I –  I mercanti

II – La setta

III – Manovre

 

IV – La disfatta

 

 

La notizia della condanna a morte e dell’esecuzione del vescovo è arrivata a San Giacomo d’Afrin. Per Olivier è stata una mazzata. Si aspettava l’arresto di Denis e di Ferdinando per tradimento e quello di Pierre e Jacques per sodomia. Scopre invece di aver perso il suo unico alleato. Di certo il duca sospetta la sua complicità nella manovra e questo lo mette in una situazione delicata, proprio in un momento difficile, in cui il territorio è minacciato dai saraceni.

Nell’inverno Reginaldo di Châtillon ha attaccato una grande carovana egiziana di mercanti e pellegrini musulmani diretta a Damasco, in aperta violazione della tregua stipulata l’anno precedente tra i franchi e Salah ad-Din: non è la prima volta che capita. Questi ripetuti attacchi hanno suscitato l’ira del signore della Siria e dell’Egitto, che ha giurato di ucciderlo.

Il Saladino ha richiesto la liberazione dei prigionieri e la restituzione del bottino, ma non ha ottenuto nulla. Ha perciò raccolto un esercito tra tutte le popolazioni dei suoi domini: turchi, curdi, arabi, alani, cumani, beduini, turcomanni. Seguendo una tattica più volte sperimentata, ha mandato in avanti settemila cavalieri, che ora mettono a sacco la Galilea: catturano uomini e donne per farne schiavi, predano il bestiame, incendiano vigne e campi coltivati Come racconterà un cronista dell’epoca, testimone oculare della caduta di Gerusalemme: “i servi dell’iniquità, assetati del sangue dei santi, simili a cani rabbiosi lanciati su una carogna, giunsero velocissimi… Al tramonto passarono il fiume e, come figli del buio e delle tenebre, fecero scorrerie per la Galilea fino a Cafra nel silenzio della notte fosca, ammazzando i poveri di Cristo, traendo con sé in prigionia uomini e donne con una gran moltitudine di bestie, imitando insomma il padre loro, ovvero il diavolo, il quale sgozza quelli che sorprende nel sonno, addormentati nel peccato, per trascinarli con sé nella fossa della dannazione.”

I gran Maestri del Tempio, Gerardo di Ridefort, e dell’Ospedale, Ruggero des Moulins, si trovano nelle vicinanze e decidono di affrontare la schiera nemica, nonostante la disparità di forze. A Cresson, vicino a Nazareth, i saraceni sconfiggono i cavalieri templari e ospedalieri e li massacrano: i musulmani vittoriosi infilzano sulle loro lance le teste degli sconfitti. Ruggero des Moulins muore nella battaglia.

Mentre la Galilea arde, una minaccia grava anche sui territori orientali e in particolare su San Giacomo d’Afrin. Non lontano dal confine è impegnato l’esercito raccolto dal Leone, questo  giovane condottiero che ha rapidamente acquistato gloria sui campi di battaglia. Ha appena sconfitto senza difficoltà Walid al-Atrash, un signore ribelle al Saladino, e ora lo assedia nel castello in cui si è rifugiato. Quando il signore si sarà arreso e la sua testa sarà stata inviata al Saladino, c’è il rischio molto reale che attacchi i territori cristiani vicini.

Anche in città la situazione di Olivier sta diventando sempre più difficile. Tra poco Philippe compirà diciott’anni e non nasconde la sua intenzione di assumere il potere. Olivier sa che deve eliminarlo, ma si ripropone l’eterno problema:  l’erede diventerebbe Jacques, che è maggiorenne e ha il pieno appoggio di Denis di Rougegarde. Di certo quel bastardo del duca accompagnerebbe il giovane a San Giacomo d’Afrin e Olivier sarebbe completamente escluso dal potere. Quei maledetti potrebbero perfino allontanarlo dalla città, con qualche scusa, accusandolo di aver tramato con il vescovo: sono capaci di tutto.

Esiste un’unica soluzione: Jacques deve morire. A quel punto Philippe subirà la stessa sorte. Uccidere il nipote che vive a San Giacomo non sarà difficile, ma sopprimere quello che risiede nel palazzo ducale di Rougegarde appare un’impresa disperata. Il duca è molto diffidente e i suoi uomini gli sono fedeli. Se il vescovo fosse ancora vivo, forse Olivier potrebbe chiedergli di invitare Jacques e farlo avvelenare. Peccato non averci pensato prima. Bohémond preferiva un rogo, che sarebbe stato una conferma del suo potere. Avrebbe acconsentito a far avvelenare Jacques nel proprio palazzo? Probabilmente no.

Olivier si riscuote, irritato con se stesso: sta solo perdendo tempo, indugiando in pensieri oziosi. Il vescovo ormai è morto e non si sa neppure che fine abbia fatto il cadavere: non è stato sepolto in terra consacrata. D’altronde l’accusa era di alto tradimento e in questi casi si procede allo squartamento e ciò che rimane del corpo viene esposto in punti diversi della città, come monito.

 

Olivier convoca Joscelin, l’uomo a cui lui e Renaud hanno sempre affidato quegli incarichi che dovevano rimanere segreti. È stato Joscelin a uccidere Philippe di Cesarea, a organizzare l’omicidio di Hugues d’Arbert, a tenere i contatti con Ramzi e gli Hashishiyya, a rendere possibile l’assassinio di Renaud. Un uomo fedele. Se raccontasse ciò che sa, sarebbe la fine per Olivier, ma anche lui andrebbe incontro a una morte orrenda.

- Joscelin, tu sai che mio nipote Jacques vive a Rougegarde, sotto la protezione del duca.

- Sì, signor barone.

- Jacques deve morire.

Joscelin annuisce. Conosce benissimo i motivi per cui Olivier desidera la morte del nipote e in ogni caso è abituato a obbedire senza chiedere spiegazioni. Appare però alquanto dubbioso.

Olivier se ne accorge e non ha difficoltà a comprendere i motivi di questa perplessità.

- Il compito è molto difficile, lo so, Joscelin. Avvicinarsi a Jacques è quasi impossibile: i cani del duca fanno buona guardia. Ci vuole un lupo che sappia essere tanto astuto, quanto feroce.

- Andrò a Rougegarde e studierò la situazione. Sarà opportuno essere almeno in due.

- In due sì, di più no: non voglio che altre persone siano a conoscenza dei miei piani. Sai benissimo quanto un’impresa di questo tipo sia delicata e richieda cautela.

- Come volete, barone.

- Il secondo uomo può essere Georges.

Anche Georges ha svolto alcuni compiti per Olivier. Il più importante è stato l’omicidio del fratello di Olivier e Renaud, Charles, il supposto padre di Jacques.

- Come desiderate, barone.

Olivier aggiunge un’ultima raccomandazione:

- In ogni caso, non fate mai il mio nome, non dite a nessuno di essere inviati da me. Non vi presentate dal duca a nome mio. Io non devo figurare.

 

Il giorno seguente Joscelin e Georges partono per Rougegarde.

Durante il viaggio parlano del compito che è stato assegnato loro.

- Non sarà facile, Georges. Gli uomini del duca vegliano sul giovane Jacques.

Georges fa un cenno affermativo con la testa. Joscelin prosegue:

- Più che mai ora, che il vescovo è morto e il figlio di Renaud sta per compiere diciott’anni.

