La
notizia della condanna a morte e dell’esecuzione del vescovo è arrivata a San
Giacomo d’Afrin. Per Olivier è stata una mazzata.
Si aspettava l’arresto di Denis e di Ferdinando per tradimento e quello di
Pierre e Jacques per sodomia. Scopre invece di aver perso il suo unico
alleato. Di certo il duca sospetta la sua complicità nella manovra e questo
lo mette in una situazione delicata, proprio in un momento difficile, in cui
il territorio è minacciato dai saraceni. Nell’inverno
Reginaldo di Châtillon ha attaccato una grande carovana egiziana di mercanti
e pellegrini musulmani diretta a Damasco, in aperta violazione della tregua
stipulata l’anno precedente tra i franchi e Salah ad-Din: non è la prima
volta che capita. Questi ripetuti attacchi hanno suscitato l’ira del signore
della Siria e dell’Egitto, che ha giurato di ucciderlo. Il
Saladino ha richiesto la liberazione dei prigionieri e la restituzione del
bottino, ma non ha ottenuto nulla. Ha perciò raccolto un esercito tra tutte
le popolazioni dei suoi domini: turchi, curdi, arabi, alani, cumani, beduini,
turcomanni. Seguendo una tattica più volte sperimentata, ha mandato in avanti
settemila cavalieri, che ora mettono a sacco la Galilea: catturano uomini e
donne per farne schiavi, predano il bestiame, incendiano vigne e campi
coltivati Come racconterà un cronista dell’epoca, testimone oculare della
caduta di Gerusalemme: “i servi dell’iniquità,
assetati del sangue dei santi, simili a cani rabbiosi lanciati su una
carogna, giunsero velocissimi… Al tramonto passarono il fiume e, come figli
del buio e delle tenebre, fecero scorrerie per la Galilea fino a Cafra nel
silenzio della notte fosca, ammazzando i poveri di Cristo, traendo con sé in
prigionia uomini e donne con una gran moltitudine di bestie, imitando insomma
il padre loro, ovvero il diavolo, il quale sgozza quelli che sorprende nel
sonno, addormentati nel peccato, per trascinarli con sé nella fossa della
dannazione.” I gran Maestri del Tempio, Gerardo di Ridefort, e dell’Ospedale, Ruggero des
Moulins, si trovano nelle vicinanze e decidono di
affrontare la schiera nemica, nonostante la disparità di forze. A Cresson, vicino a Nazareth, i saraceni sconfiggono i
cavalieri templari e ospedalieri e li massacrano: i musulmani vittoriosi
infilzano sulle loro lance le teste degli sconfitti. Ruggero des Moulins muore nella
battaglia. Mentre la Galilea arde, una minaccia grava anche sui
territori orientali e in particolare su San Giacomo d’Afrin.
Non lontano dal confine è impegnato l’esercito raccolto dal Leone,
questo giovane condottiero che ha
rapidamente acquistato gloria sui campi di battaglia. Ha appena sconfitto
senza difficoltà Walid al-Atrash, un signore
ribelle al Saladino, e ora lo assedia nel castello in cui si è rifugiato.
Quando il signore si sarà arreso e la sua testa sarà stata inviata al
Saladino, c’è il rischio molto reale che attacchi i territori cristiani
vicini. Anche
in città la situazione di Olivier sta diventando sempre più difficile. Tra
poco Philippe compirà diciott’anni e non nasconde la sua intenzione di
assumere il potere. Olivier sa che deve eliminarlo, ma si ripropone l’eterno
problema: l’erede diventerebbe
Jacques, che è maggiorenne e ha il pieno appoggio di Denis di Rougegarde. Di
certo quel bastardo del duca accompagnerebbe il giovane a San Giacomo d’Afrin e Olivier sarebbe completamente escluso dal potere.
Quei maledetti potrebbero perfino allontanarlo dalla città, con qualche
scusa, accusandolo di aver tramato con il vescovo: sono capaci di tutto. Esiste
un’unica soluzione: Jacques deve morire. A quel punto Philippe subirà la
stessa sorte. Uccidere il nipote che vive a San Giacomo non sarà difficile,
ma sopprimere quello che risiede nel palazzo ducale di Rougegarde appare
un’impresa disperata. Il duca è molto diffidente e i suoi uomini gli sono
fedeli. Se il vescovo fosse ancora vivo, forse Olivier potrebbe chiedergli di
invitare Jacques e farlo avvelenare. Peccato non averci pensato prima. Bohémond preferiva un rogo, che sarebbe stato una
conferma del suo potere. Avrebbe acconsentito a far avvelenare Jacques nel
proprio palazzo? Probabilmente no. Olivier
si riscuote, irritato con se stesso: sta solo perdendo tempo, indugiando in
pensieri oziosi. Il vescovo ormai è morto e non si sa neppure che fine abbia
fatto il cadavere: non è stato sepolto in terra consacrata. D’altronde
l’accusa era di alto tradimento e in questi casi si procede allo squartamento
e ciò che rimane del corpo viene esposto in punti diversi della città, come
monito. Olivier
convoca Joscelin, l’uomo a cui lui e Renaud hanno sempre affidato quegli incarichi che
dovevano rimanere segreti. È stato Joscelin a
uccidere Philippe di Cesarea, a organizzare l’omicidio di Hugues
d’Arbert, a tenere i contatti con Ramzi e gli Hashishiyya, a rendere possibile l’assassinio
di Renaud. Un uomo fedele. Se raccontasse ciò che
sa, sarebbe la fine per Olivier, ma anche lui andrebbe incontro a una morte
orrenda. - Joscelin, tu sai che mio nipote Jacques vive a
Rougegarde, sotto la protezione del duca. -
Sì, signor barone. -
Jacques deve morire. Joscelin annuisce. Conosce benissimo i motivi
per cui Olivier desidera la morte del nipote e in ogni caso è abituato a
obbedire senza chiedere spiegazioni. Appare però alquanto dubbioso. Olivier
se ne accorge e non ha difficoltà a comprendere i motivi di questa
perplessità. -
Il compito è molto difficile, lo so, Joscelin.
Avvicinarsi a Jacques è quasi impossibile: i cani del duca fanno buona
guardia. Ci vuole un lupo che sappia essere tanto astuto, quanto feroce. -
Andrò a Rougegarde e studierò la situazione. Sarà opportuno essere almeno in
due. -
In due sì, di più no: non voglio che altre persone siano a conoscenza dei
miei piani. Sai benissimo quanto un’impresa di questo tipo sia delicata e
richieda cautela. -
Come volete, barone. -
Il secondo uomo può essere Georges. Anche
Georges ha svolto alcuni compiti per Olivier. Il più importante è stato l’omicidio
del fratello di Olivier e Renaud, Charles, il
supposto padre di Jacques. -
Come desiderate, barone. Olivier
aggiunge un’ultima raccomandazione: -
In ogni caso, non fate mai il mio nome, non dite a nessuno di essere inviati
da me. Non vi presentate dal duca a nome mio. Io non devo figurare. Il
giorno seguente Joscelin e Georges partono per
Rougegarde. Durante
il viaggio parlano del compito che è stato assegnato loro. -
Non sarà facile, Georges. Gli uomini del duca vegliano sul giovane Jacques. Georges
fa un cenno affermativo con la testa. Joscelin
prosegue: -
Più che mai ora, che il vescovo è morto e il figlio di Renaud
sta per compiere diciott’anni. -
Sì, di certo il duca ha rafforzato la sorveglianza. -
È un bel casino. Impossibile corrompere gli uomini del duca: la loro lealtà è
assoluta. -
Non abbiamo nessuno a Rougegarde su cui contare, vero? -
Adesso che è morto il vescovo, ci sono solo alcuni pesci piccoli: qualche
uomo del vescovo e qualche avanzo di galera disposto a tutto. Uomini che potrebbero
ospitarci o fare un po’ di spionaggio per noi, ma non possono essere di
grande aiuto, se si tratta di colpire a palazzo. -
Non credo che sia possibile introdursi a palazzo, da quel che mi dici.
Bisognerà colpire fuori. Non è da escludere che il giovane se ne vada in giro
da solo. Ma come sapere quando esce e dove va? -
Questo è il problema. Non possiamo appostarci all’ingresso e sperare che
nessuno si accorga di noi. Dobbiamo attirarlo in una trappola, Georges. -
In una trappola? E come? Joscelin ride e dice: -
Se lo sapessi, non sarei qui a chiedermi come possiamo fare. -
Una bella donna è sempre una buona esca. -
Se gli piacciono le donne. Se è come il padre… Georges
sorride: ha conosciuto il barone Charles, i cui gusti erano noti a tutti.
Conclude la frase di Joscelin: -
…conviene usare un bell’uomo. Poi
Georges osserva: -
Bell’uomo o bella donna, bisogna stabilire un contatto con il giovane. -
Già, questo è il problema. -
Non l’unico problema, direi: soltanto il primo, se battiamo questa strada. Ce
ne troveremo davanti altri, forse ancora più difficili da risolvere. -
Mi sembri pessimista. -
Le difficoltà sono tante. -
In qualche modo ce la faremo. Quando
infine raggiungono Rougegarde, non hanno ancora un piano preciso, ma hanno
stabilito alcuni punti fermi. In primo luogo procederanno separatamente,
entrando in città a distanza di tempo e cercando alloggio in luoghi diversi:
Georges si stabilirà in una locanda non lontano dal palazzo ducale, Joscelin nei pressi del palazzo vescovile. Georges andrà
in giro per le osterie della città, ascoltando le chiacchiere della gente. Joscelin invece prenderà contatto con alcuni uomini del
vescovo, per capire qual è la situazione e capire come procedere. Si
incontreranno nella chiesa di San Marco, prima della messa serale: se uno dei
due avrà qualche cosa da comunicare all’altro, si metterà vicino all’altare
del Redentore e l’altro lo raggiungerà. Altrimenti rimarranno a distanza. Il
nuovo vescovo non è stato ancora nominato: è passato troppo poco tempo dalla
morte di Bohémond e nell’attuale situazione del
regno, attaccato dai saraceni, ci sono altre priorità. Perciò il personale
del palazzo vescovile è rimasto senza lavoro e nel grande edificio il duca ha
messo quattro guardie, che hanno il compito di sorvegliarlo per impedire
furti. Joscelin ha alcuni nominativi di persone a cui
può rivolgersi per avere un aiuto, senza metterle al corrente dei piani. Si
tratta soprattutto di uomini fedeli al vescovo, su cui si dovrebbe poter
contare. In primo luogo contatta padre Odon, che
era molto legato al vescovo e che Joscelin ha già
avuto modo di incontrare in passato: con lui non deve giustificare la sua
visita, perché lo conosce ed è perciò naturale che passando da Rougegarde lo
vada a trovare. Odon è parroco della chiesa del Redentore. Joscelin si presenta da lui un pomeriggio. -
Buongiorno, padre. -
Buongiorno, Joscelin. Sono contento di vedervi. Vi
manda il barone? -
No, sono qui per alcuni affari personali. Ho chiesto al barone qualche giorno
di licenza. -
Quale nuove mi portate da San Giacomo d’Afrin? Joscelin scuote la testa. -
In città c’è un grande dolore per la morte del vescovo. Non riusciamo a
credere a un tradimento. Un uomo come il vescovo! In
realtà a San Giacomo la notizia ha provocato scalpore, ma non c’è stato un
grande cordoglio: il vescovo non era particolarmente amato, anche se non
c’era nei suoi confronti l’ostilità diffusa a Rougegarde. Odon fa un cenno d’assenso. -
Ciò che è accaduto ha sgomentato tutti. Il nostro povero vescovo. Giustiziato
come un traditore. Sapete, Joscelin, non sappiamo
neppure dove è stato sepolto. -
Gli hanno negato la sepoltura in terra consacrata? Odon annuisce. -
Ho provato a chiedere al duca, per poter almeno dire una preghiera sulla
tomba. Mi ha risposto di aver eseguito l’ordine del re, ma non ha voluto
dirmi qual era questo ordine. Non sappiamo se è stato sepolto fuori città. Il
suo corpo potrebbe essere stato abbandonato… no, non voglio pensarci. -
È terribile. Non posso pensare che… no, no, davvero. C’è
un momento di pausa, poi Joscelin riprende. -
A San Giacomo molti si chiedono se dietro questa accusa, questo processo, non
possa esserci qualche manovra. -
Me lo sono chiesto anch’io, ma chi… perché? Joscelin si guarda intorno, come se volesse
controllare che non ci sia nessuno. Poi dice: -
Tra poco il giovane Philippe dovrebbe assumere la piena signoria di San
Giacomo. Il vescovo era il suo principale sostegno, insieme al barone
Olivier, che lo ha guidato con pazienza e affetto in tutti questi anni.
Qualcuno si chiede se il giovane barone Jacques non abbia ambizioni… Padre
Odon è stupito. -
Voi dite? Ma l’erede è Philippe, il figlio del barone Renaud. -
Sì, ma se il giovane Philippe dovesse morire… ha sempre avuto una salute
fragile, dicono… Non so, sono voci che circolano, non bisogna dare loro
troppa importanza. Questa condanna improvvisa… ha lasciato tutti stupefatti.
La gente parla, cerca di capire… Padre
Odon appare dubbioso. -
Il giovane Jacques non mette piedi a San Giacomo da anni, per quel che ne so.
Davvero… Joscelin alza le spalle. - Massì, sono solo sciocchezze. Tutti sono rimasti
sconvolti, il vescovo era molto amato, non possono credere al tradimento e
allora fanno ipotesi… Ma di certo il giovane barone qui avrà ben altro da
fare. A quell’età… si divertirà, come tanti nobili. Odon scuote la testa. -
Non so, non è che faccia parlare molto di sé. D’altronde è sotto la
protezione del duca, che è un uomo molto austero, un vero guerriero. Il
vescovo era preoccupato dalla tolleranza del duca nei confronti di musulmani,
ebrei, eretici e ho sempre condiviso quelle sue preoccupazioni. Ma se
guardiamo al comportamento del duca… Si è parlato anni fa di qualche
relazione, con un’ebrea, una saracena, ma è acqua passata, il duca le ha
fatte sposare. Per il resto, è molto morigerato. -
E voi dite che il giovane Jacques ne segue l’esempio? Odon allarga le braccia. -
Diciamo che non ho motivi per sostenere il contrario. Di certo non dà
scandalo, a differenza di certi signori del regno… e purtroppo anche certi
uomini di Chiesa. Joscelin si chiede se il riferimento è al
patriarca Eraclio, che ha un’amante e dei figli. Non esprime il suo pensiero
e dice invece: -
Meno male che non ha preso dal padre, su cui circolavano voci… Odon annuisce. -
Sì, certo. Di lui si chiacchierava molto. Joscelin non ha ottenuto nessuna informazione
utile. Il prete chiede di Olivier e dopo aver risposto Joscelin
prende congedo. Tornerà se gli servirà. - Ci
rivedremo, padre. Conto di fermarmi qualche giorno in città. -
Ben volentieri. Passate a trovarmi quando volete. Joscelin contatta altre persone che conosce.
Nessuno è in grado di dare informazioni utili. Pare che il barone Jacques
esca da palazzo sempre in compagnia di altri. Come
convenuto, Georges passa molto tempo nelle osterie vicino al palazzo ducale.
Ascolta le conversazioni e chiacchiera del più e del meno con altri
avventori. Sembra uno dei tanti perdigiorno. Inizialmente anche lui non
riesce a ottenere nessuna notizia utile. Il
mattino del quarto giorno Georges vede uscire dal palazzo Jacques. È in
compagnia di un altro giovane e di otto soldati a cavallo. Si rivolge
all’uomo con cui sta conversando, fingendo di non aver riconosciuto il
barone: -
Chi sono quei due giovani che escono da palazzo? Uno è forse il figlio del
duca? Il
tizio, che si chiama Guy, gli spiega: -
No. Quello con l’abito scuro è il barone Jacques, il figlio di Charles di
Soissons. L’altro è Guibert, il figlio di Ansel di Ribemont, un cavaliere
che ha una residenza di caccia nell’Arram. -
Andranno a una partita di caccia, allora? Magari con il conte Ferdinando?
Dicono che il conte Ferdinando ama molto la caccia… diversi tipi di caccia. Guy ridacchia. -
Può darsi. Poi
aggiunge: -
Uno di quei soldati è un mio amico. Mi pare che abbia detto che domani
partirà e starà via qualche giorno con il barone. Forse oggi fanno solo un
giro nei dintorni. Probabilmente domani vanno dal cavaliere Ansel o dal conte. -
Ma per fare un giro nei dintorni… o anche per andare nell’Arram…
non è lontano… perché il barone si muove con otto soldati? Ci sono pericoli
lungo la strada? L’uomo
guarda Georges e sorride. -
Il barone è sempre ben protetto. Dicono che abbia dei nemici. Georges
si finge stupito. -
Dei nemici? E perché mai? -
Non so. Ma in questi ultimi tempi non lo si vede mai uscire da solo. Ha
sempre la scorta. -
Non deve essere piacevole, per un giovane della sua età, essere sempre
controllato. -
A palazzo ha tutto quel che vuole. Farei volentieri il cambio con lui. -
Quanto a quello, anch’io. Nel
pomeriggio Georges vede tornare i due giovani con la scorta. La
sera in chiesa Georges si mette vicino all’altare del Redentore. Joscelin lo raggiunge. Fingendo di pregare, Georges
trasmette le informazioni che ha raccolto. Decidono
di incontrarsi nella notte, per poter parlare tranquillamente, senza essere
visti. Scelgono di trovarsi dietro la chiesa, nel piccolo cimitero. Quando
ormai è buio, raggiungono le tombe disposte sul fianco della chiesa. Si
siedono in un angolo dove l’oscurità è totale. Fanno il punto della
situazione. -
Potremmo cercare di ucciderlo durante la caccia: non potrà muoversi sempre
insieme alla scorta. -
Sì, la soluzione è buona, ma non sappiamo dove andranno a caccia, posto che
davvero domani vadano a caccia, non conosciamo il territorio. -
Uno di noi potrebbe andare avanti e l’altro li seguirà. -
Sì, ma dobbiamo essere molto prudenti: il rischio di essere scoperti è molto
forte. L’Arram non ha grandi città, non ci va molta
gente. Due stranieri verrebbero individuati subito. Dobbiamo ucciderlo, ma
non ho nessuna voglia di farmi prendere. -
No, di certo. Non sarebbe una bella fine. Merda, Joscelin! -
Non vedo altre vie. In ogni caso non possiamo rinunciare. Il barone non lo
accetterebbe. Se domani Jacques parte, tu lo seguirai e prenderai una camera
alla locanda del Pastore: è a cinque miglia dall’Arram.
Io arriverò più tardi e mi fermerò per bere. Se ci vediamo, facciamo in modo
di parlarci. Altrimenti sarò al ponte vicino alla locanda prima dei Vespri. -
Va bene. Non è difficile trovare la locanda e il ponte? -
No, la locanda è sulla strada, il ponte pure, mezzo miglio oltre. Se ci fosse
qualche novità questa sera, fatti vedere alla mia locanda e poi aspettami al
cimitero della chiesa. Prendono
gli ultimi accordi, poi tornano nelle loro locande. Nella sua Georges ritrova
Guy, che gli si avvicina. Scambiano due parole, poi
Guy dice: -
Per quanto riguarda il barone, avevo ragione: lui e il giovane Guibert partono domani. -
Avete parlato con il vostro amico soldato? -
Sì, mi ha detto che partiranno in mattinata, sul presto. Saranno ospiti del
conte Ferdinando. Contano di rimanere tre o quattro giorni, cacciando. Georges
è contento di ricevere queste informazioni che non ha chiesto e che gli
servono alquanto. Non è stato lui ad avvicinarsi a Guy,
perciò non può aver destato sospetti. -
Beati loro che possono pensare a divertirsi, senza preoccuparsi di niente. Georges
chiacchiera un momento con Guy, poi esce e si
dirige alla locanda dove alloggia Joscelin. Non si
accorge che Guy lo sta seguendo. Georges
entra come un avventore qualsiasi, si sistema a un tavolo in fondo e ordina
da bere. Joscelin lo ignora completamente. Georges
beve, poi si alza ed esce. Si dirige direttamente al piccolo cimitero di
fianco alla chiesa di San Marco. Joscelin lo raggiunge poco dopo. Discutono le
ultime novità. Decidono che Georges uscirà dalla città appena apriranno le
porte, in modo da arrivare alla locanda prima del passaggio del barone: in
questo modo nessuno potrà pensare che lo stia seguendo. Joscelin
partirà più tardi. Si separano. Joscelin torna alla
sua locanda, senza badare a un uomo che, celato nell’ombra, lo segue. L’indomani
mattina, appena aprono le porte della città, Georges esce e prende la strada
per l’Arram. Jacques e Guibert
lasciano la città un po’ più tardi, con una dozzina di cavalieri. Poche ore
dopo passano davanti alla locanda del Pastore. Georges,
che è arrivato da tempo e ha preso una camera, è seduto nel pergolato e li guarda
cavalcare lungo la strada. Chiede al locandiere: -
Chi sono quei due giovani con la scorta? Gente ricca, suppongo. Uno è mica il
figlio del duca di Rougegarde? -
No, no. Sono il barone Jacques di San Giacomo e il cavaliere Guibert, figlio di un signore che sta qui. Andranno a
caccia nei boschi del conte. Lo fanno ogni tanto. -
C’è molta selvaggina qui? -
Sì, l’emiro veniva a cacciare da queste parti e non permetteva a nessun altro
di farlo. Ci sono parecchi animali. -
Beati quei due giovani, che non hanno niente da fare, se non andare a caccia. -
Eh, sì, bella vita, la loro! Verranno qui questa sera, a mangiare e
spassarsela un po’. -
Qui alla locanda? Avrei detto che fossero ospiti del conte Ferdinando. O del
padre di questo Guibert. Mi avete detto che è di
qui, no? -
No, non è di qui, di solito sta a Rougegarde, ma qui ha una residenza per la
caccia. Probabilmente dormiranno lì, è a poche miglia. Oppure ospiti del
conte, non so. Ma mi hanno avvisato che questa sera vogliono festeggiare qui. Joscelin passa nel primo pomeriggio. Si ferma a
bere qualche cosa. Georges si allontana verso il ponte. Joscelin
lo raggiunge poco dopo. -
Jacques sarà alla locanda questa sera: festeggerà con l’amico. -
Questa sera… alla locanda… È l’occasione che cercavamo. -
Ci saranno anche i soldati. Come pensi di fare? -
Veleno. Ne ho due: uno ad azione immediata e uno lento. Useremo il secondo. -
Ma come farlo bere al giovane? -
Sarà un momento di festa. Anche i soldati non staranno tanto in guardia,
Aspetteremo che abbiano bevuto un po’. Quando saranno tutti più allegri…
troveremo il modo. Si
mettono d’accordo su come procedere, poi Joscelin
torna alla locanda. Dice al locandiere che il posto è molto piacevole e che
vorrebbe fermarsi. Il locandiere ha un posto in una camera, dove c’è già un
altro occupante. Joscelin si chiede se sia la
camera di Georges, ma non è quella. Se fossero stati insieme, forse avrebbero
avuto più libertà d’azione, ma in fondo è meglio che nessuno li associ.
