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   7 – Un caso irrisolto 
 - Non si muova, Von Kassa. Era la voce del colonnello
  Schneider, che aggiunse: - E neanche lei, duca. Poi Schneider si rivolse a
  Konrad: - Lei è indegno di vivere,
  von Kassa. È un pervertito, come Rothaus, come
  Kraus e come il duca. La sua vita finisce qui. Sarà un suicidio. Lei ha
  ucciso coloro con cui il suo amante lo aveva tradito. Poi ha deciso di
  uccidere anche il suo amante due volte infedele e infine si è tolto la vita. Prima che Konrad potesse
  dire una parola, il duca si alzò e aprì la bocca per dire qualche cosa, ma
  Schneider lo prevenne. - Non si muova, duca. In
  ogni caso sparerò prima a lui. Poi sarà il suo turno. - Ha ucciso lei Rothaus,
  vero? E ha sparato a Kraus. - Rothaus era indegno di
  vivere. Ha tradito la fiducia che suo padre riponeva in lui, che io riponevo
  in lui. E Kraus è un altro pervertito. - Ha ucciso anche
  Holzkammer, facendolo passare per un suicidio, come vuole fare adesso con Von
  Kassa. Il colonnello sorrise. - Holzkammer sapeva
  troppo. Aveva intuito. Voleva ricattarmi. Gli ho sparato e poi gli ho messo
  in mano la pistola. Come farò con lei, Von Kassa. Konrad rimaneva immobile.
  Sapeva che se si fosse mosso, Schneider avrebbe sparato subito. Ma poco cambiava:
  gli avrebbe sparato ugualmente, tra pochissimo. Stava per morire. Il
  colloquio con il duca era una trappola. In quel momento Marko si voltò a guardare verso la porta del padiglione.
  Il colonnello sentì la canna di una pistola premere contro la sua schiena,
  poi la voce del commissario Kramer: - Ha due pistole puntate
  addosso, colonnello. Per salvaguardare il buon nome dell’esercito, le
  consiglio di non fare sciocchezze e posare la sua arma. Schneider esitò un momento
  poi abbassò la pistola. Konrad voltò la testa e vide Jacopo e Sándor Komives
  che tenevano sotto tiro il colonnello. Di fianco a loro il commissario
  scuoteva la testa.  Kramer fece due passi
  avanti e disse: - Colonnello, c’è un unico
  modo per sottrarsi all’infamia di un processo che getterebbe fango sulla
  guarnigione e sull’esercito. Non occorre che le dica qual è. Ora se ne vada. Il colonnello guardò il
  commissario. Fece per dire qualche cosa, ma cambiò idea. Si diresse verso
  l’ingresso del padiglione, mentre Jacopo e Sándor lo tenevano sempre sotto
  tiro. Anche quando non fu più visibile, Jacopo continuò a tenere in mano la
  pistola, pronto a sparare se Schneider fosse ricomparso. Ci fu un momento di
  silenzio. Marko e Konrad erano entrambi troppo
  turbati per parlare. Infine Konrad disse: - Mi avete salvato la
  vita. Il duca aggiunse: - L’avete salvata a
  entrambi. Sándor disse: - Il merito è tutto del
  capitano Trevisan. Poi aggiunse: - Credo che sia meglio che
  rimaniate qui o magari passiate nella villa. Non penso che il colonnello
  torni indietro, ma non si può mai sapere. Lei, capitano, rimanga con loro. Il
  commissario e io torniamo in città. È d’accordo, commissario? - Certo. - Di questa faccenda è
  meglio, per tutti, che nessuno sappia nulla. Manterremo un silenzio assoluto.
   Tutti concordarono. Marko e Konrad sapevano che entrambi sarebbero stati
  oggetto di maldicenze di ogni genere, Kramer voleva salvaguardare il buon
  nome dell’esercito e Jacopo non voleva che Konrad fosse oggetto di altre
  chiacchiere.  Il dottore concluse: - Vi manderò un biglietto
  per avvisarvi degli sviluppi della situazione. Raggiunsero tutti la
  villa, poi il dottore e il commissario si congedarono. Il duca diede
  istruzioni ai domestici perché sorvegliassero la villa, controllando che
  nessuno cercasse di entrare. Quando furono in una sala
  al primo piano, Marko ringraziò Jacopo. - La ringrazio ancora. Il
  colonnello ci avrebbe uccisi. Ci avete davvero salvato la vita.  - Per fortuna ci sono
  riuscito. Konrad chiese: - Come hai fatto a capire? - Quando il colonnello
  insinuò che tu fossi il colpevole, la faccenda mi lasciò alquanto perplesso:
  non vedevo nessuna motivazione razionale. Allora decisi di cercare di capire
  qualche cosa di più. Andai a vedere il posto in cui avevano sparato a Georg,
  il vicolo dov’era appostato l’uomo che aveva sparato e dove Ferdinand aveva
  incontrato il colonnello mentre cercava di raggiungere l’assassino. Jacopo sorrise e proseguì: - Quel vicolo si biforca,
  ma non porta da nessuna parte, né a destra, né a sinistra. A destra, da dove
  arrivava il colonnello, finisce contro una casa, dove sta gente di cui il
  colonnello probabilmente non conosce neanche l’esistenza. Certo, poteva
  essersi infilato lì per pisciare, ma perché andare all’estremità del vicolo,
  davanti a una casa, quando appena svoltato l’angolo il buio era tanto fitto
  che l’assassino si era piazzato lì, certo di non essere visto? A sinistra si
  arriva al muro del giardino della villa del dottore e comunque il colonnello
  proveniva dall’altra parte.  - Quindi hai incominciato
  a pensare che fosse stato il colonnello a sparare? - Me lo sono chiesto, ma
  erano solo sospetti, non avevo nessuna certezza. Poi, quando mi hai detto che
  il colonnello ti aveva ordinato di andare dal duca… Insomma… non aveva nessun
  senso. - Ero perplesso anch’io,
  ma non avrei mai pensato a una trappola di questo tipo. Il duca intervenne: - Complimenti per la sua
  perspicacia, capitano. - Volevo parlare col
  commissario, ma temevo di non convincerlo. Perciò sono corso dal dottore:
  sapevo di poter contare su di lui. È intelligente e all’intelligenza unisce
  un grande buon senso. Mi ha ascoltato, ha capito che i miei sospetti non
  erano infondati. Siamo andati dal commissario e gli ha detto che dovevamo
  venire subito qui. Per strada gli ha spiegato la faccenda. Lui era molto in
  dubbio, ma quando siamo arrivati qui ogni dubbio è svanito. Dopo un momento di
  silenzio, Konrad chiese: - Cosa farà il colonnello? Fu Marko
  a rispondere: - Kramer gli ha
  consigliato di uccidersi. Credo che sia la soluzione migliore per tutti. - Lo farà? - Credo di sì. Un
  processo… sarebbe un tale disonore. Un’ora dopo un soldato
  portò un messaggio del dottore: il colonnello Schneider si era suicidato. Konrad e Jacopo si
  congedarono e tornarono in caserma. Lungo la strada Konrad disse: - Grazie ancora, Jacopo. - Piantala, Konrad. Mi hai
  già ringraziato a sufficienza. Adesso prepariamoci ad affrontare la tempesta.
