Louis
  fece segno a Pilon di accompagnarlo dove poteva trovare cibo. In una capanna
  ottennero quello che Louis cercava: zucchero. Tornato da Llera, Louis provò a
  dargli acqua e zucchero a piccoli sorsi e vide che riusciva a farlo bere
  senza che vomitasse.        Poi
  andò a trovare l'altro paziente.       Pilon
  ritornò da lui.       -
  I prigionieri ti hanno visto. Le donne chiedono che tu vada da loro.       Louis annuì
  e seguì Pilon. Le donne lo
  accolsero con grande gioia: non avendolo più visto, avevano pensato che fosse
  morto la notte dell'esecuzione, anche se gli uomini avevano detto che  non era stato ferito a morte.       Le
  donne facevano molte domande, ma Louis rispondeva solo a gesti.       -
  Non può parlare?       Difficile
  rispondere. Non poteva, non voleva? Non se la sentiva, forse.        -
  Che cosa le hanno fatto?       Louis
  scosse la testa. Fu Madeleine a capire:       -
  Non vuole parlare?       Molte
  non capirono, facevano fatica ad accettare che lui non parlasse. Non ci
  misero però molto ad abituarsi: da tempo comunicavano con lui solo attraverso
  i gesti.       Ora
  poteva curare anche gli uomini, quelli che erano sopravvissuti. Pochi, quasi
  nessuno di quelli che aveva incontrato il primo giorno nella capanna. Anche
  loro si stupirono del suo silenzio.       Louis
  non aveva riflettuto sul suo silenzio. Non aveva deciso di non riprendere a
  parlare. Semplicemente non l'aveva fatto, non ne aveva sentito il bisogno.
  Nei primi giorni in cui aveva portato il bavaglio, gli veniva istintivo
  cercare di parlare. Poi, però, si era abituato ed ora non ne avvertiva l’esigenza.       Tornò
  nella sua capanna. Llera aveva ancora la fronte caldissima, ma le sue
  condizioni lo preoccupavano di meno. Gli diede ancora acqua e zucchero e vide
  che non vomitava. Poi si fece portare dell’acqua e con uno straccio lavò il
  corpo. Infine si spalmò sulle ferite l'impasto curativo e si stese. Era
  completamente senza forze.       Il
  mattino seguente Louis si rese conto che la febbre di Llera era leggermente
  scesa. Farlo bere e nutrirlo era più facile, anche se ancora lungo. Nel
  pomeriggio Llera aprì gli occhi. Louis non sapeva se era cosciente o meno, ma
  a sera, quando lo stese nuovamente, dopo avergli dato il decotto curativo ed
  un altro per nutrirlo, vide che lo fissava e gli parve di vedere un leggero
  sorriso sulle sue labbra.       Il
  giorno dopo la febbre era ulteriormente calata e Louis si sentì abbastanza
  sicuro della guarigione. Doveva solo aiutarlo a riprendere gradualmente
  l'abitudine ad assumere cibo. Gli versava il decotto, che ora beveva senza
  troppa fatica, e gli faceva bere succhi di frutta, a cui aggiungeva lo
  zucchero che gli portava Pilon.        La
  sera del quarto giorno, dopo che gli ebbe dato da mangiare, Louis lavò Llera,
  poi lo depose sul giaciglio. Allora Llera sollevò la mano e la poggiò sul
  viso di Louis. Louis sentì la leggera pressione del palmo sul naso e sulle
  labbra, le dita sulla fronte. Dentro di sé avvertì una sensazione di calore e
  di benessere che lo sorprese. Sorrise e carezzò la guancia di Llera.       Il
  giorno seguente, per la prima volta, Llera parlò. Gli disse solo:       -
  Grazie.       Ora
