1 – Quattro nuovi
ufficiali Sándor Komives, medico
militare di stanza a Mala Sad, raggiunse la casa
dei Kramer, dove era invitato a cena. Sándor era tornato in giornata da una settimana
di licenza. Aveva mandato un biglietto ai Kramer, dicendo che sarebbe passato
a vedere la figlia. La bambina si era ammalata un mese prima ed era stata
presa in cura da uno dei medici della cittadina, che Sándor giudicava un
incapace. Le sue condizioni erano rapidamente peggiorate. Quando era
diventato evidente che la piccola rischiava di morire, i genitori, disperati,
avevano deciso di rivolgersi al dottor Komives: il medico militare godeva di
una buona fama e, anche se il suo compito era quello di curare la guarnigione
acquartierata nella caserma cittadina e non la popolazione civile, era
disponibile a intervenire quando glielo richiedevano. Grazie alle sue cure,
la bambina era rapidamente migliorata e poi guarita. Tra Sándor e i coniugi si
era sviluppato un rapporto di amicizia e quando ricevettero il biglietto del
dottore, decisero di invitarlo a cena. Sándor aveva accettato l’invito. Entrando trovò, accanto a
Johann ed Ewa Kramer, anche Kurt Kramer, il padre
di Johann, commissario nella gendarmeria cittadina. Questi lo accolse con un
sorriso, dicendo: - Quando Ewa mi ha detto che lei veniva a cena, mi sono invitato.
Avevo piacere di incontrarla. Il commissario era molto
affezionato alle nipotine e aveva una vera e propria venerazione per il dottore
che aveva salvato dalla morte la piccola Maria. La bambina arrivò di corsa,
gridando: - Zio Sándor! Zio Sándor! Lo chiamava zio e ai
genitori veniva da sorridere, perché la prima volta che Maria aveva visto
quest’uomo alto e massiccio, con un fitto barbone nero come la pece, si era
spaventata. Ma in breve avevano fatto amicizia. Sándor la sollevò da terra
e fece una giravolta, dicendo: - Ecco qui la mia
principessa. Ewa Kramer si asciugò di nascosto una lacrima.
Pensava all’angoscia dei giorni in cui avevano perso ogni speranza e poi al
rapido miglioramento della bambina grazie alle cure di Sándor: l’aveva vista
riprendersi di giorno in giorno e quando il dottore le aveva detto che Maria
era fuori pericolo, aveva provato l’impulso di baciargli la mano. A tavola parlarono della
settimana che Sándor aveva trascorso dai suoi genitori, in un paese vicino a
Szeged. Poi si passò a parlare della cittadina. Non c’era molto da dire, come
al solito: a Mala Sad la vita scorreva tranquilla,
senza grandi conflitti: non vi erano fabbriche e le idee socialiste non vi si
erano diffuse. La città era stata un centro prospero in passato, ma aveva poi
conosciuto un lento declino. In tempi recenti le
crescenti tensioni nella Penisola Balcanica avevano aumentato la sua
importanza militare, ma non sembravano avere una grande eco nella
sonnacchiosa cittadina. A un certo punto il
commissario osservò: - Sono arrivati i quattro
nuovi ufficiali che aspettavano. Sándor lo guardò sorpreso. - Come? Il colonnello
Schneider mi aveva detto che sarebbero arrivati la settimana prossima. - Li hanno mandati prima
del previsto. Il commissario rise e
proseguì: - Comunque non sfuggiranno
al suo controllo. A causa delle crescenti
tensioni con la Serbia il contingente dislocato a Mala Sad
era stato rafforzato. La caserma era stata ampliata e duecento soldati erano
arrivati prima della partenza di Sándor, che li aveva esaminati tutti. I nuovi ufficiali avrebbero dovuto arrivare
dopo il suo rientro, ma evidentemente i sottotenenti attesi erano giunti
prima della data prevista dal colonnello Schneider, comandante della
guarnigione. Sándor li avrebbe esaminati nei giorni seguenti: era molto
scrupoloso nel suo lavoro. Chiacchierarono a lungo, poi Sándor si congedò. Il
commissario uscì con lui, ma abitava in direzione opposta, per cui si
separarono subito. Era quasi mezzanotte, ma
non faceva freddo: si era ormai alla fine di aprile e il tempo era
rapidamente cambiato: quando Sándor era partito, l’inverno sembrava deciso a
non mollare la presa, ma, appena una settimana dopo, c’era un gradevole
tepore nell’aria. Tornando a casa Sándor passò davanti a uno dei casini,
proprio mentre ne usciva correndo un sottotenente. Komives non lo conosceva:
era certamente uno dei quattro nuovi arrivati. L’uomo gli finì addosso,
urtandolo con violenza: se il dottore non fosse stato un uomo molto robusto,
avrebbe rischiato di finire a terra. Sándor guardò lo sconosciuto: alla luce
della lanterna posta accanto alla porta vide che era un bel giovane, scuro di
capelli, con un viso ovale, dai lineamenti molto regolari, labbra carnose e
una corta barba. L’uomo alzò lo sguardo, fissò torvo Sándor e disse: - Che hai da guardare,
brutto stronzo? Era chiaramente ebbro.
