I –  I mercanti

II – La setta

III – Manovre

IV – La disfatta

 

V – Addii

 

 

Anche castello San Marco è caduto nelle mani del Leone. Le sue truppe potrebbero arrivare in tre giorni a Rougegarde, ma si sono fermate. Probabilmente Ubayd attende ordini da Salah ad-Din, che vuole avere il pieno controllo della situazione.

Rougegarde è una preda preziosa, la più importante dopo Gerusalemme, ma non è una preda facile: le truppe del Cane dagli occhi azzurri non hanno subito sconfitte e costituiscono un avversario temibile. Nell’attuale situazione del regno, la resa della città è ormai inevitabile, ma il prezzo che Ubayd dovrà pagare potrebbe essere molto alto.

Denis ha ricevuto qualche giorno fa una lettera, che ora rilegge. Ha riflettuto a lungo sul suo contenuto. Adémar di Bellerivière, zio di Denis, ha scritto prima degli ultimi rovesci che segnano la fine del dominio cristiano su Gerusalemme e sulle regioni dell'interno, ma la sua lettera è arrivata al momento giusto.

Denis convoca il figlio e Manrique. Si rivolge direttamente a Pierre:

- Adémar di Bellerivière non sta bene e ritiene che la sua fine non sia lontana. Egli mi nomina suo erede e chiede che uno di noi due torni in Francia per essere presente alla sua morte e assicurare che il passaggio della contea avvenga senza problemi.

Pierre annuisce e guarda suo padre. La notizia non lo stupisce: Adémar, zio di suo padre, è molto anziano e ha perso l’unico figlio, per cui Denis d’Aguilard è il suo erede naturale. Negli anni in cui Pierre è vissuto presso di lui, Adémar gli ha spesso detto che un giorno lui sarebbe divenuto conte di Bellerivière e che avrebbe dovuto scegliere tra l’Occidente e l’Oriente.

A turbare Pierre è la domanda che non osa porre. Chi tornerà a Bellerivière, chi lascerà la Terrasanta? Pierre sa che dovrebbe essere a lui tornare, poiché è vissuto a lungo a Bellerivière e perché suo padre è il signore di Rougegarde. Dallo zio ritroverebbe sua madre, che desidera rivedere, ma questo significherebbe una separazione da suo padre. 

- Pierre, sarai tu a partire senza indugi, tra tre giorni, e tornerai in Francia per rimanere accanto a tuo zio e assumere il titolo e il governo della contea alla sua morte.

Pierre guarda suo padre. Prova un’angoscia senza fine. Denis prosegue:

- Quello è il futuro. Gerusalemme e Rougegarde cadranno nelle mani dei saraceni: è solo una questione di tempo, di poco tempo, ormai.

- E voi, padre? Perché restate, se la città è condannata?

- Voglio che il passaggio della città sotto il dominio saraceno avvenga con il minor spargimento possibile di sangue. Quando sarà fatto, vi raggiungerò.

“Vi raggiungerò”. Che cosa intende suo padre?

Denis prosegue, volgendosi verso Manrique:

- Anche tu, Manrique, partirai con Pierre. Sempre che tu non decida di lasciare il mio servizio: in questo caso non posso obbligarti. Ma Pierre ha bisogno di avere al suo fianco un uomo valoroso, esperto e fedele e tu sei l’unico su cui posso davvero contare.

Manrique risponde, con voce ferma:

- No, mio signore. Rimango al vostro servizio, ma non partirò.

Denis guarda Manrique, stupito. Mai Manrique si è rifiutato di eseguire un suo ordine.

Manrique prosegue:

- Non lascerò il mio signore ora che i saraceni minacciano la città.

- Pensi di fermare tu da solo i saraceni?

- No, mio signore, ma non vi lascio.

Denis scuote la testa.

- La tua dedizione ti fa onore, ma rimanere non avrebbe senso. Qui non puoi fare nulla.

- Posso cercare di proteggere il mio signore dai suoi nemici e poi scortarlo nel regno dei Franchi.

- Per me è più importante che tu protegga Pierre, Manrique. Lo capisci? Infinitamente più importante.

Entrambi sanno bene che è la verità, ma a Manrique pesa. Gli sembra di venir meno al suo dovere, non riesce ad accettare l’idea di abbandonare nel momento del maggiore pericolo un uomo a cui si sente legato da infiniti vincoli di riconoscenza, affetto, devozione, un uomo che gli ha salvato la vita in battaglia.

È Pierre a intervenire, cercando una soluzione.

- Non possiamo rimanere tutti qui fino al momento in cui dovremo arrenderci?

Nel tono di voce di Denis ora traspare una certa impazienza:

- Non so che cosa succederà allora, come avverrà. E non voglio dovermi angosciare per mio figlio. Partirete, tra tre giorni. È un ordine e non accetto che venga messo in discussione.

Poi Denis si avvicina a suo figlio e gli prende la testa tra le mani:

- Saperti al sicuro mi darà una tranquillità che non potrei mai provare se tu fossi qui. Lo farai per me, Pierre.

Denis si volta verso Manrique.

- Quanto te, Manrique Cabrera, sei ostinato come quelle capre da cui la tua famiglia prende nome, ma so che mi ubbidirai: non hai mai mancato a nessuno dei compiti che ti ho assegnato. È questo è davvero il più importante.

Denis d’Aguilard pensa che probabilmente è anche l’ultima volta che Manrique riceverà un ordine da lui, ma sa che dirlo renderebbe tutto più difficile.

Aggiunge:

- Manrique, partirai con Jeanne e Jacques, a meno che per qualche motivo loro non vogliano partire, ma non lo credo. Non c’è nessun futuro per loro, qui: San Giacomo d’Afrin è distrutta e Rougegarde cadrà nelle mani del Leone. So che sei molto affezionato a Jacques, Pierre, e ti chiedo, se non potessi farlo io, di provvedere al suo futuro.

Pierre sente l’angoscia salire dentro di lui. C’è nelle parole di suo padre un addio che non può accettare.

- Padre, vi prego, lasciatemi rimanere qui. Io…

- Basta! Non ha senso continuare a discutere. Manrique, è bene che tu parli con Jeanne e con Jacques e veda che cosa intendono fare. Quanto a te, Pierre, preparati per la partenza. Pensa a ciò che vuoi portare con te, oltre a ciò che ti affiderò: ciò che rimarrà a Rougegarde, anzi, a al-Hamra, non potrà essere recuperato in nessun modo.

Pierre vorrebbe ancora ribattere, ma lo sguardo di suo padre lo blocca.

 

Pierre si ritira nella sua stanza. Si avvicina alla finestra e guarda fuori, ma non vede nulla: è completamente concentrato sui suoi pensieri.

Non gli spiace tornare in Francia, dove ritroverà sua madre. Se Rougegarde è destinata a cadere nelle mani del Saladino, non gli rimane nessun motivo per voler restare oltremare. Ma separarsi dal padre gli pesa moltissimo e sapere di lasciarlo in una situazione di grave pericolo, ancora di più. Capisce che suo padre voglia saperlo al sicuro e si rende conto di non potergli negare questo, ma non è facile accettare di partire in queste condizioni.

 

Manrique è agitato da pensieri simili. Raggiunge Jeanne, a cui deve comunicare la decisione del duca. La donna si accorge subito che il marito è angosciato.

- Che succede, Manrique? Sei molto turbato.

- Lo sono, Jeanne. Il duca mi ordina di partire con suo figlio per Bellerivière. Consiglia che tu e Jacques, se siete d’accordo, partiate con me.

Jeanne ha già intuito ciò che angoscia Manrique.

- Il duca rimane e a te pesa lasciarlo.

- Sì, Jeanne, nel momento peggiore, quando il pericolo è più grave, partire, abbandonarlo… mi sembra orribile.

- Ti affida ciò che ha di più caro: suo figlio. Ha bisogno di te per questo, non per difendere una città che non può più essere difesa.

- Lo so, Jeanne, lo so. Lo capisco, ma non posso accettarlo. Se ci fosse ancora da combattere, vorrei poter morire al suo fianco.

- Purtroppo non sempre possiamo scegliere di fare ciò che desideriamo. Per lui la cosa più importante è sapere Pierre al sicuro, con te a vegliare su di lui.

Manrique annuisce. Jeanne non gli sta dicendo nulla che già non sappia, che già non gli abbia detto Denis. Sa che hanno ragione, ma si sente lacerato.

Jeanne riprende:

- Non puoi sottrarti, Manrique. Non puoi rifiutargli ciò che ti chiede, ciò di cui davvero ha bisogno. Sarebbe davvero un tradimento.

Le sembra che Manrique abbia le lacrime agli occhi. Non lo ha mai visto piangere. Lo abbraccia. Manrique poggia la testa sulla sua spalla e chiude gli occhi. Lascia che le lacrime scorrano.

Poi Manrique racconta il poco che c’è da raccontare. Ci sono molte cose da fare per preparare la partenza. Jeanne si occuperà di tutto. Chiamano Jacques e lo informano della decisione. Il giovane non appare turbato all’idea di lasciare Rougegarde. Sua madre, Manrique e Pierre sono le persone a cui è più affezionato. Non ha motivi per voler rimanere nel Regno di Gerusalemme. O forse ce n’è uno: c’è una persona da cui sarà difficile separarsi.

 

Intanto Denis ha convocato Philippe, barone di San Giacomo d’Afrin.

- Buongiorno, barone. Ho bisogno di parlarvi.

- Ditemi, duca.

- Mio figlio Pierre partirà per la Francia, per la contea di Bellerivière, di cui sarà il signore. Con lui partiranno vostra zia e vostro cugino Jacques. Rougegarde è condannata e presto tornerà in mano ai saraceni. Vi chiedo che cosa pensate di fare. Se volete partire per Bellerivière, potrete essere tra i cavalieri che accompagneranno mio figlio. Siete un valente guerriero e mio figlio sarà lieto di avervi al suo fianco.

Philippe fa un leggero inchino e risponde:

- Vi ringrazio, duca. È un’offerta generosa la vostra. Ci penserò, ma credo che rimarrò qui in Terrasanta, fino a quando sarà possibile. So che San Giacomo ormai non esiste più e che probabilmente la stessa Gerusalemme è perduta, ma vorrei rimanere là dove ancora si combatte in difesa del regno.

- Come desiderate. Di qualunque cosa abbiate bisogno, potete contare su di me.

- Posso chiedervi che cosa farete voi, duca?

- Non lo so. Non dipende da me. Prenderò contatti con Ubayd al-Asad, per evitare che Rougegarde subisca la stessa sorte di San Giacomo. Vedrò quali richieste avanza.

Philippe non chiede altro. Saluta e si congeda.

 

Jacques è sceso nel laboratorio di Solomon. L’orafo è al lavoro.

- Buongiorno, barone.

- Buongiorno, Solomon. Sono venuto a salutarvi.

- Partirete con Pierre d’Aguilard, a quel che ho sentito.

- Sì.

- È una scelta saggia.

- È una scelta quasi obbligata.

C’è un momento di silenzio.

- Sono contento che siate passato da me. Ho preparato un oggetto per voi.

- Per me?

- Aspettate.

Solomon passa nel retro del laboratorio e torna con un bracciale d’oro, con lo stemma dei signori di San Giacomo in smalto. Il monile è, come tutti i lavori di Solomon, un oggetto raffinato.

- È bellissimo, Solomon. Non ho mai visto un simile gioiello. È un dono troppo prezioso. Io…

- È un dono, barone. Come tale non può essere rifiutato senza offendere chi ve lo offre. E voi non volete offendermi, vero?

Jacques scuote la testa e sorride.

- No di certo.

- Allora va bene così. Non ne parliamo più.

- Grazie. Davvero grazie.

Solomon non replica. Jacques si mette il bracciale al polso e lo ammira, poi chiede:

- Che cosa farete, Solomon?

- Non lo so, non dipende da me.

- Da che cosa dipende?

- Da tanti elementi. Vedremo.

È chiaro che Solomon non intende spiegare e Jacques non insiste. È altro ciò che ora gli preme. 

- Solomon, ho molto riflettuto alle cose che ci siamo detti.

Solomon annuisce, senza dire nulla.

- Ho pensato a ciò che mi avete raccontato, al vostro incontro con il fabbro. Credo che abbiate ragione. C’è sempre uno scarto tra ciò che ci immaginiamo e la realtà.

- Sì. Quasi sempre.

- Ma mi sono anche detto che non è un buon motivo per rinunciare a realizzare i propri sogni.

- Vi do ragione. Non possiamo rinunciare a vivere perché la realtà non può essere perfetta come i nostri sogni.