  nutrirlo non creava nessun problema. Nei giorni successivi il miglioramento
  fu rapido: presto Llera riuscì a mettersi a sedere, sia pure con l'aiuto di
  Louis, e riprese a nutrirsi di cibi solidi.        Come
  all'accampamento di Jeannot, Louis girava curando feriti e malati. I bianchi
  volevano che fosse lui a curarli, i neri utilizzavano il guaritore, ma alcuni
  di coloro che erano stati al campo di Jeannot si rivolgevano a lui ed il
  guaritore lo chiamava in tutti i casi difficili. A differenza degli altri
  bianchi, Louis era libero di muoversi per tutto il campo. Pilon gli
  raccomandò soltanto di non allontanarsi senza di lui.       -
  Sarebbe molto pericoloso. Quando vuoi andare in giro, ti accompagno io con il
  fucile.       Pilon
  passava spesso a chiedergli se aveva bisogno di lui.         Il
  sesto giorno, quando Louis rientrò da uno dei suoi giri e diede da mangiare a
  Llera, questi lo fissò e gli disse:       -
  Non può parlare?       Louis alzò
  le spalle.       -
  Non le hanno tagliato la lingua o fatto qualche cosa del genere, no?       Louis
  scosse la testa.       -
  Bene, allora tutto è a posto. Quando avrà qualcosa da dire, parlerà.       Louis
  sorrise, imitato da Llera.       -
  Chi l'avrebbe detto: il mio dottore che parlava troppo!       Il
  sorriso di Louis si allargò.        -
  Sono sicuro che non parlerà più come prima. È cambiato molto. Basta vedere
  come si muove.       Le
  parole di Llera stupirono Louis. Non pensava che ci fossero stati cambiamenti
  esteriori. Dentro, sì, era cambiato, molto, di questo si era reso conto.       -
  L’uomo che le ha fatto da maestro aveva ragione: lei è passato attraverso il
  fuoco ed ora è diventato un guaritore. E non solo.       Louis
  sorrise. Non sapeva che cosa era diventato, ma stava bene. La vita
  nell'accampamento non aveva l'angoscia infinita del campo di Jeannot.        Nel
  pomeriggio Llera decise di alzarsi.       -
  Devo fare i miei bisogni. Ora posso alzarmi. Non deve più pulirmi.       Louis
  scosse la testa.       -
  Ma mi sento bene.        Llera,
  che era seduto, fece per sollevarsi, ma Louis scosse nuovamente la testa e
  gli appoggiò due dita sulla spalla, spingendolo verso il basso. Era una
  pressione leggera, ma Llera cedette.       -
  Lei non è un guaritore, lei è un brujo.       Louis
  sorrise. Sapeva che cosa voleva dire brujo in spagnolo: stregone.                      Nei
  giorni successivi Llera cominciò ad alzarsi, a muoversi, a nutrirsi
  regolarmente. In breve tempo si fu completamente ripreso. Erano forse passati
  quindici giorni dall'arrivo di Louis al campo, quando Llera lo salutò.       -
  Grazie di tutto. Ora me ne vado. Devo badare a molte cose e mi sono
  trattenuto qui troppo a lungo. Ma mi è andata bene: ci rimanevo per sempre,
  se non era per lei.       Llera
  se ne andava. Non era prigioniero, dunque. Louis non sapeva che cosa pensare.
  Come se avesse letto i suoi pensieri, Llera rispose.        -
  No, non sono prigioniero. Ho buoni rapporti con alcuni dei capi della rivolta
  e sono venuto qui di mia volontà, quando ho capito che ero ammalato. Speravo
  che il loro guaritore potesse aiutarmi, ma non c'è riuscito. Per i casi
  disperati serve un brujo.       Sorrise.