L’altro ospite è un uomo sui quaranta, alquanto vigoroso. Non sembra
intenzionato a chiacchierare e a Joscelin non
interessa scambiare due parole con lui, per cui si limitano a un cenno di
saluto. Georges
passa la giornata fuori e torna solo verso sera. Scopre che nella sua camera
ci sono altri due ospiti: la locanda è piena e ogni camera ospita almeno tre
persone. Da una parte è un fastidio, perché limita la libertà d’azione,
dall’altra la confusione dovuta alla presenza di tanta gente faciliterà
l’esecuzione del piano. Joscelin è stupito che ci sia tanta gente alla
locanda: non si aspettava un simile affollamento. Quando scende nella sala
dove si mangia, scopre che gli ospiti sono tutti uomini. Il locandiere ha
preparato una tavolata per il barone e gli uomini della sua compagnia, che
non sono ancora arrivati. Tutti gli altri tavoli invece sono già occupati. Il
locandiere sistema Joscelin proprio accanto alla
tavola del barone. Poco
dopo scende Georges e il locandiere gli indica un altro posto libero, a un
tavolo nell’angolo. I
cacciatori arrivano. Si mangia abbondantemente, si beve. Ben presto gli
uomini nella sala appaiono alticci. Risate e battute si intrecciano.
L’assenza di donne rende il linguaggio più sboccato. Le voci diventano sempre
più forti. È
Jacques stesso a rivolgersi a Joscelin,
chiedendogli da dove viene. Joscelin risponde di
venire da San Giacomo d’Afrin e il barone propone
un brindisi alla sua città. Bevono, poi Jacques invita Joscelin
a sedersi al suo tavolo, accanto a lui. Spiega di essere il figlio del barone
Charles e gli chiede notizie dello zio Olivier. Joscelin
dice di saperne poco, perché non ha modo di frequentare la corte, ma propone
un nuovo brindisi in onore del barone Olivier. Quando il servitore riempie i
bicchieri, versa nel proprio il veleno, badando a non farsi notare da
nessuno, poi lo mette accanto a quello di Jacques. Al momento del brindisi,
prende il bicchiere del barone, come se si sbagliasse. Una
mano si posa sul braccio di Joscelin. L’uomo che
gli stringe il polso dice: -
Non è quello il tuo bicchiere. È l’altro. Bevi dall’altro. Nella
sala di colpo scende il silenzio. Gli uomini che sghignazzavano e sembravano
già mezzi ubriachi guardano Joscelin, la mano
sull’arma, pronti a scattare. Georges
capisce che il piano è fallito e intuisce che non riuscirà a scampare: vede
che i quattro uomini del tavolo vicino lo stanno fissando, senza badare a Joscelin. Nessuno di questi uomini ha alzato il gomito:
sono tutti sobri e lucidi, simulavano di essere mezzo ubriachi. Aspettavano
soltanto il momento di agire. Era
una trappola e ora ci sono finiti dentro. Al posto di Joscelin
Georges berrebbe il vino avvelenato: meglio la morte per veleno che quella
che li aspetta. Joscelin cerca di schermirsi. -
Ma perché? È lo stesso vino, no? -
Allora bevi dal tuo bicchiere. Joscelin posa il bicchiere, ma non prende
l’altro. L’uomo che gli ha bloccato il braccio fa un cenno con il capo.
Quattro uomini afferrano Joscelin e lo tengono
fermo, mentre uno gli lega le mani dietro la schiena. L’uomo che ha bloccato Joscelin si avvicina a Georges e gli intima: -
Alzati. Georges
esita. Fa finta di non capire. -
Che cosa volete da me? -
Non farci perdere tempo, Georges Dubuis. Dobbiamo
rientrare a Rougegarde questa notte. E tu sei nostro ospite. Georges
ha l’impressione che lo abbiano colpito al petto. Lo conoscono, sanno chi è.
Tutto è perduto. Si alza. Gli uomini del tavolo vicino lo bloccano e gli
legano le mani dietro la schiena. Jacques
si rivolge all’uomo che ha bloccato Joscelin: -
Direi che tutto è andato come previsto, Manrique. Joscelin sa che Manrique
è il capo della guardia personale del duca. Non l’aveva mai visto. Li
conducono fuori. Sono usciti quasi tutti gli avventori: evidentemente erano
soldati. Vengono portati i cavalli. Un uomo mette un sacco nero sulla testa
di Joscelin e lo fissa intorno al collo con una
corda, poi fa lo stesso con Georges. Li aiutano a salire a cavallo, legano le
briglie a un altro cavallo e si avviano: oltre venti uomini e due
prigionieri. È
un lungo viaggio. Georges e Joscelin non possono
vedere, ma sanno dove vanno: a Rougegarde e alla morte. È
notte e la strada è deserta. Un contadino che rientra dopo essere stato a
Rougegarde li scorge in lontananza e si nasconde dietro una grande quercia
che si erge solitaria, sul bordo della pista. Li osserva passare e
rabbrividisce vedendo questo drappello di uomini che cavalcano silenziosi
nella notte, con due prigionieri incappucciati e legati in mezzo a loro,
illuminati dalla luce spettrale della luna. Il
contadino si fa il segno della croce. Sospetta di aver assistito a una
cavalcata demoniaca. Ha sentito dire che la notte spiriti malefici scendono
dai monti e assalgono chi si è attardato lungo la strada: per i musulmani
sono i ginn, per i cristiani diavoli o streghe. Il
contadino non aveva mai badato a queste voci, ma adesso sa che non sono
infondate. È
notte fonda quando i cavalieri arrivano a Rougegarde, ma sono attesi alla
porta dei giardini, quella rivolta a Nord. L’ufficiale di guardia la fa
aprire e il drappello raggiunge il castello, attraversando le vie deserte di
una città che ancora dorme. I
due prigionieri vengono accompagnati in due diverse celle e lasciati lì,
legati e con la testa coperta. Georges
sa di essere perduto. Decide di cercare di dormire, per recuperare un po’ le
forze, ma prima che sia riuscito ad assopirsi sente la porta aprirsi. Viene
sollevato e trascinato in un altro locale. Lo
spogliano, gli tolgono il cappuccio, lo legano a un tavolaccio e incominciano
l’interrogatorio. A condurlo è Manrique. -
Georges Dubuis, chi vi ha mandati qui? -
Nessuno mi ha mandato. Sono venuto qui per cambiare un po’ aria. A San
Giacomo ho alcuni nemici. -
Georges, per me va bene. Posso farti torturare finché non racconterai tutto.
E posso garantirti che alla fine racconterai. Sta a te scegliere se vivere
questi ultimi giorni tra i peggiori tormenti o attendere la fine senza aver
subito ogni genere di torture. -
Non capisco perché mi avete arrestato. Io non c’entro. Non conosco quel tipo che avete fermato. Manrique ride. -
Siete arrivati insieme, siete rimasti in contatto, vi siete incontrati ieri
notte nel cimitero della chiesa di San Marco, dopo che sei passato alla
locanda della Capra, a chiamarlo. Georges
chiude gli occhi. Non aveva molte speranze. Ora non gliene è rimasta nessuna.
Sanno che lui e Joscelin sono insieme. Di sicuro
proveranno quel vino su qualche animale e vedranno che morirà. Non c’è via
d’uscita. Manrique ha ragione. Il supplizio che lo
attende sarà atroce e non è il caso di aggiungere altra sofferenza. Rivela
che a inviarli è stato il barone Olivier e cerca di scaricare ogni
responsabilità su Joscelin, dicendo che il suo
ruolo era solo quello di dare una mano al compagno. Sa che questo non gli
salverà la vita, ma spera in un supplizio meno atroce di quello che di certo
attende Joscelin. -
Sei stato saggio. Per il momento è tutto. Georges
viene ricondotto in cella, dove può infine dormire. Joscelin si rivela un osso più duro. Si rifiuta
di rivelare chi lo ha mandato, nega di aver voluto avvelenare Jacques, dichiara
di non conoscere Georges. Il
primo giorno viene torturato. Si dibatte e grida, ma non cede. La
sera, stravolto dalla mancanza di sonno, dalla sete e dal dolore, viene messo
a confronto con Georges, che conferma la sua deposizione. Joscelin
ascolta, allibito: non si aspettava che il compagno cedesse subito. Gli
grida: -
Bastardo! Traditore! Georges
alza le spalle. -
A che serve negare? Sanno tutto, ormai. Joscelin è furibondo. Grida: -
Tutto? Sanno anche che hai ammazzato tu il barone Charles? Gli hai raccontato
anche questo? Credo proprio di no. Georges
si morde il labbro. Joscelin si rivolge a Manrique: -
L’ha attirato lui in una trappola e lo ha ucciso con le sue mani. Manrique non è stupito. Si limita a chiedere a
Georges: -
Credo che quest’uomo dica la verità sulla morte del barone Charles. Chi ti
aveva dato l’ordine di ucciderlo? Georges
alza le spalle e risponde: -
Il barone Olivier. Ormai
non ha più nessuna speranza. Meglio dire la verità ed evitare la tortura. Joscelin urla di nuovo, ma nessuno gli bada. Joscelin viene torturato per tre giorni. Cerca
di resistere, anche se sa che la testimonianza di Georges e il veleno nel
vino sono più che sufficienti per condannarlo. La sera del terzo giorno cede.
Conferma quanto ha detto Georges. L’esecuzione
avviene in piazza. La gravità dei crimini commessi è tale da richiedere una
pena esemplare: i due condannati saranno squartati davanti alla folla. Il
mattino presto Joscelin e Georges vengono fatti
uscire dalle celle e costretti a salire su un carretto, che li conduce fino
al luogo del supplizio, la piazza della cattedrale. Sono entrambi a torso
nudo e hanno le mani saldamente legate dietro la schiena. Molti vogliono
assistere e fin dal mattino presto la piazza brulica di gente. La curiosità è
grande, anche perché è la prima volta che a Rougegarde vengono squartati due
uomini: in città ci sono state alcune esecuzioni capitali, avvenute di solito
per impiccagione, ma non è mai stata eseguita una pena così sanguinosa e
infamante. Chi non è riuscito a entrare in piazza si accalca lungo la strada
per vedere almeno i due condannati. La folla grida insulti e deride i due
uomini, ricorda loro che saranno castrati e poi squartati. Sulla
piazza è stata innalzata una piattaforma di legno, su cui il carnefice e i
suoi assistenti attendono i due assassini. Due pali infissi nella piattaforma
sostengono una trave orizzontale, da cui pende una corda, come per le
impiccagioni. Accanto ci sono un tavolaccio di legno un braciere con una
fiamma accesa. L’arrivo
del carretto è accolto da un boato della folla. Joscelin
e Georges vengono costretti a salire i gradini. Giunti in cima vengono
spogliati completamente. Quando sono entrambi nudi, gli uomini lanciano grida
di scherno e fanno battute oscene: - Ce
l’hai grosso, bastardo, ma tra poco non ce l’avrai più. -
I coglioni faranno un bell’arrosto. Gli
aiutanti del boia passano una corda sotto le ascelle di Georges, la fanno
passare sopra la trave orizzontale e sollevano il condannato a tre palmi da
terra, perché la folla possa assistere meglio a ciò che seguirà. Uno degli
assistenti gli passa ai piedi una corda, in modo che non possa scalciare. Il
carnefice lega un’altra corda ben stretta alla base del cazzo e dei coglioni
di Georges e la tira in avanti. Sorride mentre avvicina la lama del coltello
ai genitali. Georges rabbrividisce e grida: -
No! No! No! Il
terzo no diventa un urlo di dolore quando il boia recide con un colpo netto.
Il boia ride e getta il cazzo e i coglioni sul braciere, da cui si leva un
fumo scuro, mentre il lezzo di carne bruciata si sparge nell’aria. Poi
il carnefice incide un taglio nel ventre, aprendolo da subito sotto lo sterno
fino alla ferita della castrazione. Dal taglio incomincia a estrarre le
viscere, gettandole nel fuoco. Georges è ancora vivo quando il boia fa un
cenno ai suoi assistenti, che lo calano e lo depongono su un tavolaccio di
legno. Il
corpo di Georges è agitato da un tremito convulso. Il boia alza la scure e la
cala sul collo, recidendo la testa. La morte non conclude l’esecuzione:
l’ascia stacca prima un braccio, poi l’altro e infine le gambe. I sei pezzi
non vengono gettati nel fuoco: verranno esposti in diverse parti della città,
come monito per chiunque attenti alla vita di un signore del regno. Joscelin ha assistito all’esecuzione di
Georges. Per quanto sia un uomo coraggioso, un tremito percorre tutto il suo
corpo. Quando lo sollevano, perde il controllo degli sfinteri. Il piscio
scende abbondante, un po’ di merda cola tra i fianchi. Gli uomini accalcati
intorno al palco sghignazzano. Il
boia procede allo stesso modo. Joscelin, provato
dalla tortura, perde i sensi mentre il carnefice lo sta eviscerando. Quando
viene disteso sul tavolaccio per essere decapitato, è già morto. Olivier
ha saputo dell’arresto dell’esecuzione di Joscelin
e Georges. Non sa se abbiano confessato o meno, ma se hanno ceduto alla
tortura, di certo lo hanno denunciato come mandante e allora non c’è
speranza: anche lui verrà condannato a morte. In
questo momento il re ha ben altre gatte da pelare, perché il Saladino avanza
nel regno, mettendo a ferro e a fuoco il territorio. Nell’anno 1187 dall’incarnazione del
Signore, il re di Siria raccolse un esercito, il cui numero era come la
sabbia del mare, per sottomettere la terra di Giuda. Allora, passando il
fiume, venne fino al Jaulan, dove fissò il campo.
Anche il re di Gerusalemme riunì la sua gente dall’intera Giudea e dalla
Samaria… Templari e ospedalieri, richiamati grossi contingenti dalle
guarnigioni dei loro castelli, si congiunsero all’armata del re. Ma
non appena la spedizione si sarà conclusa, Olivier rischia di essere
arrestato e di fare la fine orribile dei suoi uomini. Gli
rimane una sola possibilità: consegnare San Giacomo al Saladino, chiedendogli
in cambio di mantenere il governo della città. È vero che i musulmani e gli
ebrei sono stati scacciati, ma questo è avvenuto quando a comandare era Renaud. Olivier dovrà dichiararsi disposto ad accogliere
coloro che vorranno tornare. I cristiani pagheranno la tassa riservata a
coloro che non sono maomettani e Olivier avrà un potere limitato, ma comunque
non sarà completamente escluso dal governo della città. Se
Guido da Lusignano verrà sconfitto, Olivier avrà fatto un ottimo affare. Se
invece le forze del regno avranno la meglio, forse San Giacomo d’Afrin potrebbe essere difesa contro l’esercito cristiano,
grazie alla sua vicinanza ai territori arabi. Olivier
convoca Philippe. -
Nipote, devo assentarmi per alcuni giorni. -
Bene. Mi affiderete il governo della città in vostra assenza, suppongo. Sarà
per me un’occasione di esercitare il dominio che mi spetta. Olivier
sorride. Philippe lo crede davvero così ingenuo? -
No, non sarà così. Preferisco lasciare l’incarico ad altri. Philippe
non nasconde la sua irritazione: -
Io sono il signore di San Giacomo. Olivier
annuisce. -
Tu sei il signore della città ed eserciterai la tua signoria da una cella del
palazzo. -
Cosa? Non avete nessun diritto… Olivier
fa un cenno alle guardie, che già sanno che cosa devono fare. Philippe viene
bloccato e chiuso nel carcere. Se
otterrà dal Leone il governo della città, al suo ritorno Olivier farà
strangolare il nipote. Se invece tornerà a mani vuote, Philippe rimarrà prigioniero,
ma potrà essere usato come moneta di scambio se il duca di Rougegarde
decidesse di intervenire. Denis non è partito con l’esercito regio, perché il
re lo ha incaricato di difendere il confine orientale dalle truppe del Leone.
Olivier
parte con un piccolo gruppo di uomini della cui fedeltà è sicuro: se si
venisse a sapere della sua manovra prima che il tutto sia concluso e San
Giacomo sia nelle mani del Saladino, finirebbe squartato in piazza come
Tancrède d’Espinel. Si
dirige a Qasr al-Aswad, la roccaforte in cui si è
rifugiato Walid al-Atrash: gli risulta che il Leone
stia ancora assediando lo sceicco di Madinat Altal,
che ha osato ribellarsi al Saladino. Quando
Olivier raggiunge infine l’accampamento del Leone, l’assedio si è già
concluso. Il castello è stato espugnato e il ribelle Walid agonizza su un
palo. Olivier si presenta alle sentinelle e chiede di parlare con Ubayd al-Asad, il Leone. Il suo
arrivo suscita stupore: perché un signore cristiano viene a parlare con un
condottiero nemico? Olivier e i suoi uomini sono costretti a deporre le armi. I
soldati rimangono sotto sorveglianza, Olivier è accompagnato fino alla tenda
del Leone e deve aspettare fuori. Non è un’attesa piacevole: Olivier è assalito da dubbi. Sa
bene che tra i saraceni non gode di buona fama e il Leone potrebbe decidere
di farlo giustiziare. Olivier guarda lo sceicco impalato sulla collina. È
piuttosto distante, ma il barone può vedere che è ancora vivo. Sa che un uomo
impalato può sopravvivere anche diversi giorni. Il pensiero lo fa
rabbrividire. Il Leone potrebbe imprigionarlo. O anche solo rifiutare la
sua proposta. E allora? C’è il rischio che Denis di Rougegarde attacchi San
Giacomo per liberare Philippe. Olivier potrebbe minacciare di uccidere il
nipote se il duca decidesse di assediare la città, ma la sua situazione non
sarebbe facile. Se il Saladino fosse costretto a ritirarsi, Olivier non
potrebbe difendere a lungo San Giacomo e il suo destino sarebbe segnato. Passano almeno tre ore prima che Ubayd
al-Asad riceva il barone cristiano. Tre ore sotto
il sole cocente dell’estate. Tre ore in cui c’è un continuo viavai di uomini
che entrano nella tenda e ne escono, gettando appena un’occhiata al barone di
Afrin che attende. Tre ore di dubbi e ripensamenti,
ma ormai allontanarsi non è più possibile. Olivier può solo andare avanti
nella strada che ha scelto. Quando infine gli permettono di entrare nella tenda, Olivier
osserva questo condottiero, tanto valoroso quanto giovane: deve avere circa
venticinque anni. Eppure è considerato il più forte tra i guerrieri saraceni,
secondo solo a un comandante esperto come Barbath, che i cristiani chiamano
il Flagello. - Hai chiesto di parlarmi, cristiano. - Sì. Sono il signore di San Giacomo d’Afrin,
che tu di certo conosci di fama. - Conosco Afrin. Ubayd ha
usato il nome arabo, ovviamente. Non può certo aver visitato la città, che è
stata conquistata quando quest’uomo doveva essere appena bambino. - Io sono il signore della città, ma mio nipote me la vuole
togliere. Potrei sopprimerlo, ma avrei contro il mio re e il duca di
Rougegarde, il famoso Cane dagli occhi azzurri. “Cane dagli occhi azzurri” è l’appellativo di Denis tra i
saraceni. Non c’è guerriero più temuto di lui. Olivier è convinto che sia anche
il più odiato, ma non è così: tutti lo considerano giusto e generoso. - Conosco Denis di al-Hamra. Di nuovo il Leone usa il nome arabo, è naturale, come è
naturale che conosca di fama il duca. Non di persona: Olivier esclude che i
due abbiamo mai combattuto. - Condottiero, conosco la tua potenza. Vengo a offrirti la
città di Afrin. Ubayd
aggrotta la fronte. - Mi offri la resa di Afrin? - Sì, ti aprirò le porte della città. - E perché faresti questo? Che cosa chiedi in cambio? - Chiedo che mi venga affidato il comando della città, ai
tuoi ordini e a quelli del grande Salah ad-Din. Il Leone scuote la testa. Olivier non si stupisce che l’uomo
si mostri poco disponibile ad accogliere la sua richiesta. E infatti Ubayd dice: - Perché dovrei accettare la tua proposta? Afrin cadrà nelle mie mani, anche se tu combatterai contro di me. - Lo so. Se così non fosse, non sarei qui a inchinarmi
davanti a te. Come vedi, non mento. Olivier fa una breve pausa, poi riprende: - Consegnandoti la città ti evito di perdere uomini e tempo
prezioso. Sai che se Afrin verrà assediata, il
signore di Rougegarde verrà a difenderla. Il Leone sembra soppesare le parole di Olivier, che
prosegue: - Non sottovalutare il duca. Ha sconfitto più volte nemici
ben più forti di lui. È un guerriero valoroso, che ha un ascendente
fortissimo sui suoi uomini e sa come condurre una battaglia. - Questo lo so. Il Cane dagli occhi azzurri è ben noto. Ubayd
riflette sulla proposta. Ha concluso la sua campagna, lo sceicco ribelle è
stato impalato: potrebbe attaccare direttamente Afrin,
ma deve aspettare gli ordini del suo signore. Intraprendere una campagna
senza l’autorizzazione di Salah ad-Din potrebbe essere considerato un atto di
insubordinazione. Se invece la città gli venisse consegnata, il problema non
si porrebbe: nessuno potrebbe rimproverargli di aver accettato il dono. Il
barone però vuole continuare a governare Afrin.