C’è un momento di silenzio. Jacques sa che deve parlare. Ha deciso, ma adesso è in imbarazzo all’idea di dire ciò che ha in mente. Si fa forza:

- Solomon, ho pensato al vostro incontro con il fabbro e…

Si interrompe. Solomon sorride e dice:

- E…?

- Credo che abbiate capito quello che vorrei dire.

- Credo di sì, ma in questo caso è necessario che lo diciate voi.

Jacques annuisce.

- Solomon, ho avuto alcune esperienze. Ho conosciuto altri corpi. Non mi sono mai dato a nessuno.

L’imbarazzo cresce, ma Jacques si sforza di concludere:

- Vorrei che foste voi il primo.

Solomon annuisce.

- Lo farò volentieri.

Poi aggiunge:

- Spero che ciò che avverrà non sarà troppo lontano da ciò che avete sognato.

Jacques non dice nulla. Gli sembra che gli manchino le parole.

Solomon va alla porta del laboratorio e la chiude, poi si dirige verso un locale più interno.

- Venite.

Dal secondo locale passano a una stanza con il letto in cui Solomon dorme quando si ferma a palazzo. In realtà non capita quasi mai che usi il letto, perché se rimane a palazzo, dorme con Denis: un passaggio interno gli permette di raggiungere l’appartamento del duca.

Jacques entra nella stanza. Solomon passa dietro di lui e lo stringe. La sensazione è bellissima: le braccia dell’orafo che lo cingono, la testa che gli si appoggia sulla spalla, il corpo che preme contro il suo. Poi una delle sue mani accarezza il viso di Jacques. C’è una delicatezza estrema in questa carezza. Le dita si muovono leggere, sfiorano la pelle, giocano con i capelli, passano sulla tunica e si fermano alla cintura. E sono delicate anche le labbra che si posano sul collo, i denti che mordicchiano il lobo di un orecchio.

Rimangono in piedi, sulla soglia: Jacques sta bene così, tra le braccia forti dell’ebreo. È venuto per scopare, ma in questo momento desidera solo rimanere così.

Solomon incomincia lentamente a spogliarlo. Gli sfila la tunica, poi le sue dita indugiano sul petto, accarezzano il torace, stringono con forza i capezzoli, prima uno, poi l’altro. Poi una mano scende e stringe più in basso. Jacques sente che il desiderio si accende. Geme. Solomon continua a baciargli la nuca e il collo, a mordicchiargli un orecchio o la spalla, a pizzicargli i capezzoli, ad accarezzarlo, dal ventre al viso. Jacques chiude gli occhi e si abbandona completamente a queste sensazioni così intense. Gli sembra di non essere mai stato così bene.

Solomon gli scioglie la cintura e gli cala i pantaloni. Jacques si libera della calzature e dei pantaloni e rimane nudo. Solo al polso ha il bracciale che gli ha donato l’orafo. Solomon lo stringe nuovamente tra le braccia, poi lo volta e lo bacia, un bacio appassionato. Jacques sente la lingua dell’orafo premere contro i suoi denti. Socchiude la bocca e la lingua si infila dentro, poi si ritrae. Jacques spinge in avanti la sua e le due lingue giocano a cercarsi, trovarsi, accarezzarsi.

Le mani di Solomon scorrono lungo la schiena, poi l’ebreo si inginocchia e bacia il cazzo di Jacques, una, due, tre volte. Lo bacia ancora, lo mordicchia, gli passa la lingua sopra, dalla cappella alla base, più volte, poi lo avvolge con le labbra e incomincia a succhiarlo, con energia. Jacques gli accarezzo la testa. China il capo fino a sfiorare quello di Solomon. Avverte il desiderio di baciarlo.

Solomon lavora un buon momento con la bocca, poi lascia la preda e le sue mani forti girano Jacques su se stesso. Solomon incomincia a mordicchiargli il culo. Morsi ora leggeri, ora più decisi. Poi la sua lingua si infila tra le natiche, lungo il solco, fino al buco, che stuzzica e accarezza. Infine sono le dita che incominciano a giocare con l’apertura, prima in superficie, poi spingendosi dentro, uscendo, ritornando ad avanzare, mentre l’altra mano stringe delicatamente le palle, le accarezza, percorre il cazzo e risale lungo il ventre. Jacques geme, mentre il piacere sale, sempre più forte. Si dice che se Solomon continua così, verrà.

Solomon si alza e passa davanti a Jacques. Si baciano.

- Spogliami.

Jacques annuisce. Le sue mani incominciano a sfilare la tunica, poi accarezzano il torace, si perdono tra la peluria che lo ricopre. Accarezzare questo maschio vigoroso è bellissimo. Solomon gli sorride, lo bacia di nuovo, lo accarezza, poi finisce di spogliarsi. Jacques guarda affascinato il suo cazzo, che svetta contro la peluria più scura del ventre. Gli sembra magnifico.

Solomon gli appoggia la testa sul petto, la sfrega un po’, poi le sue labbra incominciano a succhiare un capezzolo, la sua lingua lo avvolge, i denti mordono con decisione, strappando a Jacques un gemito più forte.

Solomon si china e, cogliendo Jacques di sorpresa, lo solleva da terra, caricandolo sulla sua spalla destra. Si muove verso il letto, portando con sé la sua preda. Poi posa Jacques sulle lenzuola, con dolcezza, e si stende su di lui. È pesante e al giovane piace sentire il suo peso, gli piace la sensazione di essere prigioniero di questo corpo forte. Si baciano ancora a lungo e poi, con dolcezza, Solomon lo volta, gli allarga le gambe e nuovamente la sua lingua scorre lungo il solco.

- Lo vuoi, Jacques?

- Sì.

Solomon passa ancora una volta la sua lingua tra i fianchi di Jacques, giocherella un po’ con le dita, stuzzicando ancora l’apertura, e infine il giovane sente la pressione della cappella che entra dentro il suo culo. Solomon si muove con lentezza, dandogli il tempo di abituarsi. Jacques aveva paura di provare dolore, ma l’ingresso è avvenuto molto dolcemente e la sensazione di questo cazzo dentro di il suo culo è splendida. Solomon si muove lentamente, a lungo, avanti e indietro, mentre le sue mani ancora accarezzano il viso e le spalle di Jacques, gli stringono il culo.

- Tutto bene?

- È bellissimo, Solomon, è bellissimo. Non credevo che potesse essere così bello!

A lungo Solomon procede e il piacere sale dal culo di Jacques, facendolo gemere senza ritegno. Solomon gli sussurra all’orecchio parole dolci e frasi sconce, ma Jacques quasi non sente quello che dice, travolto da un piacere che ormai lo avvolge tutto.

E quando infine Solomon spinge con più forza, Jacques sente il piacere esplodere, violentissimo. Jacques grida. Ancora una rapida successione di spinte e il seme di Solomon si riversa nel culo di Jacques.

È stato bello, molto bello. Rimangono così, Solomon steso su Jacques, il cazzo ancora nel culo del giovane, mentre la sua mano lo accarezza.

Jacques intuisce che l’esperienza di oggi non si ripeterà, che non troverà un uomo così attento a lui. Ciò che è successo oggi è un miracolo, uno di quei momenti di perfezione assoluta che di rado la vita regala. Sarà un ricordo custodito gelosamente, come il bracciale che porta al polso.

- Grazie, Solomon.

- Grazie a te, Jacques.

 

La partenza avviene due giorni dopo. Denis ha raccolto tutte le informazioni sulla strada da seguire. L’esercito del Saladino sta conquistando una dopo l’altra le città del regno: dopo Tiberiade è il turno di Acri, Sidone, Beirut. La parte meridionale del Regno sta cadendo nelle mani degli arabi e Gerusalemme è minacciata.

Denis accompagna con un forte contingente dei suoi uomini migliori il gruppo in partenza. Non vuole che corrano rischi, perché Pierre costituisce una preda appetibile, in quanto figlio del duca di Rougegarde, e viaggia con molto oro. Inoltre Denis teme un colpo di testa, perché sia Pierre, sia Manrique partono a malincuore e solo l’obbedienza che gli devono li ha forzati ad accettare il distacco.

Il viaggio si svolge senza problemi. Giungono in vista del porto di Santa Maria in Aqsa, che non è ancora stata investita dai saraceni.

Denis ferma il cavallo e dice:

- Io vi lascio qui.

Preferisce evitare di arrivare in città, dove gli addii potrebbero portare ad altre discussioni.

Avvicina la sua cavalcatura a quella di Pierre e lo abbraccia.

- So che governerai nel migliore dei modi. Abbraccia tua madre da parte mia.

Poi si rivolge a Manrique:

- Conto su di te, Manrique. So che con te al suo fianco, Pierre non avrà problemi.

Denis saluta Jeanne e Jacques, poi, senza dare il tempo per replicare, volta il cavallo, seguito dagli uomini della sua scorta.

Il gruppo scende verso la città. Sono tutti disorientati. Non si aspettavano questo addio così brusco.

In città Manrique e due uomini si occupano di cercare un passaggio per l’Europa. Non appare un’impresa facile, perché sono in molti e hanno con sé diversi beni. Manrique vuole evitare che debbano dividersi tra due navi, perché vuole poter sorvegliare il carico e proteggere Pierre, Jeanne e Jacques.

Sono in realtà molto fortunati: una nave proveniente da Genova è all’ancora nel porto. Ha scaricato la merce e i pellegrini, partiti prima che le tragiche notizie arrivassero in Europa. Il capitano avrebbe dovuto caricare altre merci e mercanti, ma i traffici all’interno del regno si sono ridotti quasi a zero: non è il momento di viaggiare con le merci questo, mentre gli uomini del Saladino scorrazzano per tutto il territorio.

Manrique non ha difficoltà a trovare posto per tutti: il capitano rinuncerà a caricare alcuni pellegrini che hanno deciso di tornare subito indietro, per far posto al figlio del duca di Rougegarde e alla sua scorta. L’uomo è ben contento di questi passeggeri, una formidabile squadra di guerrieri esperti: se qualche pirata avesse la cattiva idea di attaccare la nave, scoprirebbe di aver fatto un grosso errore.

Il giorno dopo la nave si stacca dal molo e si dirige verso l’ingresso del porto, bloccato da una grande catena stesa tra due torri. Quando la catena viene sollevata, per lasciar passare il battello, tra gli uomini c’è un momento di smarrimento. Sanno tutti che in questo momento si chiude una fase della loro vita e se ne apre un’altra.

Non appena la nave esce dal porto, tutti si girano a guardare la costa allontanarsi. Alcuni sono contenti di lasciare questa terra e raggiungerne un’altra dove la loro vita non sarà sempre minacciata. Jeanne è tra questi: sa che Jacques e Manrique correranno meno rischi. Poco le importa di lasciare la terra dove è nata: a San Giacomo è sempre stata un’estranea, ignorata dal marito e guardata con disprezzo dai cognati, perché non nobile e figlia di un traditore; a Rougegarde si è trovata bene e ha conosciuto Manrique, ma non ha forti legami con la città. L’unico rimpianto è la separazione dalla figlia, che comunque già da tempo vedeva molto di rado, perché Christine vive con il marito a Tiro.

Per altri il distacco è più doloroso, perché lasciano oltremare parenti, amici, amori, sogni.

In particolare Pierre e Manrique vivono un momento di grande smarrimento.

Per Pierre il pensiero di ritrovare sua madre non è sufficiente a cancellare il dolore per la nuova separazione dal padre e l’angoscia per la sua sorte. Non gli spiace tornare a Bellerivière, dove è stato bene, ma il pensiero di aver lasciato per sempre Rougegarde lo rattrista.

Manrique è quello che soffre di più. Arrivato oltremare per accompagnare il figlio del suo signore, vi è rimasto dieci anni, al servizio del miglior signore che abbia mai conosciuto. E ora lo abbandona nel momento del massimo pericolo.

Manrique rimane sul ponte a guardare verso la costa anche quando questa scompare nella foschia estiva. Si riscuote solo quando Jeanne gli posa una mano sulla spalla e gli dice che è ora di pranzare.

 

Denis ritorna verso Rougegarde. Lungo la strada è assorto nei suoi pensieri. È contento di sapere che Pierre vivrà a Bellerivière, dove correrà di certo meno rischi, per quanto anche  nel regno dei Franchi si combatta spesso. Ritroverà la madre e avrà con sé Manrique: tutto questo lo rassicura.