- Sì, di certo il duca ha rafforzato la sorveglianza.

- È un bel casino. Impossibile corrompere gli uomini del duca: la loro lealtà è assoluta.

- Non abbiamo nessuno a Rougegarde su cui contare, vero?

- Adesso che è morto il vescovo, ci sono solo alcuni pesci piccoli: qualche uomo del vescovo e qualche avanzo di galera disposto a tutto. Uomini che potrebbero ospitarci o fare un po’ di spionaggio per noi, ma non possono essere di grande aiuto, se si tratta di colpire a palazzo.

- Non credo che sia possibile introdursi a palazzo, da quel che mi dici. Bisognerà colpire fuori. Non è da escludere che il giovane se ne vada in giro da solo. Ma come sapere quando esce e dove va?

- Questo è il problema. Non possiamo appostarci all’ingresso e sperare che nessuno si accorga di noi. Dobbiamo attirarlo in una trappola, Georges.

- In una trappola? E come?

Joscelin ride e dice:

- Se lo sapessi, non sarei qui a chiedermi come possiamo fare.

- Una bella donna è sempre una buona esca.

- Se gli piacciono le donne. Se è come il padre…

Georges sorride: ha conosciuto il barone Charles, i cui gusti erano noti a tutti. Conclude la frase di Joscelin:

- …conviene usare un bell’uomo.

Poi Georges osserva:

- Bell’uomo o bella donna, bisogna stabilire un contatto con il giovane.

- Già, questo è il problema.

- Non l’unico problema, direi: soltanto il primo, se battiamo questa strada. Ce ne troveremo davanti altri, forse ancora più difficili da risolvere.

- Mi sembri pessimista.

- Le difficoltà sono tante.

- In qualche modo ce la faremo.

Quando infine raggiungono Rougegarde, non hanno ancora un piano preciso, ma hanno stabilito alcuni punti fermi. In primo luogo procederanno separatamente, entrando in città a distanza di tempo e cercando alloggio in luoghi diversi: Georges si stabilirà in una locanda non lontano dal palazzo ducale, Joscelin nei pressi del palazzo vescovile. Georges andrà in giro per le osterie della città, ascoltando le chiacchiere della gente. Joscelin invece prenderà contatto con alcuni uomini del vescovo, per capire qual è la situazione e capire come procedere. Si incontreranno nella chiesa di San Marco, prima della messa serale: se uno dei due avrà qualche cosa da comunicare all’altro, si metterà vicino all’altare del Redentore e l’altro lo raggiungerà. Altrimenti rimarranno a distanza.

Il nuovo vescovo non è stato ancora nominato: è passato troppo poco tempo dalla morte di Bohémond e nell’attuale situazione del regno, attaccato dai saraceni, ci sono altre priorità. Perciò il personale del palazzo vescovile è rimasto senza lavoro e nel grande edificio il duca ha messo quattro guardie, che hanno il compito di sorvegliarlo per impedire furti.

Joscelin ha alcuni nominativi di persone a cui può rivolgersi per avere un aiuto, senza metterle al corrente dei piani. Si tratta soprattutto di uomini fedeli al vescovo, su cui si dovrebbe poter contare. In primo luogo contatta padre Odon, che era molto legato al vescovo e che Joscelin ha già avuto modo di incontrare in passato: con lui non deve giustificare la sua visita, perché lo conosce ed è perciò naturale che passando da Rougegarde lo vada a trovare.

Odon è parroco della chiesa del Redentore. Joscelin si presenta da lui un pomeriggio.

- Buongiorno, padre.

- Buongiorno, Joscelin. Sono contento di vedervi. Vi manda il barone?

- No, sono qui per alcuni affari personali. Ho chiesto al barone qualche giorno di licenza.

- Quale nuove mi portate da San Giacomo d’Afrin?

Joscelin scuote la testa.

- In città c’è un grande dolore per la morte del vescovo. Non riusciamo a credere a un tradimento. Un uomo come il vescovo!

In realtà a San Giacomo la notizia ha provocato scalpore, ma non c’è stato un grande cordoglio: il vescovo non era particolarmente amato, anche se non c’era nei suoi confronti l’ostilità diffusa a Rougegarde.

Odon fa un cenno d’assenso.

- Ciò che è accaduto ha sgomentato tutti. Il nostro povero vescovo. Giustiziato come un traditore. Sapete, Joscelin, non sappiamo neppure dove è stato sepolto.

- Gli hanno negato la sepoltura in terra consacrata?

Odon annuisce.

- Ho provato a chiedere al duca, per poter almeno dire una preghiera sulla tomba. Mi ha risposto di aver eseguito l’ordine del re, ma non ha voluto dirmi qual era questo ordine. Non sappiamo se è stato sepolto fuori città. Il suo corpo potrebbe essere stato abbandonato… no, non voglio pensarci.

- È terribile. Non posso pensare che… no, no, davvero.

C’è un momento di pausa, poi Joscelin riprende.

- A San Giacomo molti si chiedono se dietro questa accusa, questo processo, non possa esserci qualche manovra.

- Me lo sono chiesto anch’io, ma chi… perché?

Joscelin si guarda intorno, come se volesse controllare che non ci sia nessuno. Poi dice:

- Tra poco il giovane Philippe dovrebbe assumere la piena signoria di San Giacomo. Il vescovo era il suo principale sostegno, insieme al barone Olivier, che lo ha guidato con pazienza e affetto in tutti questi anni. Qualcuno si chiede se il giovane barone Jacques non abbia ambizioni…

Padre Odon è stupito.

- Voi dite? Ma l’erede è Philippe, il figlio del barone Renaud.

- Sì, ma se il giovane Philippe dovesse morire… ha sempre avuto una salute fragile, dicono… Non so, sono voci che circolano, non bisogna dare loro troppa importanza. Questa condanna improvvisa… ha lasciato tutti stupefatti. La gente parla, cerca di capire…

Padre Odon appare dubbioso.

- Il giovane Jacques non mette piedi a San Giacomo da anni, per quel che ne so. Davvero…

Joscelin alza le spalle.

- Massì, sono solo sciocchezze. Tutti sono rimasti sconvolti, il vescovo era molto amato, non possono credere al tradimento e allora fanno ipotesi… Ma di certo il giovane barone qui avrà ben altro da fare. A quell’età… si divertirà, come tanti nobili.

Odon scuote la testa.

- Non so, non è che faccia parlare molto di sé. D’altronde è sotto la protezione del duca, che è un uomo molto austero, un vero guerriero. Il vescovo era preoccupato dalla tolleranza del duca nei confronti di musulmani, ebrei, eretici e ho sempre condiviso quelle sue preoccupazioni. Ma se guardiamo al comportamento del duca… Si è parlato anni fa di qualche relazione, con un’ebrea, una saracena, ma è acqua passata, il duca le ha fatte sposare. Per il resto, è molto morigerato.

- E voi dite che il giovane Jacques ne segue l’esempio?

Odon allarga le braccia.

- Diciamo che non ho motivi per sostenere il contrario. Di certo non dà scandalo, a differenza di certi signori del regno… e purtroppo anche certi uomini di Chiesa.