  Con la morte del colonnello, della faccenda si parlerà fino a Vienna. E pure
  oltre. Il suicidio del colonnello
  portò al parossismo l’agitazione nella città. Schneider non aveva lasciato un
  messaggio. Si sapeva solo che era rientrato in mattinata molto turbato, si
  era chiuso nel suo ufficio e venti minuti dopo il maggiore Furlan aveva sentito lo sparo. Due suicidi, un omicidio,
  un tentato omicidio, tre sottotenenti e un colonnello: come aveva previsto
  Jacopo, della faccenda si parlò in tutto l’Impero e anche in altri stati.  Di quanto era successo
  alla villa del duca, nessuno disse nulla. Qualche giorno dopo si
  seppe che da Vienna sarebbe giunta una commissione d’inchiesta formata dal
  colonnello Wolf, che avrebbe preso il comando nella
  caserma, da due funzionari ministeriali e due ufficiali. Secondo quanto si
  diceva, era stato l’imperatore in persona a volere la commissione.  Il dottor Komives parlò a
  lungo con il commissario. Sapeva che Kramer nutriva per lui una grande stima
  e si riteneva debitore nei suoi confronti perché aveva salvato la sua
  nipotina. Giocando su questi elementi e sulla necessità di salvaguardare
  l’onore dell’esercito, il dottore riuscì a fargli accettare il piano che
  aveva tracciato. Dopo questo colloquio il
  dottore convocò Konrad e Jacopo nella camera di Georg, che ormai poteva
  alzarsi e aveva incominciato a uscire. La visita del dottore a Georg rientrava
  nella normale pratica di cura del ferito e la presenza di due amici non
  poteva destare sospetti in nessuno. Quando furono tutti e
  quattro riuniti, Sándor parlò:  - Credo che abbiate
  un’idea dei motivi per cui vi ho chiesto di venire qui. Tra poco giungerà una
  commissione d’inchiesta, a cui il commissario Kramer rivelerà una parte della
  verità: è necessario perché tacendo le indagini continuerebbero a lungo e
  finirebbero per emergere anche alcune cose che è meglio rimangano segrete. Ho
  già parlato con il duca. Ora vi dirò quale linea seguire e vi invito ad
  attenervi sempre alla versione concordata, con chiunque parliate. Konrad guardò Georg, che
  appariva molto sorpreso. Poiché Konrad non gli aveva raccontato nulla, non
  riusciva a capire. - Sapete tutti che la
  sodomia è un reato, per cui è opportuno che lei, Kraus, non sia coinvolto in
  nessun modo. Il commissario Kramer racconterà che il colonnello Schneider ha
  ucciso il suo figlioccio, Albert Rothaus, poiché riteneva il suo
  comportamento portasse disonore all’esercito. Perché? Per le folli perdite al
  gioco, la seduzione di una nobildonna sposata e altri comportamenti che non
  poteva accettare dal suo figlioccio. Holzkammer ha capito che il suo amico
  era stato ucciso dal colonnello, che perciò 
  lo ha soppresso, simulando un suicidio. I due omicidi hanno però
  sconvolto la mente del colonnello, che ha parlato con il commissario Kramer,
  raccontandogli la verità, e poi ha deciso di uccidersi, per salvaguardare
  l’onore dell’esercito. In questo modo di sodomia non si parla, né per i vivi,
  né per i morti. Fin qui è chiaro? Jacopo osservò: - È tutto chiaro, ma…
  Kraus? Perché gli hanno sparato? E chi gli ha sparato? - Questo è il punto più
  delicato. A sparargli è stato il colonnello e infatti quella notte Köhler l’ha incontrato nel vicolo mentre inseguiva
  l’assassino. Perché ha sparato a Kraus che non c’entrava niente con Rothaus e
  Holzkammer e non aveva comportamenti che potessero infangare l’onore
  dell’esercito? Perché lei possa uscirne senza macchie, Kraus, occorre trovare
  una motivazione plausibile. Per cui dovrà stare al gioco. Georg era frastornato. - Dottore, ma tutto quello
  che ha detto è vero? L’assassino è davvero il colonnello? Ha ucciso anche
  Friedrich? - Sì, è tutto vero, a parte
  la seduzione della nobildonna sposata, che non risulta, e soprattutto il
  fatto che uno dei motivi determinanti per cui il colonnello ha ucciso Rothaus
  è… diciamo le sue visite alla villa del duca. Deve essersi appostato per
  sorprenderlo, aveva intuito che per non farsi vedere sarebbe passato dal
  cancello sul retro del parco e, forse dopo una discussione animata, quando
  Rothaus si è voltato per andarsene, gli ha sparato. Oppure non gli ha parlato
  e gli ha sparato quando è uscito, non lo sappiamo e non ha importanza, ormai.