Denis ha promesso di raggiungerlo, quando non sarà più signore di Rougegarde. Ma non riesce a immaginarsi lontano dalla Terrasanta. È sempre vissuto qui, della Francia conserva vaghi ricordi. Non lo angoscia l’idea di perdere il suo dominio: prima di essere duca è stato un cavaliere come altri, ha conosciuto la schiavitù, la povertà. Ma da vent’anni Rougegarde è stata la sua ragione di vita e gli sembra che la sua esistenza stia perdendo ogni senso. Che cosa ci sta a fare ancora sulla terra? Certo, Bellerivière gli spetta, ma Denis non vi è mai stato. Pierre governerà il territorio in nome suo e con Manrique e Maria al suo fianco non ha bisogno di lui. A Rougegarde, una volta consegnata la città, non potrà più rimanere.

Denis è giunto in vista di Rougegarde. Si ferma su un’altura, all’ombra di una grande quercia, e guarda la città. Non è diversa da quando la vide per la prima volta, anni fa: qualche campanile si è affiancato ai minareti e alcune costruzioni si sono aggiunte, nella stessa pietra rossa da cui la città ha preso prima il nome arabo, poi quello franco. Rougegarde ha conservato la bellezza che aveva affascinato Denis quando era ancora solo un cavaliere al servizio del re. Ma questo splendore non sarà più suo: ora sa che dovrà separarsene, per sempre.

Rimane un buon momento a guardare la città, ma ormai scende la sera ed è ora di rientrare.

Giunto in città, si fa riferire le ultime notizie. Come ha previsto, l’offensiva dei saraceni prosegue in tutto il regno: i giorni della città sono contati.

Denis sa che anche i suoi giorni sono contati.

Non vuole che si compia un massacro. Consegnerà la città. Si chiede se il Leone intenda distruggere Rougegarde, come ha fatto con San Giacomo d’Afrin. Gli sembra improbabile ed esclude che il Saladino glielo lasci fare. Oltre tutto a Rougegarde sono molti i musulmani.

 

Denis è tornato da poco quando Solomon si presenta a palazzo.

Denis lo guarda. È lo stesso di sempre e può leggergli in viso l’amore che prova. Eppure gli sembra che sia distante.

Solomon gli si avvicina e con molta delicatezza gli accarezza una guancia con due dita, poi le passa sulle sue labbra, le accosta ai denti e lascia che Denis le morda leggermente. La mano di Solomon scivola dietro la nuca di Denis ed una leggera pressione avvicina i loro visi. Le bocche s’incontrano in un bacio. Denis schiude la bocca e la lingua di Solomon avanza ad accarezzargli le labbra, i denti, incontra la sua lingua. Ma anche ora Denis avverte come un muro che lo separa dall’uomo che ama.

Le mani di Solomon lo accarezzano, le sue braccia lo avvolgono e Denis sente il desiderio crescere. Le parole di Solomon sono uno specchio di ciò che sente:

- Ti desidero, Denis.

Le loro bocche si uniscono di nuovo. Le mani di Solomon sfilano la tunica di Denis e la fanno scivolare a terra. Ora quelle mani forti lo accarezzano, trasmettendogli come sempre un brivido. Una mano si infila nei pantaloni, due dita scorrono lungo il solco tra le natiche e Denis geme.

Solomon si inginocchia davanti a Denis, le sue mani si muovono sicure, sciolgono la cintura che regge i pantaloni di Denis, poi abbassano insieme gli ultimi indumenti. Denis libera i piedi e le gambe dai pantaloni e dalle scarpe. Solomon è ancora in ginocchio davanti a lui e Denis gli accarezza la testa. Solomon appoggia il suo viso sul ventre di Denis, la guancia contro il sesso teso allo spasimo, un braccio avvolge il culo di Denis, l’altro braccio è teso verso l’alto e la mano gli accarezza il torace.

Poi la mano scende, scivola sul ventre, avvolge i testicoli, passa dietro, accarezza, stuzzica.

Solomon lo attira verso il basso ed ora Denis è in ginocchio davanti a lui. I loro corpi aderiscono: incollano le labbra, il torace, il ventre e l’asta tesa. Le mani di Solomon accarezzano la schiena di Denis, scendono fino al culo, pizzicano le natiche, con forza, poi una prende a massaggiare delicatamente il culo, l’altra esplora la fenditura tra le natiche.

Solomon si stacca e stende Denis a terra. La lingua di Solomon prende a percorrere la schiena di Denis, ma a tratti sono i denti a mordere, leggermente o con forza, o le labbra a baciare. Quando la bocca di Solomon arriva al culo di Denis, i denti mordono con vigore e Denis geme, ma è un gemito di piacere, più che di dolore. Solomon morde ancora e poi Denis sente una carezza umida tra le natiche. La lingua percorre il solco, dall’alto al basso e poi dal basso all’alto, due, tre volte. La lingua indugia sull’ingresso e Denis geme nuovamente, incapace di controllare le proprie reazioni. Il suo corpo vibra di un piacere tanto intenso da essere a tratti intollerabile. Per un momento sembra che la distanza che Denis avverte si stia riducendo.

Solomon si stende su di lui, il cazzo poderosa si adagia nel solco. È bellissimo sentire la pressione di questo corpo forte. Solomon gli sussurra all’orecchio:

- Ti desidero, Denis. Ti amo, Denis.

Denis non dice nulla.

La pressione del corpo di Solomon diminuisce, poi la punta dell’arma si appoggia all’apertura e una lenta pressione la costringe a dilatarsi. Il cazzo penetra, con lentezza, e il corpo di Denis l’accoglie. È una sensazione prepotente, anche se Solomon si muove con grande delicatezza. Il piacere sale e Denis avverte un senso di pienezza.

Solomon gli morde un orecchio, poi gli bacia il collo. Riprende a spingere, prima ancora con lentezza, poi con maggiore decisione. Man mano che le spinte diventano più forti, Denis avverte un po’ di dolore, ma il piacere cresce più in fretta.

Le spinte diventano più vigorose ancora, dolore e piacere si mescolano, la tensione cresce nel corpo di Denis. Quando Solomon viene dentro di lui, spandendo abbondante il suo seme, all’urlo roco di Solomon risponde quello di Denis.

Per un momento la distanza che Denis avvertiva è scomparsa.

Ora però l’intimità completa che si è ricreata un attimo fa, si sta nuovamente incrinando. Denis ha l’impressione che tra loro si apra un fossato. Sa che dipende da lui: è lui a negare a Solomon una parte di sé.

Solomon rimane disteso su Denis e lo accarezza.

Poi esce da lui e gli si stende di fianco.

- Che intendi fare, Denis?

- Di Rougegarde?

- Di Rougegarde e di te.

- Solomon, la mia vita non conta. Vorrei soltanto riuscire a evitare un massacro. Che i cristiani possano andarsene, se devono farlo, senza essere attaccati. Pagando un riscatto, se necessario.

- Il Leone ha permesso anche a Philippe di andarsene.

- Se  me lo permetterà, bene, altrimenti non ha importanza.

Solomon lo fissa:

- Saresti disposto a farti martirizzare come Jorge da Toledo?

Denis rabbrividisce. Pensa a Guillaume, che si è consegnato e di cui non si è più saputo nulla. Non risulta che sia stato ucciso, ma questo significa poco.

- Se questo è il prezzo da pagare per evitare un massacro, sì.

Solomon tace un momento, poi chiede:

- Denis, chi intendi mandare a trattare con il Leone?

- A trattare? Vuoi dire ad ascoltare le condizioni che imporrà, perché non credo di avere molte possibilità di scelta.

- Può essere che tu abbia ragione, ma Rougegarde e il duca non sono una preda facile. Credo che ci sia un margine di manovra.

- Forse.

- Chi pensi di mandare?

- Me lo sto chiedendo, Solomon.

- Manda me.

- Te? Perché mai?

- Perché parlo l’arabo, non sono cristiano, conosco bene il mondo arabo e credo di potermela cavare meglio di chiunque altro tu possa mandare.

Solomon sorride e aggiunge:

- Lo sai, me l’hai già detto: la modestia non è il mio forte.

Denis annuisce. Solomon ha ragione, è senza dubbio la persona più adatta a trattare con Ubayd, ma l’idea che vada a mettersi tra gli artigli del Leone non gli piace. Teme che possa succedergli qualche cosa.

- Può essere pericoloso.

Solomon sorride.

- Tornerò, sta’ tranquillo.

Denis si alza. Solomon fa per abbracciarlo, ma Denis si sottrae. Solomon è stupito, ma non dice nulla. È inevitabile che Denis sia molto turbato: tutto ciò che ha costruito sta crollando. Il duca di Rougegarde ha le spalle larghe, ma non è facile affrontare un cambiamento così radicale, che lo costringe a ripensare completamente la propria vita. Solomon spera di poterlo aiutare con la sua presenza, ma coglie che questo sconvolgimento tocca anche il loro rapporto. Il pensiero è angoscioso. Ama Denis, profondamente, e tutto ciò che minaccia il loro amore è per lui fonte di sofferenza e paura.

 

Il duca ha convocato i notabili ed espone loro la situazione. Chiarisce che intende avviare trattative con il Leone per cedergli la città, se ci saranno garanzie per gli abitanti.

Nessuno si stupisce. Sanno tutti che dopo la battaglia di Hattin il regno di Gerusalemme rischia di scomparire e che in ogni caso nessuna delle città dell’interno è ancora difendibile, nemmeno la stessa capitale: di sicuro non lo è Rougegarde, ai confini orientali. L’esercito del regno è stato annientato e le truppe del duca non sono certo sufficienti per affrontare il Leone e il Saladino. Tentare di resistere esporrebbe la città a gravi rischi.

Per i musulmani e gli ebrei la principale preoccupazione è che il Leone imponga condizioni talmente dure da essere inaccettabili. In questo caso il duca le rifiuterebbe e Rougegarde verrebbe assediata: una situazione che significherebbe sofferenze e danni per tutti.

I cristiani si chiedono quali saranno le condizioni: sarebbe terribile doversene andare senza poter neppure portare con sé i cavalli, come è successo a quei cristiani di San Giacomo che sono arrivati in città da poco. Se il Leone chiederà questo, alcuni cercheranno di allontanarsi prima del suo arrivo, ma sanno bene che potrebbero essere raggiunti dalla truppe di Ubayd o incontrare altri gruppi di saraceni: in entrambi i casi sarebbero spogliati di tutti i loro averi e rischierebbero di essere ridotti in schiavitù. Qualcuno se n’è già andato, ma la guerra in corso sconsiglia i viaggi: i rischi sono troppo alti.

Qualcuno sperava che il duca intendesse affrontare il Leone, contando su una vittoria che rovesciasse le sorti della guerra. Non sarà così.

 

Intanto Denis sta provvedendo a far eseguire alcuni lavori, in particolare per quanto riguarda la rete di passaggi sotterranei. Vuole isolare alcuni dei più importanti, in modo che nessuno possa scoprirne l’esistenza e utilizzarli. Se in futuro la situazione dovesse cambiare, potrebbero servire per riconquistare la città.

Denis è perfettamente conscio che non si creeranno più le condizioni necessarie per una riconquista, ma preferisce non trascurare questa possibilità.

Durante l’assenza di Solomon il pensiero va spesso a lui. Denis pensa anche più volte a Ferdinando, che non si è più fatto vivo. Denis vorrebbe parlargli: potrebbe andare e tornare in giornata, ma non se la sente e i mille impegni di questi giorni frenetici gli forniscono sempre validi motivi per rimandare. Denis sa che non si sta dimostrando un buon amico, ma non è sicuro di essere nelle condizioni per offrire a Ferdinando quell’appoggio di cui probabilmente ha bisogno. Sente che dentro di sé qualche cosa si è spezzato.

 

Solomon è di ritorno dopo tre giorni. Si è mosso molto in fretta e il Leone non è lontano. Denis lo riceve immediatamente. Solomon gli legge in faccia il sollievo che prova nel vederlo di ritorno sano e salvo, ma quando fa per abbracciarlo, Denis arretra e dice, in fretta:

- Allora, hai potuto parlare con Ubayd?

Solomon avverte una fitta. È partito conscio dell’incrinatura che si stava aprendo nel loro legame e il sottrarsi di Denis gli dice che quella crepa si è allargata e ora è l’intero edificio che rischia di crollare. Decide di affrontare più tardi il problema e risponde subito alla domanda di Denis.