Joscelin si chiede se il riferimento è al patriarca Eraclio, che ha un’amante e dei figli. Non esprime il suo pensiero e dice invece:

- Meno male che non ha preso dal padre, su cui circolavano voci…

Odon annuisce.

- Sì, certo. Di lui si chiacchierava molto.

Joscelin non ha ottenuto nessuna informazione utile. Il prete chiede di Olivier e dopo aver risposto Joscelin prende congedo. Tornerà se gli servirà.

- Ci rivedremo, padre. Conto di fermarmi qualche giorno in città.

- Ben volentieri. Passate a trovarmi quando volete.

Joscelin contatta altre persone che conosce. Nessuno è in grado di dare informazioni utili. Pare che il barone Jacques esca da palazzo sempre in compagnia di altri.

Come convenuto, Georges passa molto tempo nelle osterie vicino al palazzo ducale. Ascolta le conversazioni e chiacchiera del più e del meno con altri avventori. Sembra uno dei tanti perdigiorno. Inizialmente anche lui non riesce a ottenere nessuna notizia utile.

Il mattino del quarto giorno Georges vede uscire dal palazzo Jacques. È in compagnia di un altro giovane e di otto soldati a cavallo. Si rivolge all’uomo con cui sta conversando, fingendo di non aver riconosciuto il barone:

- Chi sono quei due giovani che escono da palazzo? Uno è forse il figlio del duca?

Il tizio, che si chiama Guy, gli spiega:

- No. Quello con l’abito scuro è il barone Jacques, il figlio di Charles di Soissons. L’altro è Guibert, il figlio di Ansel di Ribemont, un cavaliere che ha una residenza di caccia nell’Arram.

- Andranno a una partita di caccia, allora? Magari con il conte Ferdinando? Dicono che il conte Ferdinando ama molto la caccia… diversi tipi di caccia.

Guy ridacchia.

- Può darsi.

Poi aggiunge:

- Uno di quei soldati è un mio amico. Mi pare che abbia detto che domani partirà e starà via qualche giorno con il barone. Forse oggi fanno solo un giro nei dintorni. Probabilmente domani vanno dal cavaliere Ansel o dal conte.

- Ma per fare un giro nei dintorni… o anche per andare nell’Arram… non è lontano… perché il barone si muove con otto soldati? Ci sono pericoli lungo la strada?

L’uomo guarda Georges e sorride.

- Il barone è sempre ben protetto. Dicono che abbia dei nemici.

Georges si finge stupito.

- Dei nemici? E perché mai?

- Non so. Ma in questi ultimi tempi non lo si vede mai uscire da solo. Ha sempre la scorta.

- Non deve essere piacevole, per un giovane della sua età, essere sempre controllato.

- A palazzo ha tutto quel che vuole. Farei volentieri il cambio con lui.

- Quanto a quello, anch’io.

Nel pomeriggio Georges vede tornare i due giovani con la scorta.

La sera in chiesa Georges si mette vicino all’altare del Redentore. Joscelin lo raggiunge. Fingendo di pregare, Georges trasmette le informazioni che ha raccolto.

Decidono di incontrarsi nella notte, per poter parlare tranquillamente, senza essere visti. Scelgono di trovarsi dietro la chiesa, nel piccolo cimitero.

Quando ormai è buio, raggiungono le tombe disposte sul fianco della chiesa. Si siedono in un angolo dove l’oscurità è totale. Fanno il punto della situazione.

- Potremmo cercare di ucciderlo durante la caccia: non potrà muoversi sempre insieme alla scorta.

- Sì, la soluzione è buona, ma non sappiamo dove andranno a caccia, posto che davvero domani vadano a caccia, non conosciamo il territorio.

- Uno di noi potrebbe andare avanti e l’altro li seguirà.

- Sì, ma dobbiamo essere molto prudenti: il rischio di essere scoperti è molto forte. L’Arram non ha grandi città, non ci va molta gente. Due stranieri verrebbero individuati subito. Dobbiamo ucciderlo, ma non ho nessuna voglia di farmi prendere.

- No, di certo. Non sarebbe una bella fine. Merda, Joscelin!

- Non vedo altre vie. In ogni caso non possiamo rinunciare. Il barone non lo accetterebbe. Se domani Jacques parte, tu lo seguirai e prenderai una camera alla locanda del Pastore: è a cinque miglia dall’Arram. Io arriverò più tardi e mi fermerò per bere. Se ci vediamo, facciamo in modo di parlarci. Altrimenti sarò al ponte vicino alla locanda prima dei Vespri.

- Va bene. Non è difficile trovare la locanda e il ponte?

- No, la locanda è sulla strada, il ponte pure, mezzo miglio oltre. Se ci fosse qualche novità questa sera, fatti vedere alla mia locanda e poi aspettami al cimitero della chiesa.

Prendono gli ultimi accordi, poi tornano nelle loro locande. Nella sua Georges ritrova Guy, che gli si avvicina. Scambiano due parole, poi Guy dice:

- Per quanto riguarda il barone, avevo ragione: lui e il giovane Guibert partono domani.

- Avete parlato con il vostro amico soldato?

- Sì, mi ha detto che partiranno in mattinata, sul presto. Saranno ospiti del conte Ferdinando. Contano di rimanere tre o quattro giorni, cacciando.

Georges è contento di ricevere queste informazioni che non ha chiesto e che gli servono alquanto. Non è stato lui ad avvicinarsi a Guy, perciò non può aver destato sospetti.

- Beati loro che possono pensare a divertirsi, senza preoccuparsi di niente.

Georges chiacchiera un momento con Guy, poi esce e si dirige alla locanda dove alloggia Joscelin. Non si accorge che Guy lo sta seguendo.

Georges entra come un avventore qualsiasi, si sistema a un tavolo in fondo e ordina da bere. Joscelin lo ignora completamente.

Georges beve, poi si alza ed esce. Si dirige direttamente al piccolo cimitero di fianco alla chiesa di San Marco.

Joscelin lo raggiunge poco dopo. Discutono le ultime novità. Decidono che Georges uscirà dalla città appena apriranno le porte, in modo da arrivare alla locanda prima del passaggio del barone: in questo modo nessuno potrà pensare che lo stia seguendo. Joscelin partirà più tardi. Si separano. Joscelin torna alla sua locanda, senza badare a un uomo che, celato nell’ombra, lo segue.

 

L’indomani mattina, appena aprono le porte della città, Georges esce e prende la strada per l’Arram. Jacques e Guibert lasciano la città un po’ più tardi, con una dozzina di cavalieri. Poche ore dopo passano davanti alla locanda del Pastore.

Georges, che è arrivato da tempo e ha preso una camera, è seduto nel pergolato e li guarda cavalcare lungo la strada. Chiede al locandiere:

- Chi sono quei due giovani con la scorta? Gente ricca, suppongo. Uno è mica il figlio del duca di Rougegarde?

- No, no. Sono il barone Jacques di San Giacomo e il cavaliere Guibert, figlio di un signore che sta qui. Andranno a caccia nei boschi del conte. Lo fanno ogni tanto.

- C’è molta selvaggina qui?

- Sì, l’emiro veniva a cacciare da queste parti e non permetteva a nessun altro di farlo. Ci sono parecchi animali.

- Beati quei due giovani, che non hanno niente da fare, se non andare a caccia.