Sándor non ritenne opportuno rispondere: non aveva nessuna intenzione di
mettersi a discutere con un ubriaco e aveva voglia di coricarsi. Era
piuttosto stanco per il viaggio e solo l’amicizia che lo legava ai Kramer lo
aveva spinto a fermarsi a lungo da loro. L’ufficiale però lo
afferrò per un braccio. - Vorrai mica andartene?
Ti faccio schifo, eh? Sándor scosse il braccio,
ma lo sconosciuto non sembrava intenzionato a lasciare la presa. Ne sentiva
l’alito, tanto saturo di alcol da stordire. - Mi lasci andare. - No che non ti lascio. Mi
devi delle scuse. La situazione era assurda.
Sándor fece un secondo tentativo di scrollarsi di dosso l’ubriaco, che a quel
punto si intestardì e cercò di farlo cadere, facendo pressione sul braccio,
ma il tentativo era risibile, vista la differenza di stazza, e non ottenne
nessun risultato. Allora il sottotenente, con un movimento fulmineo,
schiaffeggiò il dottore. Sándor rimase un attimo
sbalordito dal gesto, poi liberò il braccio bruscamente e, mettendo entrambe
le mani sul petto dell’uomo, lo spinse via. L’ufficiale cadde a terra. - Figlio di puttana. Mi
renderai ragione di questo affronto. Sándor scosse la testa, ma
ormai c’era poco da fare. - Riceverà il mio padrino
domani mattina. Il suo nome. - Il mio nome? - Sì, il suo nome. L’ufficiale rise, poi
disse: - Von Kassa, Konrad von Kassa. Von
Kassa. Rise di nuovo ripetendo il
cognome, come se lo divertisse. - Le manderò il mio
padrino domani. Sándor si allontanò
rapidamente. L’episodio lo aveva turbato, molto. Era contrario ai duelli, che
riteneva un retaggio assurdo del passato, ma non poteva sottrarsi. Gli sembrava stupido
rischiare la vita per un ufficiale ubriaco, ma se non avesse accettato la
sfida, l’intera cittadina avrebbe perso ogni stima di lui. Non intendeva
uccidere l’ufficiale, per quanto fosse furibondo con lui, ma non desiderava
neanche farsi uccidere. Sperava che, una volta sobrio, l’ufficiale si
rendesse conto del suo comportamento e gli porgesse le scuse, ma non lo
conosceva e non era in grado di sapere quale fosse la sua condotta quando non era ubriaco. Dormì malissimo nella
notte e in mattinata si recò dall’avvocato Kleist, che era suo amico. Hector
Kleist ascoltò la narrazione dell’accaduto prima divertito, poi preoccupato e
infine angosciato: non poteva accettare l’idea che Sándor, a cui era molto
legato, rischiasse la vita. Represse l’angoscia, ma
nella sua voce vibrava la rabbia quando, dopo che Sándor ebbe finito di
raccontare, disse: - Quell’idiota deve
chiederti scusa. Il medico alzò le spalle. - Non so se lo farà. In
ogni caso non posso sottrarmi. - Devi rivolgerti al
colonnello Schneider. O se preferisci non farlo tu, visto che sei parte in
causa, lo farò io. È un comportamento inqualificabile. Schneider era il
colonnello che comandava la guarnigione e aveva fama di essere molto rigido. - Parla con l’ufficiale,
poi vedremo il da farsi. Hector Kleist si recò
nella caserma dove alloggiava la guarnigione e chiese di parlare con il
sottotenente Konrad von Kassa. Pochi minuti dopo von Kassa entrò nella stanza dove Hector lo aspettava. - Sono il sottotenente von
Kassa. Ha chiesto di me? Henrik guardò l’ufficiale,
un giovane di media statura, con un viso simpatico, incorniciato da capelli e
barba di un castano scuro, in cui spiccavano gli occhi marrone. Nessun segno
della sbronza del giorno prima. A guardarlo non sembrava né aggressivo, né
stupido, tutt’altro. - Buongiorno. Vengo da
parte del dottor Komives. L’ufficiale non disse
nulla. Sembrava aspettare un chiarimento, come se non sospettasse i motivi
per cui Kleist era lì. - Non conserva memoria di
ciò che è avvenuto ieri sera? Von Kassa
sembrò disorientato. - Ieri sera? Non capisco.