- Ubayd al-Asad, il Leone, accetta che tu gli consegni la città. Non ci saranno spargimenti di sangue, chi vorrà andarsene potrà farlo liberamente, senza pagare riscatto: dovrà farlo entro tre settimane dal suo arrivo e potrà portare con sé ciò che vuole, ma la sua casa verrà confiscata. Chi rimarrà non subirà vessazioni. Varrà la loro legge, per cui cristiani ed ebrei pagheranno una tassa. Nient’altro. Lo stesso vale per l’Arram.

- Hai ottenuto molto, Solomon, più di quello che mi aspettavo.

- Il giovane Leone sa essere feroce, ma anche generoso. Come il duca di Rougegarde.

Denis scuote la testa.

- Non c’è più un duca di Rougegarde. O diciamo che c’è ancora per poco.

- Tre settimane: questo è il tempo che ti è concesso. Tra tre settimane il Leone sarà qui.

Denis sente un brivido, come se Solomon avesse parlato di tre settimane di vita.

- Ma non mi hai detto le sue condizioni per quanto mi riguarda: mi dovrò consegnare a lui?

- No, potrai lasciare la città liberamente, con tutto ciò che vuoi portare con te, ma dovrai farlo prima del suo arrivo. E non potrai rimettervi piede, pena la vita.

- Il Leone è molto generoso. Philippe ha potuto prendere con sé solo ciò che poteva portare sul cavallo. Gli abitanti di San Giacomo neanche quello.

- Afrin era già sotto assedio e i suoi abitanti non potevano pensare di andarsene. E soprattutto sono state diverse le vicende delle due città: da Afrin i musulmani erano stati espulsi, come noi ebrei. I musulmani di Rougegarde sono vissuti tranquillamente, senza nessuna vessazione, in tutti questi anni. I cristiani di Afrin hanno imparato sulla propria pelle che cosa significa essere costretti a lasciare le proprie case. Devo dire che, dopo quello che ho visto ad Afrin, non provo pena per loro.

Denis annuisce. Sa benissimo che cosa è successo nella città e non può dare torto a Solomon.

- Sì, Solomon, capisco. Hai davvero svolto egregiamente il tuo compito.

Solomon guarda Denis. Intuisce che qualche cosa non va, che tra di loro si è aperta una voragine. Fa per aprire bocca, poi sembra ripensarci e tace. Cela la sua angoscia con un sorriso. Denis ha bisogno di tempo. Solomon intende darglielo.

Denis sceglie con cura le parole. Vuole essere sicuro di ferire Solomon.

- Sì, ti ringrazio. Ora è meglio che tu te ne vada. Non ho più bisogno di te.

Solomon sembra barcollare leggermente e sul suo viso appare una contrazione. Non si aspettava un taglio così netto.

- Vuoi che me ne vada?

Sì, Denis vuole che Solomon se ne vada, non vuole vederlo più. Prosegue:

- Sì, porta via le cose dal tuo laboratorio. Valuta se andartene da Rougegarde.

Solomon aggrotta la fronte.

- Che cosa è successo, Denis? Perché mi scacci?

Denis non risponde alla domanda.

- Presto questa città potrebbe non essere più un posto adatto per un giudeo.

Il termine scelto è volutamente offensivo. Denis ha la nausea. Sa di non avere nessun diritto di trattare così Solomon, che non se lo merita. Ma deve allontanarlo.

Solomon alza le spalle.

- Sempre più che per un cristiano, duca: a differenza di voi, ci viviamo da secoli. E in ogni caso tu non potrai restarvi.

- E allora?

- Ce ne possiamo andare insieme, duca, quando arriverà il Leone. Vieni con me.

Denis guarda Solomon.

- Con te?

Denis cerca di mostrarsi stupito, come se Solomon avesse detto una cosa assurda e non la più logica. Si odia per quello che sta facendo.

Solomon scrolla le spalle.

- Andiamocene, dopo che avrai consegnato la città. Dove vuoi, duca. In Francia o in Castiglia, in India o in Persia. Ce la caveremo, io e te.

Denis sa che Solomon sarebbe in grado di cavarsela ovunque e che insieme a lui non avrebbe niente da temere. Ma non vuole andarsene. Non sa che cosa vuole. In questo momento desidera solo allontanare Solomon.

- Vai, Solomon

Solomon lo guarda.

- Vuoi morire qui?

Solomon ha intuito ciò che nella mente di Denis è solo un pensiero dai contorni indefiniti.

- Voglio che tu te ne vada, Solomon. Per sempre.

C’è una contrazione nel viso di Solomon, uno spasimo. Denis ha cercato di provocarla, ma il dolore di Solomon lo fa soffrire.

Solomon non si aspettava una rottura così repentina. Non risponde immediatamente. Riflette un attimo. Non è uomo da cedere senza lottare, ma sa che deve lasciare a Denis un po’ di tempo.

Denis attende una risposta. Solomon gli dice:

- Denis d’Aguilard, se ci ripensi, il giorno in cui avrai bisogno di me o mi vorrai di nuovo accanto a te, basta che…

Denis lo interrompe:

- Non voglio saperlo, Solomon. Voglio che tu te ne vada. Non costringermi a bandirti da Rougegarde.

Solomon non china la testa. C’è una nota di asprezza nella sua voce:

- Lasciami finire, se vuoi che me ne vada. Sai che sono cocciuto: dovresti farmi tagliare la lingua per farmi stare zitto prima che abbia detto ciò che voglio dirti.

Denis tace. Sa che è l’unico modo perché questo colloquio non si trascini. Solomon riprende:

- Il giorno in cui vorrai vedermi o ti servirà qualche cosa da me, se non vuoi cercarmi direttamente o se io non dovessi esserci, basta che tu ti rivolga al mercante arabo Nadhir ad-Din o, se lui è in viaggio per affari, al suo braccio destro, Bilal, che sostituisce il padrone quando è via, ma non credo che partirà in questi giorni. Loro sapranno come rintracciarmi. Per qualsiasi cosa ti serva da me, puoi rivolgerti a loro.

Denis non replica, nemmeno con un cenno, come se non avesse sentito, come se non gli interessasse minimamente. Si limita a dire:

- Vattene, Solomon.

- Va bene, Denis. Me ne vado. Ma ricordati che ti amo.

Le ultime parole sono uno schiaffo per Denis, ma Solomon si è già voltato e si dirige verso la porta, senza girare il capo. Denis si appoggia alla parete. Vorrebbe piangere.

 

Denis scaccia il pensiero di Solomon. C’è altro da fare ora. Del risultato della trattativa, è pienamente soddisfatto: ha ottenuto Rougegarde senza devastarla, l’ha conservata con cura, come un gioiello tanto prezioso quanto fragile, e ora la lascerà senza che la città abbia a subire danni. A Denis sembra di aver svolto il suo compito. Per oltre vent’anni è stato signore di Rougegarde e ora la cede ancora più prospera di quanto non fosse al tempo in cui se ne impossessò.

Denis convoca i notabili della città. Prima dell’incontro scende alla grande cisterna sotterranea. Guarda le acque scure. Pensa che sarebbe un buon posto per morire. Dare ordine di far murare l’ingresso al mattino e la notte precedente scendere… Morire qui, dove Solomon gli ha salvato la vita, il giorno in cui sono diventati amanti. Nessuno troverebbe mai il suo corpo, che rimarrebbe per sempre a Rougegarde.

Risale le scale. La sala delle udienze si sta riempiendo.

All’ora prevista, Denis entra e si siede sul seggio ducale. Saluta tutti, poi annuncia le condizioni poste dal Leone. Tutti si rendono conto che sono particolarmente generose, assai più di quanto si aspettassero: molti cristiani già si stavano preparando a fuggire, prima dell’arrivo del condottiero, temendo di perdere quasi tutto ciò che possedevano.

Per tutti arriva il momento delle scelte.

Philippe di San Giacomo decide di raggiungere Gerusalemme per partecipare alla sua difesa. A lui si uniscono alcuni soldati che desiderano ancora combattere. Sanno che è una battaglia persa, in cui forse troveranno la morte, ma non vogliono rassegnarsi. Philippe è molto grato a Denis che lo ha liberato dalla prigione, dove certamente Olivier gli avrebbe dato la morte, ma non condivide la scelta di consegnare la città. Gli sembra una viltà. Non dice nulla: sa che pochi condividono le sue idee, anche tra coloro che sono decisi a combattere ancora. E nessuno è disponibile ad accettare che il duca venga criticato.

Nella casa di Giovanni si discute a lungo della scelta migliore. Giovanni decide infine di partire per Verona con Louison e il terzo figlio: gli pesa lasciare questa terra dove è vissuto gran parte della sua vita, ma non ha voglia di trovarsi sotto un signore musulmano. Cede i suoi beni a Nino, che rimarrà a curare gli affari della casa, così il Leone non avrà motivo per sequestrare la proprietà.

Pierre è quello per cui è più difficile decidere. Sua moglie Sarah è ebrea nei territori cristiani potrebbe correre dei rischi: c’è molto odio contro gli ebrei, che ha portato a numerosi massacri in passato. Sarah preferisce restare, soprattutto per i figli: Miriam, la figlia maggiore, ha sposato uno dei giovani scampati al massacro degli ebrei di San Giacomo d’Afrin e vive in città; il secondo figlio, avuto dal primo marito, ha ormai ha diciott’anni e non intende andarsene da Rougegarde. A Sarah spiacerebbe separarsi da loro e anche il terzo figlio, avuto da Pierre, non vorrebbe lasciare il fratello e la sorella.

Pierre capisce le ragioni della moglie e non avrebbe problemi a rimanere, ma questo significa non essere più al servizio del duca. Quando ne parla con Denis, questi cerca di incoraggiarlo a scegliere liberamente:

- Pierre, sei stato uno dei miei uomini migliori, sempre leale. Ho potuto contare su di te come su pochi altri al mondo. Ma non ho più bisogno di te, perché non sono più duca di Rougegarde. Se vuoi stabilirti a Bellerivière, mio figlio sarà ben felice di averti con sé, ma, come sai, c’è molto odio nei confronti degli ebrei nei territori cristiani. Tu saresti al servizio del signore, per cui Sarah non dovrebbe avere problemi, ma rimane comunque una situazione delicata per lei e per i suoi figli. C’è molta più tolleranza tra i maomettani.

Pierre e Sarah infine decidono di rimanere. Nella casa continueranno ad abitare Morqos e Istfan, mentre Tristan e Mariette dirigeranno la locanda: a tutti loro Pierre e Sarah sono molto legati. Pierre si cercherà un altro lavoro, forse al servizio di Nino, per accompagnare le carovane, oppure nella locanda, che rimane in funzione. Per un uomo forte e abile nell’uso delle armi, il lavoro non manca, soprattutto in  un centro ricco e fiorente come Rougegarde.

Una parte della popolazione cristiana lascia la città, ma molti restano. Al-Hamra rimarrà quella città in cui si mescolano religioni e culture, come lo è stato negli anni in cui si è chiamata Rougegarde e Denis ne è stato il signore.

Mentre ovunque si dibatte sulla decisione da prendere, Denis si chiede se andare da Ferdinando o mandargli un messaggio, esponendo le condizioni poste dal Leone. Sarebbe più propenso a scrivergli, ma un evento nuovo lo forza a partire: una sera giunge un messaggero da Gerusalemme, mandato da un uomo di fiducia del duca che sta a corte.

- Il cavaliere mi ha incaricato di darvi questa lettera.

Denis apre la missiva. Dopo i saluti, l’uomo che il messaggero ha chiamato cavaliere trasmette notizie molto gravi.

Il conte Ferdinando è accusato di alto tradimento. Come certamente sapete, Ferdinando d’Arram, Raimondo di Tripoli e alcuni altri nobili riuscirono a sfuggire alla cattura. Alcuni pensano che ci sia stato un tradimento: in fondo Raimondo aveva autorizzato il Saladino ad attraversare il suo territorio. Dopo una  disfatta così sanguinosa, bisogna offrire al popolo qualche colpevole. Ne hanno trovato uno nel giovane Barisano, che ha partecipato alla spedizione e si è anche lui salvato. Negli ultimi giorni prima della battaglia aveva stretto amicizia con il conte Ferdinando.

Denis sa benissimo che cosa il cavaliere intende con “stretto amicizia”.

Barisano è tornato a Gerusalemme e ha commesso l’errore di consigliare la resa. Il patriarca Eraclio lo ha fatto arrestare e torturare. Sotto tortura ha confessato di aver tradito e che Ferdinando è stato suo complice e che ha peccato con lui. Gerusalemme cadrà presto e il popolo ha sete di sangue. Non può avere quello saraceno, allora una vittima cristiana va bene. Il conte è la vittima adatta: è un nobile del regno, ma non ha molto potere; è dedito al peccato di Sodoma ed esiste anche un verbale di interrogatorio di un suo soldato che lo accusa, depositato dai templari di Santa Maria di Aqsa.