Questo Ubayd non può certo prometterglielo, dovrà
sentire Salah ad-Din. Il signore della Siria e dell’Egitto gli ha promesso di
dargli al-Hamra, se sarà conquistata. In tal caso Afrin potrebbe essere governata da questo traditore. Ubayd ha altri progetti sulla città, ma non può rifiutare
il dono che gli fa il barone: dovrebbe renderne conto a Salah ad-Din. Sarà il
signore della Siria e dell’Egitto a decidere. - Accetto il dono e prenderò possesso della città, ma non
posso garantirti che rimarrai a governarla, perché questo lo può decidere
solo Salah ad-Din. Gli dirò della tua richiesta e che mi hai consegnato la
città. Lui stabilirà il da farsi. Olivier
non è per niente soddisfatto della risposta, ma sa di avere poca scelta. Non
è detto che il Leone accetti un rifiuto. Potrebbe decidere di tenerlo
prigioniero. Potrebbe perfino farlo giustiziare. Non
gli rimane che fare buon viso a cattivo gioco: -
Farò quanto ho promesso. Conto sulla tua lealtà. Sono sicuro che Salah ad-Din
non dirà di no al più valente dei suoi guerrieri. -
Salah ad-Din deciderà. Egli è il signore di queste terre, che Iddio lo preservi.
In ogni caso se vorrai continuare a governare, dovrai convertirti. Olivier
sospettava che gli sarebbe stato richiesto anche questo. Si limita a
rispondere: -
Se il potente Salah ad-Din mi concederà quanto chiede, lo farò. Discutono
un momento sul da farsi. I cittadini di Afrin non
accetteranno facilmente il passaggio sotto il dominio di Salah ad-Din: ormai
la popolazione è in larga maggioranza cristiana e i pochi musulmani ed ebrei
ancora presenti in città sono schiavi. Occorre perciò che il Leone mandi
alcune truppe o venga di persona. Ubayd sceglie di inviare alcuni soldati e di
intervenire personalmente solo dopo che Salah ad-Din lo avrà autorizzato. Gli
invia subito un messaggero per informarlo e ricevere i suoi ordini. Gli
uomini di Olivier, sostenuti da alcune truppe del Leone, si recheranno ad Afrin e un inviato di Ubayd
prenderà possesso della città. Una quarantina di cavalieri e altrettanti
fanti saranno sufficienti per prendere il controllo di Afrin
e soffocare sul nascere ogni resistenza. Gli uomini del Leone saranno guidati
da Aban, un guerriero esperto. Olivier
e Aban si dirigono verso Afrin.
Il primo giorno, quando il sole sta per tramontare, Olivier ferma la sua
cavalcatura e dice: -
Possiamo fermarci qui. È un buon posto. Aban scuote la testa. -
Possiamo proseguire ancora. Inutile perdere tempo. E
senza aspettare la replica di Olivier, sprona il cavallo. A
Olivier non rimane che seguirlo: è chiaro che a comandare è l’ufficiale
arabo. Vanno avanti fino a notte. Gli uomini del barone mugugnano, ma sono
solo una dozzina: che cosa potrebbero fare contro ottanta guerrieri? Il
terzo giorno, in tarda mattinata, avvistano San Giacomo d’Afrin.
Ma quando scendono dalla collina si accorgono che di fronte alle mura c’è
l’accampamento di un esercito che innalza la croce come vessillo. Olivier
impallidisce. Che cosa è successo? Una
prima risposta viene dai colori di altri vessilli: bianco, blu e nero. Il
bianco e il blu sono i colori dei d’Aguilard, il nero lo fece aggiungere
Denis in memoria del padre, ucciso dai saraceni dopo una battaglia. Il duca è
qui. O lo sono le sue truppe. E sono tanti, molti più dei saraceni. -
Merda! Aban è furente. Ha sguainato la spada e la
punta al petto di Olivier. -
Che cosa significa questo? È una trappola? -
Nessun trappola. Non so che cosa sia successo, non ho certo chiamato io le
truppe del duca di Rougegarde: è il mio nemico. Il barone non ha difficoltà a trovare una spiegazione: Denis
deve aver saputo che Olivier ha fatto imprigionare Philippe, di certo ha le sue
spie in città. Ha sospettato il tradimento ed è giunto in forze per liberare
il giovane e affrontare il traditore. Olivier e Aban fermano i loro
soldati, ma di certo le sentinelle del duca li hanno avvistati. E infatti
sentono in lontananza il suono del corno che chiama a raccolta i soldati. - Dobbiamo ritirarci, Aban. - Ritirarci? Ubayd al-Asad mi manda qui e io dovrei fuggire come un codardo?
Dovrei presentarmi al mio signore e dirgli che non ho avuto il coraggio di
affrontare il nemico? Combatteremo. Olivier sa di non avere nessuna possibilità di scelta:
affrontare il duca è un suicidio, ma Aban non gli
permette di evitare lo scontro. I cavalieri e i fanti si dispongono in formazione e scendono
verso la città. Anche le truppe avversarie si sistemano. Olivier vede che a
guidarle è il duca in persona. Anche i guerrieri arabi si sono accorti che a capeggiare le
truppe è il Cane dagli occhi azzurri. Sotto la guida del Leone sono passati
di vittoria in vittoria, ma ora si trovano ad affrontare il più temibile dei
signori franchi, colui che mise in fuga Salah ad-Din stesso, sconfiggendo un
esercito dieci volte più numeroso del suo. E a guidarli non è neppure il
Leone, che non è mai stato sconfitto, ma Aban: un
guerriero esperto, ma di certo non in grado di affrontare il Cane, tanto più
che i franchi sono di gran lunga più numerosi. Olivier legge lo sgomento sui volti dei soldati saraceni. È
consapevole che la battaglia è perduta. Vorrebbe fuggire, ma sa che Aban lo farebbe uccidere subito. Le truppe di Denis e i saraceni si fronteggiano. I cavalieri
di Aban attaccano e poi si ritirano, sperando che
il duca li insegua, in modo da separare la cavalleria cristiana dai fanti:
una tattica che hanno usato molte volte e che nonostante questo ha spesso
funzionato. Ma mai con il duca e tutti lo sanno. La cavalleria non cade nella trappola. Avanza lentamente,
con i fanti. Non resta che la fuga o lo scontro frontale. Aban
non vuole presentarsi dal Leone sconfitto. Non vuole tornare con
l’umiliazione di una disfatta. Non tornerà: è uno dei primi a cadere sotto i colpi del
duca, che lo trafigge. La morte gli salva l’onore: è stato ucciso dal più
forte dei guerrieri cristiani. I soldati arabi non rinunciano a battersi quando vedono
cadere il loro comandante, ma le sorti della battaglia sono ormai segnate.
Olivier di Soissons sa di aver sbagliato tutto e che la sua vita è alla fine.
Una rabbia feroce lo invade. Tutto è stato inutile. Ed ecco che tra le truppe
che li incalzano vede avanzare il nipote Jacques. Olivier si scaglia contro
di lui, che immediatamente si stacca dal fronte e gli viene incontro:
l'ostilità che li oppone da tempo trova infine l'occasione per sfogarsi.
Entrambi sanno che non ci sarà un prigioniero, ma un morto. Lanciano i
cavalli al galoppo l'uno contro l'altro. Immediatamente prima che la lancia
di Jacques lo tocchi, Olivier si piega sulla destra, attorcigliandosi la
briglia intorno alla mano sinistra e stringendo saldamente con le ginocchia
il cavallo. La lancia del nipote lo sfiora, appena sopra la spalla sinistra,
mentre la sua, tenuta con mano sicura, evita lo scudo e colpisce
l'avversario, troppo teso a uccidere per riuscire a schivarla completamente.
Ma l'armatura di Jacques è solida e la lancia, prendendolo di sbieco, riesce
solo a disarcionarlo, facendolo crollare a terra, mentre il cavallo prosegue
la sua corsa. La gioia feroce dilata i polmoni di Olivier in un urlo: ora
scannerà Jacques come un porco. Ma in quel momento un improvviso scarto del
cavallo rischia di disarcionarlo, ancora sbilanciato com'è. Prima che possa
sollevarsi, il cavallo si abbatte al suolo. Olivier riesce ad alzare la
gamba, evitando che venga schiacciata, ma la briglia gli imprigiona la mano e
gli spezza il braccio. Si trova con le gambe sollevate sul corpo del cavallo, il
braccio spezzato contorto dietro la schiena. Il dolore non gli toglie la
lucidità. Si guarda intorno e vede i fanti del nipote vicino a lui: sono
stati loro ad abbattere il cavallo con un colpo di picca. Bloccato dalla briglia che lo lega al corpo del cavallo, non
può liberarsi e sa che non potrà essere liberato dai suoi uomini, ormai in
fuga e preoccupati solo di difendersi dai nemici che li incalzano. Jacques si è alzato. La spalla destra gli fa male e non
riesce a muovere bene il braccio, ma nonostante il dolore ride mentre guarda
Olivier: sta per vendicare suo padre. In realtà sta per ucciderlo, ma non può
sapere che il suo vero padre è Olivier. Fa un cenno ai suoi uomini. Olivier sa che i fanti lo uccideranno: non può impedirglielo
nella posizione in cui si trova. La sua battaglia e la sua vita finiscono.
Cerca, senza riuscirci, di prendere la spada, ben conscio che sarebbe
comunque un gesto inutile, nella posizione in cui si trova. Ma non gli
riesce neppure quello. Uno degli uomini si avvicina, rimanendo oltre il cavallo, al
sicuro. Punta la picca dalla grande punta tra le gambe di Olivier, dove la
caduta ha messo allo scoperto uno dei punti deboli dell'armatura. Prende
accuratamente la mira e con un colpo deciso spacca il cuoio di protezione. Olivier
sente l'urto e poi il dolore violento mentre la picca gli trapassa un
testicolo e gli si infila nel ventre. Tiene gli occhi fissi sul viso del suo
assassino, un grande uomo barbuto che ora sorride, soddisfatto del suo
lavoro. Gocce di sudore gli imperlano la fronte. Sente la voce di Jacques, che dice: - Bravo, Robert, avrai una ricompensa per questo. Spera che l'uomo finisca presto, ma il soldato non ha fretta
e l’incoraggiamento del giovane barone lo sprona a proseguire. Sposta un po'
la picca, estraendola leggermente e immergendola nuovamente, in modo da
correggere la direzione di penetrazione. La sposta ancora, perché
evidentemente lo diverte scavare con la picca tra i coglioni del duca di
Soissons: se ne vanterà questa sera, con i compagni all’osteria. Olivier
sente un sudore ghiacciato invaderlo e non si accorge di aver perso il
controllo degli sfinteri. Non emette nessun suono, ma quando, facendo
pressione con tutta la sua forza, l'uomo gli fa penetrare la picca nel
ventre, lancia un urlo, soffocato da un rigurgito di sangue. Al secondo colpo, che gli spinge l'arma fino al petto, il
capo gli cade all'indietro. Ormai lo scontro si è concluso. Pochi cavalieri e fanti
arabi in fuga torneranno dal loro signore a raccontare ciò che è successo: la
presenza del Cane dagli occhi azzurri con le sue truppe ha impedito di
prendere possesso della città. Le truppe vittoriose ritornano all’accampamento, dopo aver
raccolto i morti. Solo il cadavere del barone viene abbandonato agli animali
selvatici, dopo essere stato spogliato delle armi e delle vesti: è un
traditore, non merita sepoltura. Poche ore dopo lo scontro, iene ed avvoltoi
si stanno già cibando del suo corpo. Non è stata una grande battaglia, ma è l’ultima vittoria di
truppe cristiane prima della grande sconfitta di Hattin. La leggenda se ne
impadronirà e farà di questa scaramuccia un combattimento epico, l’ultimo
grande trionfo del duca di Rougegarde. Dopo la catastrofe molti diranno, esprimendo un pensiero
comune, che se Denis fosse stato presente su quei resti di un antico vulcano,
chiamati Corni di Hattin, le sorti dello scontro sarebbero state ben diverse. Ma Guido da Lusignano ha affidato a Denis la difesa del
confine orientale, perché teme un attacco da parte del Leone o forse, come
insinuano molti, perché la popolarità del duca gli fa ombra e teme che una
vittoria contro il Saladino lo renda un rivale temibile. Sono in tanti a
considerare Guido un usurpatore e a negargli il diritto di sedere sul trono.
E se un re dovesse essere scelto in base alla sua capacità di governare e di
combattere, Denis non avrebbe rivali. Il Saladino aveva contato proprio sull’assenza del duca: ha
dato incarico al valoroso Ubayd di fare pressione
sui confini orientali, perché il re ne affidasse la difesa a Denis di
Rougegarde. Il Saladino conosce bene il terrore che i suoi uomini provano nei
confronti del Cane dagli occhi azzurri e sa che la sua assenza demoralizzerà
i cristiani tanto quanto incoraggerà le sue truppe. Mentre Philippe assume infine il governo di San Giacomo d’Afrin e i superstiti dello scontro informano il Leone di
ciò che è successo, l’esercito del regno di Gerusalemme va incontro alla
catastrofe. Ferdinando è partito insieme agli altri baroni, perché il re
lo ha convocato. È di pessimo umore, per l’assenza di Denis e la lontananza
da Adham. È la prima volta che partecipa a una campagna militare senza
che sia presente il duca e gli spiace, perché Denis è un amico su cui può
sempre contare e perché ha una fiducia illimitata nelle sue capacità militari
e strategiche, mentre ritiene Guido un emerito coglione. Inoltre gli pesa moltissimo non avere Adham
accanto a sé, ma il suo compagno non vuole combattere contro altri musulmani.
Non è la prima volta che si separano perché Ferdinando deve partecipare a una
spedizione, ma fino a ora al fianco del conte c’era Denis. Non è presente
neppure Guillaume, che comanda la guarnigione di castello San Marco, non
lontano da San Giacomo d’Afrin: i forti in
quell’area, minacciata da Ubayd il Leone, non sono
stati sguarniti. Ferdinando ha pochissimi rapporti con gli altri signori del
regno. Tutti gli riconoscono coraggio e capacità guerriere, ma molti,
soprattutto tra i nobili di antica origine, disprezzano questo siciliano, che
è arrivato oltremare con le pezze al culo e ha conservato modi rozzi.
Ferdinando non frequenta la corte di Gerusalemme e non ha legami di sangue
con nessuna delle famiglie nobili: il suo peso politico nel regno è quasi
nullo. Anche le voci che circolano sui suoi gusti rendono alcuni diffidenti
nei suoi confronti: meglio non farsi vedere troppo con lui. Perciò Ferdinando rimane in disparte e anche quando
partecipa alle riunioni in cui si prendono decisioni, non interviene: sa di
non avere quelle doti strategiche e diplomatiche che il suo amico Denis
possiede in massimo grado. L’esercito è accompagnato dai vescovi di Lydda
e Acri, che portano la reliquia della Vera Croce. Normalmente è il patriarca
in persona a portarla, ma molti dicono che Eraclio ha avuto paura e che
perciò ha preferito rimanere con la sua amante, quella Paschia
de Riveri che chiamano la Patriarchessa.
Ferdinando considera la preziosa reliquia pura superstizione e quando tutti
si fanno il segno della croce al suo passaggio, li imita per non farsi
guardare male e nello stesso tempo bestemmia, ma lo fa sottovoce, per non
farsi sentire. La notte il corpo di Ferdinando arde: è sempre stato un uomo
di forti appetiti. Chiama a sé qualche soldato che condivide i suoi gusti, ma
è altro quello che desidera: è un corpo scuro, di cui conosce ogni dettaglio,
l’odore, il sapore, la forza. L’armata del Saladino avanza nel regno, spingendosi fino a
Nazareth e al Tabor. I contadini cristiani scappano all’arrivo dei
maomettani, che appiccano il fuoco ai raccolti e ai villaggi, distruggendo
tutto. Infine Tiberiade viene assediata, mentre i franchi raggiungono le
sorgenti di Seffori. I due eserciti non sono molto distanti: una giornata di
marcia forzata. Presto si troveranno ad affrontarsi. Tra i cavalieri vi è Barisano, la cui famiglia è originaria
dell’Italia meridionale. È lui ad avvicinarsi a Ferdinando, perché ha sentito
parlare della sua dotazione e dei suoi gusti. - Buongiorno, conte. Ferdinando guarda questo sconosciuto: non frequentando la
corte, non ha mai avuto occasione di vederlo. - Buongiorno. Non dice altro: aspetta che l’uomo si presenti e dica che
cosa vuole. - Mi chiamo Barisano. Sono arrivato oltremare tre anni fa e
vivo a Gerusalemme. Fa una piccola pausa e poi prosegue, sorridendo: - Ho sentito parlare molto di voi. Ferdinando incomincia a farsi un’idea delle intenzioni di
Barisano. Lo guarda. Non è un bell’uomo, ma è uno di quei maschi forti che
gli piacciono. Non sarebbe male combinare qualche cosa con lui. - Ah, sì? E che cosa avete sentito dire? - Che siete un guerriero coraggioso e molto forte. Il conte annuisce, senza commentare. È sicuro che il
cavaliere proseguirà. E infatti così avviene: - Dicono anche che avete altre doti. - Davvero? Quali doti? Il sorriso di Ferdinando dice chiaramente che ha capito a
che cosa fa riferimento Barisano. - Pare che siate il miglior stallone di tutto l’Oltremare e
che la vostra attrezzatura sia degna di questa fama. Il conte ride. - Non bisogna credere a tutto quello che si dice. Bisogna
verificare. - In effetti è quello che mi sono detto anch’io. La gente
parla, ma a volte inventa o esagera. È sempre meglio controllare di persona. C’è un momento di pausa, poi Barisano chiede: - Non vi spiace se controllo questa sera? - No, mi sembra giusto che possiate controllare se le
dicerie corrispondono a realtà o se invece sono soltanto… dicerie. La sera Barisano raggiunge la tenda di Ferdinando. Il conte
è in piedi e gli dà la schiena. Al suo ingresso si volta verso di lui. La lanterna, posata a terra, lo illumina
dal basso, dando alla sua figura massiccia un aspetto quasi inquietante. La
luce proietta l’ombra del conte contro il telo della tenda. Barisano si
avvicina, senza dire nulla. Ferdinando
sorride, va alla lanterna e abbassa gli schermi, lasciando filtrare solo un
po’ di luce: in questo modo da fuori nessun potrà vedere le ombre e capire
ciò che sta succedendo all’interno. Barisano
incomincia a spogliare Ferdinando, sfilandogli la camicia. Contempla la
larghe spalle del guerriero, il petto villoso, le cicatrici delle ferite
riportate in battaglia. Poi la sua mano scivola nella folta pelliccia che
ricopre il torace di Ferdinando e stuzzica un po’ i capezzoli. Le mani
afferrano i pantaloni e li calano. Ora Barisano può vedere il cazzo di
Ferdinando, che già si protende in avanti. Si sente la gola secca. Non riesce
a parlare. Non ha mai visto nulla del genere. Ritrova la
voce per dire: - Avete
ragione, non bisogna credere a quello che si dice. La vostra fama è molto al
di sotto della realtà. Ferdinando
sorride. - Dovete
ancora verificare il funzionamento. Barisano si
inginocchia e prende in bocca il cazzo del conte. Incomincia a succhiare la
cappella. Ferdinando chiude gli occhi. È bravo, Barisano, ci sa fare: è
chiaramente esperto. La sensazione della lingua che scorre lungo il cazzo e
accarezza la cappella, delle labbra che avvolgono, della bocca umida che
accoglie l’arma, tutto trasmette a Ferdinando un brivido di piacere. È
davvero bravo Barisano, molto bravo. Ferdinando gli è grato del piacere che
gli trasmette e gli accarezza il capo, sorridendo. Quando il cazzo di
Ferdinando è perfettamente teso, Barisano si stacca e lo contempla. La sua
mano accarezza ancora i coglioni, poi Barisano si alza e con gesti rapidi si
spoglia. Guarda ancora Ferdinando e si stende prono sul giaciglio, allargando
le gambe. - Fate piano, conte. Non
ho mai accolto un simile spiedo. Ferdinando sorride. Guarda
il culo che gli si offre. Fianchi larghi, pelosi, sodi. Un bel culo, giovane,
ma virile. Ferdinando lo afferra con le mani. Forse l’ultimo culo che avrà
nella sua vita: potrebbe morire in battaglia. O essere catturato e ucciso
dopo lo scontro: di solito i nobili catturati possono riscattarsi pagando, ma
anni fa Barbath ha promesso a Ferdinando di ucciderlo se lo catturerà. E Barbath
guida l’esercito: anche se è al servizio dell’emiro di Jabal al-Jadid, il Saladino lo ha scelto come comandante in
seconda. Ferdinando accarezza il
culo di Barisano. Se è l’ultimo che gusterà, avrebbe preferito che fosse il
culo di Adham, ma va bene così. Ancora una volta il
piacere, poi forse la morte. Ferdinando si inginocchia di fianco a Barisano.
Lascia cadere un po’ di saliva sull’apertura e la sparge con le dita.
L’indice penetra nel culo, senza incontrare nessuna resistenza. Ferdinando si stende sul
giovane e preme la cappella contro il buco del culo. Entra con molta cautela,
come è abituato a fare: sa di avere una dotazione eccezionale e non vuole
fare male. La carne cede senza fatica. Ferdinando non se ne stupisce: è
evidente che Barisano ha un’ampia esperienza. Ferdinando avanza fino in
fondo, poi si ritrae e inizia a muoversi avanti e indietro, con un ritmo
regolare. Barisano geme, piano, più e più volte. È bello spingere a fondo,
penetrando in questo culo caldo, è bello sentire la tensione che cresce. Un
momento di piacere puro, una pausa, in cui il mondo tutt’intorno si dissolve,
il futuro non esiste e il passato non conta. A lungo cavalca Ferdinando
e Barisano fa fatica a non urlare per il piacere. E infine Barisano viene e
subito dopo di lui, Ferdinando, con le ultime spinte vigorose. Barisano chiude gli occhi.