  Le… visite alla villa sono il motivo per cui ha sparato anche a lei.  Konrad vide Georg
  arrossire alle parole del dottore, che continuò: - E voleva uccidere anche
  il duca: questo è il motivo per cui Von Kassa e
  Trevisan sono qui: alla villa hanno assistito a una parte del dramma, che non
  le racconteranno, ma devono essere informati sulla linea da seguire. Georg annuì. Il dottore
  riprese: - E allora, torniamo a
  lei. Perché le ha sparato? Perché lei era amico di Rothaus. Eravate arrivati
  insieme, tutti e due bei giovani, avevate un grande successo con le donne. È
  vero che Rothaus frequentava molto di più Holzkammer, a cui era più vicino
  per condizioni sociali. Ma si confidava anche con lei, per cui le ha
  raccontato la violenta scenata del colonnello, che peraltro vi ha visti
  insieme una volta, dopo la scenata e poco prima della morte di Rothaus. Pensi
  al luogo e al giorno e si fissi bene nella testa quello che racconterà alla
  commissione e che dovrà ripetere senza contraddirsi, mai. Si ricordi, Kraus,
  che lei è quello che rischia di più. Il duca è un personaggio troppo
  importante per essere preso di mira, lei è un sottotenente di una famiglia
  non influente: può essere travolto da una valanga di fango senza che nessuno
  sia in grado di difenderla. Georg rabbrividì. Sándor
  gli sorrise: - Ma non deve spaventarsi.
  Dirà che era amico di Albert, anche se non potevate frequentare gli stessi
  ambienti. Lui passava a trovarla in camera e poco prima della sua morte il
  colonnello vi aveva visti insieme. Albert può averle raccontato che il
  colonnello gli faceva paura, che l’aveva minacciato, ma niente di più. Lei
  non ha mai pensato che il colonnello potesse essere l’assassino, anche se è
  vero che Albert aveva molta paura di lui. Georg annuì. Poi disse: - Va bene. Farò
  esattamente quello che mi dice. Grazie, dottore.  Sándor guardò Jacopo e
  Konrad, che avevano seguito in silenzio.  - Ci sono domande? È tutto
  chiaro? Non ci devono essere errori. Nessuno di noi ha recato un danno ad
  altri, ma se saltasse fuori tutta la verità… le conseguenze sarebbero
  pesanti, soprattutto per lei, Kraus.  Konrad intervenne: - Ma… la commissione…
  rivelerà che è stato il colonnello a uccidere Albert e Friedrich? Si verrà a
  sapere? - No, certo. Non
  pubblicamente. Ci sarà un rapporto riservato a cui solo l’imperatore, le
  massime autorità militari e qualche ministro potranno accedere. - E allora… per tutti gli
  altri il caso rimarrà irrisolto? - Sì. Questa è l’unica
  soluzione che in qualche modo tutela i vivi e i morti. Questo significa che
  nessuno di voi tre dirà mai una parola su quanto è successo. Vi consiglio di
  non parlarne neanche tra di voi. Meglio che ci dimentichiamo tutti di quello
  che abbiamo visto e saputo. Jacopo fece un cenno
  d’assenso. - Sì, dottore, ha
  perfettamente ragione. Ci dimenticheremo di tutto quello che sappiamo. Konrad aggiunse: - E grazie, grazie di
  tutto. Mi ha salvato… Il dottore lo fermò: - Non una parola di più.
  Ha già detto troppo. Poi sorrise e disse. - Adesso lascio il ferito
  e i sani. Dopo che il dottore fu
  uscito, i tre ufficiali si guardarono un momento. Ognuno di loro avrebbe
  voluto confrontarsi con gli altri, ma sapevano che Sándor aveva ragione e che
  era meglio dimenticare la faccenda. Jacopo disse: - Io vado. Seguirò le indicazioni
  del dottore e non parlerò neanche con voi di quello che è successo. Georg guardò Konrad. - Non so che cosa darei
  per sapere che cosa è successo alla villa, ma so che il dottore ha ragione. - Sì, Georg. L’essenziale
  il dottore te l’ha detto. Del resto è meglio che ci dimentichiamo di tutta la
  faccenda. L’importante è che quest’incubo sia finito. Se la commissione
  d’inchiesta non avrà dubbi, potremo chiudere questa pagina. Konrad salutò ed uscì.
  Poco dopo Richard passò da Georg. - Allora, come stai oggi? - Benissimo. Il braccio mi
  fa un po’ male quando faccio certi movimenti, ma niente di particolare. La
  ferita si è rimarginata e il dottore dice che non sono più necessarie
  precauzioni particolari. Salterò ancora le esercitazioni per qualche giorno. - Ottimo. Spero che
  intanto scoprano l’assassino e che questa faccenda si concluda.  Georg avrebbe voluto
  dirgli che ormai non correva più pericoli, ma sapeva di non poterlo fare. Gli
  sorrise e cambiò argomento: - Senti, Richard…
  riprendiamo il… discorso che abbiamo lasciato in sospeso? Richard aggrottò la fronte
  come se non capisse. - Abbiamo lasciato in
  sospeso un discorso? Non me lo ricordo.  Ma il suo sorriso lo
  tradiva. Georg rise e disse: - Ah, beh, se non te lo
  ricordi… non ha importanza. Lasciamo pure perdere… ne parlerò con qualcun
  altro. - Con qualcun altro? Ma se
  l’hai lasciato in sospeso con me, il discorso, che senso ha continuarlo con
  qualcun altro? - Se non ti ricordi… Richard si alzò, si mise
  davanti a Georg, si chinò e lo baciò. - Vediamo… abbiamo
  lasciato il discorso a questo punto, no? - Secondo me l’abbiamo
  lasciato più avanti. E, usando solo il braccio
  destro, gli slacciò la cintura e gli calò i pantaloni. - Sì, credo che tu abbia
  ragione. La commissione arrivò due
  giorni dopo. Prima di tutto parlò con il commissario Kramer, con cui rimase
  diverse ore. Il giorno dopo furono sentiti alcuni ufficiali: Furlan, in quanto segretario del colonnello; Kraus,
  perché era stato ferito; Von Kassa, perché era
  arrivato in caserma con i due sottotenenti morti; Köhler,
  perché aveva inseguito l’assassino.  Furlan e Köhler