Conoscendo l’amicizia che vi lega al conte ed essendo certo della sua completa innocenza, ho ritenuto opportuno avvisarvi. Per il momento l’accusa rivolta al conte è tenuta segreta, in modo da indurlo a venire in città, dove sarà certamente condannato a essere squartato in piazza, insieme al giovane Barisano.

 

Denis non può più rimandare la sua visita al conte Ferdinando: deve informarlo del destino di Rougegarde e dell’Arram e avvisarlo dei rischi che corre. Non ha voglia di partire, di vedere l’amico. Non è nello spirito adatto per consolare, aiutare, avanzare proposte, suggerire soluzioni. Ma non può lasciare che vada incontro a una fine atroce.

Il mattino seguente Denis parte. Si fa accompagnare da otto soldati. Per quanto poco gli importi della sua vita in questo momento, non può permettersi di correre rischi: ci sono troppe cose da fare, prima che la città passi sotto il dominio del Leone.

La giornata è serena e il caldo intenso. La terra appare riarsa dalla gran calura estiva, ma avvicinandosi all’Arram, il paesaggio cambia: la valle è più piovosa e qui l’estate non è accompagnata dall’arsura che regna a sud. Non a caso l’emiro aveva scelto l’Arram per farvi costruire la sua residenza estiva.

È piacevole cavalcare all’ombra dei fitti boschi, che offrono refrigerio. Denis ha sempre apprezzato questa parte della strada, ma oggi si sente oppresso.

Quando arriva al palazzo, chiede del conte. Ferdinando è nel bagno. Ai servitori che gli annunciano l’arrivo del duca, dice di farlo entrare.

Il conte è immerso nella vasca. Guarda l’amico entrare, senza sorridere. Denis lo osserva. L’uomo che lo accoglie indifferente è molto diverso dal Ferdinando di un mese fa. È un uomo cupo, che non sorride. Denis sa che il conte ha ucciso Adham e sicuramente si è pentito di quel gesto impulsivo.

Ferdinando dice:

- Volete lavarvi, duca?

Il “voi” di Ferdinando stupisce Denis. Il conte lo usa quasi sempre con lui quando si trovano insieme ad altri signori del regno e cerca di adeguarsi al tono generale della conversazione, molto più formale. Ma quando sono da soli usa il tu.

Denis annuisce. Un buon bagno gli toglierà di dosso il calore e il sudore della cavalcata. 

- Sì, è una buona idea.

Denis si spoglia in fretta. Il servitore raccoglie i suoi abiti e gli porge l’occorrente per lavarsi nella prima vasca. Dopo essersi pulito, Denis passa nella seconda vasca, quella in cui si trova Ferdinando. Gli dice:

- Congedate il servitore, conte.

Denis non vuole parlare davanti ai servi. È bene che nessuno sappia ciò che gli deve riferire: di fronte alla sconfitta, qualcuno potrebbe tradire, rivelare che Denis ha avvisato l’amico, prendere accordi per consegnare Ferdinando, nella speranza di avere una ricompensa.

Ferdinando capisce e fa un cenno al servitore, che si allontana.

- Ditemi, duca.

Nuovamente Denis è infastidito dalla distanza di questo “voi”, ma si adegua e inizia a spiegare:

- Vengo per due comunicazioni, entrambe di vitale importanza, conte. Ho contattato Ubayd, il Leone. Egli ha dettato alcune condizioni, che valgono per Rougegarde e per l’Arram e mi paiono generose. I cristiani potranno rimanere e non perderanno i loro beni. Pagheranno la tassa riservata ai non credenti. Chi vorrà andarsene potrà farlo, portando con sé ciò che vuole, ma la sua abitazione e i terreni verranno confiscati.

Ferdinando annuisce. Ciò che il duca gli dice gli è del tutto indifferente, anche se sa che deve avvisare la popolazione. Denis prosegue:

- Voi dovrete andarvene. Avete ancora diciotto giorni per lasciare l’Arram. Se sarete ancora qui quando giungerà il Leone, verrete giustiziato. La stessa sorte che subirei io, se rimanessi a Rougegarde,

Di nuovo il conte fa un cenno affermativo con la testa. Denis si chiede se ha davvero ascoltato. Forse lo ha fatto, ma poco gli importa di ciò che Denis gli ha detto.

Ora non sembra importargli di nulla. Denis si chiede che cosa importa a lui. Non ha ucciso Solomon, certo, ma lo ha allontanato. Qualche mese fa era soddisfatto e sereno. E adesso gli sembra di attendere solo la morte.

- Sono venuto anche per avvisarvi di un altro, più grande pericolo.

Ferdinando alza le spalle.

- In questi giorni siamo tutti in pericolo.

- Sì, ma il pericolo di cui parlo non ha a che fare con l’avanzata dei saraceni. O almeno, non sono i saraceni a minacciarvi.

- Ditemi.

- Siete stato accusato di tradimento, essenzialmente per essere riuscito a scampare alla strage di Hattin. Vogliono processarvi e condannarvi: Gerusalemme cadrà presto in mano del Saladino e il popolo ha sete di sangue. Si cercano colpevoli per una sconfitta che era inevitabile.

Ferdinando annuisce.

- Ho ricevuto proprio oggi una convocazione. Eraclio mi invita a presentarmi a Gerusalemme.

Denis prosegue:

- Barisano è stato arrestato e sotto tortura ha confessato di aver tradito. Lo hanno forzato ad accusarvi, di tradimento e del peccato di Sodoma. Sarete convocato a Gerusalemme, per subire le stesse torture e accompagnarlo al supplizio.

Ferdinando guarda Denis. Scuote la testa e ha un leggero sorriso.

- Per il peccato di Sodoma, che cosa potrei dire a mia difesa? Quanto al tradimento…

Ferdinando corruga la fronte:

- Traditori sono quei coglioni che hanno convinto il re a farci marciare contro i saraceni, condannandoci alla sconfitta. Fottuti traditori.

Ferdinando ghigna e aggiunge:

- Traditore e peccatore. Merito lo squartamento e il rogo. Che faranno, mi squarteranno e poi mi bruceranno? O mi bruceranno mentre mi squartano?

Ferdinando ride, una risata che fa rabbrividire Denis. Il duca si dice che quest’uomo si lascerebbe scannare senza muovere un dito. Si avvicina:

- Conte, dovete pensare a scampare alla doppia minaccia che incombe su di voi.

Ferdinando alza le spalle.

- Che importa?

Denis non sa che cosa dire: l’atteggiamento di Ferdinando è troppo simile al suo. Sembra anche lui attendere solo la morte. Ma nessuno potrebbe rimanere indifferente di fronte al supplizio che si prepara a Gerusalemme per il conte.

Rimangono nell’acqua, in silenzio. Ferdinando ripete:

- Che importa? Vivere… per fare che cosa? Sono un traditore, no? Non posso nemmeno combattere per il regno, per un re coglione che ha portato al massacro il suo esercito. Posso vendermi a qualche bordello a Damasco… Ma non scopo nemmeno più… Ci credereste, duca? Qual cazzone di Ferdinando che pensava solo a scopare… adesso si fa qualche sega la notte o viene mentre dorme. Lo avreste mai detto?

Di nuovo una risata senza allegria.

Denis non sa che cosa dire.

Ferdinando si accarezza il cazzo, che si irrigidisce in fretta. Guarda Denis. Non sorride più, non dice nulla. Prende e lo spinge contro il bordo della vasca, voltandolo.

Denis non oppone resistenza. Non ha senso, nessun senso. Sono amici da oltre venticinque anni, non hanno mai scopato, nessuno dei due lo desidera. Basterebbe una parola per fermare Ferdinando, ma Denis si rende conto che anche a lui non importa di nulla. Per un momento spera che di scacciare dalla sua mente un pensiero, un volto, che a tratti affiora e che non riesce a cancellare.

Sente il grosso cazzo dell’amico premere contro il suo culo. L’ingresso è alquanto doloroso, ma il dolore che schianta Denis, mentre il conte lo prende, non è provocato dal cazzo vigoroso che scava dentro di lui. È invece una sofferenza che nasce da dentro, dal ricordo, dal rimpianto, da una separazione voluta.

Ferdinando fotte con energia e a lungo. Infine viene e si stacca. Denis rimane fermo, la testa china.

Nessuno dei due parla.

Non è servito a nulla. Niente può cancellare lo strazio dell’allontanamento di Solomon, un allontanamento che Denis ha imposto.

La voce di Ferdinando lo riscuote:

- Perché l’avete fatto, duca?

- Che cosa intendete?

- Perché non mi avete detto che sono un cazzone, che sarebbe stata la verità, e di smetterla? Non l’avete certo fatto per desiderio. Venite a dirmi di vivere, ma della vita vi importa quanto importa a me.

Denis non è stupito che l’amico abbia colto il suo stato d’animo: ciò che provano è troppo simile. Guarda Ferdinando senza parlare. È il conte a proseguire:

- Duca, non sono saggio, lo so bene, e vi ho sempre ammirato perché pensate prima di agire e sapete scegliere la soluzione migliore. Ma non sono stupido.

- Non l’ho mai pensato.

Ferdinando annuisce.

- Anche se di stupidaggini ne ho fatte tante.

C’è un momento di silenzio. Poi Ferdinando aggiunge.

- Non sono affari miei, comunque. Voi avete capito benissimo con chi stavo scopando.

- Sì.

Non c’è altro da dire.

Ferdinando e Denis si rivestono, ognuno immerso nei propri pensieri, nella propria sofferenza.

- Che cosa contate di fare, conte?

- Andrò a Gerusalemme.

Denis guarda Ferdinando, stupito.

- Badate, non ne tornerete vivo.

- Che importa? Il Leone sarà presto qui. E in ogni caso questi territori dell’interno sono perduti. Che cos’altro potrei fare? Nascondermi ai saraceni come ai franchi? Cercare di imbarcarmi di nascosto? Vendermi davvero in un bordello? Cazzate.

- Ma che senso ha?

Ferdinando alza le spalle.

- Da tempo la mia vita ha smesso di avere un senso.

C’è un lungo momento di silenzio.

Ferdinando esita, poi dice:

- Sapete niente di lui?

Ferdinando non ha detto di chi sta parlando: non è necessario. Denis lo guarda, perplesso.

- Non l’avete ucciso?

Ferdinando scuote la testa.

- No, anche se ne avevo l’intenzione. Sono stato folle, ma non fino a questo punto. Quando stavo per farlo, mi sono fermato. Vorrei parlargli.

- Non so dove sia. Credevo…

Denis non sa come trovare Adham. Ferdinando sembra voler parlare, ma esita. Denis lo incoraggia:

- Dite.

- Duca, credo che ci sia un solo uomo che può trovarlo.

- Chi?

Ferdinando esita. Denis insiste:

- Chi? Ditemi.

- Solomon.

Sul viso di Denis appare una contrazione.

Ferdinando lo guarda.

- Scusate, duca. Non ha importanza. Dimenticate quello che ho detto. Avevo intuito che… avrei dovuto stare zitto.

Denis respira a fondo e dice:

- Conte, se Adham è vivo e Solomon può trovarlo, avrete prestissimo sue notizie. Mi promettete di non andare a Gerusalemme?

Ferdinando sorride:

- Non siete un uomo comune, duca. Non credo di aver mai conosciuto nessuno come voi.

Poi Ferdinando aggiunge:

- No, non andrò a Gerusalemme se cercherete di darmi notizie. Ma…

Ferdinando esita un attimo. Denis non vuole sentire ciò che il conte sta per dirgli, ha intuito che non gli parlerà di Adham e vorrebbe fermarlo, ma le parole di Ferdinando arrivano troppo in fretta.

- Perché, duca, perché? Lo amate ancora e sono sicuro che anche Solomon… E credo che sia l’uomo migliore e più degno…

Denis ha capito, anche se le frasi di Ferdinando erano incomplete.

Ferdinando non dice altro. Scuote la testa.

- Dovrei pensare prima di parlare.

- Conte, non sono così saggio come voi credete. Ma se davvero Solomon sa dove trovare Adham, ci rivedremo presto, ve lo prometto.