Di rado ha goduto così. Il culo gli fa male, parecchio, ma ne valeva la pena. Ferdinando scivola di
lato, Barisano si volta sulla schiena e lo guarda. Posa la mano sul magnifico
cazzo che ha accolto in culo, poi dice: - Direi che anche per quel che riguarda il funzionamento, la
vostra fama è al di sotto della realtà. Spero di avere ancora occasione di
provare. Ferdinando ride. Il presente riacquista contorni definiti. Scuote
la testa. Pensa ai combattimenti che li attendono, alla morte che incombe su
di loro. - Dipende, dipende da come va questa fottuta spedizione. Se
volete riprovare, non vi consiglio di aspettare: potrebbe non esserci
un’altra occasione. Barisano si accorge che sotto la sua mano il cazzo di
Ferdinando sta riacquistando consistenza e volume. - Non… non ce la faccio, conte. Il mio culo non è abituato a
simili mazze. Ma se volete, posso
lavorare di nuovo un po’ con la bocca. Ferdinando annuisce. - Sì, va bene, mi sembra un’ottima idea. Barisano si sposta un po’, in modo da avere il cazzo di
Ferdinando davanti alla faccia. Lo guarda. Pensa che quest’uomo è davvero un
toro. Guarda il grosso cazzo, che svetta contro la peluria scura che ricopre
il ventre. La cappella emerge, grande e violacea. Non è molto pulita, ma a
Barisano non dispiace sentirne l’odore forte, di piscio, sudore e sborro.
Prende in bocca la cappella e incomincia a pulirla. Ne apprezza i gusti,
forti come gli odori. Poi incomincia a succhiare. Ogni tanto si interrompe e
lavora un po’ con la lingua, facendola scorrere lungo il cazzo teso, fino ai
coglioni, grossi e pelosi. Ferdinando si tende, il suo respiro diventa
affannoso. La sua mano si posa sulla nuca di Barisano e preme con forza. Il giovane
sente il grosso cazzo penetrargli a fondo in gola. Gli sembra di soffocare.
Ferdinando viene e il suo sborro si riversa nella bocca di Barisano. Non è
molto: il conte è venuto da poco. Barisano inghiotte. - Ci sai fare, Barisano. Credo che più tardi te lo farò
assaggiare di nuovo in culo. Ferdinando è passato al tu, senza pensarci. A Barisano non spiace l’idea di prendersi un’altra volta in
culo questa magnifica mazza, anche se vorrà dire rinnovare il male. - Di questa notte? - Meglio approfittare dell’occasione. Se ci ammazzano, non
potremo più scopare, no? Barisano ride. - Certo. Ma i saraceni di solito cercano di catturare vivi i
signori, per ottenere un riscatto. Ferdinando sorride. - Conosci di nome Barbath, che guida l’esercito? - Il Flagello? Certo, chi non lo conosce? Dicono che i
saraceni lo chiamano Thlath-kurat, Tre coglioni.
Non credo che ne abbia davvero tre. - E invece ti sbagli. Ne ha proprio tre, belli grossi. - Lo hai visto? - L’ho visto e l’ho anche fottuto. Barisano è alquanto perplesso. - Ma come è possibile? - Barbath venne catturato da Denis, il duca di Rougegarde,
quando sconfiggemmo il Circasso. - Sì, ora che lo dici, ricordo che qualcuno mi aveva
raccontato questo. Ma riuscì a scappare, no? - Sì, durante una caccia in cui avrebbe dovuto trovare la
morte. - Anche delle vostre cacce ho
sentito parlare. Vi piace uccidere. - Sì, molto. Uccidere un maschio forte è bello. Barisano non dice nulla. Quest’uomo forte gli appare
inquietante. Dopo un momento di silenzio, riprende: - Ma perché mi parlate di Barbath? - Prima della caccia gustai il suo culo. E anche dopo. - Dopo la caccia? Ferdinando si rende conto che non avrebbe dovuto parlare. Se
Barisano raccontasse in giro, qualcuno potrebbe pensare a una complicità tra
Barbath e Ferdinando e l’accusa di tradimento sarebbe inevitabile. - Anni dopo, quando ci ritrovammo. Ma questo non conta.
Quando lo stuprai, prima della caccia, Barbath mi promise che mi avrebbe
castrato se mi avesse ucciso in battaglia e se mi avesse catturato vivo, mi
avrebbe castrato prima di uccidermi. - Pensate che il Saladino glielo lascerebbe fare? - Barbath è il comandante che ha scelto. Di certo non gli
negherà questo favore. Che cosa vuoi che gli importi di un signorotto del cazzo?
Ferdinando ride e aggiunge: - Che potrebbe diventare un signorotto senza cazzo. E senza
coglioni. Barisano rabbrividisce. Chiacchierano ancora un momento, poi Ferdinando dice: - Ci divertiamo ancora un momento, prima di metterci a
dormire? Barisano è sazio e il culo gli fa male. - Non me la sento, adesso. - Va bene, pazienza, non è un problema. Barisano si alza. Ferdinando lo imita. - È ora che io vada - Sì. Io esco anch’io. Ho bisogno di pisciare. Barisano sorride e dice, ridendo: - Perfetto. Si inginocchia, apre la bocca e accoglie la cappella.
Ferdinando lo guarda e ride, poi incomincia a pisciare. Barisano beve, gustando ogni goccia. Gli piace sentire il
piscio scendergli in gola. Quando Ferdinando ha finito, Barisano prende a
leccare e succhiare il magnifico cazzo che ha tra le labbra. Vede che diventa
duro in fretta. Le sue mani intanto stringono il culo di Ferdinando, gli
accarezzano i coglioni, il ventre e il petto. Ferdinando viene, per la terza volta. Barisano si stacca. - Ora davvero è bene che vada. Si riveste, saluta e se ne va. Ferdinando si stende per
dormire. Barisano rientra nella sua tenda. Pensa che non ha mai
conosciuto un maschio così in tutta la sua vita. Il giorno dopo arriva la notizia che i saraceni hanno aperto
brecce nelle mura di Tiberiade e la contessa Esciva
di Bures, moglie di Raimondo III di Tripoli, ha
dato ordine alla guarnigione di ritirarsi nella fortezza, perché la città non
è più difendibile. La contessa chiede aiuto. Guido da Lusignano convoca tutti i capi dell’esercito per
sentire il loro parere e deliberare sul da farsi. Si accende una violenta
discussione. Molti vorrebbero che l’esercito partisse subito, per affrontare
il Saladino. Solo alcuni ritengono follia affrontare in campo aperto il
Saladino, perché significa giocare il tutto per tutto: se l’esercito venisse
sconfitto, non si potrebbe più difendere il regno. Ferdinando è d’accordo con
questa posizione, ma non interviene, conscio che le sue parole non avrebbero
peso. Parla invece Raimondo III, a cui appartiene la città. - Tiberiade mi appartiene e mia moglie si trova lì
assediata: nessuno di voi ci ha rimesso quanto me; nessuno di voi, senza
detrimento per la Cristianità, avrebbe soccorso e aiutato la città con più
zelo di me. Ciononostante, sia lungi dal re e da tutti noi tale decisione,
cioè di lasciare l'acqua, le vettovaglie e i mezzi di sussistenza, per
condurre una tale moltitudine di persone e di bestie a morire nel deserto di
fame, di sete e a causa del clima rovente. L'armata è grande, l'estate
ardente e siccitosa: voi stessi sapete che non si può resistere all' arsura
nelle ore più calde del giorno, né d'altra parte i nostri nemici sono in
grado di raggiungerei senza patire la sete e senza gravi perdite di uomini e
di bestie. A Ferdinando il discorso appare quanto mai sensato, ma si
rende conto che intorno a lui alcuni mormorano, senza nascondere il loro
malcontento. Uno dice: Intanto Raimondo prosegue: - Restate dunque nel mezzo della vostra terra, vicino alle
fonti d'acqua e ai viveri, perché certamente i saraceni, dopo aver
conquistato la città di Tiberiade, si saranno Il discorso chiaramente non piace: in tanti sembrano impazienti di affrontare il nemico,
certi di una vittoria che non può sfuggire. Raimondo conclude: - Di più: se le cose si mettessero male per noi e dovessimo
scappare - che Dio ce ne scampi! -, avremmo comunque nei paraggi delle
fortezze in cui rifugiarci. Di nuovo di fianco a Ferdinando due cavalieri mormorano: - Che vigliacco! - Vigliacco o traditore? È venuto a patti con il Saladino.
Sta dalla parte dei pagani, questo bastardo. Diversi intervengono, accusando velatamente Raimondo di
viltà, se non di tradimento: d’altronde Guido non si fida di lui, che ha
osteggiato la sua ascesa al trono. Gerardo di Ridefort, il Maestro
del Tempio, prende la parola e sostiene la necessità di muovere contro il
Saladino. Ferdinando non si contiene e sbotta: - Non vi è bastata la disfatta di Cresson,
Maestro? Gerardo impallidisce. Tutti sanno che fu lui a volere
l’attacco suicida, che provocò una strage di cavalieri templari e ospedalieri
e la morte dello stesso Ruggero des Moulins, Maestro dell’Ospedale. - Iddio è dalla nostra parte. - Contate che vi aiuti a scappare anche questa volta? In effetti Gerardo è riuscito a fuggire, evitando di
rimanere ucciso a Cresson. Ferdinando sa di aver commesso un errore. Si è creato un
nemico mortale e l’uomo che ha pubblicamente offeso è uno dei più potenti del
regno. Gli risponde Godefroi, il templare
che da vent’anni è comandante civile di Santa Maria in Aqsa:
è stato lui a far arrestare e processare anni fa due uomini di Ferdinando e
conserva la confessione di Antonio, che dichiara di aver avuto rapporti
contro natura con il conte. - Conte, pensate ai vostri peccati, che non sfuggono a Colui
che tutto vede. Gerardo ignora Ferdinando e riprende il suo discorso,
appoggiato da numerosi altri. Così Guido, temendo di essere tacciato di
viltà, respinge la proposta di Raimondo. Ferdinando torna nella sua tenda. Pensa che potrebbe essere
l’ultima notte della sua vita. Non ha nessuna voglia di morire per un Maestro
del Tempio fanatico e coglione e un re illegittimo e incapace. E per di più
senza avere Adham vicino, senza avere Denis al suo
fianco. Merda! Barisano passa a trovarlo. La discussione si è protratta a
lungo ed è ormai molto tardi. Ferdinando è di pessimo umore. - Barisano?! Che cazzo vuoi? L’accoglienza è pessima, ma Barisano non ci bada. Sa che la
rabbia di Ferdinando non è diretta contro di lui. - Pensavo che prima di andare a morire, potremmo divertirci
ancora una volta. Ferdinando grugnisce qualche cosa di incomprensibile, mentre
annuisce. Si spoglia in fretta e rimane nudo, in piedi davanti al giovane.
Barisano pensa nuovamente che non ha mai visto un maschio come questo. Ne
ammira la forza erculea, ne coglie la rabbia cieca, che gli trasmette un
brivido. Per un attimo pensa di lasciar perdere: la furia di Ferdinando gli
fa paura. Ma decide di andare avanti. Si inginocchia e avvicina la bocca al cazzo del conte. La
sua lingua accarezza e stuzzica, ora la cappella, ora l’asta tesa, scende
fino ai coglioni, li lecca, poi la bocca li avvolge e li libera, le labbra
risalgono lungo l’asta, i denti mordicchiano leggermente, la lingua
avviluppa. - Troia! L’insulto è come uno schiaffo inatteso. Barisano lascia la
presa e solleva il capo, per guardare Ferdinando. - Datti da fare, anzi, no… Ora Ferdinando vuole gustare il culo del giovane. Non gli interessa
sapere se Barisano è d’accordo o no, non ha importanza: è molto più forte e
in un modo o nell’altro intende prenderlo. Il giovane non oppone resistenza
quando il conte lo prende per il collo e lo forza a mettersi sul
pagliericcio, a pancia in giù. Barisano si mette a quattro zampe e Ferdinando
gli appoggia le mani sul culo e gli divarica le natiche. Guarda l’apertura,
poi sputa sul buco e spinge avanti il cazzo, fino a che tocca il culo che sta
per fottere. Nuovamente grugnisce. Poi, senza interrompere il movimento,
spinge, forzando l’apertura, e avanza fino in fondo. Barisano sussulta:
l’ingresso è stato troppo deciso e il dolore forte. Ferdinando l’ignora.
Questa notte, che forse è l’ultima della sua vita, non gli importa di non
fare male. Ha dentro una rabbia sorda, che si esprime in questa presa di
possesso violenta, senza pietà. Quando il suo cazzo è tutto dentro il culo
che l’ha accolto, Ferdinando si ferma, con un nuovo grugnito di piacere. Poi
si ritrae e prende a spingere vigorosamente, avanti e indietro. Di fianco a
lui la lanterna proietta le loro ombre sulla parete. Qualcuno da fuori
potrebbe vederle, ma a Ferdinando non fotte un cazzo che qualcuno li veda,
come non gli fotte un cazzo dei gemiti di Barisano, che gli chiede sottovoce
di fare piano. Ferdinando prosegue nella sua opera, rallentando il ritmo
ogni qual volta il piacere rischia di debordare: vuole farlo durare il più
possibile. Probabilmente è l’ultima scopata della sua vita. Domani o
dopodomani Barbath castrerà il suo cadavere o, peggio, gli taglierà il cazzo
e i coglioni mentre è ancora vivo. Infine la tensione diviene troppo forte e si scioglie in una
serie di spinte selvagge, tanto violente che Barisano fa fatica a trattenere
un urlo di dolore. Ferdinando continua a spingere e a grugnire. Poi si stacca ed esclama: - Merda! Non sa se Barisano sia venuto o meno. Non gliene fotte un
cazzo. Il giovane si alza. Ha le lacrime agli occhi. Ferdinando sa
che dovrebbe scusarsi, stringerlo, farlo venire, ma rimane indifferente. Lo
guarda rivestirsi e uscire, senza dire una parola. Quando Barisano è uscito, dice ancora: - Merda! Si stende, ma non dorme. È un leone in gabbia e vorrebbe
poter sbranare qualcuno per sfogare la sua rabbia. Barisano torna alla sua tenda. È confuso e non riesce a
capire perché Ferdinando lo ha preso così, come un animale, insultandolo.
All’umiliazione si aggiunge il violento dolore al culo. Il mattino seguente l’esercito cristiano lascia le sorgenti
di Seffori per raggiungere Tiberiade: è quanto il Saladino si augurava. Tra
le sue truppe c’è euforia: tutti sono sicuri della vittoria, perché li guida
Salah ad-Din e sanno che il Cane dagli occhi azzurri non è presente. Gli informatori hanno riferito chi sono i capi delle truppe.
Barbath scopre così che si troverà per la prima volta ad affrontare il conte
Ferdinando. Ripensa alla notte prima della caccia all’uomo, organizzata
per farlo fuggire, quando Ferdinando lo stuprò e lo fece godere mentre lo
prendeva. Barbath era stato stuprato molte volte dal Circasso, ma aveva
sempre provato solo rabbia e umiliazione. Essere fottuto da Ferdinando gli
era piaciuto e proprio per questo Barbath gli aveva promesso che lo avrebbe
ucciso e, se lo avesse catturato, lo avrebbe castrato prima di ammazzarlo.
Barbath sa di provare una violenta attrazione nei confronti del conte, un
desiderio che è puramente fisico, ma è più forte di tutto quello che ha mai
provato nella sua vita. Si sono rivisti, quando hanno conquistato il castello
degli Hashishiyya, e hanno avuto un rapporto, ma la promessa rimane valida.
Barbath spera di poterla mantenere. È l’unico modo per spegnere il desiderio
che preme. O forse per soddisfarlo. L’esercito cristiano marcia, oppresso dal calore soffocante
di luglio e dalla sete. Il sole rende incandescenti le armature e per i
cavalieri è un tormento continuo. I fanti, che devono camminare rapidamente
per stare al passo con la cavalleria, patiscono ugualmente il caldo e hanno
la gola riarsa. Le truppe non riescono a raggiungere Tiberiade, perché i
saraceni sbarrano la strada e attaccano. I franchi non possono scendere al
lago, distante appena un miglio, né arrivare ai pozzi di Hattin: sono
costretti a fermarsi e a montare un accampamento in un luogo dove non c’è
acqua. Nella notte l’esercito cristiano viene bersagliato di frecce
e il mattino si trova circondato da forze di gran lunga superiori. Il caos è
totale. L’esercito è stremato dalla sete, mentre i fuochi accesi dai saraceni
ardono la sterpaglia. Il calore e il fumo rendono la situazione
intollerabile. Il malcontento serpeggia tra i soldati, consci di essere in
una situazione insostenibile. Molti criticano la decisione suicida di
lasciare le sorgenti di Seffori. Ferdinando è furente. Bestemmia e impreca
contro quella banda di cazzoni che ha messo l’intero esercito in questa
situazione di merda. L’esercito si dispone in formazione, ma i fanti si staccano
e dichiarano di non essere in grado di combattere per la sete. I saraceni
hanno buon gioco nel loro attacco e rapidamente il disastro si profila. Ferdinando è a fianco di Raimondo di Tripoli, che, in quanto
signore del territorio, è all’avanguardia. Con lui c’è anche Barisano.
Raimondo cerca di rompere l’accerchiamento, attaccando le truppe di Taki ad-Din, il nipote di Saladino che i franchi chiamano
Techedino. Il comandante musulmano, conoscendo la
grande forza d’urto della cavalleria franca, fa aprire un varco per lasciarli
passare. I franchi si infilano nel corridoio creato dai saraceni e si
ritrovano al di fuori dell’accerchiamento, ma dietro di loro il passaggio si
richiude. Raimondo si volta e guarda il luogo dove la battaglia
infuria e i cristiani vengono massacrati. Dice: - È finita. Non possiamo fare nulla per loro. A Ferdinando sfugge un: - Quelle teste di cazzo… Raimondo annuisce: sa che Ferdinando ha ragione. - È stata una follia e ora il regno è perduto. Inutile
perdere anche le nostre vite. Vedremo se riusciremo a salvare qualche cosa. Ferdinando vorrebbe salvare almeno i suoi fanti, ma si rende
conto che è impossibile. I saraceni stanno massacrando i soldati appiedati e
lanciarsi nuovamente contro di loro con i pochi cavalieri al suo servizio
significherebbe solo andare incontro a morte certa. Il vescovo di Acri viene
ferito a morte e il vescovo di Lydda raccoglie la
Vera Croce, mentre i saraceni sterminano i fanti. Infine la Vera Croce cade
in mano ai musulmani: per i cristiani che avevano sempre considerato la
reliquia un emblema dell’aiuto divino, è un chiaro segno della fine che
incombe. Il gruppetto di sopravvissuti si allontana. La battaglia si conclude con la sconfitta dei cristiani. Il
re e i principali baroni del regno sopravvissuti alla strage vengono
catturati. La reliquia della Vera Croce cade nelle mani dei saraceni, che la
distruggono. Quando la battaglia è conclusa, Barbath fa cercare il conte
Ferdinando. Sa che non è tra i prigionieri che Salah ad-Din ha portato nella
sua tenda. Si chiede se sia morto o se sia stato catturato. Se è stato
ucciso, gli spiace davvero non essere stato lui a farlo. Se è ancora vivo,
conta di chiedere al sultano di concedergli il prigioniero: sa che Salah
ad-Din lo farà. Potrà castrarlo e poi ucciderlo. Il conte però non è tra i prigionieri. Feisal
gli dice che potrebbe essere tra i cavalieri che sono riusciti a rompere l’accerchiamento
e ad allontanarsi. Barbath interroga alcuni degli uomini che hanno assistito
alla carica di Raimondo e che confermano: - Sì, il conte era insieme a Raimondo di Tripoli. Sono
fuggiti insieme. - Merda! Quando l’uomo si è allontanato, Barbath guarda in lontananza
e aggiunge: - Manterrò la mia promessa, Ferdinando. Subito dopo la battaglia Salah ad-Din offre cinquanta dinar
egiziani a chiunque gli consegni un prigioniero appartenente all’Ordine del Tempio o
dell’Ospedale. Vengono così radunati circa duecento cavalieri. Tra loro vi è Godefroi, comandante civile di Santa Maria in Aqsa, catturato dagli uomini di Taki
ad-Din. Chiede a un ospedaliere che è
vicino a lui: - Perché il Saladino paga per averci? Gli risponde Roger di Villeneuve, comandante del forte San
Michele, che è stato catturato alla fine della battaglia, quando ormai,
stremato dal caldo, dalla sete e dalla fatica, non era più in grado di
difendersi: - Perché intende farci uccidere tutti e sa bene che nessun
comandante sarebbe disposto a rinunciare a un prigioniero per cui può
chiedere un riscatto o che può vendere come schiavo. Godefroi
china il capo. Il martirio non lo spaventa, ma avrebbe preferito morire in
battaglia. Quando si sparge la voce che i templari e gli ospedalieri saranno
tutti uccisi, molti devoti, asceti, dottori e sufi chiedono di poter
partecipare al massacro. Salah ad-Din lo concede loro. I cavalieri vengono costretti a inginocchiarsi e uno dopo
l’altro vengono decapitati. Alcuni, come Roger de Villeneuve, sono più
fortunati: il loro carnefice maneggia bene la spada e recide il capo con un
taglio netto. Godefroi invece viene colpito quattro
volte da un giovane sufi, poco esperto nell’uso delle armi: i tagli alla
spalla e al collo gli provocano sofferenza, senza dargli la morte. La sua
agonia ha fine solo quando un asceta spinge via il carnefice inetto e con un
colpo vibrato con decisione tronca la testa. Il re e i nobili vengono inviati a Damasco potranno
riscattarsi: solo Reginaldo di Châtillon viene ucciso dal Saladino in
persona, per aver osato portare la guerra nei Luoghi Santi dell’Islam. Al
sovrano serve una vittima illustre, per affermare il suo ruolo di vero
difensore della fede. I fanti catturati vengono avviati ai mercati degli schiavi:
per loro non c’è riscatto, ma una vita di schiavitù. Molti troveranno la
morte nelle miniere, altri diventeranno eunuchi, qualcuno sarà riscattato o
liberato negli anni seguenti. Il terreno rimane coperto da cadaveri, abbandonati agli
animali selvatici. Un anno dopo ‘Izz ad-Din ibn al-Athir, storico arabo, vedrà la terra completamente ricoperta di ossa, visibili anche da grande
distanza, raccolte in cumuli o sparpagliate qua e là. E questo oltre a tutte quelle che erano
state portate via dai torrenti e dalle fiere per quei colli e valli. Barisano e alcuni altri cavalieri raggiungono il campo di
Seffori e di lì si dirigono a Gerusalemme, a portare la notizia della
sconfitta e a preparare una difesa che sanno essere inutile. Dal campo Ferdinando si dirige verso l’Arram.