  Un ampio sorriso.        -
  Per fortuna l'ho trovato. Ora vado, ma noi ci ritroveremo.       Louis
  era in dubbio. In quei tempi, la loro vita non valeva molto. La sua, poi,
  prigioniero dei neri in rivolta, poteva essere spezzata in qualunque momento.       -
  So che cosa pensa, ma noi ci ritroveremo: io ho sette vite e ne ho spese solo
  due o tre. Lei è un brujo e morirà quando lo deciderà. Qui, comunque, non
  corre rischi. Non sono feroci con i prigionieri e per quelli come lei c'è un
  grande rispetto. E poi ci tengo a rivederla.              Louis
  dubitava di poter scegliere l'ora della propria morte, ma anche lui avrebbe
  incontrato ancora volentieri Llera. Sorrise e gli tese la mano. Questi non
  gliela prese, ma, con una mossa rapida, fece un passo in avanti e lo
  abbracciò stretto.       -
  Grazie.       Il
  calore dell'abbraccio lo lasciò con un senso di gioia e di pace. *       Jorge
  Llera raggiunse il Cap senza incidenti. Era un po’ che non si presentava in
  città, ma sapeva che la casa di Gabriel Bédoire era sempre aperta per lui.        Gabriel
  era un uomo piuttosto alto ed alquanto largo: un fisico potente, appesantito
  da un grande amore per la buona tavola e dal passare degli anni. Gabriel
  aveva vent’anni in più di Jorge ed era stato compagno di avventure del padre
  di Jorge, quel famoso Miguel Llera le cui gesta erano note a tutti
  nell’isola. Per lui Jorge era il “ragazzino”, che aveva protetto nei momenti
  di pericolo. Ma Jorge era cresciuto e Gabriel aveva imparato che il
  ragazzino, degno figlio di suo padre, ne sapeva una più del diavolo. Ognuno
  dei due aveva salvato la vita all’altro in più di un’occasione e la loro
  fiducia reciproca era assoluta.       Llera
  fece un resoconto dell’ultimo periodo e parlò della malattia a cui era
  scampato per miracolo. Bédoire gli raccontò dei disordini che si verificavano
  in città, delle tensioni tra neri, mulatti e bianchi, che esplodevano in
  crimini feroci, e delle notizie terribili che giungevano da tutta l’isola.       Llera
  passò il pomeriggio sbrigando diversi affari. Incontrò alcuni conoscenti e
  ricevette due inviti per la sera successiva, uno dai Verneuil ed un secondo
  da un’altra famiglia che frequentava quando veniva al Cap.       Fu
  un po’ stupito di quegli inviti in una città che, secondo la descrizione di
  Bédoire, rischiava un bagno di sangue da un momento all’altro. Lui stesso
  aveva osservato i cadaveri dei giustiziati, lasciati esposti come monito per
  chi tramava rivolte.       Ne parlò con Gabriel quella sera stessa,
  prima di mettersi a dormire. - Continuano i
  festeggiamenti al Cap, come se niente fosse?       -
  Certo, si balla e ci si ritrova ancora più di prima, a cene e serate mondane.
  Sai com’è: nessuno sa quando sarà il suo turno e tutti pensano che sia meglio
  godersi quanto rimane.       -
  Saggia filosofia.       Gabriel
  rise.       -
  Sapevo che l’avresti condivisa. E dato che non sappiamo bene se non saremo assassinati
  questa notte da uno schiavo o da qualche bandito, che ne diresti di godercela
  un po’ anche noi, ragazzino?       Fu
  il turno di Jorge di ridere. L’idea gli piaceva, era parecchio che non
  scopava e ne aveva proprio bisogno. Non che gli mancassero le occasioni in
  città: aveva sempre fatto molte conquiste, tra i maschi come tra le femmine,
  e non avrebbe avuto difficoltà a riprendere qualcuna delle sue relazioni. Ma
  il rapporto con Gabriel era un rapporto molto più libero, senza
  coinvolgimenti sentimentali, senza finzioni, senza richieste. Lui e Gabriel avevano
  scopato spesso, durante le loro avventure. Gabriel diceva che dopo essersi
  preso in culo il cazzo di Miguel Llera, quando aveva trent’anni (ed
  altrettanti chili) in meno, era giusto che ora Jorge gli offrisse il culo.       Non
  che trent’anni prima Gabriel non fosse stato ben felice di quello che faceva
  Miguel e, giustamente, Jorge era altrettanto felice del vigore che Gabriel
  dimostrava.        -
  Ma ti tira ancora? Secondo me non ce la fai più!       Gabriel grugnì, poi disse, fingendosi
  irritato:       -
  Ti faccio vedere se mi tira ancora o no, ragazzino. Ma domani non so se
  riesci ad andare in giro per il Cap, con il culo in fiamme che ti ritroverai.       Jorge