 

 

Denis cavalca verso Rougegarde, immerso nei suoi pensieri. Ferdinando non ha torto quando pensa che Solomon possa sapere dove si trova Adham: ha una rete di conoscenze e di informatori molto vasta e che non copre solo le comunità ebraiche disseminate ovunque nella regione. L’ha creata per proteggere i suoi correligionari, certo non per ambizione di potere, perché Solomon non è un uomo a cui interessi il potere. Che cosa gli interessa? Denis sa qual è la risposta a questa domanda, ma evita di formularla. Non è mai stato uomo da scappare dai problemi: li ha sempre affrontati a viso aperto. Non ha chiuso gli occhi quando hanno decapitato suo padre davanti a lui. Ma ora gli sembra di vivere a occhi chiusi.

 

Denis d’Aguilard non vorrebbe parlare con Nadhir ad-Din, il mercante di cui Solomon gli ha dato il nome, ma Denis d’Aguilard è un uomo di parola. Potrebbe mandarlo a chiamare, ma la bottega non è lontana e preferisce andarci direttamente.

Denis entra nella bottega. L’uomo si inchina, ossequioso, ma non sembra stupito di vedere il duca nella sua bottega.

- Duca, quale onore! Accomodatevi da questa parte.

Denis segue l’uomo: preferisce che nessun altro senta la sua richiesta.

- Ho bisogno di sapere dove si trova Adham, l’africano che viveva con il conte Ferdinando. Dite a chi sapete che gli chiedo di trovarlo.

Nadhir ad-Din si inchina di nuovo.

- Sarà fatto, duca.

Denis d’Aguilard vorrebbe chiedere mille cose, ma si limita a salutare e a uscire. Solomon riuscirà davvero a trovare Adham?

 

La risposta arriva la sera del giorno seguente, quando Nadhir ad-Din chiede di essere ricevuto dal duca per una questione di cui non può parlare a nessun altro.

Denis dice di farlo entrare. Si rende conto di essere agitato, impaziente. L’uomo gli parlerà di Solomon? Avrà un messaggio per lui? Uno scritto? Una parola da riferire di cui solo Denis sarà in grado di cogliere il senso? Denis spera di no, non vuole sapere più niente di Solomon, l’ha cancellato dalla sua vita. Che il mercante non osi dire nulla.

Nadhir ad-Din si inchina davanti al duca, poi dice:

- L’uomo che cercate vive nel villaggio di Quram.

È a poche miglia, non lontano dalla strada che da Rougegarde porta all’Arram.

Il duca ringrazia il mercante e lo congeda. Nadhir ad-Din si inchina e se ne va. Non cerca di dire nulla. Denis lo guarda allontanarsi. Tutto come Denis desiderava: l’uomo non aveva nessun messaggio da parte di Solomon. Solomon ha accettato di essere allontanato. Ma mentre fissa la porta da cui l'uomo è uscito, Denis si sente sprofondare in un’angoscia senza fine.

 

Denis raggiunge Quram con otto soldati. Chiede dove si trovi il nero e gli indicano una fattoria a due miglia di distanza. In un orto a fianco della casa lavora un contadino, che si inchina davanti a lui.

- So che avete un lavorante africano. Devo parlargli.

Il contadino risponde, indicando un bosco:

- È nel campo vicino al bosco. Se volete vado subito a chiamarlo.

- Non occorre. Lo raggiungo. Vi avviso che lo porterò via con me.

L’uomo si inchina. Non può certo discutere un ordine del signore di Rougegarde. D’altronde Adham non è uno schiavo e può andarsene quando vuole.

- Come volete, duca.

Denis si dirige verso il campo. Adham sta lavorando. Vede arrivare i cavalieri e alza il capo. Riconosce il duca e lo guarda, muto, ma sul suo volto Denis legge una domanda.

- Il conte Ferdinando vuole parlarvi. Vi accompagnerò da lui.

Non è un invito, è un ordine. Denis non intende lasciare ad Adham nessuna scelta: se occorre lo porterà con la forza, anche per questo motivo si è fatto accompagnare dalle sue guardie. Ma Adham si limita a domandare:

- È lui che lo ha chiesto?

- Sì.

- Sono ai vostri ordini.

Denis è contento della risposta. Vi legge una disponibilità che gli fa sperare per il futuro di Ferdinando e per quello di Adham.

 

Qualche ora dopo sono al castello del conte Ferdinando, che li attende sul portone: deve averli visti arrivare da una delle finestre. Denis scende da cavallo, imitato da Adham.

Ferdinando guarda il nero, mentre parla al duca.

- Siete stato di parola, duca, ma non ne dubitavo.

- Ho seguito le vostre indicazioni.

- Vi ringrazio, duca, perché so quanto vi è costato.

Ferdinando continua a guardare Adham, ma non gli rivolge la parola.

Denis d’Aguilard non ha intenzione di fermarsi: ha fatto quello che poteva, ora la sua presenza è superflua, per non dire fastidiosa. Perciò, senza attendere oltre, risale a cavallo e dice:

- Io vi lascio.

- Non vi fermate?

- No, ho da fare. Ma tornerò presto a trovarvi, per parlare del futuro.

- Vi attendo, duca. Sono a vostra completa disposizione.

Ferdinando lo guarda un attimo, poi di nuovo si volge verso Adham. Sembra quasi temere che il guerriero nero possa scomparire.

Che cosa succederà tra di loro? Denis si dice che non è affar suo, ma è ottimista. È convinto che entrambi vogliano ricucire lo strappo che si è creato. Denis saluta, volta il cavallo e lo sprona, seguito dai suoi uomini.

Il breve incontro lo ha turbato. Il pensiero di Solomon ritorna. Basterebbe chiamarlo.

 

Ferdinando e Adham sono rimasti fermi a fissarsi. Ferdinando riesce infine a parlare:

- Vieni.

Si volta e entra nel castello, ma gira il capo per assicurarsi che Adham lo segua. Il nero si mette al suo fianco. Procedono silenziosi. Quando sono giunti in camera, Ferdinando chiude la porta. Poi, con lentezza, si spoglia, guardando Adham, che rimane immobile. Quando è completamente nudo, accarezza, sovrappensiero, il grande cazzo che già si erge. Poi prende la spada e il pugnale e li posa sulla cassa di fianco alla porta, vicino ad Adham. Ferdinando sorride. Vorrebbe baciare Adham, ma non spetta a lui scegliere.

Con un movimento rapido si mette a quattro zampe, offrendo il culo  ad Adham, la testa rivolta verso la parete opposta. Ora tocca ad Adham scegliere. La spada o le carezze, il pugnale o i baci, lo squarcio o l'amplesso, la vendetta o l'amore, la morte o la vita. O forse tutto insieme, forse non c’è una scelta: la bocca può baciare e straziare, le mani possono accarezzare e lacerare, dare il piacere che squassa e il dolore che dilania. Va tutto bene, per Ferdinando, perché a darlo sarà Adham.

Ferdinando sente le mani di Adham che si posano sul suo culo, divaricando le natiche. Poi è la lingua a poggiarsi in alto, dove incomincia il solco tra le natiche, e a scendere lentamente verso il basso, indugiando sul buco. Ferdinando chiude gli occhi. La lingua scorre, scendendo ancora, poi risale, con lentezza.

Ferdinando sente la pressione del cazzo di Adham che si prepara a penetrarlo. Non avviene spesso: è quasi sempre il conte a possedere il bel nero. Ma oggi Ferdinando si offre, senza remore. È Adham a condurre il gioco e a scegliere.

Adham spinge ed entra, piuttosto deciso. Non intende risparmiare Ferdinando e al conte va bene così, va bene la fitta acuta che ha avvertito.

Adham incomincia a muovere il cazzo avanti e indietro nel culo del conte, con forza. Ferdinando geme. La cavalcata procede a lungo e infine Adham viene, spargendo il suo seme nel culo di Ferdinando.

Adham ha preso in mano il coltello. Ferdinando sente la carezza della lama sul ventre, poi la lama sfiora i coglioni e preme alla base del cazzo. Ferdinando rabbrividisce, ma non dice nulla, non cerca di sottrarsi. Sente una trafittura leggera.

Adham lascia cadere l’arma davanti al viso del conte, che la guarda. C’è un po’ di sangue, del suo sangue. Solo poche gocce. Adham ha graffiato la pelle in alcuni punti, poi ha gettato l’arma. Ferdinando sa che Adham ha scelto la vita. Per entrambi.

Adham spinge Ferdinando a terra e lo volta sul dorso, si siede sul suo ventre e lentamente si impala su di lui.

Ferdinando gli guarda il viso, su cui brillano alcune gocce di sudore. Alza la mano e accarezza il corpo dell’uomo che ama.

Quando infine Adham sente il getto dentro di sé e Ferdinando emette una specie di grugnito, si stacca e si stende accanto al conte.

- Sei un cazzone, Ferdinando.

- Sì, lo so.

- Ho scopato con il guardacaccia perché tu eri lontano, ma non aveva nessuna importanza.

- Lo so, Adham. Ma in quel momento… ero stravolto. La battaglia, il viaggio di ritorno. Volevo gettarmi tra le tue braccia e… Sai benissimo come sono fatto: agisco prima di ragionare. Quella notte, mentre tu eri in cella, mi dicevo che ero pazzo, che non aveva nessun senso, che quanto era successo non contava davvero. Ma volevo vendetta. Ero davvero intenzionato a ucciderti. Sono un cazzone, l’hai detto.

Adham sembra rappacificato, ora. Si stringe a Ferdinando e gli dice:

- Ho fatto male a innamorarmi di un cazzone…

Si ferma un attimo, poi conclude:

- … ma non me ne pento.

 

A Gerusalemme Barisano attende in cella che vengano a prenderlo per condurlo al supplizio. Sa che la sua fine sarà terribile: castrato e squartato, come il conte d’Espinel, la cui esecuzione ha sentito narrare più volte. È una morte atroce, quella che lo attende. Il giovane ha combattuto valorosamente e l’accusa di tradimento è del tutto infondata. Di una sola cosa si ritiene colpevole: non essere riuscito a resistere alla tortura e aver accusato Ferdinando di tradimento. Ha retto due giorni, ma il terzo ha ceduto.

Sente un rumore di passi. Si alza, angosciato. La porta della cella si apre. Quattro guardie e un ufficiale lo guardano. Gli ordinano di muoversi. Salgono fino a raggiungere il cortile, dove una carretta lo attende. Lo fanno salire e gli si mettono intorno. Barisano sente l’angoscia chiudergli la gola.

Lungo le strade che il carretto percorre, la folla si accalca, gridando il suo odio nei confronti del traditore. Barisano guarda gli uomini che urlano. Alcuni hanno coltelli alla cintola. Se potessero lo scannerebbero.

E mentre lo pensa, Barisano decide. Con uno sforzo, ignorando il dolore che il movimento provoca al suo corpo martoriato, si alza di scatto e salta a terra, tra la folla che si richiude al passaggio della carretta. Agli uomini non sembra vero avere tra le mani il traditore. Pensano che cerchi di scappare e che abbia sbagliato i suoi conti: non capiscono che vuole sfuggire al supplizio e che ha calcolato bene. Si gettano su di lui, per ucciderlo prima che le guardie riescano ad afferrarlo, sottraendolo alla rabbia della folla.

Barisano sente le coltellate. La sua fine è molto rapida: la rabbia della folla spinge gli uomini a colpire il più possibile e il terzo colpo gli spacca il cuore. Il linciaggio lo sottrae al martirio: quando le guardie riescono a mettere le mani su di lui, si impadroniscono di un cadavere. Verrà ugualmente condotto al supplizio, per essere castrato e squartato, ma tutti quelli che hanno preso posto in piazza prima dell’alba per assistere all’esecuzione rimarranno delusi. Lo spettacolo sarà misero: vedere fare a pezzi un uomo vivo avrebbe dato molta più soddisfazione.

 

Manca una settimana alla consegna della città. Denis ha provveduto a tutto. Oggi ha fatto partire per Santa Maria in Aqsa gli ultimi uomini della guarnigione che hanno scelto di rimanere al suo servizio: di lì si imbarcheranno per la Francia. La fortezza dei templari sulla costa è per il momento il porto più sicuro ed è ancora facilmente raggiungibile.

Tutto è pronto. E ora? Non può rimanere. Non intende forzare il Leone a ucciderlo e in ogni caso non vuole che la popolazione della città assista alla sua morte. Scendere davvero alla cisterna, dopo aver dato ordine di murarla? Denis non riesce a prendere una decisione.

È scesa la sera. Denis guarda il cortile del palazzo su cui si affaccia la finestra. Di solito c’è un viavai di soldati e inservienti anche in questa corte interna, ma adesso non c’è più nessuno: molti sono partiti e coloro che sono rimasti sono ai propri posti. Non ci sono pasti da preparare, ospiti da accogliere, cavalli da bardare per qualche uscita. Il palazzo si sta svuotando e al suo interno la vita si spegne. Tornerà ad animarsi, con altre voci, altri volti, altre attività. 