Intende tornare in quella che è la sua casa. Sa che lo sarà ancora per poco.
L’esercito è stato sterminato e le sorti del regno sono segnate. Neppure la
presenza di Denis potrà rovesciare la situazione e salvare i territori
orientali, troppo esposti. Ma ha bisogno di ritrovare Adham,
di confrontarsi con Denis. I messaggeri portano la notizia a Rougegarde, mentre il
Saladino trasmette al Leone l’ordine di avanzare: intende spegnere ogni
possibile resistenza. Denis sa bene che cosa significa la sconfitta: il Regno è
perduto. Forse le città sulla costa potranno salvarsi, ma Gerusalemme cadrà.
E per Rougegarde e San Giacomo d’Afrin non esiste
nessuna possibilità di salvezza. Anche se Denis riuscisse a sconfiggere il
Leone, il re è prigioniero e con lui i grandi signori del regno. L’esercito è
stato annientato. Denis manda subito un messaggero per avvisare Philippe di
San Giacomo: gli consiglia di evacuare la popolazione della città prima
dell’arrivo delle truppe nemiche. Cercare lo scontro non ha senso: la prigionia
del re e dei grandi signori del regno rende inutile ogni resistenza.
Rougegarde e altre città del regno possono ospitare i fuggiaschi mentre si
condurranno le trattative per ottenere la liberazione del re. Philippe sa che il duca ha ragione, ma non vuole rassegnarsi
all’idea di cedere la città che governa da così poco tempo. Intanto il Leone avanza, dirigendosi verso Afrin. Lungo la strada, a poche miglia dalla città, c’è
il castello di san Giorgio. A capo della guarnigione c’è in questo periodo
Jorge da Toledo: dopo il fallimento del tentativo di uccidere Barbath, i suoi
superiori hanno deciso di non affidargli altre missioni per un certo periodo
di tempo. * Sporgendosi tra i merli, Jorge guarda l’esercito nemico che
risale lungo la riva del fiume. Dove è diretto il feroce Ubayd,
detto il Leone, implacabile nemico dei cristiani in Terrasanta? Verso il
castello o verso la città? Se attaccheranno il castello, per tutti loro sarà
la fine. Non possono sperare soccorso dalla città: gli uomini validi a San
Giacomo di Afrin sono troppo pochi per affrontare
il nemico in campo aperto e non ci sarà nessuna spedizione dalla città per
accorrere in loro aiuto. Gilles
di Montségur ha proposto di andarsene e raggiungere
la guarnigione di San Giacomo, ma Jorge si è opposto: il compito assegnato
loro è quello di difendere il castello e lui non intende cedere. La proposta
di Gilles era sensata, Jorge lo sa benissimo, ma nei confronti di questo
provenzale, bello e colto, Jorge prova un’istintiva antipatia. In ogni caso il
comando spetta a lui, che fa parte dell’Ordine, non a Gilles, che gli è pari
di grado, ma non ha pronunciato i voti. Anche
se i saraceni attaccheranno prima la città, la loro sorte è segnata: per quei
miscredenti, dopo aver conquistato San Giacomo, impadronirsi del castello
sarà un gioco. Il sogno dei Crociati sta svanendo. Gerusalemme, senza uomini
per difenderla a lungo, cadrà presto nelle mani dei nemici, le altre
roccaforti seguiranno lo stesso destino.
-
Vanno verso San Giacomo! La
voce di Rodrigo lo scuote. Jorge lo guarda. Rodrigo, vent’anni e un viso
d’angelo. Rodrigo, una tentazione continua, che gli accende la carne. Ci sono
momenti in cui il desiderio di possederlo è tanto forte che Jorge fa fatica a
controllarsi. Lo avrebbe già preso, da tempo, ma nel castello non è
possibile: tutti gli spazi sono comuni. Sa che presto saranno tutti morti, ma
prima di morire, vuole gustare quel culo. Ha pensato a lungo come fare e
infine ha individuato quella che gli sembra l’unica via possibile. -
Dopo San Giacomo di Afrin toccherà a noi. Bertrand
dice ciò che tutti loro sanno, ma Jorge non è contento di sentirlo. Non è il
caso di scoraggiare ulteriormente gli uomini, che sono già fin troppo consci
della loro situazione critica. Jorge interviene, con durezza: -
Taci, Bertrand! Affidiamoci a Dio. Poi
aggiunge: -
Andremo in perlustrazione, per controllare i loro movimenti. Saliremo sulla
collina di e di là cercheremo di farci
un quadro della situazione domani mattina, per poi rientrare dopo il
tramonto. Jorge
prosegue: -
Andrò io. Per non dare nell’occhio, saremo solo in due. Rodrigo, verrai tu con me. È
inusuale che ad andare in esplorazione sia il comandante, che non mandi
invece due dei suoi uomini: per un intero giorno il castello sarà sotto il
comando di un altro, proprio in un momento in cui il pericolo è massimo. Il
comandante non dovrebbe esporre la sua vita così. Ma nessuno dice nulla: i
monaci-soldati sono abituati all'obbedienza assoluta, militare e
religiosa. Jorge
si accorge che Gilles di Monségur lo sta fissando.
Ricambia lo sguardo, sfidandolo. Forse il cavaliere provenzale ha intuito, ma
non spetta a lui intervenire. Gilles distoglie lo sguardo e si rimette a
osservare i saraceni che avanzano lentamente verso la città. Non hanno
fretta, loro. Sanno che San Giacomo dovrà arrendersi, come si stanno
arrendendo altri castelli e città, ora che il Saladino ha trionfato e tiene
prigioniero il re di Gerusalemme. L'onda di piena avanza e travolge ogni
resistenza. Jorge sente la rabbia salire. Il sentirsi impotente di fronte ai
nemici lo umilia. Vorrebbe provocare Gilles, quest'uomo che gli sembra
mettere in discussione la sua autorità, che ha troppo ascendente sugli altri.
Quest'uomo troppo coraggioso, troppo generoso, troppo bello, che anche Rodrigo
guarda con desiderio. Jorge
scende dalle mura. Fa un giro d'ispezione. Controlla che tutto sia a posto,
che ognuno stia svolgendo il suo compito. Jorge non ammette errori: è in
gioco la loro vita, è in gioco il dominio cristiano in questa terra. Eppure
Jorge sa bene che nulla potrà evitare o anche solo ritardare la catastrofe
finale. Le
ore passano lentamente, nella calura soffocante di questa estate
incandescente. Solo la sera porterà un po' di frescura. Jorge
fa chiamare Rodrigo. -
Usciremo due ore prima dell'alba, in modo da poter raggiungere il versante
della collina senza che quei bastardi ci avvistino. Abbiamo bisogno di acqua
e di un po' di cibo per domani. Poca roba: dobbiamo poterci muovere
liberamente, senza essere appesantiti. Occupati di far preparare il tutto. Mentre
parla, Jorge osserva il viso di Rodrigo, i capelli neri che lo incorniciano,
gli occhi scuri, la bocca. Domani. Domani, che Rodrigo lo voglia o no. Il
desiderio si accende, violento. Jorge fissa di nuovo Rodrigo. Sorride. Un
sorriso da lupo. Rodrigo
annuisce e va a occuparsi di tutto. Da tempo ha colto nello sguardo del
comandante il desiderio. Non ha mai avuto rapporti, ma i corpi forti dei suoi
compagni lo attraggono. Gli piace moltissimo Gilles, il più bell’uomo che
Rodrigo abbia mai visto. Quando è vicino a lui, avverte il desiderio, forte.
Il comandante invece non è un bell’uomo, ma la sua forza, la sua brutalità,
la sua autorità lo soggiogano. Domani forse… Rodrigo ha paura. Vorrebbe
sottrarsi, anche se forse una parte di lui lo desidera. Jorge
si mette a dormire nello stanzone che serve alla guarnigione: il castello San
Giorgio è piccolo, non c'è una camera per il comandante. Solo un tramezzo di
legno separa l'angolo in cui dorme Jorge dal resto del locale. Jorge non ha
dato l'ordine di svegliarlo: sa bene che si desterà prima dell'ora fissata.
Il pensiero che domani fotterà Rodrigo infiamma il suo corpo. Il grosso cazzo
si tende. Jorge si accarezza, ma smette prima di venire. Domani, domani avrà
quello che desidera. Jorge
si alza molto prima del tempo. Ha riposato poco, tormentato dall'immagine di
Rodrigo. Si prepara e poi va a destare Rodrigo. Alla luce della lanterna lo
guarda dormire. Davvero un viso d'angelo. Sente su di sé uno sguardo e gira
il capo: è Gilles, che lo fissa. Jorge lo ignora. Chiama Rodrigo. - È
ora di andare. Gilles
rimarrà al comando fino al suo ritorno: ha il grado più alto, anche se non è
membro dell'Ordine. Rodrigo
si veste rapidamente. Non indossano l'armatura: si muoveranno più liberamente
senza essere appesantiti da elmi e corazze. Se dovessero imbattersi in un
gruppo di saraceni, non sarebbe certo l’armatura a salvarli. Portano con sé
solo la spada e un coltello. Escono
dal castello e si dirigono rapidamente verso la collina. La luna è
tramontata, ma ci sono molte stelle e la loro luce è sufficiente per muoversi
con sicurezza lungo sentieri che entrambi conoscono bene. Non dicono nulla e
si sforzano di muoversi il più silenziosamente possibile: sanno bene che
potrebbero esserci spie nemiche nell'area. Il
cielo è ancora completamente buio quando raggiungono la loro meta: una
posizione elevata quasi in cima a un pendio boscoso, che offre numerosi
nascondigli, tra gli alberi e le rocce. Ci sono diversi punti di osservazione
da cui si possono vedere bene la città e la pianura circostante. Si fermano
tra i pini, dove la macchia è più fitta, e attendono, in silenzio. Intorno a
loro non si sente nessun rumore. Rimangono
immobili, mentre a oriente il nero del cielo incomincia lentamente a
impallidire e le stelle svaniscono. Man
mano che la luce permette di intravedere i contorni delle cose, Jorge si
guarda intorno con attenzione: vuole essere sicuro che non ci siano nemici
appostati. Pare non esserci nessuno. A
est l'orizzonte diviene sempre più chiaro. L'alba è vicina. Con cautela Jorge
si muove e perlustra l'area. Tutto appare tranquillo. Allora raggiungono un
punto da cui possono osservare la città e il territorio circostante. Ci sono
diversi cespugli e arbusti che li nascondono alla vista e un grande pino
proietta su di loro la sua ombra. L'accampamento
dei saraceni è vicino al fiume: non tutte le tende sono state montate, ma la
città è già completamente circondata dalle postazioni nemiche. I saraceni
hanno incominciato l’assedio di San Giacomo. Forse aspetteranno che la città
stremata si arrenda per fame, forse attaccheranno, approfittando della loro
schiacciante superiorità numerica. In ogni caso non c’è speranza: San Giacomo
di Afrin è perduta. Il
campo si sta ridestando e, dopo la preghiera del mattino, i soldati si
mettono al lavoro per preparare le postazioni per l'assedio e montare le
ultime tende. Non ci sono movimenti di truppe in direzione del castello: i
saraceni sanno benissimo che i difensori sono pochi e non paiono intenzionati
a dividere le loro forze per mettere sotto assedio anche la fortezza.
Evidentemente la guarnigione della fortezza non desta nessuna preoccupazione.
Jorge conta di tenere sotto controllo la situazione per tutta la giornata,
per cercare di capire meglio le intenzioni dei nemici. In ogni caso non
sarebbe prudente cercare di rientrare di giorno. Jorge
si volta verso Rodrigo. -
Mettiamoci al riparo, ora. Torneremo qui più tardi, per vedere se ci sono
novità. Scendono
dalle rocce e ritornano verso la macchia dove si sono fermati al loro arrivo.
Jorge
rallenta il passo e lascia che Rodrigo lo superi. Ne osserva il corpo snello
e il desiderio si accende. Tra poco, tra poco lo prenderà. Rodrigo si ferma e
attende che Jorge lo raggiunga. Si infilano tra i cespugli, alla ricerca di un
posto adatto per rimanere nascosti: il rischio che alcuni saraceni salgano
sulla collina per controllare la situazione è molto forte e se fossero
scoperti, per loro sarebbe la fine. Raggiungono
infine un piccolo spiazzo dove sono del tutto invisibili dall’esterno e qui
si fermano. All’ombra dei pini si sta bene, benché la giornata sia serena e
non ci sia un alito di vento: è ancora molto presto e solo tra qualche ora il
calore diventerà soffocante, anche sotto gli alberi. Jorge
si sfila la tunica e rimane a torso nudo. -
Godiamoci un po’ il fresco. Rodrigo
esita un momento, poi si sfila anche lui la tunica e, imitando Jorge, la
appende a un ramo. Jorge è dietro di lui e le sue braccia stringono Rodrigo,
che si irrigidisce, ma rimane fermo, incapace di reagire. Ciò che teme sta
per succedere. Rodrigo vorrebbe sottrarsi, ma gli sembra di non avere forze,
gli pare che le gambe lo reggano a malapena. Jorge
pensa che dovrebbe blandire Rodrigo, tranquillizzarlo, sedurlo, ma non sa
maneggiare le parole come le armi. E il desiderio preme, impetuoso. Le mani
di Jorge sciolgono la cintura di Rodrigo e con un gesto brusco fanno
scivolare i pantaloni a terra, poi stringono le natiche, afferrando la carne. Ha
un bel culo, Rodrigo, fianchi stretti, da ragazzo. Il giovane non oppone
resistenza, ma Jorge lo sente tendersi. Non ha importanza. Jorge
lo forza a stendersi a pancia in giù sull’erba. In Rodrigo la paura diventa
più forte di tutto. Cerca di rialzarsi, ma Jorge lo costringe a rimanere
disteso, premendogli sulla schiena con la mano. Rodrigo dice: - No, no! - Taci. La
voce di Jorge è appena un sussurro. Rodrigo si libera della mano che preme,
ma prima che riesca ad alzarsi, Jorge lo afferra di nuovo e si stende su di
lui. -
No! Quello
di Rodrigo è quasi un urlo. Non vuole, non vuole. Jorge gli tappa la bocca
con la mano. La voce è perentoria: -
Silenzio. Potrebbero sentirci. Jorge
toglie la mano e, rimanendo disteso su Rodrigo, si abbassa i pantaloni. Ora
il suo cazzo, ormai gonfio di sangue, si appoggia tra le natiche del giovane
guerriero, che ha un movimento convulso. Ma Jorge si sputa sulla mano,
inumidisce la cappella, poi sputa di nuovo e passa due dita umide sul solco,
indugiando sul buco. Nuovamente Rodrigo ha un guizzo, ma Jorge spinge in
avanti il cazzo, forzando l’apertura. Rodrigo si tende e geme. Jorge gli
tappa la bocca e con un unico movimento deciso affonda tutto l’uccello dentro
il corpo che il suo peso schiaccia al suolo. Il giovane sussulta e gli sfugge
un gemito più forte, quasi un urlo, che la mano del comandante non soffoca
completamente. Rodrigo
chiude gli occhi: il dolore è stato violento e si accorge di stare piangendo.
Vorrebbe che Jorge uscisse da lui, ma non è in grado di difendersi. Jorge
rimane immobile per un momento: la sensazione è stata tanto forte da
mozzargli il respiro. Toglie la mano dalla bocca di Rodrigo. Il
giovane rimane in silenzio, mentre lentamente il dolore si calma. Non cerca
più di resistere, di sottrarsi: ormai è troppo tardi. Vorrebbe solo che
finisse in fretta. Dopo
un momento Jorge incomincia a muovere energicamente i fianchi, ritraendo il
cazzo e poi spingendolo fino in fondo, mentre le sue mani stringono con forza
il culo del giovane, che riprende a gemere, piano. Rodrigo
avverte di nuovo il dolore crescere e alla sofferenza si aggiunge
l’umiliazione per questo stupro. La
cavalcata prosegue a lungo, finché Jorge viene, spargendo il suo seme in culo
al giovane. Jorge si toglie e si distende sulla schiena, appagato. Rodrigo
rimane nella posizione in cui si trova. Un singhiozzo fa voltare la testa a
Jorge. Solo ora si accorge che il giovane sta piangendo. Jorge
non dice nulla. Dopo un po’ si rimette i pantaloni e si mette a sedere.
Rodrigo si alza e si riveste, senza guardare il comandante. Nessuno dei due
parla di quanto è successo. Rodrigo
si rimette disteso, sulla schiena, la testa voltata dalla parte opposta a
quella dove si trova Jorge. Guarda i rami degli alberi tra cui si vedono
squarci di cielo. Pensa che è stato posseduto. Il dolore al culo va
diminuendo, fino a svanire quasi completamente, mentre una tristezza profonda
dilaga in lui. L’uomo che lo ha preso è il suo comandante, che ha fatto voto
di castità. Lo ha preso con la forza, senza chiederglielo, senza preoccuparsi
di lui. Nel
pomeriggio si muovono per risalire al punto da cui hanno osservato i
movimenti dei saraceni. Camminare gli provoca delle fitte, ma Rodrigo non si
lamenta: non vuole che Jorge se ne accorga, perché si vergogna e preferisce
ignorare il dolore. Giungono
al punto di osservazione. I saraceni stanno completando la sistemazione
dell’accampamento e le opere necessarie per l’assedio della città. Jorge e
Rodrigo scendono nuovamente a nascondersi dove la vegetazione è più fitta. Rodrigo
è teso: tema che Jorge intenda prenderlo di nuovo. Jorge sorride, lo afferra,
lo forza a stendersi sulla schiena e si mette su di lui. Si guardano. Jorge
legge negli occhi di Rodrigo la paura. Ride, mentre le sue mani incominciano
a spogliare il giovane, che non oppone resistenza: sa che sarebbe inutile.
Quando gli ha tolto i pantaloni, Jorge gli solleva le gambe, se le mette
sulle spalle e avvicina la cappella al culo di Rodrigo. Questi respira a
fondo, ma non dice nulla. Jorge spinge, entrando con lentezza dentro di lui.
Rodrigo si morde il labbro inferiore per non urlare. Chiude gli occhi. Jorge
incomincia a fottere. Rodrigo
rimane silenzioso. Riapre gli occhi, ma distoglie lo sguardo. Il dolore
cresce. Questa volta ci sono anche altre sensazioni, confuse, ma sofferenza e
umiliazione sono più forti di tutto. Jorge
lo fotte a lungo. Rodrigo sembra impassibile. Tiene la testa girata di lato,
come se non volesse vedere l’uomo che lo sta possedendo. Solo ogni tanto sul
suo viso appare una smorfia di dolore, quando Jorge spinge con maggior
vigore. Infine il comandante viene con alcune spinte più violente. Vede che
Rodrigo non è venuto, che non ha neppure il cazzo duro, ma non ha importanza.
Si abituerà. Quando
diventa buio, ritornano al forte. Nei due giorni successivi, ogni volta che si
trova vicino a Rodrigo, Jorge sente il desiderio esplodere, violento. Non può
scopare al forte. Anche se non dà importanza alla castità, Jorge non vuole
che gli uomini possano criticare il suo comportamento: questo potrebbe minare
la sua autorità e il morale della guarnigione. Rodrigo
preferirebbe evitare il comandante, ma in un forte di piccole dimensioni,
come quello in cui si trovano, non è possibile. A volte si trova a fissarlo,
quando Jorge gli dà la schiena. Pensa che è l’uomo che lo ha preso, che probabilmente
lo prenderà ancora. Il pensiero è umiliante, ma la sua mente ritorna in
continuazione a quanto è successo. Il
terzo giorno Jorge comunica: -
Questa notte andremo nuovamente in esplorazione. E
mentre lo dice, guarda Rodrigo e sorride. Rodrigo china il capo. Jorge
sa benissimo che uscire dal forte li espone a rischi e non ha alcuna utilità,
ma non intende rinunciare a soddisfare il suo desiderio. Escono
nuovamente prima dell’alba. Quando il sole sorge, raggiungono il posto di
osservazione. I saraceni hanno finito di predisporre tutto il necessario per
l’assedio. -
Non hanno ancora attaccato. -
No, forse sperano che il barone Philippe consegni la città. - Lo
farà? -
Sarebbe una vergogna. Meglio affrontare la morte in battaglia. Rodrigo
non dice niente. Pensa che sia assurdo cercare di resistere quando non c’è
più nessuna speranza, ma preferisce non dirlo. Dopo
un po’ ritornano dove si sono fermati durante la ricognizione precedente.
Rodrigo sa che cosa lo aspetta. Preferirebbe evitarlo, ma non può sottrarsi. -
Spogliati e mettiti a quattro zampe. Rodrigo
esita un attimo, poi si toglie gli abiti, ma rimane in piedi, nudo. Jorge
passa dietro di lui. Gli appoggia le mani sulle spalle e lo forza a
inginocchiarsi e poi a chinarsi in avanti. Rodrigo appoggia le braccia a
terra. Non cerca di resistere. Jorge gli passa un piede tra le caviglie e
Rodrigo le allarga. Rodrigo
sente sulle natiche le mani del comandante, che gli aprono bene il culo.