  dissero quanto sapevano, confermando, senza saperlo, ciò che aveva raccontato
  il commissario Kramer. Georg sostenne bene il suo ruolo, raccontando di
  essere stato il confidente di Albert Rothaus. Alle domande precise della
  commissione, disse che l’amico non si aspettava di essere ucciso e che aveva
  molta paura del colonnello Schneider, che gli aveva fatto una scenata
  tremenda. Finse di non avere nessuna idea su chi potesse avergli sparato e
  sui motivi del tentato omicidio.  In seguito furono chiamati
  a deporre alcuni altri ufficiali. La commissione parlò anche con il duca. Le varie testimonianze
  concordavano perfettamente con la ricostruzione fornita dal commissario
  Kramer, la cui parola non poteva comunque essere messa in discussione. Il
  lavoro della commissione d’inchiesta non durò a lungo. Il colonnello Wolf rimase nella caserma, di cui assunse il comando, non
  si sapeva se solo per un certo periodo, in attesa di un altro comandante, o
  definitivamente. Gli altri membri della commissione partirono dopo pochi
  giorni, senza dare nessuna comunicazione. Nella caserma e in città tutti si
  stupirono che se ne andassero così in fretta, senza aver scoperto il
  colpevole e senza ulteriori indagini.  Dopo la loro partenza la
  vita in caserma riprese il suo ritmo abituale. Il colonnello Wolf era severo, come lo erano tutti gli ufficiali di
  grado superiore, ma per la guarnigione non ci furono cambiamenti
  significativi.  Delle morti avvenute si continuò
  a parlare a lungo, sia nella caserma, sia in città. Furono fatte ipotesi di
  ogni tipo, ma senza che nessuno sospettasse la verità. Konrad si accorse che
  Jacopo si avvicinava più di rado a lui. Scambiavano qualche parola e Jacopo
  era sempre cordiale, ma l’intimità che si era creata tra di loro sembrava
  essere svanita.  Konrad ne soffriva. Anche
  se aveva fatto amicizia con diversi ufficiali, non aveva stabilito con
  nessuno di loro un rapporto profondo come con Jacopo. Con lui poteva parlare
  di tutto. Non gli aveva mai riferito ciò che si erano detti lui e il duca
  quando si erano visti, non perché non avesse fiducia in lui e neppure perché
  l’argomento era troppo personale: parlarne a Jacopo lo metteva in imbarazzo,
  perché aveva capito di essere attratto da quel corpo, che al fiume si
  scopriva in tutta la sua forza.  Konrad sentiva il bisogno
  di arrivare a un chiarimento. Com’era nel suo carattere, decise di affrontare
  direttamente la questione. Una sera, dopo che erano appena rientrati in
  caserma e ognuno stava raggiungendo la propria camera, gli disse: - Vorrei parlarti, Jacopo. Jacopo appariva un po’ a
  disagio, ma rispose: - Va bene. - Hai voglia di venire un
  momento nella mia camera? - Come vuoi. Konrad si sedette sulla
  sedia vicino al tavolino, Jacopo sull’altra. Incominciò andando direttamente
  al punto. - Jacopo, da diversi
  giorni mi sembra che tu preferisca evitarmi.  Jacopo aprì la bocca per
  parlare, poi la richiuse. Konrad si stupì a vederlo così incerto: era sempre
  deciso e sicuro di sé. - No, non cerco di
  evitarti. - Prima, dieci giorni fa,
  ci sedevamo vicini, chiacchieravamo spesso e tu mi cercavi come io cercavo
  te. Tutto questo non avviene più. Ho fatto qualche cosa che non va? - No, assolutamente.
  Niente. - E allora? Jacopo guardò la finestra,
  poi fissò Konrad. - Preferirei non
  risponderti. - Perché, Jacopo? Che cosa
  è successo? Jacopo si alzò e andò alla
  finestra. Guardò fuori, nel cortile immerso nell’oscurità, dando le spalle a
  Konrad. - Konrad… mi sei piaciuto
  molto, fin dall’inizio. Sei riservato, onesto, cordiale. Sei uno di cui ci si
  può fidare, sempre. E sei anche un bell’uomo, non un gorilla come me. - Non capisco, Jacopo. - Stavo bene insieme a te. - Perché adesso non stai
  più bene con me? Jacopo scosse la testa, in
  un cenno di diniego. Konrad insistette: - Qual è il problema? Jacopo si voltò e fissò
  Konrad negli occhi. - Mi stavo innamorando di
  te, Konrad. No, non è vero: mi sono innamorato di te, Konrad.  Konrad sentì una gioia
  sconfinata sommergerlo. Jacopo ebbe un sorriso amaro
  e concluse: - Ma non posso competere
  con il duca. - Con il duca? Il duca?!
  Santo cielo, Jacopo, che cosa hai pensato? Si avvicinò. Sorrise. Alzò
  una mano per accarezzargli il viso, ma si interruppe: prima doveva
  spiegargli. Riprese il discorso: - Con il duca ho parlato,
  forse sta nascendo un’amicizia, ma… nulla di più. Non abbiamo scopato, se è
  quello che pensi, e non lo faremo. Non sono certo innamorato di lui, come lui
  non è innamorato di me.  Konrad sorrise, un po’
  imbarazzato. - Io mi sono innamorato di
  te, Jacopo, e vederti tenere le distanze mi ha fatto soffrire, molto. La mano di Konrad sfiorò
  la guancia di Jacopo in una carezza. Jacopo lo fissò, poi gli prese il viso
  tra le mani e lo baciò. Per la prima volta le loro bocche si incontrarono.
  Per Konrad quel bacio, il primo della sua vita, fu un’emozione fortissima. E
  quando la lingua di Jacopo si insinuò tra i suoi denti, Konrad spalancò la
  bocca più per lo stupore che per assecondare l’intrusione. Non aveva mai
  pensato che un giorno avrebbe baciato così.  Jacopo ritrasse la lingua
  e staccò la sua bocca da quella di Konrad. Lo guardò negli occhi e sorrise. - Ora, qui? Konrad annuì, perché lo
  desiderava, ma prima doveva dirgli qualche cosa. - Jacopo… - Dimmi. - Non… non ho mai… Sei il
  primo, Jacopo, il primo uomo che mi bacia, il primo con cui… Si interruppe,
  vergognandosi. Jacopo lo guardò, turbato.