  non sorrise e concluse, molto serio:       -
  Ma sì, perché no? In fondo sono settimane che non scopo, sono talmente a
  secco che mi va bene anche un vecchio rottame come te...       Gabriel
  grugnì di nuovo, ma non disse più nulla. Salirono in camera.       Entrarono,
  Gabriel davanti e Jorge dietro. Gabriel disse:       -
  Chiudi la porta.       Jorge
  si voltò ed eseguì, ma non appena ebbe girato la chiave nella serratura,
  Gabriel lo afferrò da dietro, passandogli le mani intorno al torace e
  poggiandogli la testa sulla spalla.       -
  Ragazzino, porta un po’ di rispetto agli anziani.       La
  stretta era vigorosa e Jorge sapeva benissimo che non sarebbe riuscito a
  liberarsi, neanche se avesse voluto. Per quanto avesse raggiunto i cinquanta,
  Gabriel era forte come un toro.        Gabriel
  gli passò la grande mano irsuta sulla guancia, in modo un po’ ruvido. Jorge
  provò una sensazione di benessere profondo. Aveva avuto donne e uomini, ma da
  molto tempo non riceveva tenerezza. Non era uomo da ricercarla, aveva
  imparato a farne a meno, fin da quando era molto giovane, ma quel regalo
  inatteso era bello.       Cercò
  di far passare una mano dietro il proprio culo e la appoggiò sulla
  promettente protuberanza dei pantaloni di Gabriel. Sì, a Gabriel tirava
  ancora. Ma questo Jorge lo sapeva benissimo. Di rado passava dal Cap senza
  fermarsi da Gabriel e di solito trovavano l’occasione per riprendere i loro
  vecchi giochi. Non si amavano, di questo erano entrambi consci, ma ognuno dei
  due stava bene con l’altro.        Avrebbe
  voluto dire a Gabriel che gli voleva bene, ma non era necessario: lo sapeva
  già.       Gabriel
  tenne un braccio intorno a Jorge e con l’altra mano scese ad ispezionare il
  pacco. Non era un movimento delicato: la strizzata energica fece sobbalzare
  Jorge, che rise:       -
  Ehi, vacci piano. A me servono. Io conterei di usarli ancora per un po’.       A Gabriel piaceva andare un po’ pesante,
  ogni tanto, ed a Jorge la cosa non dava fastidio, ma preferiva contenerlo.        Gabriel lasciò la presa e la mano si
  infilò sotto la camicia, accarezzandogli il petto. Era una carezza decisa,
  nello stile di Gabriel. Gli strizzò un po’ un capezzolo, facendo brontolare
  Jorge, poi passò all’altro, ripetendo il movimento con maggior forza e
  strappando un lamento alquanto convinto.       Allora Gabriel gli morse la spalla.
  Jorge cercava, senza molta impegno, di liberarsi, ma era fatica sprecata.       Infine Gabriel lo lasciò, ma solo per
  prenderlo per le spalle e farlo girare su se stesso. Quando furono faccia a
  faccia, Gabriel incominciò a spogliarlo, con movimenti bruschi. Jorge lo
  lasciò fare, sorridendo.        Presto fu nudo, i pantaloni a terra, e
  Gabriel si avvicinò nuovamente fino a toccarlo, lo strinse e lo baciò sulla
  bocca. Le loro lingue si incontrarono e Jorge sentì il desiderio montare
  rapidamente in lui.       Quando si staccarono, Jorge prese a
  spogliare Gabriel, che lo assecondò. Ma quando furono entrambi nudi, Gabriel
  approfittò del momento in cui Jorge era ancora seduto a terra, dopo avergli
  sfilato le calze, per spingerlo, facendolo finire disteso. Prima che Jorge
  potesse rialzarsi, Gabriel era seduto su di lui, con il culo esattamente
  sulla sua faccia.       Jorge non cercò di liberarsi. Si limitò
  ad afferrare con entrambe le mani il grosso culo peloso che lo sovrastava e
  cercò di mordere la carne. La sua testa non aveva molta libertà di movimento,
  per cui non riuscì a raggiungere il suo scopo. Allora si accontentò di
  passare la lingua sul solco che aveva esattamente sopra la bocca.       Gabriel sussultò di piacere, poi disse:       - Sei comodo, ragazzino?        Jorge emise un suono che non era da
  intendere come un sì entusiastico.              - Va bene, allora mi stendo, così mi
  puoi leccare meglio il culo.       Gabriel si sollevò, permettendo a Jorge
  di riprendere a respirare, e si stese sul pavimento, a pancia in giù, le
  gambe allargate. Jorge si inginocchiò tra di esse ed incominciò a passargli
  la lingua lungo il solco tra le natiche. Poi, con un movimento rapido,
  affondò i denti nel culo, prima a destra, poi a sinistra, strappando alla sua