Cerca di non irrigidirsi: l’altro giorno è stato molto doloroso. Le
dita di Jorge scorrono sul solco e indugiano sul buco, poi si spingono
leggermente dentro. Al giovane sfugge un gemito. Ora le mani di Jorge gli
stringono con forza le natiche, le divaricano. Rodrigo
soffoca un lamento. Ha l’impressione di vacillare, di essere sul punto di
cadere. Chiude gli occhi. Ed ora sente, forte, contro il buco ormai umido, il
cazzo del comandante. Sta per succedere. Il cazzo forza l’apertura e avanza
piano. Rodrigo geme di nuovo. Per un momento accanto al dolore, bruciante, c’è
una sensazione non spiacevole, ma la sofferenza è più forte e cancella tutto
il resto. Rodrigo fa fatica a reggere l’arnese che gli riempie il culo. Infine
l’avanzata si arresta. Lentamente, molto lentamente, il poderoso cazzo si
ritrae e quando lo sente uscire Rodrigo emette un lamento. Il dolore si
attenua, ma ritorna prepotente quando sente di nuovo affacciarsi ed entrare
l’arma che lo trafigge. Singhiozza. Jorge
procede, avanzando ogni volta più a fondo e poi arretrando fino ad uscire.
Quando infilza Rodrigo, lo fa in modo sempre più deciso e il dolore aumenta
di nuovo. Rodrigo vorrebbe che Jorge uscisse e il male al culo gli pare
intollerabile. Ancora una volta il cazzo di Jorge esce e poi affonda nel culo
di Rodrigo, che geme più forte, quasi urla. Le
spinte diventano più decise, il dolore cresce ancora. Rodrigo ha le lacrime
agli occhi. Infine Jorge viene e poco dopo si rialza, soddisfatto. Rodrigo
rimane disteso, poi si mette a sedere. Jorge vede che ha pianto. Scuote la
testa. - Ti
abituerai. Alla fine ti piacerà. Ride.
Rodrigo tiene il capo chino, evitando di guardarlo. Quando
escono dalla macchia di alberi per raggiungere nuovamente la cima della
collina, c’è un movimento improvviso tra i cespugli. Prima che si rendano
conto di che cosa sta accadendo, alcuni guerrieri si avventano su di loro:
erano in agguato nascosti tra la vegetazione. Jorge fa appena in tempo a
estrarre la spada, ma prima che possa colpire, gli uomini gli sono addosso e
lo bloccano. Sono in tanti, almeno una dozzina, e hanno facilmente ragione di
loro. Gli legano saldamente le mani dietro la schiena. Rodrigo
è sopraffatto da un’ondata di terrore. Jorge non mostra paura: sa che la sua
vita è arrivata alla fine, ma affronterà la morte con dignità e coraggio.
Sputa a terra, in segno di disprezzo. L’uomo
che li comanda, Sabri, dà ordine che i due
prigionieri vengano condotti all’accampamento. Scendono lungo il fianco della
collina e poi raggiungono l’accampamento. I guerrieri li portano da un
ufficiale, che guarda Jorge ed esclama: - Ma
quest’uomo… Il ritratto! -
Dici che è… -
Sì, è lui: Jorge da Toledo! Jorge
sa che lo aspetta la morte: le regole dell’ordine vietano il riscatto dei
cavalieri catturati e anche il Saladino ha fatto uccidere tutti i templari e
gli ospedalieri catturati nella battaglia di Hattin. Ma le parole dell’uomo
gli fanno correre un brivido lungo la schiena. Sa di essere uno degli uomini
più odiati dai saraceni, ma non si aspettava di essere riconosciuto
immediatamente. Il ritratto che si è fatto fare da Waahid
è la sua rovina. -
Avvisiamo subito il Leone. Quando
gli annunciano di aver catturato Jorge da Toledo, Ubayd
dà ordine di portare immediatamente i prigionieri nella sua tenda. Guarda
Jorge e sorride, un sorriso feroce. -
Jorge da Toledo! Sia ringraziato Iddio onnipotente che ti ha messo nelle mie
mani. Si
rivolge poi a Sabri e dice: - Il
giovane guerriero ti spetta, Sabri, per aver
catturato questa preda magnifica. L’ufficiale
si inchina e ringrazia: il bel giovane è davvero un bocconcino da re. Sabri potrà venderlo a caro prezzo al mercato degli
schiavi: sarà acquistato dal proprietario di qualche bordello o da qualche
ricco come schiavo di piacere. Se Rodrigo avesse qualche anno di meno, Sabri magari lo terrebbe con sé, ma il giovane non è più
un ragazzo, per cui si limiterà a gustare qualche volta il suo culo prima di
metterlo in vendita. Ubayd si rivolge a Jorge. -
Quanto a te, Jorge da Toledo, prima che giunga il momento della tua morte, ti
pentirai molte volte di essere nato e maledirai quella puttana di tua madre
per averti messo al mondo. Ubayd parla benissimo la lingua dei franchi
e il templare ne è stupito. Poi il Leone si rivolge ai suoi uomini: -
Portatelo fuori. Jorge
viene trascinato fuori dalla tenda, in uno spiazzo. -
Spogliatelo. Quattro
uomini gli tagliano la tunica, poi gli strappano gli abiti di dosso,
lasciandolo nudo. Jorge li guarda con disprezzo. Non mostrerà certo paura. Lo
caricano su un dromedario, mettendolo rivolto all’indietro, in segno di
spregio. Lo portano fino alla collina davanti a San Giacomo: evidentemente il
Leone vuole che i cittadini assistano alla sua fine. Lo
fanno scendere e lo forzano a mettersi a quattro zampe. Gli bloccano i polsi
e le caviglie con anelli di ferro fissati al suolo da lunghi picchetti. Sotto
il petto viene infilato un blocco di legno, in modo che Jorge non possa
appoggiarsi a terra. Jorge
non capisce che cosa intendano fargli. Non è la posizione in cui vengono
abitualmente messi coloro che devono essere impalati. E allora? Gli uomini
intorno a lui ridacchiano. Il Leone fa un cenno con la testa a un ufficiale. -
Abdel Nasser, procedi. L’uomo
si inchina al comandante e fa un cenno a uno dei guerrieri. -
Incomincia tu, Khaled. Khaled
fa un cenno d’assenso e si spoglia. Si volta e, dando le spalle a Ubayd e Abdel Nasser, si accarezza il cazzo, fino a che
viene duro. Allora si gira nuovamente, per mostrare la sua attrezzatura e
passa davanti a Jorge, che lo guarda. È un colosso, di pelle piuttosto scura,
chiaramente con sangue africano nelle vene. Esibisce un grosso cazzo
perfettamente teso. Jorge
lo guarda, senza capire, stupito. Solo quando l’uomo passa dietro di lui gli
poggia le mani sul culo, divaricando la natiche, capisce. Non vuole crederci,
non può accettarlo. Non possono stuprarlo! A un
cenno di Abdel Nasser, l’uomo preme con la cappella contro il buco del culo,
lo forza e spinge il cazzo ben dentro, fino a che i coglioni sbattono contro
le natiche del templare. Il dolore è violento: l’uomo è entrato brutalmente e
Jorge non è abituato. Un’unica volta nella sua vita è stato penetrato, da Ishan, il figlio di Boran. Più
ancora del dolore, è forte l’umiliazione: mai Jorge avrebbe pensato di venire
violentato. Da uno schifoso maomettano, per di più. L’uomo
spinge con forza, avanti e indietro, assaporando il piacere che gli trasmette
questo culo caldo e la coscienza di stare fottendo un bastardo infedele, un
assassino che ha ucciso a tradimento molti credenti, spesso stuprandoli. Ora
questo figlio di puttana ha ciò che si merita. Khaled
procede a lungo, con spinte molto violente. Quando
infine viene e si ritira, sul cazzo ha un po’ di sangue. Vedendolo sorride. Jorge
ha abbassato il capo. Il dolore è stato bestiale, ma più forte ancora è
l’umiliazione, la rabbia: stuprato da un infedele, un mezzo negro, per di
più. Schifoso bastardo. Il
Leone sorride, soddisfatto: ha apprezzato lo spettacolo. Fa di nuovo un cenno
ad Abdel Nasser, che dice: -
Avanti il prossimo. Jorge
ha l’impressione che una mano gli stringa la gola: pensava che dopo lo stupro
lo avrebbero ucciso, ma non è così. L’uomo
che lo prende è anch’egli molto alto e forte e alquanto dotato. Anche lui
entra con violenza e il dolore esplode. Jorge stringe i denti. L’uomo lo
fotte a lungo. Quando infine viene, si ritrae. Dal culo del templare cola un
po’ di sborro, misto a sangue. L’uomo passa davanti, il grosso cazzo ancora
gonfio di sangue. Ride e dopo un momento incomincia a pisciare in faccia a
Jorge. Il templare chiude gli occhi. Uno
dopo l’altro gli uomini lo prendono. Per tutto il giorno i soldati del Leone
fottono il templare, gli pisciano in faccia e sulla testa, lo deridono. Dal
culo di Jorge il sangue cola, misto a molto seme. Il dolore diviene sempre
più forte. La
notte Jorge viene lasciato nella posizione in cui si trova. Sprofonda in un
sonno torbido, da cui si sveglia spesso. Il dolore non si attenua. Il
giorno dopo la violenza riprende. A tratti Jorge delira. È il secondo giorno che
non mangia ed è esposto al sole. La sete è talmente forte, che talvolta
quando i soldati gli pisciano in faccia, Jorge apre la bocca per bere un po’.
La sera lo slegano e lo riportano ai piedi della collina. Camminare è un
tormento continuo. Dal culo scendono sborro e sangue e il dolore è feroce. Il
mattino seguente Jorge viene nuovamente condotto in cima alla collina, per
l’esecuzione. Con l’aiuto di uno schiavo, Jorge si carica in spalla il palo
che lo trafiggerà. È pesante e, per quanto Jorge sia forte, non riuscirebbe a
portarlo, se lo schiavo non lo aiutasse a reggerlo. Jorge impreca, mentre
cerca di trovare la posizione giusta per poter sostenere il palo. Una
frustata al culo gli ricorda che deve muoversi. -
Avanti, cane! Jorge
si avvia lungo la pista che sale sulla collina. Dietro di lui cavalca Abdel
Nasser, seguito da un nutrito gruppo di schiavi che porta tutto l’occorrente
per il supplizio. La
giornata è calda, il palo è pesante. Presto Jorge è tutto bagnato dal sudore
che gli appiccica i capelli al capo e cola dalla fronte fino a perdersi tra
la barba, scorre in fitti rivoli sul petto, facendo luccicare la peluria
scura. Il palo gli pesa sulla spalla, sfregando contro la pelle e provocando
abrasioni. Dal culo cola ancora sangue misto a sborro. Jorge
non intende mostrare segni di debolezza e si sforza di camminare a passo
sicuro, malgrado la fatica. La strada è breve, ma a Jorge appare
interminabile: eppure ciò che lo aspetta è molto peggio di questa camminata
sotto il peso del palo e il sole che sembra schiacciare a terra ogni cosa. Jorge
barcolla. Riceve una nuova frustata. Lascia cadere il palo, come se non
riuscisse a reggerlo, e si affloscia a terra. Pare privo di forze. Una
violenta frustata non riesce a smuoverlo. -
Muoviti, porco immondo! Jorge
guarda il soldato, come se non lo vedesse neanche. Jorge prende il braccio
che uno degli uomini gli porge e si solleva, a fatica. Poi, con un movimento
rapido, prende all’uomo la spada e rivolge la punta contro la propria gola,
ma prima che riesca a colpirsi quattro guerrieri lo bloccano. Jorge cerca di
liberarsi. Lo colpiscono al ventre, ma Jorge non cede. Solo due ginocchiate
ai coglioni lo costringono a lasciare l’arma. La
marcia riprende, come prima. Jorge non è riuscito a darsi la morte. Raggiungono
infine la cima della collina. Davanti a loro San Giacomo d’Afrin: gli assediati hanno assistito al suo stupro, ora
assisteranno alla sua morte. Jorge
può posare il palo. Gli legano subito le mani dietro la schiena, in modo che
non possa più fare nulla. Gli uomini sistemano gli strumenti del supplizio:
una sella di legno, su cui Jorge sarà costretto ad appoggiarsi, le corde per
legargli le caviglie e allargargli le gambe, il forcone per bloccargli il
collo e tenerlo in posizione, il coltello che servirà per allargargli il buco
del culo. Il carnefice lo guarda e sorride. Quando
lo afferrano, Jorge si dibatte. Non ha modo di sottrarsi al supplizio, lo sa,
ma il suo corpo rifiuta lo scempio a cui è destinato. Jorge insulta gli
uomini, che infine lo costringono a inginocchiarsi e appoggiarsi con il
torace sulla sella. Due di loro premono sulla sua testa, impedendogli di
alzarla e un terzo gli blocca il collo con il forcone, le cui punte si
infilano nel suolo. Altri due gli tengono ferme le gambe e passano le corde
alle caviglie. Tirano verso l’esterno, in modo da divaricare bene le gambe e
le natiche. -
Bastardi! Un
uomo si inginocchia dietro di lui. Jorge si tende. Avverte la pressione di
una punta che si infila nel suo culo. Maledice ancora, mentre la lama affonda
poi, con un movimento brusco, si sposta verso l’alto, squarciando l’apertura.
Jorge urla, un grido di puro dolore. Il sangue cola abbondante. L’uomo si
alza. Il culo del templare è pronto ad accogliere il palo. Gli
uomini prendono il legno e lo mettono in posizione, la punta acuminata contro
l’apertura sanguinante. Jorge sente la pressione del palo che tra poco
entrerà dentro di lui, regalandogli una morte terribile. Abdel
Nasser ride e dice: -
Ora gusterai un cazzo ancora più grosso e più duro di quelli che ti sei preso
ieri e l’altrieri. Jorge
non fa in tempo a rispondere: mentre Abdel Nasser conclude la frase, il boia
colpisce il palo, che penetra a fondo nel culo del suppliziato. Jorge grida,
la testa schiacciata a terra, in preda a un dolore atroce. Si divincola,
invano. Il martello del boia si abbatte di nuovo sul palo, che si fa strada
nella carne, dilaniando le viscere del condannato. A ogni colpo Jorge urla,
un urlo che non è più umano. Poi
la voce gli manca e quello che esce dalla sua bocca è solo più un suono
soffocato, versi animali che sgorgano insieme a saliva e sangue. Jorge non
vede più nulla, non sente più nulla, solo il palo che gli scava le viscere e
avanza, inesorabile, dentro di lui, sempre più a fondo, nel petto. Il
boia si ferma. Il corpo del condannato è infilzato dal palo fino allo sterno.
Può bastare così. Gli
uomini tolgono il forcone che bloccava la testa di Jorge, che emette suoni
inarticolati, poi bestemmia Maometto. Gli uomini hanno preparato il buco nel
terreno in cui infilare il palo. Quando il palo viene issato, il movimento è
un nuovo strazio, che porta il palo a penetrare ulteriormente nel corpo del
suppliziato. Jorge grida ancora. Il
mondo ondeggia, senza contorni precisi. Anche le voci sono solo un ronzio
indistinto. Lentamente le immagini ritornano nitide e stabili. Jorge può
vedere gli uomini che lo fissano: il boia e i suoi aiutanti, sudati per lo
sforzo e soddisfatti del loro lavoro; Abdel Nasser sul suo cavallo, con un
sorriso, che si afferra i coglioni attraverso la stoffa dei pantaloni, in
segno di scherno. Dentro
Jorge sente il dolore che pulsa, atroce, un fuoco inestinguibile nel culo,
nel ventre, nel torace. Il suo corpo è solo sofferenza. Jorge respira a
fatica. Abdel
Nasser si avvicina, sorridente. -
Più tardi ti castreremo, ma prima ti lasciamo godere il palo. Jorge
guarda Abdel Nasser. -
Figlio di puttana. Abdel
Nasser scuote la testa. -
Non ti pieghi, eh? Abdel
Nasser chiama Khaled. -
Spacca i coglioni a questo bastardo. Il soldato
guarda l’ufficiale perplesso. -
Hai capito bene. Prendigli i coglioni nelle mani e spaccaglieli. Khaled
afferra i due coglioni di Jorge e incomincia a stringere, ma non riesce a
stritolarli. Allora lascia il sinistro e afferra solo il destro con entrambe
le mani. Stringe con forza, sudando. Jorge
sente la pressione aumentare e un dolore violento salire e percorrerlo tutto.
Con un guizzo cerca di sollevarsi, sfuggendo al palo e alle mani che
stritolano, ma è impossibile. Il
soldato preme ancora e infine sente il coglione cedere. Jorge urla, un grido
inumano, da bestia macellata. Il corpo ha un sussulto. -
Porco… bastardo… Khaled
sorride e afferra il coglione sinistro. Preme con forza. Jorge solleva la
testa e spalanca la bocca, mentre il dolore si moltiplica e infine esplode.
Per un momento, il mondo svanisce. Jorge ha un conato di vomito. Il
soldato ride. -
Fatto, signor comandante. -
Bene. Jorge
sente nuove ondate di dolore salirgli dai coglioni maciullati, dal culo, dal
petto. Più
tardi uno dei soldati chiede di appartarsi per i suoi bisogni. Abdel
Nasser gli dice: -
Porta qui la tua merda, che la diamo al brigante. L’uomo
guarda perplesso il comandante, ma qualche minuto dopo ritorna, tenendo in
uno straccio uno stronzo scuro. -
Spargigliela sui coglioni. Abdel
Nasser ride e aggiunge: - Su
quel che ne rimane. L’uomo
prende la merda e incomincia a spargerla sullo scroto di Jorge, gonfio di
sangue. Jorge si contorce, mentre a ogni contatto della mano una fitta
violenta lo percorre tutto. Quando
l’uomo ha finito, lo scroto di Jorge è coperto di una merda scura, quasi
nera. Più
tardi altri spargono la propria merda sul cazzo, sul ventre, sul torace,
sulla schiena, sul culo e sulla gambe del suppliziato. Gli uomini ridono vedendo
il corpo di Jorge cosparso di merda in diverse sfumature di colore e di
consistenza. Ma ovunque è sempre più fitto lo strato di insetti che si cibano
della merda che ricopre il corpo e del sudore e del sangue del templare. Quando
ormai la parte del corpo raggiungibile da terra è imbrattata, un soldato sale
a cavallo e sparge altra merda sulle spalle, poi sul collo e infine sul
viso. Le
sentinelle si allontanano un po’, perché il fetore diventa sempre più forte.
Attratti invece dalla merda e dal sudore, centinaia di mosche, tafani e altri
insetti volano intorno al corpo e si posano sulla pelle dell’agonizzante.