  Essere il primo uomo di Konrad gli sembrava bellissimo, ma lo caricava di una
  responsabilità che non si era aspettato. Gli accarezzò il viso e chiese: - Sei sicuro di volerlo?
  Non dobbiamo fare niente ora. Se preferisci… - Lo voglio, Jacopo. Ho
  atteso tutta la vita il momento in cui avrei fatto l’amore con un uomo che
  amavo. Non ne ero cosciente, ma in questi giorni l’ho capito. Konrad evitò di dire che il
  dialogo con il duca gli aveva aperto gli occhi: era meglio non parlare del
  duca, in quel momento. Gli avrebbe raccontato tutto più tardi. - Ma davvero ti sei
  innamorato di un gorilla come me? Konrad sorrise. Il cuore
  gli batteva forte, ma riuscì a dire: - Si vede che mi piacciono
  i gorilla. Jacopo lo guidò a
  stendersi sul letto e si mise su di lui. Poi riprese a baciarlo, mentre le
  sue mani accarezzavano il corpo di Konrad, dai capelli al culo, ora delicate,
  ora brusche. Konrad ricambiava quelle carezze e attraverso la stoffa
  afferrava la carne a piene mani. Jacopo incominciò a
  sfilargli la camicia, poi i pantaloni. Ben presto Konrad fu nudo e anche le
  sue mani, ancora un po’ incerte, ma via via più sicure, presero a spogliare
  Jacopo. Era bello vedere quel corpo robusto emergere dalla stoffa, affondare
  le mani in quella peluria fitta, stringere la carne. Quando Konrad abbassò i
  pantaloni di Jacopo, emerse il grosso cazzo, già duro. Konrad lo guardò,
  attratto ma spaventato. Era bellissimo, così grande, così forte, così teso,
  ma incuteva anche paura.  Jacopo si alzò, afferrò i
  piedi di Konrad e li divaricò, poi si mise in ginocchio tra le gambe e
  incominciò a passargli la lingua sul cazzo, dalla cappella ai coglioni.
  Konrad mugolò: la sensazione era intensissima. Jacopo indugiò sulla cappella,
  che accarezzò con cura, poi scese nuovamente, si perse tra le pieghe dei
  coglioni, risalì ancora. Lasciò che i suoi denti afferrassero il vigoroso
  bastone che troneggiava e stringessero energicamente la carne. Konrad gemette
  e gli accarezzò i capelli. Jacopo alzò lo sguardo e, incoraggiato dal sorriso
  di Konrad inghiottì la cappella, su cui era spuntata una goccia di seme. La
  sua lingua si mise all’opera, con movimenti ora lenti, ora rapidi. A tratti
  erano invece le labbra a darsi da fare, avvolgendo quella bella mazza calda e
  vibrante. Jacopo avrebbe continuato
  a lungo, senza badare al proprio cazzo che reclamava un po’ di attenzione, ma
  sentì il sussurro di Konrad: - Sto per venire. Non mollò la presa. Konrad
  sentì l’orgasmo squassarlo. Gemette, più forte, mentre il getto sgorgava
  violento, inondando la bocca di Jacopo, che bevve, fino all’ultima goccia. Konrad chiuse gli occhi.
  Quando li riaprì vide che Jacopo lo fissava, sorridente. - Non pensavo… non pensavo
  che tu bevessi. Jacopo gli passò due dita
  sul viso, in una carezza lieve, poi disse: - Oltre che un gorilla,
  sono anche un porco. - Mi piacciono molto gli
  animali. Jacopo rise. Konrad gli
  passò le mani sul viso e lo attirò a sé. Lo baciò sulla bocca, la sua lingua
  si infilò tra le labbra e i denti di Konrad, poi si ritirò. Rimasero un buon
  momento così, avvolti in una stretta che appagava completamente Jacopo e gli
  faceva scordare perfino il proprio intenso desiderio. Ora contro il ventre
  Konrad poteva sentire il cazzo di Jacopo, teso allo spasimo. Una vertigine lo
  prese. Riuscì a dire: - Prendimi, Jacopo. Jacopo lo guardò. Era
  incerto, aveva paura di far male a Konrad. - Non è necessario che lo
  facciamo. Tu non l’hai mai fatto, ti farò male, per quanta attenzione faccia. Konrad gli sorrise.
  Ripeté: - Prendimi, Jacopo. Jacopo si alzò e Konrad si
  girò, in modo da offrirgli il culo. - Aspetta. Jacopo lo guidò a
  sollevarsi e gli mise il cuscino sotto il petto, poi gli fece piegare le
  gambe. Si stese su di lui. Konrad sentì il cazzo, caldo e duro, premergli sul
  culo. Era una sensazione splendida ed era inquietante.  Jacopo si bagnò due dita e
  le passò intorno al buco del culo di Konrad. Ripeté l’operazione due volte.