A che cosa si riferisce? - Non ricorda di aver
incontrato il dottor Komives, all’uscita dal casino? L’ufficiale pareva non
capire. - Non sono stato al casino
e non ho incontrato nessuno. Hector era sempre più
perplesso. Non gli sembrava che l’uomo fingesse. Aveva davvero dimenticato
tutto? Sarebbe stata un’ottima cosa: la faccenda si sarebbe conclusa con due
parole di spiegazioni, senza conseguenze. - Lei aveva bevuto molto
ieri sera. Von Kassa
scoppiò a ridere. Poi disse: - Mi scusi, ma i compagni
mi prendono in giro perché non bevo. Un bicchiere di vino o due dita di liquore
sono il massimo che mi concedo e lo faccio solo quando sono invitato da
qualcuno, per non apparire scortese. Henrik rimase senza
parole. Von Kassa non mentiva, di questo era
sicuro. - Signor sottotenente, le
racconterò ciò che è successo. In breve, il dottor Komives ieri sera,
tornando a casa, è stato urtato da un ufficiale, completamente ubriaco, che
lo ha anche insultato e infine schiaffeggiato, sfidandolo a duello. Von Kassa
appariva alquanto sorpreso. Hector concluse: - L’ufficiale ha
dichiarato di chiamarsi Konrad von Kassa. Lo scatto dell’ufficiale
gli confermò che l’uomo non mentiva. - Questa poi! Non esiste
un altro von Kassa. Chi si è permesso… - Da quel che mi diceva il
dottore, l’uomo era completamente ubriaco, direi in stato confusionale. - Non sono io e se il
dottore vorrà venire qui… oppure possiamo andare da lui. Hector annuì. - Mi sembra la cosa
migliore, se non è un disturbo per lei. Lasciarono la caserma. Il
dottore abitava non molto lontano. Camminando Hector scosse la testa: - La faccenda ha
dell’incredibile. Se non conoscessi Sándor… il dottor Komives, direi che ha
voluto divertirsi alle mie spalle, ma non è da lui. Quando raggiunsero lo
studio del dottore, Hector fece le presentazioni. - Il dottor Komives, il
sottotenente von Kassa. - Ma… ma… non è lui. - Infatti. A quanto pare
l’ufficiale che hai incontrato era talmente sbronzo che ti ha dato il nome di
un altro. Konrad fremeva. Sándor
appariva dubbioso. Sembrava riflettere. Dopo un momento di silenzio disse: - La faccenda potrebbe
anche finire qui, ma credo che sia opportuno risalire all’identità
dell’ufficiale che si è presentato come von Kassa. - Riferirò ai miei
superiori, che ne parleranno al colonnello Schneider. O se preferisce farlo
lei… - Senta, prima di
coinvolgere il colonnello, mi piacerebbe capire chi è l’uomo che ho
incontrato. Non l’avevo mai visto prima e in quanto medico conosco tutti gli
ufficiali della guarnigione. - Allora sarà senz’altro
uno di noi nuovi sottotenenti. Siamo arrivati in quattro, pochi giorni fa. - Lo so, me l’hanno detto. Hector non aveva più
aperto bocca, ma ora intervenne. - Lei ha un’idea di chi
possa essere? - Sinceramente no. Ma se
ne occuperà il colonnello. Sándor riprese: - No, se non le spiace,
preferirei prima parlargli io. Era completamente ubriaco. Ieri sera lo avrei
preso a pugni volentieri, ma… prima di parlarne a un suo superiore, con le
conseguenze disciplinari che ci possono essere… voglio capire che tipo è. - Me lo può descrivere? - Giovane, come lei, e
della sua stessa altezza direi, no… forse un po’ meno, di corporatura snella, bruno,
con lineamenti molto regolari. Un gran bel giovane. Konrad non aveva dubbi:
Albert Rothaus era biondo e Friedrich Holzkammer era bruno, ma molto alto e
tutt’altro che bello. Georg Kraus invece corrispondeva perfettamente alla
descrizione. - Credo di aver capito di
chi si tratta. - Benissimo. Se può
invitarlo a venire da me… - Senz’altro. Nella sua stanza il
sottotenente Georg Kraus era seduto al tavolo. Cercava di ricostruire nella
memoria quanto era successo la sera prima, anche se il violento mal di testa
gli rendeva difficile concentrarsi. Per fortuna era domenica, non c’era la
solita esercitazione mattutina. Nelle condizioni in cui si trovava, non
sarebbe certo stato in grado di fare esercizi di nessun genere. Che cosa era successo?
C’era qualche cosa di importante, che non riusciva a ricordare. I compagni
avevano cercato di portare lui e Konrad al casino. Konrad si era sottratto,
ma lui, per sfuggire alle loro prese in giro, aveva ceduto. Al casino aveva
bevuto. Lo avevano fatto bere. Non era abituato a bere molto, preferiva non
farlo, perché reggeva male l’alcol. Ma aveva accettato, anche per darsi
coraggio, prima di scegliere una puttana, perché non era mai stato con una
donna. E poi… e poi era andato nella stanza… e aveva fallito miseramente. La
donna aveva cercato di consolarlo, dicendogli che era colpa dell’alcol. Era
stata buona con lui, ma gli era pesato moltissimo. Era rimasto al casino a
bere e l’alcol aveva trasformato la tristezza in rabbia. A un certo punto gli
era sembrato di non poter reggere un minuto di più ed era scappato via,
furente con il mondo intero. Era corso via. Fino a quel
punto i ricordi erano, per quanto confusi, abbastanza definiti da permettergli
di ricostruire la serata. E poi… e poi… Poi era successo qualche cosa. C’era
qualcuno. Ricordava qualcuno. Sì, uscendo aveva urtato qualcuno. E aveva
rovesciato su di lui tutta la sua rabbia. Non sapeva che cosa si fossero
detti. Ricordava di aver pronunciato il nome di Konrad. Perché? Perché
l’altro gli aveva chiesto il suo nome e lui… lui aveva dato il nome di
Konrad? Ma come aveva potuto fare una cosa simile? E perché l’uomo gli aveva
chiesto il suo nome? Lo… lo aveva sfidato a duello! E lui gli aveva dato il
nome di un altro! Ricordava che allora la cosa gli era parsa molto
divertente. Lentamente i ricordi emergevano e, man mano che l’incontro con lo
sconosciuto acquistava contorni più precisi, Georg sentiva l’angoscia
crescere. Aveva insultato uno
sconosciuto. Non solo, sì, lo aveva anche schiaffeggiato, sfidato a duello e
non aveva dato il suo nome, aveva dato quello di Konrad. La testa gli scoppiava, ma
non se ne accorgeva più. Era annichilito. Non c’erano soluzioni. Si
sedette al tavolo e prese la pistola. Doveva spararsi un colpo. Scrivere una
lettera di scuse e spararsi un colpo. Due lettere, una per Konrad e una per
lo sconosciuto, ma non sapeva neanche a chi indirizzarla. Si mise le mani sulla
faccia, sopraffatto dalla vergogna. Poi si riscosse, intinse
la penna nel calamaio e scrisse una breve lettera di scuse a Konrad. Mise il
foglio in una busta e vergò l’indirizzo, ma prima di chiudere, pensò che
Konrad stesso avrebbe potuto far arrivare la lettera all’uomo che lui aveva
sfidato a duello: questi si sarebbe certamente rivolto a Konrad, visto che
lui aveva detto di chiamarsi von Kassa. Scrisse poche parole di
spiegazione e di scuse, aggiunse due righe alla lettera a Konrad, pregandolo
di occuparsi di far arrivare la lettera al destinatario, e chiuse la busta.