Essi ricoprono il viso di Jorge, dove il sudore scorre in rivoli, il suo
petto villoso, dove le gocce si perdono tra i peli, il ventre, il cazzo e i
coglioni. Le punture e i morsi sono una continua sofferenza, che si aggiunge
al dolore tremendo che sale dalla carne attraversata dal palo e dai coglioni
spaccati. Gli
insetti lo divorano: il suo corpo si copre dei segni rossi lasciati dalle
punture e dai morsi, che fanno gonfiare la pelle e la lacerano. Le piccole
ferite attraggono altri insetti. Quando
Jorge apre la bocca per cercare l’aria che gli sfugge, gli insetti gli si
infilano in gola. Jorge tossisce e sputa Le
punture irritano il cazzo di Jorge, a cui affluisce il sangue e che si
protende in avanti, grottesca parodia di quando era il desiderio a rizzarlo. Abdel
Nasser chiede al carnefice: -
Vivrà fino a domani? -
Sì, certamente. -
Allora lo castreremo domani. Il Leone vuole che la sua agonia duri il più a
lungo possibile. La
notte quattro sentinelle rimangono di guardia. Jorge a tratti perde i sensi,
ma poi ritorna cosciente. Poco
dopo l’alba Abdel Nasser torna sulla collina. Sorride e ordina: -
Castratelo. Il
boia si avvicina a Jorge. Incurante della merda e degli insetti, afferra con
la sinistra i coglioni e il cazzo, tanto gonfio per le punture da essere
quasi rigido. Ride e avvicina la lama. Jorge lo guarda: è ancora cosciente. Quando
la lama incomincia a tagliare la carne, il templare grida. Il pugnale
prosegue nella sua opera e il sangue si mescola alla merda, al sudore, agli
insetti. Jorge urla ancora, mentre il boia completa la sua opera. L’urlo
diventa un rantolo. L’uomo
sale su uno sgabello e gli infila i coglioni in bocca. Il grosso cazzo sporge
tra le labbra, grottesco. Jorge
sente che il respiro gli manca. Anche se la morte è una liberazione, cerca di
far entrare ancora aria, ma non riesce. Reclina il capo all’indietro. Il
mondo svanisce. I
soldati non si accorgono subito che il templare è morto. È Abdel Nasser a
capirlo: -
Merda! È morto. Il
cadavere di Jorge da Toledo rimane esposto sulla collina, in modo che i
cittadini di San Giacomo possano vederlo. Viene decapitato e la testa è
infilzata su una picca, che nella notte viene piantata davanti al castello
San Giorgio: un monito per ricordare ai difensori della roccaforte che presto
toccherà a loro. Ma la piccola guarnigione, sotto il comando di Gilles de Montségur ha già abbandonato la postazione che non può
più essere difesa. I
cittadini di San Giacomo hanno assistito allo stupro e all’agonia del
templare. Lo spettacolo ha scoraggiato anche coloro che erano più decisi a
resistere. Philippe
sa che non c’è più speranza. Si pente di non aver seguito il consiglio di
Denis di Rougegarde, ma dopo aver atteso per anni di diventare il signore di
San Giacomo, gli pesava rinunciare. Il suo dominio sulla città è durato poche
settimane Philippe
decide di inviare un messaggero al Leone. Ubayd al-Asad
ascolta seduto il messaggero del giovane barone che, in piedi davanti a lui,
gli riferisce quanto gli ha ordinato il suo signore. - Il
barone è disposto a cedere la città, se accettate di garantire la vita dei
suoi abitanti. Ubayd guarda l’inviato di Philippe. Annuisce
e pare riflettere un momento. Poi risponde: - Se
il barone mi aprirà la porta della città e ne prenderò possesso senza
incontrare resistenza alcuna, gli abitanti potranno andarsene, portando con
sé solo quello che possono caricarsi sulle spalle. -
Dovranno quindi lasciare la città? -
Sì, ad Afrin non potranno rimanere: i miei
confratelli vennero tutti scacciati dalla città quando era sotto il dominio
di quel cane di Renaud, il padre dell’attuale
signore. Allo stesso modo dovranno andarsene i cristiani. Se ne andranno
senza servirsi di carri o cavalli. -
Dovranno allora lasciare anche le cavalcature? -
Sì. Potranno portare un asino se devono trasportare un anziano, una donna
incinta o qualcuno che non può camminare, ma sull’asino non potranno caricare
nient’altro. -
Perderanno tutti i loro beni, quindi. -
Sì. E uscendo dalla città dovranno versare una certa somma, che dipenderà da
ciò che porteranno con sé. - E
chi non ha nulla? - A
chi se ne andrà senza avere nulla, a parte gli abiti che indossa, nulla verrà
richiesto. C’è
un attimo di pausa, poi il Leone aggiunge: -
Tutti gli schiavi saranno liberati. -
Non potranno portare con sé neppure gli schiavi? -
No. - E
per quanto riguarda il mio signore? -
Anche lui dovrà andarsene, ma gli sarà lasciata salva la vita. Potrà portare
con sé un cavallo e tutto ciò che riuscirà a caricare sulla sella. Lui non
dovrà versare nessun tributo. Il
messaggero si inchina. - Ti
ringrazio, signore, per avermi ascoltato. Porterò la mia risposta al mio
signore. - Ti
aspetto domani mattina per conoscere le sue intenzioni. Il
messaggero riporta quanto gli ha detto Ubayd il
Leone. Philippe
convoca i suoi consiglieri ed espone loro le proposte. Si accende una
discussione. -
Significa perdere tutto. -
Significa salvare la vita. E poter portare con sé oro e gioielli. -
Che in parte saranno sequestrati. Non sappiamo neanche in che misura. -
Significa mettersi completamente nelle loro mani! E se decidessero di
prenderci tutto? -
Qual è l’alternativa? Rimanere assediati, fino a che espugneranno la città e
faranno strage di noi tutti? Abbiamo forse qualche speranza che la situazione
cambi? - Se
il duca di Rougegarde… Philippe
interviene, interrompendo l’uomo che parla: - Il
duca di Rougegarde non interverrà. Il nostro re è prigioniero, insieme ai
principali baroni del regno. Anche se il Leone venisse sconfitto, non
cambierebbe nulla. San Giacomo è perduta. C’è
un momento di silenzio. Sanno tutti che la situazione è questa. Uno dei
consiglieri dice: -
Non credo che nessuno di noi sia contento all’idea di lasciare le proprie
case e perdere quasi tutto, ma non vedo altra soluzione. Cercare di resistere
significherebbe morire. Non vorrei finire come il comandante del castello San
Giorgio. Il corpo
impalato e decapitato di Jorge da Toledo è ben visibile in cima alla collina. Le
parole dell’ultimo consigliere sono accolte dal silenzio. Poi, uno dopo
l’altro, tutti si dichiarano d’accordo. Nel
pomeriggio i banditori annunciano la decisione del signore. Alcuni
protestano, ma i più si rendono conto che non c’è via d’uscita. Almeno
avranno salva la vita e potranno portare qualche cosa con sé. La
sera in ogni casa ci si prepara. I
controlli sono rigorosi: chi esce viene perquisito e deve cedere un quarto
dei beni di valore che porta con sé. Qualcuno cerca di nascondere oro o
gioielli, ma le perquisizioni sono piuttosto accurate. Chi viene sorpreso
perde tutto ciò che ha con sé: viene spogliato e deve avviarsi nudo. Un uomo
che si ribella viene ucciso immediatamente. L’esempio è sufficiente: non c’è
più nessun tentativo di ribellarsi e alcuni di quelli che hanno nascosto
delle monete d’oro preferiscono mostrarle, pagando la quota dovuta, invece di
rischiare. Tutti
vengono interrogati: devono dire la propria religione e la propria
condizione. Se sono schiavi vengono allontanati dalla carovana. Gli schiavi
musulmani ed ebrei sono liberati, quelli cristiani possono scegliere se stare
con i loro padroni o fermarsi e recuperare la loro libertà: se si convertiranno
all’Islam, riceveranno una somma di denaro e potranno raggiungere i territori
arabi, altrimenti dovranno cavarsela da sé. Quando
gli abitanti si sono avviati, la città viene saccheggiata. Cavalli e altri
animali domestici, suppellettili, armi e strumenti, abiti e tessuti, tutto
ciò che ha qualche valore viene preso dalle case e caricato su carri. Nessuno
può impadronirsi di ciò che trova: il bottino verrà diviso tra tutti. Sono
pochi i soldati che cercano di sottrarre qualche cosa: il Leone è un comandante
giusto, ma molto severo. Tutti sanno che distribuisce generosamente il
bottino, ma non accetta che qualcuno cerchi di prendere di più: le punizioni
sono dure. Alcuni
soldati lamentano di non poter prendere come schiave le donne cristiane: il
Corano lo permetterebbe, ma Ubayd non lo concede.
Dicono che sia un uomo molto pio. Quando Salah ad-Din conquistò Mosul, gli
offrì di scegliere tra tutte le schiave dell’atabeg
le tre più belle, ma il giovane declinò l’offerta. Vive in assoluta castità:
non ha rapporti con donne, non gli piacciono i ragazzi, non cerca gli uomini.
I suoi soldati vedono in lui un vero guerriero, che pensa solo alla vittoria. Il
saccheggio di Afrin si conclude solo il terzo
giorno. Quando tutto ciò che ha un valore è stato caricato sui carri e sui
muli, la carovana si dirige verso i territori arabi, a parte quei carri e
cavalli che portano ciò che può servire alle truppe. Poi
il Leone dà l’ordine: -
Bruciate tutto. Non deve rimanere nulla. Buona
parte della città è stata costruita in legno, per cui brucerà facilmente. Nei
palazzi in pietra e nella cattedrale viene ammassata legna, poi il fuoco
viene appiccato in diversi punti. Ubayd al-Asad è
salito in cima alla collina, dove il corpo decapitato di Jorge da Toledo si
decompone sotto il sole cocente. Il fetore è intollerabile, ma il Leone
rimane accanto al palo. Osserva la città che arde. Il fuoco si leva già in
diversi punti, i tetti ardono e il vento diffonde le scintille tutt’intorno.
Altri tetti prendono fuoco, qualcuno crolla, mentre colonne di fumo salgono
in aria. Ben presto San Giacomo è un immenso falò: le fiamme che divorano gli
edifici divampano sempre più alte, alimentate dalla grande quantità di
materiale combustibile, e sulla città grava una cappa di fumo nero. Una dopo
l’altra le case si consumano e crollano. Le fiamme divampano anche nella
cattedrale, l’edificio più alto della città. Divorano il tetto, che precipita
all’interno, poi anche il campanile si spezza e cade nella piazza antistante. Ubayd sorride. Poi volta lo sguardo verso il
cadavere di Jorge, ricoperto di merda e di insetti. Il ventre si è aperto e
le larve scendono verso terra. C’è un ghigno feroce sul viso del condottiero. Nessuno
sa perché Ubayd abbia dato l’ordine di distruggere Afrin ora che era nelle sue mani: la città non aveva più
l’importanza di un tempo, ma avrebbe potuto essere ripopolata. In ogni caso
le decisioni del Leone non si discutono. Qualcuno dice che Ubayd ha espressamente richiesto a Salah ad-Din di poter
annientare Afrin. Forse
vorrebbe imporre la stessa sorte ad al-Hamra, ma di
certo Salah ad-Din non lo permetterà e il Leone non agirà senza il suo
consenso. Non avrebbe senso distruggere la più bella città della Siria. Ubayd contempla a lungo la città in cui le
fiamme, non più alimentate, si stanno spegnendo, poi guarda il cadavere
impalato e infine lascia il suo punto di osservazione e raggiunge i suoi
uomini. Appare soddisfatto. Sorride
ai suoi uomini, poi guarda verso occidente. Il sorriso scompare. Sul suo viso
è scesa un’ombra, sembra quasi che abbia timore, ma che cosa può spaventare
questo guerriero invitto? Ordina: -
Verso Qasr Iblis. Qasr
Iblis è una fortezza sulla più meridionale delle
piste che conducono da Afrin a Rougegarde, una
strada che pochi percorrono se devono andare da una città all’altra, perché
allunga notevolmente il cammino. Il
nome cristiano è castello San Marco, ma tra gli arabi questa fortezza,
costruita al tempo della prima crociata, è conosciuta come Qasr Iblis, il castello del Diavolo. Narra
una leggenda che l’emiro di Afrin voleva costruire
un castello, ma non aveva né i fondi, né la manodopera necessaria per
condurre a termine l’impresa. Il diavolo gli promise di edificare uno
splendido castello in tre giorni, se l’emiro gli avesse donato un diaspro
rosso chiamato al-Quds, che la famiglia dell’emiro possedeva da quasi
cinquecento anni: dicevano che il diaspro fosse un dono del grande califfo Umar. Il
padre dell’attuale emiro prima di morire gli aveva fatto giurare che non
avrebbe mai dato ad altri la pietra, ma la proposta del diavolo sembrava
davvero ottima: il diaspro era bello, ma non aveva un grande valore.
D’altronde l’affare sarebbe sembrato vantaggioso, anche se il diavolo avesse
richiesto rubini e diamanti, invece di al-Quds: un castello vale molto di
più. L’emiro ignorò il giuramento che aveva fatto e che avrebbe dovuto
richiedere a suo figlio e si dichiarò disposto a consegnare al diavolo la
pietra. Il
diavolo mantenne la promessa: la sera del terzo giorno il castello sorgeva in
cima alla collina, con le sue alte mura rosse, che alla luce del tramonto
sembrano ardere come le fiamme infernali. L’emiro mantenne la sua promessa e
diede al diavolo il diaspro, ma in quegli stessi tre giorni al-Quds, la città
santa, quella che i cristiani chiamano Gerusalemme, venne conquistata dagli
infedeli: mentre l’emiro entrava nel suo castello, i crociati entravano nella
città, dove il sangue, rosso come il diaspro, arrivava loro fino alle
caviglie. Ferdinando
ritorna nelle sue terre con i pochi uomini scampati alla battaglia: sei
cavalieri, tre fanti e alcuni servitori rimasti all’accampamento a Seffori. È
quasi sera quando Ferdinando raggiunge infine l’Arram.
È triste e rabbioso. La sua furia è rivolta contro tutti: contro quel
coglione di Guido da Lusignano, che ha portato l’esercito alla disfatta e
provocato la fine del regno; contro tutti quegli altri coglioni che volevano
a ogni costo la battaglia e hanno ignorato gli avvertimenti di Raimondo di
Tripoli; contro i Saraceni che hanno ucciso tanti dei suoi uomini; contro
Denis, che non era al suo fianco; contro Adham, che
non ha voluto venire con lui. Sa che la sua collera è assurda: i Saraceni
fanno ciò che fanno i Franchi; Denis non aveva nessun scelta; Adham è un guerriero maomettano e non gli si può chiedere
di combattere contro altri maomettani. Ma si crogiola nella sua rabbia, che
in qualche modo attutisce la sua sofferenza. Entra
nel palazzo. Sa che dovrà lasciarlo e anche questo lo irrita. Ci è sempre stato
benissimo e aveva pensato di viverci fino alla morte, ma dovrà andarsene per
una massa di incapaci presuntuosi. A quarantasette anni dovrà ricominciare da
capo per quella massa di coglioni! Merda! Merda! Merda! Nessuno
ha annunciato il loro arrivo, per cui Adham non gli
è venuto incontro. Ferdinando chiede, furente: -
Dov’è Adham? -
Nel bagno. La
risposta sembra accrescere la sua rabbia. Ferdinando pensa che ha combattuto,
rischiato la vita, visto morire i suoi uomini, sofferto il caldo e la sete,
patito la solitudine, mentre il suo uomo viveva tranquillamente a palazzo.
Sono pensieri assurdi, lo sa benissimo, ma la coscienza che sta per perdere
tutto ciò che ha costruito si aggiunge alla rabbia per l’assurda sconfitta e
la stanchezza gli toglie la lucidità. Ferdinando
raggiunge il bagno ed entra nella stanza senza spogliarsi. Sul
bordo della grande vasca, Adham è a quattro zampe e
Martino, uno dei guardacaccia, lo sta fottendo. -
Merda! I
due uomini guardano nella sua direzione. Il guardacaccia si alza e si stacca,
ma la vista del suo cazzo duro e il pensiero che un attimo fa era nel culo di
Adham fa esplodere la rabbia del conte. -
Merda! Sei una troia, Adham! È
un’offesa assurda. Il loro rapporto, molto forte, non è esclusivo: spesso
scopano in tre o in quattro e tutti e due hanno occasionalmente rapporti con
altri. Anche Ferdinando ha scopato con qualche soldato e poi con Barisano durante
la spedizione. Con Martino ha scopato più volte. Ma adesso gli sembra un
tradimento inaccettabile. Adham non capisce. Ferdinando è l’unico uomo
da cui accetta di farsi possedere e si è offerto a Martino per rivivere le
sensazioni che gli trasmette l’uomo che ama quando lo prende. Mentre il
guardacaccia lo fotteva, pensava che fosse il conte a possederlo e in qualche
modo questo rapporto ingannava la sofferenza per la lontananza di Ferdinando.
La
gioia intensa che ha provato per un attimo vedendo Ferdinando di ritorno, sano
e salvo, è svanita. Guarda il conte e chiede: -
Ferdinando! Che ti succede? Ferdinando
ha già lasciato il locale. Chiama quattro guardie. -
Arrestate Adham e gettatelo in cella. Adham non oppone resistenza. Si rende conto
che Ferdinando è stravolto ed è sicuro che recupererà la lucidità e si
scuserà. Un
po’ più tardi, quando ormai è buio, Ferdinando entra nella cella. Ad Adham è sufficiente un’occhiata per capire che la rabbia
è rimasta intatta. -
Domani mattina facciamo una bella caccia, Adham.
Una caccia al nero. Adham rabbrividisce. Sa benissimo che Ferdinando
ama cacciare maschi vigorosi e ucciderli: è il modo in cui esegue le condanne
a morte nel suo dominio, perché gli piace uccidere. Anche Adham
ha partecipato ad alcune di queste cacce sanguinose,
che non gli trasmettono le stesse sensazioni. È assurdo, completamente
assurdo. Adham non dice nulla: sa che non può far
ragionare Ferdinando in questo momento. E una tristezza infinita lo prende.
Ha amato quest’uomo, lo ama con tutto se stesso, darebbe la vita per lui e
ora Ferdinando lo vuole uccidere per qualche cosa che nel loro rapporto non
ha mai avuto la minima importanza. Adham non
capisce e non ha nemmeno voglia di capire. -
Mettiti in posizione, troia, che ti fotto per l’ultima volta. Ferdinando
ghigna, poi aggiunge: -
No, magari ti fotto anche domani, quando ti ammazzo. Adham obbedisce. Ferdinando non si spoglia:
si limita a estrarre il cazzo. Incula Adham con
un’unica spinta decisa. Sa che gli fa male, parecchio, ma si dice che non gli
importa. Non è vero e se ne rende conto, anche se ricaccia il pensiero. A
muoverlo è la disperazione che sente crescere dentro di sé, per questa
ennesima cazzata. Quando
il cazzo di Ferdinando gli è entrato in culo Adham ha
sussultato. Il dolore è stato forte, ma non è la sofferenza di questo
ingresso violento a schiantarlo. È la coscienza che l’uomo che ama è
rinchiuso in un bozzolo di rabbia e dolore. Intuisce che Ferdinando ha
passato giorni atroci e vorrebbe consolarlo, ma il conte non vuole
consolazione, non vuole affetto, vuole solo una vendetta insensata che lo
farà stare molto peggio. Ferdinando
fotte con furia e il cazzo che squassa il culo di Adham
non gli trasmette gioia, ma un dolore violento. Quando infine viene, il
piacere è più forte della sofferenza, ma è solo un attimo, poi ripiomba in
una disperazione ancora più forte. -
Goditi la tua ultima notte. Ferdinando
si tira su le brache e se ne va. Si stende sul letto, senza nemmeno
svestirsi. È stanco, di una stanchezza mortale, in cui si sommano le fatiche
del viaggio, l’incubo della battaglia, la coscienza che i giorni del suo
dominio sono alla fine e, più forte di tutto, la disperazione per ciò che ha
fatto e ciò che farà all’uomo che ama. Ma il sonno non viene. Il
calore è opprimente e allora Ferdinando si spoglia completamente, poi si
stende nuovamente. Se
riuscisse a dormire, si sveglierebbe riposato e lucido e si renderebbe conto
della follia che ha in testa, ma le ore trascorrono senza che il conte riesca
a chiudere occhio e la stanchezza si accumula. Si alza che è ancora buio,
incapace di rimanere oltre a letto. Si infila solo le brache e non appena il
cielo incomincia a schiarirsi, fa preparare tutto per la caccia. Adham viene condotto su un carro ai bordi
della foresta. Ferdinando stesso gli dà il coltello. Il nero lo guarda negli
occhi e Ferdinando sente il dolore che lo schianta. Vorrebbe che Adham lo colpisse, ora, mettendo fine ai suoi giorni. Adham si volta e si allontana. Non corre,
cammina, come se non gli importasse salvarsi. Non gli importa. Vorrebbe poter
alleviare la sofferenza di Ferdinando, ma sa solo che la sua morte la renderà
inestinguibile. Ferdinando
libera i cani senza aspettare il solito tempo: vuole concludere, il più in
fretta possibile. Segue a cavallo i cani, che raggiungono in fretta il
fuggitivo. Allora
Ferdinando avanza, il coltello in mano. Adham è di
fronte a lui. Non dice nulla, conscio che le parole sono inutili. Ferdinando
attacca, senza convinzione. Adham si sottrae. Il
conte guarda il pugnale che Adham stringe in mano.
In un lampo capisce quello che davvero vuole: che Adham
lo uccida. Attacca e si scopre, deliberatamente, offrendo il petto e il
ventre alla lama, ma il nero non colpisce. Ferdinando
comprende che Adham preferisce lasciarsi scannare:
non vuole ucciderlo. E la disperazione lo inghiotte. Un’ora
dopo il conte ritorna a palazzo. È cupo e non dice nulla, non parla con
nessuno. Fa un bagno e poi torna in camera. Per tutto il giorno non tocca
cibo. Non parla con nessuno. Nei
giorni seguenti l’umore non migliora. I servitori sono tutti inquieti: non
riconoscono il loro padrone in quest’uomo torvo e silenzioso, che si aggira
per il palazzo come un’anima in pena, di giorno e di notte, che inghiotte
appena un boccone ogni tanto, che non chiama nessuno nella sua camera per
scopare. Intanto
in tutto l’Arram si è diffusa la voce che il conte
ha ucciso il nero che era il suo amante e lo ha fatto sbranare dai cani. Quando
la notizia giunge a Denis, questi rimane sconvolto. Vorrebbe accorrere
dall’amico, ma sul momento non può lasciare Rougegarde. Dopo aver distrutto
San Giacomo, Ubayd al-Asad
marcia sul castello San Marco, che le sue truppe hanno già posto sotto
assedio. La situazione in città richiede la presenza del duca. * Dall’alto
della torre di castello San Marco Guillaume di Hautlieu
guarda l’accampamento saraceno: centinaia di tende disseminate ai piedi della
collina. La più
grande è quella di Ubayd al-Asad,
il Leone, fiero e spietato nemico dei cristiani, il conquistatore di San
Giacomo di Afrin e del Castello San Giorgio. Guillaume
avrebbe evacuato il castello già da tempo, ma diverse centinaia di soldati
del Leone sono arrivati improvvisamente, quando l’assedio di San Giacomo era
appena incominciato, e hanno bloccato ogni via di fuga. Ora l’intero esercito
li ha raggiunti. La
guarnigione del forte è composta da trenta uomini, a cui vanno aggiunti gli
abitanti del villaggio vicino, rifugiatisi tra le mura all’arrivo
dell’esercito nemico. Lungo
il fianco della collina sale un uomo a cavallo, senza armi. Un messaggero?
Verrà a intimare la resa? Guillaume pensa agli uomini che hanno cercato
protezione nel forte, ai soldati: la resa significa consegnarli tutti alla
schiavitù. Combattere significa destinarli alla morte. Che cosa è meglio?
Guillaume sa di prigionieri vissuti per mesi in condizioni inumane, nelle
miniere o sulle navi, prima che la morte li liberasse da una vita divenuta
ormai solo sofferenza. Non tutti gli schiavi dei musulmani vivono
un’esistenza così orribile, ma di certo per i soldati non c’è pietà. I
templari, non potendo riscattarsi, saranno giustiziati, come è avvenuto dopo
la battaglia di Hattin. Guillaume
sa che lo attende la morte, ma questo non lo spaventa. Lo preoccupa invece il
destino degli uomini che si sono messi sotto la sua protezione Guillaume
scende dalla torre e passa sulle mura accanto alla porta d’ingresso del
castello. Il messaggero ha raggiunto il ponte levatoio. Molti soldati sono sul
cammino di ronda, in attesa di sapere che messaggio porta il cavaliere. Guillaume
chiede: -
Che cosa vuoi? L’uomo
conosce il francese e risponde: - Mi
manda il grande capitano Ubayd al-Asad, il Leone che Allah ha inviato sulla terra per
liberarla dall’invasore infedele. Chiedo di parlare con il comandante del
forte. -
Sono io. - Il
tuo nome. -
Guillaume di Hautlieu. L’uomo
annuisce: è il nome che si aspettava. - Il
nostro capitano, Ubayd al-Asad,
ti comunica che se ti consegnerai nelle sue mani, tutti coloro che si trovano
nel castello potranno allontanarsi e raggiungere al-Hamra
senza che nessuno li fermi. C’è
un mormorio di stupore tra gli uomini. L’offerta è molto generosa: tutti
sanno che non potrebbero difendere il castello a lungo e i nemici avrebbero
facilmente ragione di loro. Ma quale destino attende il loro comandante,
Guillaume di Hautlieu? - La
libertà di tutti, in cambio della mia vita? È questa l’offerta del tuo
signore? -
Sì: devi consegnarti, vivo, domani mattina all’alba, e coloro che si trovano
al forte potranno lasciarlo. Truppe del nostro capitano, il grande Ubayd al-Asad, li scorteranno
fino in vista di Rougegarde. Guillaume
risponderebbe subito di sì, ma l’uomo dice: -
Tornerò al tramonto a chiedere la risposta. Il
messaggero volta il cavallo e si allontana, senza attendere una replica. Lionel
si avvicina a Guillaume: -
Non possiamo accettare questa proposta, comandante. Guillaume
sorride: - E
perché no? Abbiamo forse qualche possibilità di difendere il forte?