- Eh, sì, bella vita, la loro! Verranno qui questa sera, a mangiare e spassarsela un po’.

- Qui alla locanda? Avrei detto che fossero ospiti del conte Ferdinando. O del padre di questo Guibert. Mi avete detto che è di qui, no?

- No, non è di qui, di solito sta a Rougegarde, ma qui ha una residenza per la caccia. Probabilmente dormiranno lì, è a poche miglia. Oppure ospiti del conte, non so. Ma mi hanno avvisato che questa sera vogliono festeggiare qui.

Joscelin passa nel primo pomeriggio. Si ferma a bere qualche cosa. Georges si allontana verso il ponte. Joscelin lo raggiunge poco dopo.

- Jacques sarà alla locanda questa sera: festeggerà con l’amico.

- Questa sera… alla locanda… È l’occasione che cercavamo.

- Ci saranno anche i soldati. Come pensi di fare?

- Veleno. Ne ho due: uno ad azione immediata e uno lento. Useremo il secondo.

- Ma come farlo bere al giovane?

- Sarà un momento di festa. Anche i soldati non staranno tanto in guardia, Aspetteremo che abbiano bevuto un po’. Quando saranno tutti più allegri… troveremo il modo.

Si mettono d’accordo su come procedere, poi Joscelin torna alla locanda. Dice al locandiere che il posto è molto piacevole e che vorrebbe fermarsi. Il locandiere ha un posto in una camera, dove c’è già un altro occupante. Joscelin si chiede se sia la camera di Georges, ma non è quella. Se fossero stati insieme, forse avrebbero avuto più libertà d’azione, ma in fondo è meglio che nessuno li associ. L’altro ospite è un uomo sui quaranta, alquanto vigoroso. Non sembra intenzionato a chiacchierare e a Joscelin non interessa scambiare due parole con lui, per cui si limitano a un cenno di saluto.

Georges passa la giornata fuori e torna solo verso sera. Scopre che nella sua camera ci sono altri due ospiti: la locanda è piena e ogni camera ospita almeno tre persone. Da una parte è un fastidio, perché limita la libertà d’azione, dall’altra la confusione dovuta alla presenza di tanta gente faciliterà l’esecuzione del piano.

Joscelin è stupito che ci sia tanta gente alla locanda: non si aspettava un simile affollamento. Quando scende nella sala dove si mangia, scopre che gli ospiti sono tutti uomini. Il locandiere ha preparato una tavolata per il barone e gli uomini della sua compagnia, che non sono ancora arrivati. Tutti gli altri tavoli invece sono già occupati. Il locandiere sistema Joscelin proprio accanto alla tavola del barone.

Poco dopo scende Georges e il locandiere gli indica un altro posto libero, a un tavolo nell’angolo.

I cacciatori arrivano. Si mangia abbondantemente, si beve. Ben presto gli uomini nella sala appaiono alticci. Risate e battute si intrecciano. L’assenza di donne rende il linguaggio più sboccato. Le voci diventano sempre più forti.

È Jacques stesso a rivolgersi a Joscelin, chiedendogli da dove viene. Joscelin risponde di venire da San Giacomo d’Afrin e il barone propone un brindisi alla sua città. Bevono, poi Jacques invita Joscelin a sedersi al suo tavolo, accanto a lui. Spiega di essere il figlio del barone Charles e gli chiede notizie dello zio Olivier. Joscelin dice di saperne poco, perché non ha modo di frequentare la corte, ma propone un nuovo brindisi in onore del barone Olivier. Quando il servitore riempie i bicchieri, versa nel proprio il veleno, badando a non farsi notare da nessuno, poi lo mette accanto a quello di Jacques. Al momento del brindisi, prende il bicchiere del barone, come se si sbagliasse.

Una mano si posa sul braccio di Joscelin. L’uomo che gli stringe il polso dice:

- Non è quello il tuo bicchiere. È l’altro. Bevi dall’altro.

Nella sala di colpo scende il silenzio. Gli uomini che sghignazzavano e sembravano già mezzi ubriachi guardano Joscelin, la mano sull’arma, pronti a scattare.

Georges capisce che il piano è fallito e intuisce che non riuscirà a scampare: vede che i quattro uomini del tavolo vicino lo stanno fissando, senza badare a Joscelin. Nessuno di questi uomini ha alzato il gomito: sono tutti sobri e lucidi, simulavano di essere mezzo ubriachi. Aspettavano soltanto il momento di agire.

Era una trappola e ora ci sono finiti dentro. Al posto di Joscelin Georges berrebbe il vino avvelenato: meglio la morte per veleno che quella che li aspetta.

Joscelin cerca di schermirsi.

- Ma perché? È lo stesso vino, no?

- Allora bevi dal tuo bicchiere.

Joscelin posa il bicchiere, ma non prende l’altro. L’uomo che gli ha bloccato il braccio fa un cenno con il capo. Quattro uomini afferrano Joscelin e lo tengono fermo, mentre uno gli lega le mani dietro la schiena. L’uomo che ha bloccato Joscelin si avvicina a Georges e gli intima:

- Alzati.

Georges esita. Fa finta di non capire.

- Che cosa volete da me?

- Non farci perdere tempo, Georges Dubuis. Dobbiamo rientrare a Rougegarde questa notte. E tu sei nostro ospite.

Georges ha l’impressione che lo abbiano colpito al petto. Lo conoscono, sanno chi è. Tutto è perduto. Si alza. Gli uomini del tavolo vicino lo bloccano e gli legano le mani dietro la schiena.

Jacques si rivolge all’uomo che ha bloccato Joscelin:

- Direi che tutto è andato come previsto, Manrique.

Joscelin sa che Manrique è il capo della guardia personale del duca. Non l’aveva mai visto.

Li conducono fuori. Sono usciti quasi tutti gli avventori: evidentemente erano soldati. Vengono portati i cavalli. Un uomo mette un sacco nero sulla testa di Joscelin e lo fissa intorno al collo con una corda, poi fa lo stesso con Georges. Li aiutano a salire a cavallo, legano le briglie a un altro cavallo e si avviano: oltre venti uomini e due prigionieri.

È un lungo viaggio. Georges e Joscelin non possono vedere, ma sanno dove vanno: a Rougegarde e alla morte.

È notte e la strada è deserta. Un contadino che rientra dopo essere stato a Rougegarde li scorge in lontananza e si nasconde dietro una grande quercia che si erge solitaria, sul bordo della pista. Li osserva passare e rabbrividisce vedendo questo drappello di uomini che cavalcano silenziosi nella notte, con due prigionieri incappucciati e legati in mezzo a loro, illuminati dalla luce spettrale della luna.

Il contadino si fa il segno della croce. Sospetta di aver assistito a una cavalcata demoniaca. Ha sentito dire che la notte spiriti malefici scendono dai monti e assalgono chi si è attardato lungo la strada: per i musulmani sono i ginn, per i cristiani diavoli o streghe. Il contadino non aveva mai badato a queste voci, ma adesso sa che non sono infondate.

È notte fonda quando i cavalieri arrivano a Rougegarde, ma sono attesi alla porta dei giardini, quella rivolta a Nord. L’ufficiale di guardia la fa aprire e il drappello raggiunge il castello, attraversando le vie deserte di una città che ancora dorme.

I due prigionieri vengono accompagnati in due diverse celle e lasciati lì, legati e con la testa coperta.