Prese la pistola. Era assurdo morire a ventiquattro anni per aver bevuto
troppo, ma non aveva altre vie. Pensò ai suoi genitori e l’angoscia lo
travolse. Sentì le lacrime che scendevano. Avrebbe dovuto scrivere anche a
loro, ma non se la sentiva. Prese la pistola e se la
puntò alla tempia. In quel momento sentì
bussare alla porta. Si chiese se spararsi subito, ma poi posò la pistola
vicino alla lettera e andò ad aprire. Vedendo Konrad sussultò. - Ciao, Georg. Avrei
bisogno di parlarti un attimo. Georg annuì e gli parve
che la testa gli esplodesse. Konrad proseguì: - Mi fai entrare? Georg si rese conto di
essere rimasto sulla soglia. - Sì, certo. Vieni pure
dentro. Si spostò. Konrad entrò.
Georg lo vide fermarsi davanti al tavolino, forse colpito dalla pistola.
Konrad aggrottò la fronte. - Che cosa significa la
pistola, Georg? - La… la stavo pulendo. - E la lettera indirizzata
a me? Georg chiuse gli occhi.
Poi li riaprì, si diresse al letto e si sedette. Konrad attese un momento, poi
chiese: - È… per quanto è successo
ieri sera? Georg alzò gli occhi.
Konrad vide il luccichio delle lacrime. - Lo sai già? - Ho ricevuto la visita
del padrino del dottor Komives. Georg scosse la testa, ma
nuovamente sentì una fitta lancinante. - Ero completamente
ubriaco, Konrad. Non so esattamente che cosa ho fatto, ma quello che ricordo
è una vergogna incancellabile. E poi… poi gli ho dato il tuo nome. Mi
sembrava una cosa divertente. Dio mio! Nuovamente scosse la testa
e la fitta lo paralizzò. Disse ancora: - Che cos’altro potrei
fare? Konrad lo guardò. Se si
fosse trovato nella stessa situazione, anche lui avrebbe visto nel suicidio
l’unico modo di uscirne conservando un minimo di dignità. L’idea che Georg si
uccidesse gli pesava. Si conoscevano solo da pochi giorni, ma, essendo
arrivati insieme nella caserma, avevano fatto amicizia, anche se non c’era
stato il tempo per approfondire la conoscenza e creare un legame profondo.
Konrad era comunque affezionato a Georg. - Quello che devi fare, è
venire con me dal dottore. Lui ha chiesto di parlarti. Mi sembra un uomo
sensato. Mi ha chiesto di non parlarne con il colonnello. Credo che voglia
capire perché ti sei comportato così. E la cosa finirà lì. Georg avrebbe preferito
tirarsi un colpo subito: l’idea di dover affrontare il dottore, dopo quello
che era successo la sera prima, lo atterriva. Ma non poteva sottrarsi: aveva
il dovere di chiedere scusa di persona, visto che se ne presentava
l’occasione. - Va bene. Mi scuserò con
il dottore e… Non completò la frase. La
completò per lui Konrad: - E poi vedremo il da
farsi. Andiamo. Si diressero verso la casa
del dottore. La domestica li fece accomodare nello studio. Sándor riconobbe
immediatamente il giovane che lo aveva insultato e schiaffeggiato, ma lo
sgomento che gli lesse in viso lo rappacificò con lui. Con uno sforzo Georg
parlò: - Dottore… il mio
comportamento di ieri sera è stato inqualificabile e neppure l’ubriachezza
può scusarmi. Le porgo le mie scuse, perché altro non posso fare. Se vuole
che ci affrontiamo in duello, ha tutto il diritto di chiederlo e le assicuro
che mi lascerò ammazzare come un cane, perché sono proprio solo un cane. Sándor non rispose subito.