Attendiamo un aiuto? -
Comandante, voi sapete bene che cosa hanno fatto davanti a San Giacomo di Afrin al comandante del forte San Giorgio. È stato il
Leone a farlo. Guillaume
annuisce. Tutti conoscono i dettagli raccapriccianti dell’esecuzione di Jorge
da Toledo, avvenuta davanti alle mura di San Giacomo d’Afrin
qualche giorno prima che il barone Philippe la consegnasse. Se quello è il
destino che lo attende, è orrendo, ma se il suo martirio significa la vita
per tutti gli uomini del forte, ben venga. Che senso avrebbe mandare a morte
i soldati e gli abitanti del villaggio quando non c’è nessuna speranza di
salvarsi? -
Non possiamo sapere che cosa farà, ma non cambia nulla. Accetterò la
proposta. Anche
Roger e Pagano si fanno avanti: -
Moriremo da uomini, in battaglia. Non possiamo accettare che il nostro
comandante venga scannato in quel modo orrendo per salvarci. -
Meglio la morte, comandante, non vogliamo… Guillaume
alza la mano, a interrompere le parole di Roger: -
Devo ricordarvi che qui le decisioni le prendo io? Preparate le vostre cose e
dite agli uomini del villaggio che domani mattina lascerete il forte. - E
se fosse un inganno? Potrebbero massacrarci tutti e allora che senso avrebbe
il vostro sacrificio, comandante? - Il
Leone è feroce, lo so, ma nonostante il suo odio per i cristiani, non ha mai
mancato alla sua parola. E in ogni caso, Pagano, ricordati che non esistono
vie d’uscita. L’offerta è generosa e sono grato al Leone di averla fatta. -
Ma… -
Basta! Sono il comandante e non accetto che nessuno metta in discussione le
mie decisioni. Chiaro? La
voce di Guillaume è aspra, il viso severo: non è così che di solito comanda,
non è così che ha conquistato la stima e l’affetto incondizionato dei suoi
uomini. Ma ora è necessario. Gli uomini chinano il capo. -
Eseguite i miei ordini! Guillaume
volta le spalle e si dirige verso la sua camera. Sente le parole di Roger: -
Non è possibile, non può morire così… Guillaume
non sa perché il Leone abbia fatto un’offerta che giudica generosa. Forse
vuole portarlo sotto le mura di Rougegarde, dove presto si consumerà l’ultimo
atto dell’avventura dei crociati in quest’area. Lo martirizzerà sotto lo
sguardo dei difensori, come ha fatto con Jorge da Toledo a San Giacomo di Afrin, per creare il terrore e spingere alla resa? La
camera del comandante è piccola. Guillaume guarda il letto dove trascorrerà
un’ultima notte di veglia: il sonno non verrà facilmente. Poi guarda lo
specchio, bottino di guerra preso ad un castello arabo. Il comandante
precedente l’aveva fatto portare qui e Guillaume l’ha sempre giudicato un
oggetto inadatto alla camera di un soldato. Ora però lo fissa. Osserva il
proprio viso riflesso. Un viso che il tempo ha segnato. Guarda gli occhi. Gli
caveranno gli occhi? Guillaume rabbrividisce. Affrontare la morte in
battaglia è diverso dall’offrirsi alle torture. Lentamente Guillaume si
spoglia. Ora è nudo di fronte allo specchio che riflette la sua immagine: un
uomo non più giovane, che porta le tracce delle battaglie e degli anni, ma
ancora vigoroso, un guerriero; una vittima da sgozzare, un animale al
macello. La destra di Guillaume scende ai testicoli e li afferra. Glieli
taglieranno? Le sue dita sfiorano l’uccello. Anche questo? Le mani risalgono
lungo il corpo, trovano antiche cicatrici, immaginano nuove ferite che non
diventeranno cicatrici. Il suo corpo sarà abbandonato agli avvoltoi, come è
successo per Jorge da Toledo, la sua testa sarà piantata davanti alle mura di
Rougegarde, con le occhiaie vuote e i genitali in bocca? Una mano passa
dietro, scorre lungo il solco tra le natiche. Jorge da Toledo fu violentato
per due interi giorni. Coloro che videro il suo corpo prima che gli avvoltoi
lo straziassero, dicono che lungo la parte interna delle cosce e delle gambe
vi erano larghe strisce di sangue e di seme, che giungevano fino alle
caviglie. Guillaume
chiude gli occhi. Non vuole più vedere la sua immagine. Si volta. Riapre gli
occhi. Si corica sul letto. Chiude di nuovo gli occhi. Che ne sarà di lui?
Che ne sarà della sua anima? C’è davvero un’anima, qualche cosa di lui che
rimarrà anche dopo? A volte Guillaume se l’è chiesto. Mai Dio gli è apparso
lontano come in questa terra dove è nato Gesù. Ciò che ha visto fare in nome
di Dio, ad opera dei cristiani come dei musulmani, ha indebolito una fede che
ora è solo più un’ombra. Neppure davanti alla morte qualche cosa si desta
delle antiche credenze. Ha
peccato, secondo le regole della Chiesa ha peccato, più volte. Ha ceduto alle
tentazioni del suo corpo. Si pente di aver ceduto? No, in lui non c’è traccia
di pentimento. Ha desiderato, ha regalato e ricevuto in dono piacere e gioia.
Ha amato. Il pensiero va a Jean. È peccato, questo? Non
proverà più piacere. Solo una sofferenza atroce lo attende, ma se questo è il
prezzo per salvare le vite che gli sono state affidate, ben venga anche il
martirio. Guillaume
rimane a lungo disteso. Poi si alza: deve controllare che i preparativi
procedano, deve dare gli ordini necessari. Ciò che occorre distruggere,
perché non cada in mano ai nemici, ciò che gli uomini cercheranno di portare
con sé. Guillaume
si riveste ed esce. Il viso è sereno: difficile leggervi traccia
dell’angoscia che il comandante prova. Davanti
alla porta ci sono Roger e Riccardo, che subito si fanno avanti. -
Comandante, non è possibile. Non possiamo accettare… La
voce di Guillaume tronca il discorso: - È
questa l’ubbidienza di cui date prova? Tacete e obbedite. Guillaume
procede, ignorando i due uomini. Finge di non vedere la loro angoscia. È già
abbastanza difficile così, senza sentire su di sé il peso della sofferenza
altrui. Guillaume
percorre il forte. Dà le istruzioni, con la consueta lucidità. Nessuno
direbbe che la sua vita stia per chiudersi. Se qualcuno cerca di dire una
parola su quanto gli succederà, Guillaume tronca il discorso. Quando
il sole sta calando all’orizzonte, Guillaume sale sulle mura. Il messaggero
sta lasciando il campo musulmano. Tra pochi minuti sarà al castello.
Guillaume guarda il tramonto. Forse l’ultimo che vedrà. Il
cavaliere si ferma davanti alla fortezza. -
Guillaume di Hautlieu, qual è la tua risposta? La
voce di Guillaume è ferma: -
Domani all’alba mi consegnerò, se tutti gli uomini saranno risparmiati e
potranno raggiungere Rougegarde. -
Questo ha promesso Ubayd al-Asad,
che Dio lo conservi a lungo, e egli ha una sola parola. La tua vita riscatta
quella di tutti gli altri. Ti consegnerai a noi e gli altri andranno per la
loro strada. -
Così avverrà. Il
messaggero volta il cavallo e si allontana. C’è
silenzio sulle mura. Una cappa di piombo pare pesare sui soldati. Domani
potranno andarsene, ma la libertà che li attende ha un sapore di morte e di
sconfitta. Guillaume
passa le ore seguenti a controllare che tutto sia pronto. Poi ritorna in camera
e affida la sua anima a Dio. Si stende sul letto, ma non prende sonno. Il
pensiero va all’uomo che ha amato, a Jean. Guillaume
si dice che forse è meglio così. È stanco, stanco di combattere, di uccidere,
di veder morire. Quando
il cielo incomincia a schiarirsi, Guillaume fa un ultimo giro di controllo.
Tutto è pronto per la partenza. Gli uomini lo guardano, smarriti, ma non
dicono nulla. Ora si sono abituati all’idea di poter sfuggire alla morte,
hanno avuto una notte per accarezzare sogni di libertà, speranze di
continuare a vivere, di ricominciare altrove. Ora se il comandante si tirasse
indietro, sarebbe difficile per tutti accettare una realtà di morte. Ultimato
il giro, Guillaume sale sulle mura. È una giornata di vento, che solleva
mulinelli di polvere. È quasi l’alba. Una parte delle truppe arabe è
schierata davanti alla fortezza. Guillaume rimane a guardare fin quando vede
che il sole sta per sorgere. Allora scende e ordina di aprire la porta. Esce,
solo. Il convoglio è pronto a mettersi in marcia. Il
messaggero lo attende. Guillaume gli porge la spada. L’uomo la prende e la
passa a un soldato. Poi gli ordina: -
Spogliati. Guillaume
obbedisce. Si toglie quanto indossa, fino a che rimane solo con la tunica.
L’uomo fa cenno a un altro, che afferra le braccia di Guillaume e le lega
saldamente dietro la schiena. -
Da’ ordine che si avviino. Guillaume
dice: -
Andate. Mentre
gli uomini escono dal forte e sfilano, silenziosi, il messaggero raccoglie da
terra una manciata di polvere e la sparge sul capo di Guillaume. Gli uomini
che escono dal forte distolgono lo sguardo. Guillaume
ha chiuso gli occhi. Quando li riapre, gli ultimi uomini stanno uscendo dal
forte. Guillaume li segue con lo sguardo, finché non sono ai piedi della
collina, scortati dai soldati arabi. Poi
qualcuno infila un cappuccio sulla testa di Guillaume, gli passa un cappio
intorno al collo e, senza dire una parola, lo tira. Guillaume si mette in
cammino, cercando di non cadere. L’uomo che lo conduce si muove lentamente e
Guillaume, pur incespicando più volte, riesce a rimanere in piedi. Dopo
un po’, il terreno diviene pianeggiante. L’accampamento non deve essere
lontano. Guillaume sente le voci. Conosce l’arabo e sente qualcuno che
esprime ammirazione per il suo coraggio. Altri si chiedono che cosa lo
aspetta. Qualcuno fa riferimento alla fine orrenda di Jorge da Toledo.
Neppure loro paiono conoscere le intenzioni del Leone. Di
colpo Guillaume non sente più il vento: devono essere entrati in una tenda. -
Inginocchiati. Guillaume
obbedisce: rifiutarsi non avrebbe senso. L’uomo gli slega la corda che
stringe il collo e gli toglie il cappuccio. Sono in una tenda, come Guillaume
aveva intuito. Un servitore a torso nudo ha in mano una bacinella d’acqua.
Con uno straccio bagnato pulisce accuratamente il viso e i capelli del
comandante cristiano. Poi l’uomo che lo ha guidato nella tenda gli solleva la
tunica sul davanti, facendola passare dietro la testa: Guillaume è nudo, ora,
solo le braccia legate e una parte della schiena sono coperte dalla tunica. L’uomo
gli pone una benda nera e di nuovo Guillaume si ritrova al buio. -
Puoi sederti o stenderti, come vuoi. Ma non cercare di liberarti o di
fuggire. Guillaume
sa bene che, anche se riuscisse a liberarsi le mani e togliersi la benda, non
avrebbe nessuna possibilità di fuggire dall’accampamento saraceno. Guillaume
rimane un momento in piedi, poi si siede, ma con le mani legate dietro la
schiena non è una posizione comoda, per cui si mette disteso su un fianco. Il
suolo è coperto da tappeti. Guillaume non può vedere nulla, può solo
attendere. L’attesa
si prolunga. E Guillaume sente che la stanchezza della notte insonne ha il
sopravvento. Forse morirà presto, tra atroci tormenti, ma ora il suo corpo
chiede il riposo. Guillaume chiude gli occhi e si abbandona al sonno. Lo
sveglia una voce: -
Che razza di uomo sei? Dormi come se ti trovassi nel tuo letto e non in mano
ai tuoi nemici. Dormi come se la tua vita non potesse finire tra poco. Dormi
come se non sapessi tra quali tormenti è morto il comandante dell’ultimo
forte che il Leone ha conquistato. -
Chi sei tu, che mi desti dal sonno? -
Sono un sacerdote di San Giacomo d'Afrin,
prigioniero di Ubayd al-Asad,
che mi ha autorizzato a confessarti. Guillaume
si mette a sedere. Se il Leone ha autorizzato un prete a confessarlo, è
perché intende ucciderlo, ma questo non lo stupisce: si aspettava la morte.
Spera solo che non gli venga riservato lo stesso orrore che ha subito Jorge. - Mi
attende la morte, vero? -
Questo non lo so. Ma è ora che tu ti confessi. Guillaume
si inginocchia. È davvero giunto il momento di chiedere perdono dei propri
peccati. Non
ha molte colpe da confessare: ha combattuto lealmente, ha sempre mantenuto la
sua parola, ha cercato di essere giusto. Di un unico peccato si è macchiato,
più volte: - Ho
desiderato i corpi di altri uomini, più volte, e ho avuto rapporti carnali
con alcuni di loro, in passato. - Ti
penti di questo? Guillaume
guarda dentro di sé. Gli pare che ci sia un immenso vuoto. Che senso hanno
avuto quegli amplessi? A parte Jean, che ha davvero amato, gli altri sono
stati il rapido soddisfacimento di un desiderio. - Di
tutti mi pento, tranne che di uno, dell’unico che ho amato. -
Devi pentirti anche di quello. -
Non sono pentito di aver amato un giovane e di averlo posseduto, tre notti. -
Quando avvenne? - Dieci
anni fa. -
Perché non ti vuoi pentire di questa colpa? -
Perché so che se potessi, la ripeterei. Posso ripudiare tutti gli altri
uomini a cui mi ha unito il desiderio di un momento, ma ho amato Jean. Lo
dirò a Dio, quando lo incontrerò, senza vergogna, anche se so di aver violato
i voti pronunciati. - Se
non sei pentito, non posso assolverti. -
Datemi la vostra benedizione, padre. -
No, non è possibile. Addio, Guillaume di Hautlieu. Guillaume
ha l’impressione che l’uomo si allontani, ma il suolo è coperto da tappeti,
che attutiscono i rumori. Forse si sbaglia. Guillaume
sente due mani che si posano sulle sue guance e poi una bocca che sfiora la
sua. Rimane talmente sbalordito da restare immobile. La
bocca, così vicina alla sua, mormora: -
Guillaume, amore mio. Quella
voce è come un colpo al petto: per quanto sia mutata c’è qualche cosa di
inconfondibile nel suono. A Guillaume pare che il cuore si fermi, mentre
grida: -
Jean! Le
mani sciolgono la benda. Davanti a lui è inginocchiato il grande Ubayd, al-Asad, il Leone. È molto
cambiato dall’ultima volta che Guillaume l’ha visto: dieci anni trasformano
un ragazzo in un uomo. Anche l’abbigliamento è completamente diverso: un
condottiero saraceno non si veste certo come un contadino franco. Ma Guillaume
sa che l’uomo che ha davanti è Jean. Jean
lo bacia ancora, dolcemente, poi passa dietro di lui, scioglie le corde che
gli legano le mani e gli libera le braccia dalla tunica. -
Jean! Guillaume
non riesce a dire altro. Non riesce a credere che davvero il ragazzo che ama
e che ha a lungo cercato sia davanti a lui. -
Jean, non è possibile… Jean
scuote la testa. -
Ormai sono Ubayd. Mi sono convertito. Ma non ho mai
smesso di amarti, anche se pensavo che non ti avrei ritrovato. Quando mi
hanno detto che eri il comandante di Qasr Iblis… Jean
scuote la testa. Ha le lacrime agli occhi. Guillaume gli prende il viso tra
le mani e lo bacia. Poi
l’esigenza di capire, di sapere, li spinge a chiedere. Le domande si
accavallano. Ora a chiedere è il templare, ora è il condottiero. Ognuno
racconta brevemente gli anni trascorsi. Ci saranno altre occasioni per sapere
di più: adesso per entrambi è importante riannodare i fili di un rapporto
troncato dieci anni fa, contro la loro volontà. Guillaume
è nudo. Jean lo guarda. Sono otto anni che non ha rapporti, da quando il suo
padrone Roland di Chartres lo stuprò per l’ultima volta, prima che Jean lo
uccidesse per salvare dalla violenza un ragazzino. Ha giurato a se stesso che
non si sarebbe mai più dato a nessuno, se non avesse ritrovato l’uomo che
amava. Anche Guillaume non ha più rapporti da molto tempo. Ognuno
dei due vorrebbe stringere il corpo dell’altro, ma esitano, quasi spaventati.
È un po’ come se fosse la prima volta per entrambi. Si erano amati tre notti,
dieci anni fa. Non è facile riprendere. A un
certo punto Guillaume si alza: troppo a lungo è rimasto disteso, poi in
ginocchio: ha bisogno di sgranchire le gambe. Anche Jean si alza, ma il
desiderio sta crescendo in lui. Si volta, vergognandosi. Guillaume si avvicina,
ora è alle sue spalle, ma non osa toccarlo. Jean fa un mezzo passo indietro e
i loro corpi aderiscono. Guillaume lo cinge con il braccio e gli poggia il
capo sull’incavo della spalla. Con molta delicatezza gli passa una mano sulla
guancia. -
Jean, Jean. Jean
chiude gli occhi. Nessun altro uomo lo ha mai accarezzato: è stato violato,
più volte, ma solo a Guillaume si è dato liberamente e solo lui gli ha donato
amore e carezze. Una sensazione di benessere profondo lo invade: ha ritrovato
Guillaume, si amano ancora, può sentire il calore del corpo dell’uomo che ama
contro il proprio, la sua mano che gli accarezza il viso. Jean si abbandona a
questo abbraccio, che cancella dieci anni di sofferenza. Lascia che le dita
di Guillaume, con molta delicatezza, lo spoglino. È bello sentire le carezze.
A Jean sembra di non volere altro, anche se il desiderio cresce. Guillaume
lo tiene le sue braccia, lo stringe. Rimangono così a lungo, poi a una
leggera pressione del templare, si lasciano andare sui tappeti. Jean steso
sulla schiena, Guillaume sopra di lui. Jean asseconda i movimenti di
Guillaume, ma non prende iniziative: non c’è traccia del condottiero sicuro
di sé. Gli sembra di essere tornato un ragazzo inesperto che si affida al
valoroso comandante del forte. Sente che il desiderio cresce, che il sangue
affluisce all’uccello, ma lascia che sia Guillaume a condurre il gioco. Il
templare lo bacia sulla bocca e le sue mani percorrono il corpo. Jean sente il
peso del corpo che grava sul suo. Avverte l’odore di Guillaume, di maschio,
di sudore. Cerca le labbra di Guillaume, stordito dalla pressione forte che
avverte contro il ventre, mentre le mani del templare lo stringono. È un
vortice che lo trascina e a cui Jean si abbandona completamente. Guillaume
si stacca e si inginocchia sul tappeto, di fianco a Jean. Si china su di lui,
mentre le sue mani ne accarezzano il corpo. Entrambi non sono ancora sazi di
carezze, per troppi anni non hanno avuto le carezze che desideravano. Ma ora
il desiderio è troppo forte, in entrambi, e supera ogni remora. Jean guarda
il cazzo di Guillaume, grande, teso, con la pelle un po’ più scura del resto
del corpo e la cappella rossastra. Ha un momento di smarrimento. Sa che quel
cazzo gli entrerà dentro, che l’uomo che ama lo prenderà, come ha fatto molti
anni fa. È come se fosse la prima volta. Ha paura e nello stesso tempo lo
desidera, vuole appartenergli di nuovo, tornare a essere suo. Guillaume
lo accarezza, poi le loro bocche si cercano, in un bacio. Guillaume
non dice nulla, non chiede nulla, ma Jean si volta e si stende sulla pancia.
Allarga bene le gambe. Guillaume
si inginocchia tra le sue gambe e lo accarezza ancora: le sue mani gli
percorrono la schiena, scendono alle natiche, stringono il culo, poi
risalgono. Guillaume
si stende su Jean, gli bacia la nuca, gioca con i suoi capelli, gli sussurra: - Jean,
amore mio. Poi
il peso scompare: Guillaume si è di nuovo messo in ginocchio e inumidisce
l’apertura con le dita bagnate, poi si stende su di lui e Jean sente la
pressione della cappella. Si tende, ma Guillaume lo bacia sul collo, gli
passa la lingua dietro l’orecchio, gli accarezza il culo e Jean si rilassa.
Il cazzo avanza e Jean cede alla mazza che prende possesso di lui, accetta di
essere penetrato, di appartenere nuovamente a quest’uomo che lo abbraccia, lo
bacia e lo possiede, lo fa suo. Dalle
labbra gli sfugge: -
Sì! Il
cazzo di Guillaume continua ad avanzare, fino a penetrare completamente. C’è un
po’ di dolore in questa conquista, ma Jean è felice anche di questo. Ora
Guillaume è dentro di lui, una presenza ingombrante e forte, a cui Jean si sottomette
completamente. È felice di essere posseduto dall’uomo che ama, l’uomo che ora
lo bacia e lo abbraccia. Guillaume
prende a muoversi, lentamente. Il dolore cresce, ma Jean non vorrebbe che
smettesse. Guillaume si ferma un momento, lascia che il corpo di Jean si
abitui al nuovo padrone, allo spiedo che lo trapassa. Ora il dolore si
attenua. Guillaume riprende a spingere, a un ritmo crescente. È bello. È
doloroso, ma è bello. È davvero quello che Jean ha desiderato in tutti questi
anni. Guillaume
spinge con forza ora, spinte vigorose che martoriano il culo di Jean, fino a
che geme, forte. Le spinte divengono ancora più intense e poi si attenuano,
mentre l’ondata del piacere investe anche Jean, che sparge il suo seme sul
tappeto. Guillaume
si abbandona sul corpo di Jean e lo bacia sul collo. Rimangono
a lungo così, appagati. |