Tra coloro che passavano nel cortile quando c’era da dare una lezione di lotta c’era qualcuno il cui volto ritorna spesso nel pensiero di Denis, per quanto cerchi di scacciarlo. Il duca chiude gli occhi.

Torna a sedersi. È assorto nei suoi pensieri, quando qualcuno entra nella stanza dove si trova, ormai immersa nella penombra. Denis alza il capo e sussulta. Solomon è davanti a lui.

- Solomon! Come hai fatto a entrare?

- Non hai dato ordine ai tuoi uomini di impedirmi l’ingresso.

È vero. Denis era certo che Solomon gli avrebbe ubbidito. Solomon ha raggiunto il laboratorio e di lì sa come passare nell’appartamento del duca.

Denis non replica. È troppo agitato, non è in grado di parlare, non saprebbe neppure che cosa dire.

Solomon non si è fatto vivo per quasi due settimane. Voleva lasciare a Denis il tempo di pensare, di abituarsi all’idea di perdere Rougegarde, di organizzare quanto andava organizzato. Ma non ha mai pensato di abbandonarlo.

Ora è giunta l’ora delle decisioni e Solomon intende lottare, se necessario.

- Denis, manca una settimana. Che cosa intendi fare?

Denis tace. Cerca di bloccare il tumulto che ha dentro di sé. Solomon prosegue:

- Non pensi di rimanere qui, vero? Non vuoi farti giustiziare?

Un cenno negativo del capo è l’unica risposta.

- Allora andiamo via insieme, Denis. Io e te.

Denis guarda Solomon. Una domanda gli viene alle labbra:

- E dove vorresti andare?

Solomon sorride. Denis non ha respinto subito la sua proposta e questo è un segnale positivo. Risponde:

- Per il momento, in un posto tranquillo, poi deciderai tu dove vuoi che andiamo.

Denis annuisce, meccanicamente. Solomon si rende conto che non dovrà combattere davvero. Prosegue:

- Adesso andremo da qualcuno che non conosci, ma che ti accoglierà come un re. Ti avviso però che non ci lascerà andare via tanto presto.

- E chi è?

- Ishan, un capo curdo. È mio fratello e fratello di quel Mahmud che comprasti da Olivier, salvandolo dalla castrazione e dalla morte, e che poi hai liberato. Troverai anche Mahmud.

Denis guarda Solomon. La proposta è ottima: non richiede nessuna scelta a lungo termine, nessuna decisione definitiva. È una pausa, ciò di cui Denis sa di aver bisogno in questo momento. Poi si vedrà. Andarsene, insieme. Insieme all’uomo che ama. Che senso ha avuto cercare di allontanarlo? Una cazzata, pari a quella che Ferdinando ha fatto con Adham. Dovrebbe chiedergli scusa per come l’ha trattato, ma Solomon non vuole scuse, non ne ha bisogno.

Denis risponde con una domanda:

- Per questo ci accoglierà come tu dici?

- Certo. Conoscerai la loro ospitalità e ti assicuro che nemmeno il Saladino sarebbe accolto come lo sarai tu.

Denis annuisce.

- Grazie, Solomon.

Solomon si avvicina e lo abbraccia. Denis si abbandona a questa stretta. Dice:

- Ti chiedo scusa, Solomon.

- Non ha importanza.

- Io…

Solomon lo interrompe:

- Non occorre che tu dica niente, Denis. Posso capire come ti sentivi.

- Ma so come ti sei sentito tu, Solomon. Non volevo ferirti. Ma l’ho fatto. Scusami per questo.

- Ora davvero non ha più importanza.

 

Il mattino seguente partono per l’Arram. A metà giornata raggiungono il castello di Ferdinando. Un servitore avvisa il conte, che arriva. Insieme a lui c’è Adham.

- Denis! Sono contento di vederti! E di vedere anche te, Solomon.

Ferdinando non dice che è felice di vederli insieme, ma quello è il suo pensiero. Prosegue:

- Contavo di venire a Rougegarde domani, per conoscere le tue intenzioni.

- E io sono venuto qui per conoscere le tue.

- Benissimo. Venite dentro, che ci parliamo tranquillamente.

Quando sono dentro il palazzo, Ferdinando osserva:

- Avete cavalcato diverse ore. Forse prima di mangiare avete piacere di prendere un bagno? Possiamo parlare tranquillamente anche lì.

- Mi sembra un’ottima idea, Ferdinando. Che ne dici, Solomon?

- Concordo. Un bel bagno è esattamente quello di cui ho bisogno.

Passano nello spogliatoio, dove lasciano gli abiti. Poi si immergono nella vasca in cui si lavano e infine, congedati i servitori, si rilassano nell’altra vasca. Denis guarda il corpo possente di Ferdinando. Pensa che gli si è dato, oltre una settimana fa, ma gli sembra che sia stato un altro Denis. Come è un altro Ferdinando quello che ora sorride. È il Ferdinando di sempre, sicuro di sé, allegro

Ferdinando guarda Solomon. Questo maschio gli piace moltissimo e scoperebbe volentieri un’altra volta con lui, ma non è possibile. Difficile però farlo capire al suo cazzo, che già si tende. Non se ne preoccupa: Denis, Adham e Solomon lo conoscono, sanno che è, come lui stesso si definisce, un porco sempre in calore, e non ci badano.

Denis dice:

- Io e Solomon ce ne andremo. Solomon sa come fare per attraversare i territori saraceni senza problemi. Conosce un posto dove possiamo fermarci per un po’ e rimanere tranquilli. Poi vedremo. Volete venire con noi?

Ferdinando scuote la testa.

- No, rimaniamo qui.

- Qui? Non è possibile, Ferdinando. Non puoi resistere al Leone. Non andartene significherebbe la morte.

- Non qui nell’Arram. A Jibrin.

- Il castello degli Hashishiyya? L’abbiamo distrutto.

Ferdinando ride.

- No, lo sai benissimo. Sono crollati solo alcuni pezzi. Ci stabiliremo là. È quasi imprendibile. Possiamo controllare le terre intorno ed esigere un pedaggio da chi passa da quelle parti… o anche più lontano.

- Intendi diventare brigante?

- Più o meno.

Solomon ha ascoltato con attenzione. Osserva:

- Ferdinando, rimanere qui significa la morte. Non subito, magari, perché il Saladino vorrà completare la conquista del regno e probabilmente dopo che Gerusalemme sarà caduta nelle sue mani arriveranno truppe dall’Europa. Per un po’ il Saladino avrà altre gatte da pelare. Ma passato un periodo che può essere di alcuni mesi o di alcuni anni, la guerra avrà termine e allora il Saladino provvederà a far pulizia nei suoi domini. Jibrin è difficilmente espugnabile, ma né il Saladino, né l’emiro di Jabal al-Jadid accetteranno a lungo la presenza di una roccaforte di briganti nel territorio.

- Gli Hashishiyya di Ramzi vi sono rimasti molti anni, senza che l’emiro li attaccasse. Eppure avevano cercato di ucciderlo.

- Gli Hashishiyya erano potenti e attaccare Jibrin significava rischiare di essere assassinati da sicari mandati dai loro altri castelli. Sinan non avrebbe mai accettato che una fortezza della setta venisse espugnata. Voi non costituirete mai una minaccia di questo genere.

Ferdinando annuisce e sorride.

- Sì, Solomon. Credo che tu abbia ragione. Ma pensiamo di poter tirare avanti per un po’. Non ho voglia di lasciare questa terra. E non dimenticare che sono un traditore da squartare. Non posso raggiungere i franchi che ancora combattono e probabilmente anche tornando in Sicilia avrei problemi. E li avrebbe anche Adham, africano e maomettano: là non sarei il conte, ma uno qualunque, con un’accusa di tradimento sulle spalle, e non potrei proteggerlo.

- Se venite con noi, non ci saranno problemi, ve lo garantisco.

Denis interviene:

- E se vorrai stabilirti a Bellerivière, anche là non avrete problemi.

Ferdinando annuisce.

- Grazie a tutti e due, ma ne abbiamo parlato a lungo e abbiamo deciso che rimarremo qui. Abbiamo soppesato i pro e i contro e preferiamo così.

Solomon e Denis capiscono le motivazioni di Ferdinando e Adham. Denis pensa che anche per lui è stato difficile accettare di separarsi da questa terra.

Solomon osserva:

- Allora le nostre strade si dividono per sempre.

Escono dall’acqua e si asciugano, poi passano a tavola, dove i servitori hanno preparato tutto.

- Ho già mandato alcuni uomini a far fare dei lavori. Prima che arrivi il Leone, ci trasferiremo a Jibrin.

- Avete molti uomini che verranno con voi?

- Un buon numero, sì. Perlopiù cristiani, ma anche alcuni maomettani.

 

Ferdinando accompagna Denis e Solomon fino alla porta. Al momento di uscire Denis si blocca: davanti a lui vede il Ferdinando che ha conosciuto quasi trent’anni prima. Si chiede se non ha un’allucinazione: al momento dell’addio rivede il momento in cui si sono incontrati per la prima volta? Ma il conte ride e dice:

- Ti presento mio nipote Nando, il figlio di mio fratello. Ha deciso di raggiungermi qui, ma ha scelto il momento sbagliato, temo. Doveva decidersi prima. Non so come sia riuscito ad arrivare, con i saraceni che scorrazzano dappertutto. Pensa che parla quasi solo il nostro dialetto.

Ferdinando ride di nuovo. Denis osserva il giovane, che dev’essere appena tornato dalla caccia: porta in spalle un cervo e le mani sono sporche di sangue. Assomiglia davvero molto allo zio: stessa alta statura, stessa corporatura robusta, tratti del viso molto simili. Solo guardandolo meglio Denis nota alcune differenze rispetto al Ferdinando che ricorda.

Dopo aver salutato il giovane, Denis chiede all’amico:

- Che cosa intende fare?

Ferdinando si rivolge al nipote, in siciliano:

- Sei sempre intenzionato a venire con noi? Se vuoi tornare in Sicilia, il duca può certo aiutarti.

- No, rimango con te, zio.

Ferdinando annuisce: era la risposta che si aspettava, dell’argomento hanno già parlato.

- Rimarrà qui.

Denis e Solomon si congedano. Tornando a Rougegarde procedono affiancati, parlando della decisione di Ferdinando.

- Quanto pensi che reggeranno, Solomon?

- Qualche anno, credo. Dipende un po’ da come agiranno. Se attaccheranno grosse carovane, verranno individuati in fretta e non appena la situazione lo consentirà, il Saladino li farà spazzare via. Se invece non compiranno azioni clamorose, limitandosi ad attaccare piccoli gruppi di mercanti, possono sopravvivere a lungo: neanche tu sei riuscito a eliminare completamente i briganti che agiscono ai confini del ducato.

- No, è vero. Ma un gruppo di briganti cristiani… i maomettani non potranno accettarlo, dopo che ci hanno spazzati via da queste terre.

- Non so se l’essere cristiani sia così significativo. In ogni caso gli uomini del Saladino ci metteranno un po’ a capire dove questi briganti hanno il loro rifugio e una volta che l’avranno individuato, non è detto che agiscano: Jibrin non è una preda facile, richiede mesi e mesi di assedio. Non è un’impresa in cui l’emiro si imbarcherebbe, potendolo evitare. A meno, appunto, che Ferdinando non attiri su di sé troppa attenzione con qualche azione spettacolare.

Denis annuisce.

- Credo che tu abbia ragione, ma in ogni caso non reggeranno molto a lungo. Spero che Ferdinando non cada vivo nelle loro mani. Finirebbe come Jorge da Toledo.

Denis rabbrividisce al pensiero. Solomon dice:

- Sì, gli auguro di non essere preso vivo.

Il giorno dopo Solomon si occupa dei congedi e di tutti gli aspetti pratici: gli affari in sospeso, la casa, la mobilia, il laboratorio, le sue proprietà.

Passa a salutare il fratello e la famiglia. Gli spiace separarsi dai nipoti, a cui è molto affezionato, e coglie lo smarrimento della cognata Elisheva, che ha sempre fatto riferimento a lui nelle situazioni difficili. Lascia una grossa somma di denaro e alcuni gioielli. Promette di far avere notizie e indica anche a loro di rivolgersi al mercante Nadhir ad-Din in caso di necessità. Si mette d’accordo per far portare una parte della mobilia da loro: potrà servire per i due figli maschi, quando si sposeranno. La figlia maggiore, Judith, è già sposata e Solomon ha contribuito alla sua dote e le ha donato alcuni gioielli.