Georges sa di essere perduto. Decide di cercare di dormire, per recuperare un po’ le forze, ma prima che sia riuscito ad assopirsi sente la porta aprirsi. Viene sollevato e trascinato in un altro locale.

Lo spogliano, gli tolgono il cappuccio, lo legano a un tavolaccio e incominciano l’interrogatorio. A condurlo è Manrique.

- Georges Dubuis, chi vi ha mandati qui?

- Nessuno mi ha mandato. Sono venuto qui per cambiare un po’ aria. A San Giacomo ho alcuni nemici.

- Georges, per me va bene. Posso farti torturare finché non racconterai tutto. E posso garantirti che alla fine racconterai. Sta a te scegliere se vivere questi ultimi giorni tra i peggiori tormenti o attendere la fine senza aver subito ogni genere di torture.

- Non capisco perché mi avete arrestato. Io non c’entro. Non conosco      quel tipo che avete fermato.

Manrique ride.

- Siete arrivati insieme, siete rimasti in contatto, vi siete incontrati ieri notte nel cimitero della chiesa di San Marco, dopo che sei passato alla locanda della Capra, a chiamarlo.

Georges chiude gli occhi. Non aveva molte speranze. Ora non gliene è rimasta nessuna. Sanno che lui e Joscelin sono insieme. Di sicuro proveranno quel vino su qualche animale e vedranno che morirà. Non c’è via d’uscita.

Manrique ha ragione. Il supplizio che lo attende sarà atroce e non è il caso di aggiungere altra sofferenza.

Rivela che a inviarli è stato il barone Olivier e cerca di scaricare ogni responsabilità su Joscelin, dicendo che il suo ruolo era solo quello di dare una mano al compagno. Sa che questo non gli salverà la vita, ma spera in un supplizio meno atroce di quello che di certo attende Joscelin.

- Sei stato saggio. Per il momento è tutto.

Georges viene ricondotto in cella, dove può infine dormire.

Joscelin si rivela un osso più duro. Si rifiuta di rivelare chi lo ha mandato, nega di aver voluto avvelenare Jacques, dichiara di non conoscere Georges.

Il primo giorno viene torturato. Si dibatte e grida, ma non cede.

La sera, stravolto dalla mancanza di sonno, dalla sete e dal dolore, viene messo a confronto con Georges, che conferma la sua deposizione. Joscelin ascolta, allibito: non si aspettava che il compagno cedesse subito.

Gli grida:

- Bastardo! Traditore!

Georges alza le spalle.

- A che serve negare? Sanno tutto, ormai.

Joscelin è furibondo. Grida:

- Tutto? Sanno anche che hai ammazzato tu il barone Charles? Gli hai raccontato anche questo? Credo proprio di no.

Georges si morde il labbro. Joscelin si rivolge a Manrique:

- L’ha attirato lui in una trappola e lo ha ucciso con le sue mani.

Manrique non è stupito. Si limita a chiedere a Georges:

- Credo che quest’uomo dica la verità sulla morte del barone Charles. Chi ti aveva dato l’ordine di ucciderlo?

Georges alza le spalle e risponde:

- Il barone Olivier.

Ormai non ha più nessuna speranza. Meglio dire la verità ed evitare la tortura.

Joscelin urla di nuovo, ma nessuno gli bada.

Joscelin viene torturato per tre giorni. Cerca di resistere, anche se sa che la testimonianza di Georges e il veleno nel vino sono più che sufficienti per condannarlo. La sera del terzo giorno cede. Conferma quanto ha detto Georges.

 

L’esecuzione avviene in piazza. La gravità dei crimini commessi è tale da richiedere una pena esemplare: i due condannati saranno squartati davanti alla folla.

Il mattino presto Joscelin e Georges vengono fatti uscire dalle celle e costretti a salire su un carretto, che li conduce fino al luogo del supplizio, la piazza della cattedrale. Sono entrambi a torso nudo e hanno le mani saldamente legate dietro la schiena. Molti vogliono assistere e fin dal mattino presto la piazza brulica di gente. La curiosità è grande, anche perché è la prima volta che a Rougegarde vengono squartati due uomini: in città ci sono state alcune esecuzioni capitali, avvenute di solito per impiccagione, ma non è mai stata eseguita una pena così sanguinosa e infamante. Chi non è riuscito a entrare in piazza si accalca lungo la strada per vedere almeno i due condannati. La folla grida insulti e deride i due uomini, ricorda loro che saranno castrati e poi squartati.

Sulla piazza è stata innalzata una piattaforma di legno, su cui il carnefice e i suoi assistenti attendono i due assassini. Due pali infissi nella piattaforma sostengono una trave orizzontale, da cui pende una corda, come per le impiccagioni. Accanto ci sono un tavolaccio di legno un braciere con una fiamma accesa.

L’arrivo del carretto è accolto da un boato della folla. Joscelin e Georges vengono costretti a salire i gradini. Giunti in cima vengono spogliati completamente. Quando sono entrambi nudi, gli uomini lanciano grida di scherno e fanno battute oscene:

- Ce l’hai grosso, bastardo, ma tra poco non ce l’avrai più.

- I coglioni faranno un bell’arrosto.

Gli aiutanti del boia passano una corda sotto le ascelle di Georges, la fanno passare sopra la trave orizzontale e sollevano il condannato a tre palmi da terra, perché la folla possa assistere meglio a ciò che seguirà. Uno degli assistenti gli passa ai piedi una corda, in modo che non possa scalciare.

Il carnefice lega un’altra corda ben stretta alla base del cazzo e dei coglioni di Georges e la tira in avanti. Sorride mentre avvicina la lama del coltello ai genitali. Georges rabbrividisce e grida:

- No! No! No!

Il terzo no diventa un urlo di dolore quando il boia recide con un colpo netto. Il boia ride e getta il cazzo e i coglioni sul braciere, da cui si leva un fumo scuro, mentre il lezzo di carne bruciata si sparge nell’aria.

Poi il carnefice incide un taglio nel ventre, aprendolo da subito sotto lo sterno fino alla ferita della castrazione. Dal taglio incomincia a estrarre le viscere, gettandole nel fuoco. Georges è ancora vivo quando il boia fa un cenno ai suoi assistenti, che lo calano e lo depongono su un tavolaccio di legno.

Il corpo di Georges è agitato da un tremito convulso. Il boia alza la scure e la cala sul collo, recidendo la testa. La morte non conclude l’esecuzione: l’ascia stacca prima un braccio, poi l’altro e infine le gambe. I sei pezzi non vengono gettati nel fuoco: verranno esposti in diverse parti della città, come monito per chiunque attenti alla vita di un signore del regno.

Joscelin ha assistito all’esecuzione di Georges. Per quanto sia un uomo coraggioso, un tremito percorre tutto il suo corpo. Quando lo sollevano, perde il controllo degli sfinteri. Il piscio scende abbondante, un po’ di merda cola tra i fianchi. Gli uomini accalcati intorno al palco sghignazzano.

Il boia procede allo stesso modo. Joscelin, provato dalla tortura, perde i sensi mentre il carnefice lo sta eviscerando. Quando viene disteso sul tavolaccio per essere decapitato, è già morto.