Per un momento rimase a osservare il giovane, poi sorrise e disse: - Detesto i duelli. Li ritengo
un costume barbarico, come diceva Rousseau, e spero che vengano proibiti,
come hanno da poco fatto in Italia. L’ultima cosa al mondo che vorrei è
essere coinvolto in un duello e certamente non ho nessuna intenzione di
ucciderla. Ho scelto di diventare medico per salvare vite, non per spegnerle.
Ieri sera l’avrei presa a pugni volentieri, lo ammetto, ma mi rendo conto che
era ubriaco e non era in sé. Georg annuì, lentamente,
perché gli sembrava che la testa gli scoppiasse. Il dottore proseguì: - Accetto le sue scuse, ma
le chiedo un impegno. - Quello che vuole. Georg aveva risposto senza
esitare, certo che il dottore gli avrebbe chiesto di non ubriacarsi più. Non
avrebbe più corso il rischio di bere troppo: si sarebbe ucciso quello stesso giorno.
Le parole di Komives lo presero di sorpresa: - Le chiedo di non
uccidersi. Konrad ebbe un piccolo
sussulto. Il dottore era davvero perspicace e aveva colto le intenzioni di
Georg. Questi rimase senza parole, poi abbassò il capo e rispose: - Le ubbidirò. Glielo
devo. Sándor sorrise. - Esatto. Su questo siamo
d’accordo. Mi auguro anche che in futuro eviterà di alzare il gomito, ma
questi sono affari suoi. Sul viso di Georg apparve
una smorfia che probabilmente era un sorriso. - Credo che il ricordo di
quanto è successo mi renderà molto facile non cadere in tentazione. Il dottore si rivolse a
Konrad. - Signor sottotenente, le
posso chiedere di mantenere il più completo silenzio su quanto è successo? Io
non ne parlerò a nessuno e chiederò di tacere anche all’amico che avevo
scelto come padrino. Di certo non dirà una parola. Se anche lei si impegna a
tacere, di questa storia nessuno saprà mai nulla. Credo che sia meglio così,
per tutti. - Sì, è meglio che non si
sappia. Non ne parlerò di sicuro. - La ringrazio. Georg e Konrad uscirono
molto sollevati: nessun altro avrebbe saputo della faccenda. Konrad si disse
che probabilmente l’esperienza avrebbe aiutato Georg a non eccedere nel bere. Georg rimuginava
sull’accaduto. - Che vergogna! Come ho
potuto fare una cosa del genere… - Eri completamente
ubriaco. Non eri tu. - Sono stato una bestia a
ubriacarmi in quel modo. Non pensavo… - Non pensavi di essere
così quando ti ubriachi? Adesso che l’hai scoperto, credo che ti controllerai
nel bere. - Mi sa che seguirò il tuo
esempio. Un bicchiere di vino e due dita di liquore. E lascio che gli altri
mi prendano in giro. - Ci terremo compagnia in
questo. Konrad rise, poi decise
che era meglio cambiare argomento. - Sai che giovedì prossimo
il duca Jergović dà una delle sue cene? Ha invitato tutti gli ufficiali
e ha detto che vuole conoscere noi quattro. Ci saranno anche altri suoi
ospiti, ma non so chi siano. Sono curioso di conoscerlo. Ho sentito parlare
molto di lui. Marko Jergović, duca di Travnik e Zeneca, era il principale
signore della regione. La sua residenza si trovava a meno di due miglia dalla
città. Era una grande villa patrizia, di fatto un vero e proprio palazzo,
costruito nel Settecento. Sorgeva non lontano dai ruderi del castello di
famiglia, ancora visibili in cima a un’altura che si poteva scorgere dalla
caserma. Della roccaforte, distrutta dai Turchi alla fine del Seicento,
rimanevano intatti soltanto due torri e un tratto delle mura. La villa
sorgeva ai piedi della collina, in mezzo a un ampio parco. I ricevimenti del duca
erano la principale occasione mondana della cittadina. C’erano serate più
raccolte, con un numero ridotto di invitati, e altre a cui partecipavano
moltissimi ospiti. Il duca viaggiava spesso, recandosi nelle grandi capitali
europee e in alcune località termali, ma trascorreva nella regione più di
metà dell’anno. Per Georg e Konrad sarebbe
stata la prima occasione di entrare in contatto con l’alta società della
cittadina. Gli altri due nuovi ufficiali, Albert Rothaus e Friedrich Holzkammer,
provenivano da famiglia molto più ricche e importanti. Si erano già
presentati alla contessa Katarina Kressmann, nel cui salotto si ritrovavano
regolarmente gli esponenti della nobiltà cittadina. Friedrich e Albert si conoscevano
da tempo, perché le loro famiglie erano legate e loro due avevano prestato
servizio nella stessa guarnigione prima del trasferimento. La sera della
domenica si recarono insieme al bordello di Madama Henriette. In città ce
n’erano ben tre, nonostante le proteste del clero: la presenza di una grossa
guarnigione richiedeva un’offerta adeguata ed era meglio che soldati e
ufficiali frequentassero le prostitute, piuttosto che insidiare le donne del
posto. Il bordello di Madama
Henriette era il più elegante tra quelli della cittadina, di fatto riservato
agli ufficiali, ai nobili e ai ricchi borghesi. Nessun soldato semplice vi