  Poi si inumidì bene la cappella. L’ingresso fu doloroso, ma
  splendido. Jacopo si muoveva con grande lentezza e in Konrad piacere e dolore
  si mescolavano. Jacopo avanzava e poi si ritraeva fin quasi a uscire, per poi
  penetrare nuovamente in profondità, nella carne che lo accoglieva, dolorante
  e impaziente.  Konrad si sentiva
  sprofondare in un turbine di piacere, che sovrastava il dolore, le mani di
  Jacopo erano catene che lo stringevano, una stretta a cui non avrebbe voluto
  sfuggire, il cazzo di Jacopo era un palo che gli dava tormento ed ebbrezza. Il movimento proseguì a
  lungo e a Konrad sembrava di non essere più in grado di reggere, eppure
  avrebbe voluto che non smettesse mai. Era esausto, goccioline di sudore gli
  colavano sul viso. Le dita di Jacopo gli
  strinsero le natiche con più forza, le spinte divennero più intense e dentro
  il culo Konrad sentì l’esplosione del seme di Jacopo.  - Sei bellissimo, Konrad. Konrad rise. Sapeva di non essere bello, ma non aveva importanza. - Per me sei bello anche
  tu, Jacopo. Era vero e Jacopo lo
  sapeva, ma disse: - Meno male che hai
  qualche difetto di vista… Poi scivolarono nel sonno
  avvinghiati. Dopo aver deposto alla
  commissione d’inchiesta Marko Jergović era
  partito per Vienna Aveva trascorso qualche giorno nella capitale e poi a
  Zagabria, tornando dopo due settimane. Dopo il suo ritorno non aveva più
  invitato nessuno a cena, neppure il nuovo colonnello, e tutti si stupirono di
  questo cambiamento. Marko non aveva voglia di offrire cene o
  serate danzanti. Non aveva voglia di vedere gente. L’unico che avrebbe voluto
  salutare prima di andarsene era Sándor, ma preferiva non farlo: Sándor era
  troppo intelligente, troppo sensibile. Avrebbe capito. Tutte le cose che gli
  avevano sempre dato gioia gli erano diventate indifferenti. Persino
  passeggiare nel parco e bagnarsi nel lago non costituivano più un piacere. A
  Vienna e a Zagabria aveva patito la lontananza da casa. Il teatro, i
  concerti, l’opera, le serate nei salotti, nulla riusciva più a regalargli
  emozioni: certo, essendo piena estate, gli spettacoli erano più rari e molte
  famiglie nobili si erano trasferite nelle loro residenze di campagna. Marko aveva ricevuto diversi inviti, ma li aveva
  rifiutati. Aveva avvertito il desiderio di tornare, ma quando era arrivato
  alla villa aveva capito di essere tornato solo per morire. I suoi giorni si
  avvicinavano alla fine. Da quando era rientrato, non aveva più aperto
  l’armadio dove teneva il fucile: sapeva che quando l’avesse fatto, sarebbe
  stato per sparare. Non mancava più molto. Presto avrebbe concluso. Molto
  presto. Ci sarebbe stato un altro suicidio misterioso in città. Ogni giorno camminava nel
  parco, senza una meta. A volte si sedeva nello spazio dietro il padiglione.
  Gli capitava di pensare che sarebbe stato meglio se il colonnello fosse
  riuscito a ucciderlo. Non aveva senso, lo sapeva. Ma era la sua vita che
  aveva perso senso. Viveva i suoi ultimi
  giorni nei ricordi. “Come un vecchio”, si diceva.  Pensava a un pomeriggio
  nel padiglione, in cui per la prima volta aveva stretto l’uomo che amava. Era
  un ricordo che aveva cercato di cancellare, spogliando altri uomini in quel
  locale: una follia, una profanazione.  Pensava al primo bacio,
  dato ai piedi di una delle statue di Ercole. E il ricordo di
  quell’incontrarsi delle loro labbra e della stretta di quelle braccia forti
  gli trasmetteva un’emozione che nessuno dei tanti ufficiali che aveva
  posseduto gli aveva mai donato. Non aveva più baciato un altro uomo. E non
  aveva mai accettato che un altro uomo lo possedesse.  I ricordi lo tenevano ancora
  in vita, ma sapeva che ormai era ora di andarsene. Per lui era giunto
  l’autunno, anche se l’estate era nel pieno del suo rigoglio. Una settimana dopo il suo
  ritorno, mentre era seduto nello spazio cintato sul retro del padiglione,
  vide entrare Sándor. Lo guardò, stupito. - Il domestico mi ha detto
  che eri nel parco e sono venuto a cercarti. Ho incominciato dal padiglione,
  perché so che è uno dei tuoi posti preferiti. Il domestico mi ha detto che
  non c’era nessun visitatore, ho visto la porta era aperta e allora sono
  entrato. Marko era disorientato. Troppe cose
  emergevano, di colpo. Rispose, meccanicamente: - Siediti. Sándor si sedette. Marko non disse più nulla, pensieroso.  - Da quando sei tornato,
  non hai organizzato cene o balli. Non sei nemmeno passato in città. C’è
  qualche problema? Marko guardò l’amico. Scrollò le spalle. - No, no. Rimasero in silenzio per
  qualche minuto. Sándor fissava Marko, che teneva
  gli occhi fissi a terra.   - Che cosa c’è, Marko? - Niente. - Mi spiace vederti così. Marko alzò le spalle.  - Non è niente, passerà. Sándor lo fissò, senza
  replicare. Marko era disagio. Aveva sempre avuto
  l’impressione che l’amico riuscisse a leggergli dentro e non voleva che lo
  facesse ora. Si alzò. - Grazie per essere venuto,
  Sándor. Adesso però ho alcune cose da fare, se non ti dispiace. Era un congedo villano e
  brusco, ma Marko voleva rimanere da solo. Sándor lo guardò stupito. Marko si stava comportando in modo assurdo, lo sapeva, ma
  non reggeva più. Era arrivato alla fine. Vide nitidamente ciò che avrebbe
  fatto: appena Sándor fosse andato via: sarebbe rientrato nella villa, avrebbe
  preso il fucile, si sarebbe infilato in bocca la canna e questa volta avrebbe
  premuto il grilletto. Il pensiero gli trasmise un senso di pace, come non gli
  capitava di provare da tempo. Da nemmeno due anni, ma gli sembrava che fosse
  trascorso un periodo molto più lungo. Quel giorno sarebbe finito tutto. Era
  un pensiero quasi gioioso e gli dava una grande serenità. Sorrise e guardò Sándor. Le
  parole gli vennero alle labbra senza quasi che se ne rendesse conto. Ma forse
  ora poteva dirle. - Mi dispiace, Sándor. - Che cosa ti spiace? - Di essere stato tanto
  coglione da scappare, scappare da quello che provavo per te. Di essermi
  ridotto a diventare un meschino seduttore da quattro soldi che si porta a
  letto un giovane ufficiale dopo l’altro. Sándor lo fissò, in
  silenzio. Poi disse, con una voce che tradiva la tristezza:  - Il capitano Kröger era una scappatoia?  Marko si disse che era stato stupido a
  parlare, ma ormai non poteva tornare indietro. - Sì, lo era.  - Kraus, Rothaus, Von Kassa e gli altri prima... Sono stati tutti scappatoie?  - Lo sono stati tutti. Von
  Kassa no, non abbiamo scopato, di certo non
  scoperemo. Forse stava nascendo un’amicizia, ma non altro. Non altro… Marko rise, una risata amara, e riprese: - Un’amicizia è di sicuro
  molto di più di tutto quello che c’è stato con uno come Albert Rothaus o con
  Georg Kraus, che almeno è simpatico. Ma… non c’entra.  Sándor era chiaramente
  disorientato.  - E te ne sei reso conto
  adesso, dopo due anni, che erano tutti…  Sándor scosse la testa e
  concluse, con una nota ironica: - …scappatoie?  - Me ne son reso conto
  subito. Ma ormai… - E perché me ne parli
  ora? Marko chinò il capo. - Scusa, hai ragione,
  dovevo stare zitto. Non ha senso. Ma… volevo chiederti scusa. Chinò il capo. Sentiva su
  di sé lo sguardo di Sándor, che lo fissava. - Che cosa hai intenzione
  di fare, Marko? Marko si rese conto che Sándor aveva capito. Si
  morse il labbro inferiore. Fece due passi verso la porta del padiglione.