 

 

Olivier ha saputo dell’arresto dell’esecuzione di Joscelin e Georges. Non sa se abbiano confessato o meno, ma se hanno ceduto alla tortura, di certo lo hanno denunciato come mandante e allora non c’è speranza: anche lui verrà condannato a morte.

In questo momento il re ha ben altre gatte da pelare, perché il Saladino avanza nel regno, mettendo a ferro e a fuoco il territorio.

Nell’anno 1187 dall’incarnazione del Signore, il re di Siria raccolse un esercito, il cui numero era come la sabbia del mare, per sottomettere la terra di Giuda. Allora, passando il fiume, venne fino al Jaulan, dove fissò il campo. Anche il re di Gerusalemme riunì la sua gente dall’intera Giudea e dalla Samaria… Templari e ospedalieri, richiamati grossi contingenti dalle guarnigioni dei loro castelli, si congiunsero all’armata del re.

Ma non appena la spedizione si sarà conclusa, Olivier rischia di essere arrestato e di fare la fine orribile dei suoi uomini.

Gli rimane una sola possibilità: consegnare San Giacomo al Saladino, chiedendogli in cambio di mantenere il governo della città. È vero che i musulmani e gli ebrei sono stati scacciati, ma questo è avvenuto quando a comandare era Renaud. Olivier dovrà dichiararsi disposto ad accogliere coloro che vorranno tornare. I cristiani pagheranno la tassa riservata a coloro che non sono maomettani e Olivier avrà un potere limitato, ma comunque non sarà completamente escluso dal governo della città.

Se Guido da Lusignano verrà sconfitto, Olivier avrà fatto un ottimo affare. Se invece le forze del regno avranno la meglio, forse San Giacomo d’Afrin potrebbe essere difesa contro l’esercito cristiano, grazie alla sua vicinanza ai territori arabi.

Olivier convoca Philippe.

- Nipote, devo assentarmi per alcuni giorni.

- Bene. Mi affiderete il governo della città in vostra assenza, suppongo. Sarà per me un’occasione di esercitare il dominio che mi spetta.

Olivier sorride. Philippe lo crede davvero così ingenuo?

- No, non sarà così. Preferisco lasciare l’incarico ad altri.

Philippe non nasconde la sua irritazione:

- Io sono il signore di San Giacomo.

Olivier annuisce.

- Tu sei il signore della città ed eserciterai la tua signoria da una cella del palazzo.

- Cosa? Non avete nessun diritto…

Olivier fa un cenno alle guardie, che già sanno che cosa devono fare. Philippe viene bloccato e chiuso nel carcere.

Se otterrà dal Leone il governo della città, al suo ritorno Olivier farà strangolare il nipote. Se invece tornerà a mani vuote, Philippe rimarrà prigioniero, ma potrà essere usato come moneta di scambio se il duca di Rougegarde decidesse di intervenire. Denis non è partito con l’esercito regio, perché il re lo ha incaricato di difendere il confine orientale dalle truppe del Leone.

 

Olivier parte con un piccolo gruppo di uomini della cui fedeltà è sicuro: se si venisse a sapere della sua manovra prima che il tutto sia concluso e San Giacomo sia nelle mani del Saladino, finirebbe squartato in piazza come Tancrède d’Espinel.

Si dirige a Qasr al-Aswad, la roccaforte in cui si è rifugiato Walid al-Atrash: gli risulta che il Leone stia ancora assediando lo sceicco di Madinat Altal, che ha osato ribellarsi al Saladino.

Quando Olivier raggiunge infine l’accampamento del Leone, l’assedio si è già concluso. Il castello è stato espugnato e il ribelle Walid agonizza su un palo.

Olivier si presenta alle sentinelle e chiede di parlare con Ubayd al-Asad, il Leone. Il suo arrivo suscita stupore: perché un signore cristiano viene a parlare con un condottiero nemico?

Olivier e i suoi uomini sono costretti a deporre le armi. I soldati rimangono sotto sorveglianza, Olivier è accompagnato fino alla tenda del Leone e deve aspettare fuori.

Non è un’attesa piacevole: Olivier è assalito da dubbi. Sa bene che tra i saraceni non gode di buona fama e il Leone potrebbe decidere di farlo giustiziare. Olivier guarda lo sceicco impalato sulla collina. È piuttosto distante, ma il barone può vedere che è ancora vivo. Sa che un uomo impalato può sopravvivere anche diversi giorni. Il pensiero lo fa rabbrividire.

Il Leone potrebbe imprigionarlo. O anche solo rifiutare la sua proposta. E allora? C’è il rischio che Denis di Rougegarde attacchi San Giacomo per liberare Philippe. Olivier potrebbe minacciare di uccidere il nipote se il duca decidesse di assediare la città, ma la sua situazione non sarebbe facile. Se il Saladino fosse costretto a ritirarsi, Olivier non potrebbe difendere a lungo San Giacomo e il suo destino sarebbe segnato.

Passano almeno tre ore prima che Ubayd al-Asad riceva il barone cristiano. Tre ore sotto il sole cocente dell’estate. Tre ore in cui c’è un continuo viavai di uomini che entrano nella tenda e ne escono, gettando appena un’occhiata al barone di Afrin che attende. Tre ore di dubbi e ripensamenti, ma ormai allontanarsi non è più possibile. Olivier può solo andare avanti nella strada che ha scelto.

Quando infine gli permettono di entrare nella tenda, Olivier osserva questo condottiero, tanto valoroso quanto giovane: deve avere circa venticinque anni. Eppure è considerato il più forte tra i guerrieri saraceni, secondo solo a un comandante esperto come Barbath, che i cristiani chiamano il Flagello.

- Hai chiesto di parlarmi, cristiano.

- Sì. Sono il signore di San Giacomo d’Afrin, che tu di certo conosci di fama.

- Conosco Afrin.

Ubayd ha usato il nome arabo, ovviamente. Non può certo aver visitato la città, che è stata conquistata quando quest’uomo doveva essere appena bambino.

- Io sono il signore della città, ma mio nipote me la vuole togliere. Potrei sopprimerlo, ma avrei contro il mio re e il duca di Rougegarde, il famoso Cane dagli occhi azzurri.

“Cane dagli occhi azzurri” è l’appellativo di Denis tra i saraceni. Non c’è guerriero più temuto di lui. Olivier è convinto che sia anche il più odiato, ma non è così: tutti lo considerano giusto e generoso.

- Conosco Denis di al-Hamra.

Di nuovo il Leone usa il nome arabo, è naturale, come è naturale che conosca di fama il duca. Non di persona: Olivier esclude che i due abbiamo mai combattuto.

- Condottiero, conosco la tua potenza. Vengo a offrirti la città di Afrin.

Ubayd aggrotta la fronte.

- Mi offri la resa di Afrin?

- Sì, ti aprirò le porte della città.

- E perché faresti questo? Che cosa chiedi in cambio?

- Chiedo che mi venga affidato il comando della città, ai tuoi ordini e a quelli del grande Salah ad-Din.

Il Leone scuote la testa. Olivier non si stupisce che l’uomo si mostri poco disponibile ad accogliere la sua richiesta. E infatti Ubayd dice:

- Perché dovrei accettare la tua proposta? Afrin cadrà nelle mie mani, anche se tu  combatterai contro di me.