sarebbe stato ammesso e d’altronde ben difficilmente un soldato semplice si
sarebbe rivolto a quel bordello, perché i prezzi erano molto alti. Anche tra
gli ufficiali, molti preferivano uno degli altri due bordelli o le prostitute
che esercitavano al di fuori dei bordelli. Madame Henriette si
spacciava per francese, ritenendo che fosse più adatto per un bordello di
qualità, ma in realtà era russa e si chiamava Yekaterina
Sokolova. La casa che gestiva era considerata la
migliore di tutta la regione e non era raro che vi venissero nobili e ricchi
borghesi di cittadine vicine: le tariffe erano molto alte, ma corrispondevano
alla qualità degli ambienti e delle ragazze. Friedrich e Albert
esaminarono con cura la merce: erano due intenditori. Scelsero le due donne
che giudicarono più attraenti e, come facevano ogni tanto, chiesero un’unica
stanza, con due grandi letti. Madame Henriette era troppo esperta del mondo
per mostrarsi stupita o scandalizzata, tanto più che aveva colto subito
l’essenziale: per i due nuovi ufficiali il denaro non era un problema. I due
erano disposti a pagare la cifra, non indifferente, che veniva richiesta per
non avere limiti di tempo o di prestazioni (tra quelle previste dalla Maison, che aveva comunque le sue
regole). Non era la prima volta che le veniva fatta una richiesta di questo
tipo e c’erano due camere, delle dodici presenti, che erano dotate di due
letti. Madame Henriette assegnò la Camera Rossa, la più ampia. Era un vasto
locale in cui le pareti erano coperte da una tappezzeria rossa, come rosse
erano le tende alle finestre e i copriletto. Grandi specchi alle pareti
offrivano la possibilità di vedersi durante l’attività. Albert si fece spogliare
da Margot, che si chiamava Margareta, ma come tutte
le prostitute del bordello di Madame Henriette aveva ricevuto un nome
francese. Ad Albert piaceva sentire mani femminili che gli toglievano gli
indumenti e soprattutto vedere l’ammirazione negli occhi della donna che lo
spogliava: sapeva di essere bello come di rado lo è un uomo. Era abituato a
vedersi ammirato dalle donne, e anche da molti uomini, e gli piaceva sentire
le lodi, che non gli venivano certo lesinate. Una volta lo stesso Francesco
Giuseppe aveva detto di lui che era il più bell’ufficiale di tutto l’esercito
austro-ungarico. Era biondo, con occhi azzurri intensi. Il viso aveva
lineamenti delicati, ma non effeminati, e il corpo era ben proporzionato in ogni
sua parte. Era davvero un giovane Apollo. Friedrich era
completamente diverso: era un gigante bruno, forte ma molto magro, con un
viso allungato su cui spiccava un naso troppo grosso. A differenza di Albert,
preferiva essere lui a spogliare le donne e lo faceva con modi bruschi, che
rasentavano la brutalità. Denudare una donna gli trasmetteva una sensazione
di potere. Sylvie (Silvija) sapeva stare al gioco:
conosceva il tipo d’uomo e non ne aveva paura. Mostrò il giusto grado di
ritrosia, senza esagerare: d’altronde un eccesso di pudore sarebbe stato
fuori luogo per una prostituta. Presto si ritrovarono
Margot e Albert nudi, di fronte a Sylvie e Friedrich ancora vestiti. In un
gioco che avevano fatto altre volte, Albert fece cenno a Sylvie di andare da
Friedrich, che gli inviò Margot: a entrambi piaceva scambiarsi le donne.
Così, mentre Friedrich spogliava Margot, Albert fece inginocchiare Sylvie
davanti a lui e le ordinò: - Succhiamelo. Dopo aver spogliato
Margot, Friedrich la fece stendere sul letto e si tolse gli abiti. Albert lo
guardava, non direttamente, ma in uno specchio. Gli piaceva vedere il corpo
di Friedrich uscire dagli abiti e soprattutto il suo grosso cazzo, già teso.
Scopare in presenza di Friedrich aumentava la sua eccitazione. Quando ebbero finito, si
stesero entrambi sullo stesso letto, con le due donne ai lati. Friedrich si
accese uno dei suoi grossi sigari. Ogni tanto soffiava il fumo in faccia a
Sylvie, che tossiva e protestava, ridendo, anche se il fumo le dava davvero
fastidio. Albert accarezzava il seno di Margot e guardava il cazzo di
Friedrich, a riposo, ma ancora gonfio di sangue. Chiacchierarono un po’ tra
di loro, come se le due donne non ci fossero. Poi Friedrich decise di fare un
bis, questa volta con Sylvie: guidò la mano della donna ad accarezzargli il
cazzo e quando fu pronto, si alzò e la sollevò con le braccia forti. La donna
rise. Friedrich appoggiò la testa tra i seni dei Sylvie, poi abbassò il corpo
che teneva tra le braccia fino a che non l’impalò sul suo cazzo teso. Guardando l’amico in piedi
che scopava la donna, Albert sentì l’eccitazione crescere. Senza smettere di
osservare lo spettacolo, appoggiò una mano sulla nuca di Margot e guidò la
donna ad accogliere in bocca il suo cazzo: era il modo in cui preferiva scopare
con una donna. Dopo che furono venuti
entrambi, si distesero nuovamente sul letto e dormicchiarono un momento.