  Stava scappando, lo sapeva. Disse: - È ora che vada. Ho da
  fare. Sándor si alzò e si mise
  tra lui e la porta, bloccandogli il passaggio. - Non mi hai risposto. Marko scosse il capo. - Lasciami andare. - No, di qui non mi muovo. Per quanto fosse forte, Marko non avrebbe potuto avere la meglio su Sándor. Chinò
  la testa e disse: - È tardi, ormai. Il riferimento non era
  certo all’ora e Sándor lo capì. - Per te è tardi? Per me
  non lo è. Marko arretrò di un passo e guardò Sándor,
  spaventato. - Io… Sándor fece un passo
  avanti, gli prese la testa tra le mani e lo fissò. Poi lo baciò. Marko pensò che non se lo meritava, che non
  aveva senso, che era troppo tardi. Ma Sándor lo aveva afferrato ed era troppo
  tardi anche per fuggire. Non rispose al bacio.
  Sándor si staccò e lo guardò. Nei suoi occhi Marko
  lesse la delusione. - Scusami. Ho frainteso. Marko sentì una fitta acuta. Chinò il capo.
  Poi lo rialzò e disse, fissando Sándor negli occhi: - Non ho mai smesso di
  amarti, nemmeno quando scopavo con tutti quegli ufficiali di cui non mi
  importava niente. Ti amo ancora, ma è tardi. Lasciami andare, Sándor. Il dottore scosse
  energicamente la testa. - No, non ti lascio andare
  via.  Marko cercò di aggirare Sándor, che lo
  afferrò. Marko cercò di liberarsi, ma non era in
  grado di sopraffare Sándor e non lo voleva neanche. - Lasciami, lasciami. Le forze lo abbandonarono,
  di colpo. Gli sembrava di non riuscire più a stare in piedi. Si disse che se
  Sándor non lo avesse sostenuto sarebbe crollato a terra. Si lasciò trascinare
  all’interno del padiglione. Sándor lo fece coricare sul letto. Marko si sentiva spossato. Chiuse gli occhi.
  Avrebbe voluto cancellare il mondo. Lo avrebbe fatto, presto, non appena
  Sándor se ne fosse andato. Sándor si sedette sul
  bordo del letto. - Perché vuoi ucciderti, Marko? Marko non rispose. Rimasero così alcuni
  minuti. Marko si disse che era assurdo, era tutto
  assurdo. Aprì gli occhi e fissò
  Sándor. - Non ha senso, Sándor. - Forse no. - Lasciami andare via. - No. - Che cosa vuoi fare? - Impedirti di ucciderti. Marko scosse la testa. - E come? Starai con me
  tutta la notte? E poi? Mi porterai con te quando andrai all’infermeria della
  caserma? O conti di legarmi e lasciarmi qui? Sándor sorrise. Era
  angosciato, ma cercava di  nasconderlo. - Potrei fare tutte quelle
  cose. Fissava Marko. Dentro di sé sentiva il dolore crescere, una
  sofferenza che a lungo aveva ignorato, che gli sembrava di aver superato, ma
  che ora gli scavava dentro, gli toglieva il respiro. Non riusciva più a
  reggere quel dolore. - Non posso accettare di
  vederti morire, Marko. Tutto, ma non questo. Ho
  accettato il dolore… della fine del nostro rapporto. Non posso accettare il
  dolore della tua morte. Marko chiuse gli occhi. - Non ho capito, Sándor.
  Non mi sono mai reso conto che tu soffrissi. Chiuso nel proprio dolore,
  non aveva mai pensato alla sofferenza di Sándor, di cui era responsabile. In
  qualche modo si era convinto che quell’amore fosse svanito per Sándor senza
  lasciare traccia, come se quel mese di felicità che avevano vissuto non fosse
  stato così importante. Sándor sembrava aver incassato bene la loro
  separazione e i loro rapporti erano rapidamente tornati quelli di prima, di
  due persone che si conoscono da anni, si stimano e sono affezionate l’una
  all’altra. Ma Marko
  aveva perso ogni stima di se stesso ed era sicuro che anche Sándor non lo
  stimasse più. Perché non aveva visto il dolore di Sándor? Perché quel dolore
  gli mostrava troppo chiaramente la sua viltà. Sándor lo guardò. C’era
  una tristezza infinita nei suoi occhi. - No, me ne sono accorto.