- Lo so. Se così non fosse, non sarei qui a inchinarmi davanti a te. Come vedi, non mento.

Olivier fa una breve pausa, poi riprende:

- Consegnandoti la città ti evito di perdere uomini e tempo prezioso. Sai che se Afrin verrà assediata, il signore di Rougegarde verrà a difenderla.

Il Leone sembra soppesare le parole di Olivier, che prosegue:

- Non sottovalutare il duca. Ha sconfitto più volte nemici ben più forti di lui. È un guerriero valoroso, che ha un ascendente fortissimo sui suoi uomini e sa come condurre una battaglia.

- Questo lo so. Il Cane dagli occhi azzurri è ben noto.

Ubayd riflette sulla proposta. Ha concluso la sua campagna, lo sceicco ribelle è stato impalato: potrebbe attaccare direttamente Afrin, ma deve aspettare gli ordini del suo signore. Intraprendere una campagna senza l’autorizzazione di Salah ad-Din potrebbe essere considerato un atto di insubordinazione. Se invece la città gli venisse consegnata, il problema non si porrebbe: nessuno potrebbe rimproverargli di aver accettato il dono. Il barone però vuole continuare a governare Afrin. Questo Ubayd non può certo prometterglielo, dovrà sentire Salah ad-Din. Il signore della Siria e dell’Egitto gli ha promesso di dargli al-Hamra, se sarà conquistata. In tal caso Afrin potrebbe essere governata da questo traditore. Ubayd ha altri progetti sulla città, ma non può rifiutare il dono che gli fa il barone: dovrebbe renderne conto a Salah ad-Din. Sarà il signore della Siria e dell’Egitto a decidere.

- Accetto il dono e prenderò possesso della città, ma non posso garantirti che rimarrai a governarla, perché questo lo può decidere solo Salah ad-Din. Gli dirò della tua richiesta e che mi hai consegnato la città. Lui stabilirà il da farsi.

Olivier non è per niente soddisfatto della risposta, ma sa di avere poca scelta. Non è detto che il Leone accetti un rifiuto. Potrebbe decidere di tenerlo prigioniero. Potrebbe perfino farlo giustiziare.

Non gli rimane che fare buon viso a cattivo gioco:

- Farò quanto ho promesso. Conto sulla tua lealtà. Sono sicuro che Salah ad-Din non dirà di no al più valente dei suoi guerrieri.

- Salah ad-Din deciderà. Egli è il signore di queste terre, che Iddio lo preservi. In ogni caso se vorrai continuare a governare, dovrai convertirti.

Olivier sospettava che gli sarebbe stato richiesto anche questo. Si limita a rispondere:

- Se il potente Salah ad-Din mi concederà quanto chiede, lo farò.

Discutono un momento sul da farsi. I cittadini di Afrin non accetteranno facilmente il passaggio sotto il dominio di Salah ad-Din: ormai la popolazione è in larga maggioranza cristiana e i pochi musulmani ed ebrei ancora presenti in città sono schiavi. Occorre perciò che il Leone mandi alcune truppe o venga di persona.

Ubayd sceglie di inviare alcuni soldati e di intervenire personalmente solo dopo che Salah ad-Din lo avrà autorizzato. Gli invia subito un messaggero per informarlo e ricevere i suoi ordini.

Gli uomini di Olivier, sostenuti da alcune truppe del Leone, si recheranno ad Afrin e un inviato di Ubayd prenderà possesso della città. Una quarantina di cavalieri e altrettanti fanti saranno sufficienti per prendere il controllo di Afrin e soffocare sul nascere ogni resistenza. Gli uomini del Leone saranno guidati da Aban, un guerriero esperto.

 

Olivier e Aban si dirigono verso Afrin. Il primo giorno, quando il sole sta per tramontare, Olivier ferma la sua cavalcatura e dice:

- Possiamo fermarci qui. È un buon posto.

Aban scuote la testa.

- Possiamo proseguire ancora. Inutile perdere tempo.

E senza aspettare la replica di Olivier, sprona il cavallo.

A Olivier non rimane che seguirlo: è chiaro che a comandare è l’ufficiale arabo. Vanno avanti fino a notte. Gli uomini del barone mugugnano, ma sono solo una dozzina: che cosa potrebbero fare contro ottanta guerrieri?

 

Il terzo giorno, in tarda mattinata, avvistano San Giacomo d’Afrin. Ma quando scendono dalla collina si accorgono che di fronte alle mura c’è l’accampamento di un esercito che innalza la croce come vessillo. Olivier impallidisce. Che cosa è successo?

Una prima risposta viene dai colori di altri vessilli: bianco, blu e nero. Il bianco e il blu sono i colori dei d’Aguilard, il nero lo fece aggiungere Denis in memoria del padre, ucciso dai saraceni dopo una battaglia. Il duca è qui. O lo sono le sue truppe. E sono tanti, molti più dei saraceni.

- Merda!

Aban è furente. Ha sguainato la spada e la punta al petto di Olivier.

- Che cosa significa questo? È una trappola?

- Nessun trappola. Non so che cosa sia successo, non ho certo chiamato io le truppe del duca di Rougegarde: è il mio nemico.

Il barone non ha difficoltà a trovare una spiegazione: Denis deve aver saputo che Olivier ha fatto imprigionare Philippe, di certo ha le sue spie in città. Ha sospettato il tradimento ed è giunto in forze per liberare il giovane e affrontare il traditore.

Olivier e Aban fermano i loro soldati, ma di certo le sentinelle del duca li hanno avvistati. E infatti sentono in lontananza il suono del corno che chiama a raccolta i soldati.

- Dobbiamo ritirarci, Aban.

- Ritirarci? Ubayd al-Asad mi manda qui e io dovrei fuggire come un codardo? Dovrei presentarmi al mio signore e dirgli che non ho avuto il coraggio di affrontare il nemico? Combatteremo.

Olivier sa di non avere nessuna possibilità di scelta: affrontare il duca è un suicidio, ma Aban non gli permette di evitare lo scontro.

I cavalieri e i fanti si dispongono in formazione e scendono verso la città. Anche le truppe avversarie si sistemano. Olivier vede che a guidarle è il duca in persona.

Anche i guerrieri arabi si sono accorti che a capeggiare le truppe è il Cane dagli occhi azzurri. Sotto la guida del Leone sono passati di vittoria in vittoria, ma ora si trovano ad affrontare il più temibile dei signori franchi, colui che mise in fuga Salah ad-Din stesso, sconfiggendo un esercito dieci volte più numeroso del suo. E a guidarli non è neppure il Leone, che non è mai stato sconfitto, ma Aban: un guerriero esperto, ma di certo non in grado di affrontare il Cane, tanto più che i franchi sono di gran lunga più numerosi.

Olivier legge lo sgomento sui volti dei soldati saraceni. È consapevole che la battaglia è perduta. Vorrebbe fuggire, ma sa che Aban lo farebbe uccidere subito.

Le truppe di Denis e i saraceni si fronteggiano. I cavalieri di Aban attaccano e poi si ritirano, sperando che il duca li insegua, in modo da separare la cavalleria cristiana dai fanti: una tattica che hanno usato molte volte e che nonostante questo ha spesso funzionato. Ma mai con il duca e tutti lo sanno.