Infine si rivestirono e scesero. Il lunedì Georg si trovò a
dover di nuovo parlare con il dottore: secondo la prassi della caserma, Sándor
Komives visitava tutti i nuovi arrivati, soldati, sottufficiali o ufficiali.
Il dottore aveva fissato gli appuntamenti abbastanza distanziati, in modo da
avere il tempo di condurre una visita approfondita. Esaminò per primo
Friedrich Holzkammer, che colpì il dottore, perché era uno dei pochissimi
ufficiali alto quanto lui, anche se meno massiccio. Poi fu il turno di
Konrad, per cui il dottore provava un’istintiva simpatia. Il terzo fu Albert
Rothaus e il dottore fu sorpreso dal suo aspetto: davvero difficile trovare
un uomo di una bellezza così perfetta. Infine fu il turno di
Georg, che avrebbe fatto volentieri a meno della visita: si sentiva
mortalmente imbarazzato. Non poteva però sottrarsi. Il dottore colse subito
il suo stato d’animo e gli disse: - Sottotenente, scordi
quello che è successo l’altra sera. Io me lo sono già scordato. Adesso sono
il medico incaricato di controllare il suo stato di salute, come faccio con
tutti coloro che arrivano in caserma. Per cui lasci tutti i suoi pensieri,
come lascia tutti i suoi abiti. Georg si spogliò e si
sottopose alla visita, che il dottore condusse con l’attenzione abituale,
prendendo appunti su una scheda: era molto puntiglioso nel suo lavoro. Georg,
come gli altri tre ufficiali appena arrivati, godeva di buona salute e non
aveva mai avuto malattie significative, a parte quelle abituali
dell’infanzia, ma il dottore lo sottopose a un lungo interrogatorio, con
domande di cui a volte Georg non coglieva l’importanza, ma che sicuramente
avevano un senso preciso. Quando Georg fu uscito,
Sándor completò la scheda, poi rimase pensieroso. Aveva finito con il lavoro
della mattinata: era già passato in infermeria, dove c’erano solo due malati,
e aveva esaminato i quattro nuovi sottotenenti. Era rimasto colpito dalla bellezza
di Kraus e soprattutto di Rothaus. Erano entrambi molto belli, ma alquanto
diversi: un bel brunetto dalla carnagione scura Kraus, uno splendido biondo
dagli occhi azzurri Rothaus. Sicuramente sarebbero piaciuti tutti e due a Marko Jergović. A Sándor invece Rothaus non aveva
fatto una buona impressione: era bellissimo, senza dubbio, ma in lui aveva
colto una sicurezza di sé che sconfinava nell’arroganza, per cui aveva
provato un’istintiva antipatia. Aveva invece apprezzato molto Von Kassa, già quando
gli aveva parlato la prima volta: la visita aveva confermato l’impressione
positiva che aveva di lui. Un uomo schietto e leale, riservato ma cordiale,
dotato di intelligenza e sensibilità. Sembravano essere tutti e
quattro sani e probabilmente non avrebbe avuto molto a che fare con loro. La sera di martedì Albert
e Friedrich si recarono dai Kressmann. Vi erano già andati per presentarsi,
nel giorno di ricevimento della contessa, ed erano stati invitati alla serata
del martedì. La contessa era ben contenta di avere nel suo salotto i due
giovani, che discendevano da famiglie importanti: la loro presenza avrebbe
dato lustro al salotto e la bellezza di Albert Rothaus avrebbe senza dubbio
colpito tutte le donne presenti. Entrambi costituivano anche buoni partiti e
questo era un altro elemento di interesse, anche se non era probabile che i
rampolli di due famiglie altolocate di Vienna si sposassero in una cittadina
di provincia. A riunirsi a casa della
contessa erano i membri di una piccola nobiltà provinciale e il salotto della
padrona di casa non offriva certo un grande interesse per i due giovani,
abituati a frequentare la nobiltà viennese. Katarina Kressmann invitava solo
persone di famiglie nobili e questo escludeva la parte più vitale della
società cittadina. Molti dei frequentatori abituali sembravano convinti di
vivere ancora nel mondo dei loro nonni, ignorando le profonde trasformazioni
sociali in atto. Era comunque l’unico
salotto nobiliare della città. Il duca non era sposato e non teneva certo un
salotto. Quando non era in giro per l’Europa, organizzava cene e feste da
ballo, a cui invitava nobili e borghesi: una mescolanza che in casa Kressmann
alcuni consideravano degradante. Durante la loro prima
visita, Albert e Friedrich erano stati colpiti dall’arredamento del salotto,
che probabilmente risaliva al secolo precedente. Anche gli ospiti sembravano
usciti da un quadro, se non del Settecento, almeno di inizio secolo. I
modelli degli abiti non erano certo quelli in uso a Vienna o a Budapest o
anche solo a Zagabria, ma le mode e le idee di Vienna sembravano perdersi
prima di arrivare a Mala Sad. Albert fu subito al centro
dell’attenzione: nulla di strano, visto che lui e Friedrich erano i nuovi
arrivati. Tutti gli sguardi però erano volti ad Albert e non all’amico. - Come si trovano qui a
Mala Sad? - Siamo arrivati da pochi
giorni, ma è una bella cittadina. La baronessa Monder sorrise e osservò: - Certo non offre molto a
chi è abituato a Vienna. I due ufficiali erano pienamente
d’accordo. Tra di loro avevano definito la città il buco di culo del mondo,
ma ovviamente Albert diede una risposta diversa: - Ha diversi aspetti
piacevoli e contiamo di scoprirne le bellezze segrete. La risposta era generica,
ma lo sguardo e il sorriso di Albert indussero le signore a pensare che ci
fosse un riferimento galante a loro. Albert sosteneva la
conversazione. Friedrich, che sapeva benissimo di non poter competere con
l’amico, si limitava a qualche breve intervento, per non apparire poco
socievole: il salotto della contessa non gli sembrava un posto attraente, ma
era l’unico che per loro avesse senso frequentare. - E come mai l’hanno
mandata da Vienna qui ai confini dell’Impero? Albert non aveva nessuna
intenzione di dire la verità, per cui rispose: - Mio padre ritiene che un
buon ufficiale debba conoscere la realtà di tutto il paese. E poi… la pensa
un po’ come Sua Maestà, il nostro imperatore. Sapete come Sua Maestà ha fatto
educare il principe ereditario, l’arciduca Rodolfo: prove di resistenza al
freddo e al sonno, disagi di ogni tipo, sveglie nel cuore della notte,
lasciato da solo nei boschi. - Ma davvero? Non ne
sapevo niente. - Era stato affidato al
maggiore generale, il conte Leopold Gondrecourt.