  Ho pensato che non vedessi la mia sofferenza perché di me non t’importava. Ma
  io non ho visto la tua, anche se non ho mai smesso di amarti. - Sándor… anch’io non ho
  mai smesso di amarti, te l’ho detto. - E allora, che senso ha…? - Mi sembra che sia tutta
  la mia vita a non avere senso. Io sono morto quel giorno in cui mi sono
  lasciato sedurre dal capitano Kröger.  - Anche una parte di me è
  morta quel giorno. - Non me lo posso perdonare. - E quello che è rimasto
  di me morirà se tu ti ucciderai. - Non voglio provocare la
  tua morte. Devi promettermi… Sándor lo interruppe,
  rabbioso: - Non ti devo nulla, Marko. Nulla. Non prometterò. Marko chiuse gli occhi. Non reggeva più il dolore
  di Sándor, non reggeva più il proprio. - Sono un coglione,
  Sándor. Lasciami andare… - Alla morte? No, non
  finché sono vivo. Se vuoi, possiamo ucciderci insieme. Questo sì. - Sándor…  Marko non sapeva che cosa dire. Sándor cercava
  le parole. In qualche modo doveva far uscire Marko
  dalla disperazione in cui era sprofondato e per riuscirci doveva scuotersi,
  non lasciarsi vincere da una disperazione altrettanto forte. Nuovamente il silenzio
  scese tra di loro. Sándor accarezzò il viso
  di Marko. La sua mano scese sul petto. Marko lo guardava. Gli sembrava che quella mano fosse una
  corda che Sándor gli tendeva perché non precipitasse nell’abisso. L’afferrò e
  la baciò, in un gesto che sorprese entrambi. Sándor sorrise, ma Marko ebbe l’impressione che avesse gli occhi umidi. Sándor si chinò su di lui
  e lo baciò. Questa volta Marko gli prese la testa
  tra le mani e ricambiò il bacio. Qualche cosa dentro di lui si scioglieva. Il
  peso che sentiva gravare su di sé si alleggeriva.  Si baciarono ancora. Poi
  Sándor gli sbottonò la giacca e la camicia e gli passò una mano sul petto. - Sándor! Gli tolse le scarpe, le
  calze, gli calò i pantaloni e le mutande. Marko si
  sollevò e si tolse la giacca e la camicia. Ora era nudo. Gli sembrava che
  nella sua testa non ci fossero pensieri, ma un grande vuoto, in cui
  galleggiava. Sándor incominciò a
  spogliarsi. Si toglieva gli indumenti con movimenti lenti. La giacca, i
  pantaloni, le calze, le mutande e infine la camicia. Marko
  lo guardò. Conosceva quel corpo, che ritornava nei suoi sogni, nei suoi
  pensieri. Grande e forte, incuteva soggezione. Guardò il cazzo, poi alzò lo
  sguardo sul viso di Sándor. Non riusciva a leggergli in faccia ciò che
  provava. - Ti amo, Sándor, ma... Sándor lo interruppe: - Anch’io ti amo, Marko. E non ci sono ma. Sándor lo accarezzò
  nuovamente, dal viso al petto. Poi la mano scese al ventre e si posò sul
  sesso. Marko sentì che il suo corpo reagiva e si
  abbandonò a quelle carezze. Poi si girò e divaricò un po’ le gambe, mentre
  diceva: - Nessun altro mi ha mai preso,
  Sándor. Questo almeno posso dirlo. Sándor salì sul letto e si
  inginocchiò tra le gambe di Marko, poi si distese
  su di lui, ma senza penetrarlo. Invece gli morse un orecchio e poi incominciò
  a passargli la lingua dietro l’orecchio e sul collo, facendolo rabbrividire
  di piacere. Gli morse una spalla e gli
  leccò nuovamente il collo. Poi si sollevò e Marko
  sentì la sua lingua sul culo. Sándor alternava morsi e carezze umide. Ad un
  certo punto gli strinse il culo con le mani, facendolo gemere. In Marko
  il desiderio si era risvegliato, violento, e l’attesa era una tortura,
  splendida, ma ormai quasi insostenibile. Eppure Sándor continuava, mordendo,
  baciando, leccando, accarezzando, stringendo la carne. E Marko
  si abbandonava alle sensazioni che le mani, le labbra, la lingua e i denti di
  Sándor destavano in lui. Infine Sándor si stese su
  di lui e Marko sentì il cazzo dell’amico entrare in
  lui, lentamente. Poi Sándor incominciò a spingere.  La sensazione di essere riempito, la
  coscienza di avere Sándor dentro di sé, la pressione di quella massa calda,
  tutto stordiva Marko. Sentiva un po’ di dolore, ma
  era soprattutto un piacere, sempre più forte, che lo stava riempiendo.
  L’intero suo corpo divenne piacere, puro piacere, violento e splendido. Sentì
  che il suo seme si spandeva e che quello di Sándor lo irrorava, mentre il suo
  culo si contraeva attorno al cazzo che lo trapassava.  Sándor lo abbracciò. Marko stava bene tra le braccia che lo stringevano. Il duca riprese a offrire cene
  e balli. L’unico cambiamento significativo fu che si allontanava solo di rado
  da Mala Sad. Alle sue cene ristrette partecipavano
  alcuni ufficiali, in particolare Von Kassa e
  Trevisan e a volte anche Kraus e Storm, ma le voci
  che un tempo circolavano sul duca si spensero, perché il suo nome non venne
  più associato a quello di un singolo ufficiale. L’amicizia tra il dottore e
  il duca non era oggetto di chiacchiere, perché c’era sempre stata,
  dall’arrivo del dottore in città.. Dei misteriosi omicidi e
  suicidi si parlò ancora a lungo. Un anno dopo la morte del colonnello
  Schneider, anche il maggiore Kovács si uccise.
  Tutti sapevano che la sua situazione era insostenibile, perché aveva
  accumulato debiti enormi che non era in grado di saldare, ma la sua morte fu
  collegata ai fatti dell’anno prima e in città circolarono le ipotesi più
  disparate. I giornali dell’Impero ripresero la notizia, ricordando i fatti di
  sangue precedenti. Ormai la sonnacchiosa Mala Sad
  era diventata la cittadina delle morti misteriose, una fama che l’accompagnò
  molto a lungo, anche se nei trent’anni successivi non ci furono più né
  omicidi, né suicidi.  | 
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