Lasciare la casa di Giovanni gli costa di più che separarsi dalla famiglia: è quella la sua vera famiglia, nella casa ha diversi amici e il legame che lo unisce a Morqos è molto profondo. A lui Solomon dice la verità.

- Me ne andrò con il duca.

Morqos annuisce e chiede:

- È il tuo uomo, vero?

Solomon annuisce.

- Sì, ora te lo posso dire.

- L’avevo sospettato, ma non volevo chiedertelo.

Morqos abbassa il capo, poi lo rialza e fissa Solomon. Gli dice:

- Mi mancherai moltissimo, Solomon. 

- Anche tu mi mancherai moltissimo, Morqos, più di tutti gli altri che lascio. Per me sei davvero mio fratello, più di Amos, più dei miei fratelli curdi. L’intesa che c’è tra di noi, tra le nostre menti e i nostri corpi, è qualche cosa che non avevo mai provato prima e che non credo proverò più.

- Posso dire lo stesso, Solomon.

C’è un momento di silenzio, poi Morqos dice:

- Prendimi, Solomon, ancora una volta.

Solomon annuisce.

Raggiungono l’appartamento dell’orafo. Solomon spoglia Morqos, con grande lentezza, poi lascia che sia l’amico a spogliarlo. Lo prende tra le braccia e rimangono così, nudi, stretti uno all’altro. Le mani di Solomon accarezzano il corpo di Morqos, dalla testa scendono lungo la schiena, fino al culo, che stringono con forza. Il desiderio si accende in entrambi.

Solomon solleva Morqos e lo depone sul letto. Lo guarda e gli sorride. Gli prende i piedi e se li mette sulle spalle. Poi si inumidisce la cappella, sparge un po’ di saliva intorno al buco e con molta lentezza spinge il cazzo fino a che preme contro l’apertura. Avanza ancora e Morqos sente dentro di sé, per l’ultima volta, l’arma poderosa di Solomon che lo penetra. È una sensazione bellissima, come sempre. L’ebreo accarezza il viso di Morqos, poi incomincia a spingere e a ritrarsi, piano. Nessuno dei due ha fretta, anche se il desiderio preme. Vogliono far durare entrambi quest’ultimo rapporto.

Quando infine Solomon viene, anche Morqos sparge il suo seme.

Solomon esce da lui, gli posa i piedi sul letto e si stende sopra di lui. Si baciano e si accarezzano.

 

Denis prende congedo dai notabili, prima di lasciare Rougegarde. Affida il palazzo alla sorveglianza di alcune guardie musulmane, in modo che nessuno possa entrarvi e il Leone trovi tutto a posto. Prima di lasciarlo, ne percorre un’ultima volta le sale, insieme a Solomon. Procede taciturno, abbandonandosi ai ricordi, e anche Solomon non dice nulla, rispettando il silenzio di Denis. Scendono anche alla grande cisterna sotterranea. Per la prima volta Denis parla e dice:

- Qui mi hai salvato la vita. Qui ti ho visto nudo…

Solomon gli si avvicina da dietro e lo stringe tra le braccia. Lo bacia sul collo.

- Bagniamoci ancora una volta, Denis.

Denis annuisce. È un buon modo per dire addio anche a questo luogo che ha amato molto. Si spogliano ed entrano in acqua. Si spingono fino all’estremità più lontana, dove la luce delle torce non arriva, poi ritornano al bordo.

Escono dall’acqua. Solomon stringe Denis tra le braccia. Alla luce delle torce, per l’ultima volta i loro corpi si incontrano in questo palazzo che stanno per lasciare per sempre. Solomon pensa che è anche questo un addio, non a una persona, come è stato con Morqos, ma al palazzo, alla città, a un passato da cui si devono staccare, a una parte della loro vita.

 

Il giorno seguente, il mattino molto presto, Denis se ne va, senza scorta. Raggiunge la porta orientale poco prima dell’ora a cui di solito viene aperta. Il cielo ha appena incominciato a schiarirsi.

Alla porta ci sono alcuni soldati. In base agli accordi presi con Ubayd, una trentina di soldati franchi rimarrà fino all’arrivo del nuovo signore, per garantire la protezione della città, insieme agli arabi della guardia cittadina. Poi saranno liberi di andarsene.

L’ufficiale di guardia vede il duca e capisce. Vorrebbe parlare, ma le parole gli muoiono in gola. Sente un bruciore agli occhi e fa cenno ai soldati di aprire la porta. Non dice nulla. Guarda allontanarsi il suo signore. Quando lo vede scomparire, si accorge che sta piangendo.

Solomon raggiunge Denis poco dopo. Si dirigono verso nord.

 

Due giorni dopo la folla assiepata lungo la strada che dalla porta orientale conduce al palazzo ducale festeggia l’arrivo di Ubayd al-Asad, a cui il duca ha ceduto la città. Circola voce che sarà lui il nuovo signore della città, perché il Saladino gliel’ha promessa.

I commenti si intrecciano:

- Il nuovo signore della città è molto giovane. Avrà si e no venticinque anni.

- Il duca Denis era ancora più giovane quando conquistò al-Hamra. Ed è stato il miglior signore che questa città abbia mai avuto, questo dobbiamo riconoscerglielo, Otman. Molto meglio dell’emiro, che era tanto avido quanto vile.

- Sì, lo so. Ma non era un uomo come gli altri, lo sappiamo bene, né in battaglia, né nel governare una città. Un altro come lui non credo che ci sia al mondo.

- Sembra quasi che tu rimpianga di non essere più sotto il dominio di un infedele.

- No, non lo rimpiango, sono contento che questa città sia ritornata in mano ai credenti. Ma dubito che sarà governata meglio di quanto abbia fatto il duca.

- Su questo non posso che darti ragione.

Molti osservano curiosi Guillaume, che cavalca poco dietro Ubayd.

- Quello è un franco, no?

- Sì, un cavaliere templare.

- Perché cavalca dietro il signore della città?

- Il Leone lo ha catturato. È un suo schiavo.

- Uno schiavo che segue a cavallo il suo signore?

- So che Ubayd vuole tenerlo con sé per tutti gli affari che riguardano i cristiani. Sarà il suo consigliere.

Un altro interviene:

- Hai detto che è un cavaliere del Tempio? Salah ad-Din fece uccidere tutti quei cani, dopo averli sconfitti.

Qualcuno, meglio informato, spiega:

- È il comandante di Qasr Iblis ed è stato catturato da al-Asad. Dicono che si sia consegnato, a condizione che la guarnigione e i contadini che si erano rifugiati nel castello avessero salva la vita.

- Consegnarsi ad al-Asad… dopo quello che aveva fatto a Jorge da Toledo! È uno con i coglioni, questo qua!

- Puoi dirlo.

- Jorge da Toledo si meritava la fine che ha fatto. E questo evidentemente si merita di fare il consigliere.

- Ubayd al-Asad è un uomo giusto e sa dare a ognuno quel che si merita.

 

Ubayd ammira il palazzo ducale di Rougegarde. Ne ha sentito parlare molto, ma non si aspettava una simile meraviglia. Tutto è perfettamente pulito e ordinato: il duca ha lasciato ogni cosa al suo posto. Sembra che non sia stato portato via niente, anche se certamente il figlio del duca ha preso con sé il tesoro. Ubayd sa che non sarà facile essere il signore di questa città dopo Denis d’Aguilard: ciò che farà sarà sempre confrontato con le azioni del suo predecessore. Cercherà di seguire il suo esempio. Avere al suo fianco Guillaume lo aiuterà a evitare molti errori.

Ubayd guarda l’uomo che ama, che appare alquanto turbato.

- Che cosa c’è, Guillaume?

Il templare lo guarda e sorride:

- Ricordi, Jean. Ricordi di un mondo che non esiste più.

A Rougegarde Guillaume ha avuto modo di venire diverse volte e ha sempre dormito a palazzo: conosce bene queste sale. Pensa che avrebbe voluto dire addio a Denis, ma non è stato possibile. Si chiede dove sia l’amico, che cosa intenda fare. Spera che sia insieme a Solomon, come lui è insieme a Jean. Sa quanto questo sia importante.

 

Una settimana dopo Ubayd si reca nell’Arram, dove ha già mandato alcuni soldati a presidiare il palazzo di Ferdinando.

Anche qui c’è una folla ad attenderlo, per festeggiare quello che ritengono essere il loro nuovo signore. Ubayd e Guillaume entrano nel palazzo. È molto più piccolo di quello di Rougegarde: era una dimora estiva, usata per partite di caccia e svaghi. A differenza della residenza ducale, quella del conte è stata in parte svuotata. Alcuni mobili, molta biancheria, diversi tappeti, le armi e tutti i cavalli sono stati portati via. Quando i soldati sono arrivati per prendere possesso, hanno trovato alcune stanze e le scuderie sgombrate. Non si sa dove sia stato portato il tutto. È probabile che sia stato il conte a prendere con sé le sue proprietà, perché se fossero stati gli abitanti del territorio a saccheggiare il palazzo, avrebbero portato via più cose. Anche diversi contadini se ne sono andati, con le loro cose e i loro animali, prendendo le vie dei monti. Ubayd non sa che cosa pensare, ma non se ne preoccupa.

Anche il castello dell’Arram desta in Guillaume alcuni ricordi: si è recato alcune volte nel palazzo del conte nel periodo in cui era a capo della guarnigione di castello San Michele e una volta ancora in seguito.

Girando per il castello giungono alla camera da letto di Ferdinando. Guardano le pareti, coperte di affreschi, con numerose scene. In una alcuni uomini nudi, tra cui il conte, si bagnano in un fiume, spiati da un altro uomo; in un’altra Ferdinando caccia un leone.

Altre scene sono raffigurate nello spogliatoio del grande bagno: Ferdinando che viene mentre un uomo lo massaggia, Ferdinando e Adham che scopano.

A Guillaume viene da sorridere. In questi ritratti ritrova il suo amico, la sua vitalità, la sua esuberanza, la sua completa mancanza di pudore. Gli è profondamente affezionato e pensa che non lo rivedrà mai più: le loro strade si sono divise per sempre. Non rivedrà Denis, che ha sempre considerato un fratello. Non rivedrà più nessuno di tutti coloro che hanno costituito il suo mondo in questi anni.

Lo riscuote la voce di Jean, come ancora gli viene da chiamare Ubayd. Il nuovo signore dice:

- Dovrò far coprire tutto questo.

Guillaume annuisce. Vorrebbe dire a Jean di non farlo, ma sa che non è possibile lasciare queste pitture. Verranno cancellate, come è stata cancellata la presenza dei signori franchi in queste terre.

Ubayd aggiunge:

- Non adesso. Non so che ne sarà dell’Arram. Salah ad-Din mi ha promesso al-Hamra e il territorio di Afrin, non l’Arram. Forse lo darà a qualcun altro. Io lascerò tutto così fino a che non avrà deciso.

 

Denis è arrivato da alcuni giorni nella residenza di Ishan e dei suoi fratelli. Scopre subito che Solomon non esagerava: l’accoglienza che riceve è davvero degna di un re. C’è una settimana di feste in suo onore, poi la vita nella casa riprende il suo ritmo abituale.

Denis non è abituato a rimanere inattivo, ma si scopre indolente. Ogni tanto dice a Solomon che non vuole approfittare dell’ospitalità dei suoi fratelli, ma gli viene risposto che andandosene li offenderebbe. Solomon sa che Denis ha bisogno di questo periodo di inattività: è lo stacco necessario tra quella che è stata la sua vita fino a ora e quella che sarà in futuro.

Quale sarà la sua vita in futuro? Denis non lo sa. Non ha bisogno di rispondere a questa domanda ora, può prendersi il tempo necessario.

All’arrivo dell’inverno sono ancora nella casa. Le notti invernali sono fresche, ma il letto in cui dormono Denis e Solomon ha calde coperte.

Sono stretti l’uno all’altro. Solomon si rende conto che è ora di parlare del futuro che li aspetta. Chiede:

- Dove vuoi andare, Denis, quando verrà la primavera? Ci hai pensato?

- Voglio andare a Bellerivière, a vedere come vanno le cose per Pierre. Ma non credo di volervi rimanere, anche se sono il signore di quella regione che ho visto solo da  bambino.

- Allora andremo in Francia. Non ci sono mai stato.

- Sembra che tu sia disposto a venire dovunque io voglia, Solomon.

- È così, Denis. Anche all’inferno.

 

2020

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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