Finché non intervenne l’imperatrice in persona. - E lei ha avuto
un’educazione di questo tipo? Albert rise. Conosceva
benissimo l’effetto che il suo riso aveva sugli altri e in particolare sulle
donne. - No, non a questi
livelli. Ma a mio padre non sarebbe spiaciuto, per cui ha deciso di farmi
mandare qui, dove forse si combatterà. - Lei pensa davvero che
potrebbe scoppiare una guerra? La discussione si spostò
sull’argomento. - La penisola è una
polveriera. - I serbi sono fanatici. - Adesso che i Turchi
stanno perdendo il controllo della regione, esplodono i contrasti. Più tardi ci si divise in
gruppi. Alcuni giocarono, altri chiacchieravano. Albert e Friedrich avrebbero
preferito giocare, ma non riuscirono a sottrarsi alla curiosità degli altri
ospiti, per cui si rassegnarono alla conversazione: avrebbero giocato in
altre occasioni. In un momento in cui si
trovava in un gruppo in cui c’era la padrona di casa, Albert osservò: - Pensavo di incontrare il
duca Jergović. La contessa sorrise e
disse: - Il duca è spesso in
giro: Vienna, Budapest, Zagabria, Parigi… Quando è qui è sempre molto
impegnato. Il barone Jezić aggiunse: - È abituato a frequentare
l’alta nobiltà. Noi non siamo… abbastanza alti. Poi, indicando Friedrich,
disse, sorridendo: - Anche se il sottotenente
Holzkammer, in quanto ad altezza… Non completò la frase,
sicuro di aver fatto una battuta molto divertente. La smorfia di Albert fu
considerata un sorriso. Intervenne il conte Axelrode: - Il duca ha un grande
titolo, ma la sua famiglia l’ha ottenuto neppure due secoli fa, all’assedio
di Vienna. In questo salotto ci sono uomini le cui famiglie sono nobili da
oltre venti generazioni, i cui antenati hanno avuto l’onore di far parte
dell’Ordine sovrano di Malta. Albert era sicuro che il
conte si riferisse a se stesso. Non sapeva come mai un discendente di una
famiglia tanto illustre fosse finito a Mala Sad, ma
non era interessato a scoprilo. La spiegazione venne comunque fornita
dall’interessato, che non si lasciò scoraggiare dal silenzio
dell’interlocutore: - Dopo aver difeso Malta
dall’assalto dei turchi, uno degli Axelrode venne
qui, a difendere i confini dell’Impero dagli stessi nemici che avevano invano
attaccato Malta. Come vede, abbiamo una storia alle spalle, noi. Il conte si allontanò.
Albert si disse che oltre alla storia molti dei presenti non avevano nulla
per cui valesse la pena frequentarli. E lui non era interessato alla storia. Dopo alcune ore di noia,
Albert e Friedrich si congedarono. Tornando in caserma, commentarono la
serata. - Dove siamo finiti! Non
ce n’è uno che si salvi. - Vecchie cariatidi,
ridicole. - Il barone Jezić è proprio una caricatura. - E la contessa Bretter? Faceva la civetta con te. E potrebbe essere tua
nonna. - Capisco che il duca non
frequenti il salotto. Per uno abituato al gran mondo, c’è da morire. - Spero che riusciamo a
tornare a Vienna. - Non sarà tanto presto: i
nostri genitori ci lasceranno marcire qui per un po’. Friedrich annuì. Il
trasferimento era stata una punizione per gli eccessi della loro vita a
Vienna. Il padre di Albert, generale molto influente, aveva deciso di
allontanarli dalla capitale, in modo che fossero costretti a condurre una
vita meno sregolata. Nella sua posizione farli trasferire a Mala Sad aveva richiesto solo un colloquio di pochi minuti con
le autorità competenti. |
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