  vittima (molto consenziente) due gemiti (più per la forma che per la
  sostanza). Riprese quindi a passare la lingua, scendendo fino all’estremità
  inferiore dove incominciava la sacca che conteneva i grossi coglioni.       Jorge la guardò un momento, poi la sua
  lingua accarezzò la pelle, suscitando in Gabriel una vibrazione più intensa.        - Ci sai fare, ragazzino.       Jorge continuò a muovere la lingua, con
  delicatezza, lungo tutto il solco e poi giù fino ai coglioni. Ogni tanto
  assestava un morso deciso, che faceva mugolare Gabriel.        Jorge sentiva la propria eccitazione
  crescere ed il desiderio farsi tanto acuto da divenire insostenibile. La sua
  lingua indugiò a lungo sull’apertura segreta, la vellicò,  stuzzicò. Un desiderio violento di forzarla
  invadeva Jorge, ma con un movimento brusco Gabriel si girò, facendolo cadere
  con il culo a terra.       Gabriel sorrise, allargò nuovamente le
  gambe e disse:       - Visto che sei bravo con la lingua,
  succhia un po’! C’è un bel boccone di carne per te.       La mazza di Gabriel era grande e
  perfettamente rigida. Jorge la guardò ammaliato, poi incominciò a percorrerla
  con la lingua, dalla cappella di un rosso violaceo fino ai coglioni pelosi e
  poi in senso contrario. C’era una vena in rilievo e la punta della lingua la
  accarezzò più volte.       Infine Jorge prese in bocca il tizzone,
  tanto grande da rendere l’operazione disagevole. Si mise allora a succhiare
  con le labbra, mentre la lingua accarezzava la cappella.       Gabriel grugnì, un grugnito forte, e la
  sua mano allontanò con forza la testa di Jorge. Si alzò. Ora la sua asta
  incombeva sulla testa di Jorge.       - Stenditi, ragazzino.       Jorge guardò la grande mazza e sorrise.
  Annuì. Si stese a terra, a pancia in giù.        Due morsi al culo gli strapparono un
  gemito, poi Gabriel si sputò sulle dita e le passò tra i fianchi di Jorge,
  introducendole senza tanti complimenti nell’apertura. L’ingresso fu
  leggermente doloroso, ma Jorge sapeva benissimo che non era niente rispetto a
  quello che stava per avvenire.       Quando Gabriel avvicinò la mazza
  all’ingresso, Jorge emise un gemito di puro piacere. Il suo corpo lo
  desiderava da tempo ed era ben felice di accogliere quell’ospite grande e
  rude, ma forte ed abile. L’arma incominciò la sua avanzata e Jorge avvertì lo
  spasimo della carne che veniva forzata, ma anche quella sofferenza era
  piacevole, era parte di un percorso che il suo corpo ben conosceva e che
  seguiva sempre volentieri. La picca si fece strada dentro di lui, con un
  movimento lento e sicuro, trasmettendogli, man mano che procedeva, ondate di
  un piacere intensissimo, per quanto misto al dolore. La picca infine arrivò
  al fondo e, schiacciato sotto il peso di Gabriel, infilzato da quella lama di
  carne, con le mani di Gabriel che gli stringevano il culo, Jorge sentì il
  piacere che cresceva e si moltiplicava.       Le spinte di Gabriel, prima delicate,
  poi sempre più intense,  accrescevano
  piacere e dolore, in un’eco continua, per cui l’uno e l’altro si
  ripercuotevano in tutto il suo corpo, sempre più forti. Jorge gemette, più
  volte, senza freno, travolto da quei colpi che lo spossavano.       Gabriel proseguiva nella sua opera e man
  mano che la picca scavava dentro di lui, Jorge perdeva coscienza del luogo e
  del tempo. Non avrebbe più saputo dire dov’era, che cosa succedeva intorno a
  lui, sentiva solo, sempre più forte, l’arma che lo trafiggeva, procurandogli
  ad ogni colpo un piacere intollerabile ed un dolore sordo.       Le spinte divennero più intense e qualche
  cosa si spezzò in Jorge. Un gemito gli uscì dalla bocca e gli parve di
  svenire, mentre un’ondata di piacere intensissimo lo squassava ed il seme
  sgorgava, in un getto interminabile. Negli occhi passarono lampi ed il fiato
  gli mancò.       Ora che era venuto, la presenza
  massiccia che si muoveva dentro di lui divenne insostenibile, ma Gabriel
  diede alcuni colpi ancora più violenti, grugnì ed il suo seme riempì le
  viscere di Jorge, mentre le spinte si affievolivano.       - Hai sempre un bel culo, ragazzino.       - E tu hai sempre un bel cazzo,
  nonnetto.  | 
 |||||