La cavalleria non cade nella trappola. Avanza lentamente, con i fanti. Non resta che la fuga o lo scontro frontale. Aban non vuole presentarsi dal Leone sconfitto. Non vuole tornare con l’umiliazione di una disfatta.

Non tornerà: è uno dei primi a cadere sotto i colpi del duca, che lo trafigge. La morte gli salva l’onore: è stato ucciso dal più forte dei guerrieri cristiani.

I soldati arabi non rinunciano a battersi quando vedono cadere il loro comandante, ma le sorti della battaglia sono ormai segnate. Olivier di Soissons sa di aver sbagliato tutto e che la sua vita è alla fine. Una rabbia feroce lo invade. Tutto è stato inutile. Ed ecco che tra le truppe che li incalzano vede avanzare il nipote Jacques. Olivier si scaglia contro di lui, che immediatamente si stacca dal fronte e gli viene incontro: l'ostilità che li oppone da tempo trova infine l'occasione per sfogarsi. Entrambi sanno che non ci sarà un prigioniero, ma un morto. Lanciano i cavalli al ga­loppo l'uno contro l'altro. Immediatamente prima che la lancia di Jacques lo tocchi, Olivier si piega sulla destra, attorci­gliandosi la briglia intorno alla mano sinistra e stringendo sal­damente con le ginocchia il cavallo. La lancia del nipote lo sfio­ra, appena sopra la spalla sinistra, mentre la sua, tenuta con mano sicura, evita lo scudo e colpisce l'avversario, troppo teso a uccidere per riuscire a schivarla completamente. Ma l'armatura di Jacques è solida e la lancia, prendendolo di sbieco, riesce solo a disarcionarlo, facendolo crollare a terra, mentre il cavallo prosegue la sua corsa.        

La gioia feroce dilata i polmoni di Olivier in un urlo: ora scannerà Jacques come un porco. Ma in quel momento un improvviso scarto del cavallo rischia di disar­cionarlo, ancora sbilanciato com'è. Prima che possa sollevar­si, il cavallo si abbatte al suolo. Olivier riesce ad alzare la gamba, evitando che venga schiacciata, ma la briglia gli imprigiona la mano e gli spezza il braccio.

Si trova con le gambe sollevate sul corpo del cavallo, il braccio spezzato contorto dietro la schiena. Il dolore non gli toglie la lucidità. Si guarda intor­no e vede i fanti del nipote vicino a lui: sono stati loro ad abbattere il cavallo con un colpo di picca.

Bloccato dalla briglia che lo lega al corpo del cavallo, non può liberarsi e sa che non potrà essere liberato dai suoi uomini, ormai in fuga e preoccupati solo di difendersi dai nemici che li incalzano.

Jacques si è alzato. La spalla destra gli fa male e non riesce a muovere bene il braccio, ma nonostante il dolore ride mentre guarda Olivier: sta per vendicare suo padre. In realtà sta per ucciderlo, ma non può sapere che il suo vero padre è Olivier. Fa un cenno ai suoi uomini.

Olivier sa che i fanti lo uccideranno: non può impedirglielo nella posizione in cui si trova. La sua battaglia e la sua vita finiscono. Cerca, senza riuscirci, di prende­re la spada, ben conscio che sarebbe comunque un gesto inu­tile, nella posizione in cui si trova. Ma non gli riesce neppure quello.

Uno degli uomini si avvicina, rimanendo oltre il cavallo, al si­curo. Punta la picca dalla grande punta tra le gambe di Olivier, dove la caduta ha messo allo scoperto uno dei punti deboli dell'armatura. Prende accuratamente la mira e con un colpo deciso spacca il cuoio di protezione. Olivier sente l'urto e poi il do­lore violento mentre la picca gli trapassa un testicolo e gli si infila nel ventre. Tiene gli occhi fissi sul viso del suo assassino, un grande uomo barbuto che ora sorride, soddisfatto del suo lavoro. Gocce di sudore gli imperlano la fronte.

Sente la voce di Jacques, che dice:

- Bravo, Robert, avrai una ricompensa per questo.

Spera che l'uomo finisca presto, ma il soldato non ha fretta e l’incoraggiamento del giovane barone lo sprona a proseguire. Sposta un po' la picca, estraendola leggermente e immer­gendola nuovamente, in modo da correggere la direzione di pene­trazione. La sposta ancora, perché evidentemente lo diverte scavare con la picca tra i coglioni del duca di Soissons: se ne vanterà questa sera, con i compagni all’osteria. Olivier sente un sudore ghiacciato in­vaderlo e non si accorge di aver perso il controllo degli sfinte­ri. Non emette nessun suono, ma quando, facendo pressione con tut­ta la sua forza, l'uomo gli fa penetrare la picca nel ventre, lancia un urlo, soffocato da un rigurgito di sangue.

Al secondo colpo, che gli spinge l'arma fino al petto, il capo gli cade all'indietro.

Ormai lo scontro si è concluso. Pochi cavalieri e fanti arabi in fuga torneranno dal loro signore a raccontare ciò che è successo: la presenza del Cane dagli occhi azzurri con le sue truppe ha impedito di prendere possesso della città. 

Le truppe vittoriose ritornano all’accampamento, dopo aver raccolto i morti. Solo il cadavere del barone viene abbandonato agli animali selvatici, dopo essere stato spogliato delle armi e delle vesti: è un traditore, non merita sepoltura. Poche ore dopo lo scontro, iene ed avvoltoi si stanno già cibando del suo corpo.

Non è stata una grande battaglia, ma è l’ultima vittoria di truppe cristiane prima della grande sconfitta di Hattin. La leggenda se ne impadronirà e farà di questa scaramuccia un combattimento epico, l’ultimo grande trionfo del duca di Rougegarde.

Dopo la catastrofe molti diranno, esprimendo un pensiero comune, che se Denis fosse stato presente su quei resti di un antico vulcano, chiamati Corni di Hattin, le sorti dello scontro sarebbero state ben diverse.

Ma Guido da Lusignano ha affidato a Denis la difesa del confine orientale, perché teme un attacco da parte del Leone o forse, come insinuano molti, perché la popolarità del duca gli fa ombra e teme che una vittoria contro il Saladino lo renda un rivale temibile. Sono in tanti a considerare Guido un usurpatore e a negargli il diritto di sedere sul trono. E se un re dovesse essere scelto in base alla sua capacità di governare e di combattere, Denis non avrebbe rivali. 

Il Saladino aveva contato proprio sull’assenza del duca: ha dato incarico al valoroso Ubayd di fare pressione sui confini orientali, perché il re ne affidasse la difesa a Denis di Rougegarde. Il Saladino conosce bene il terrore che i suoi uomini provano nei confronti del Cane dagli occhi azzurri e sa che la sua assenza demoralizzerà i cristiani tanto quanto incoraggerà le sue truppe.

 

Mentre Philippe assume infine il governo di San Giacomo d’Afrin e i superstiti dello scontro informano il Leone di ciò che è successo, l’esercito del regno di Gerusalemme va incontro alla catastrofe.

Ferdinando è partito insieme agli altri baroni, perché il re lo ha convocato. È di pessimo umore, per l’assenza di Denis e la lontananza da Adham.

È la prima volta che partecipa a una campagna militare senza che sia presente il duca e gli spiace, perché Denis è un amico su cui può sempre contare e perché ha una fiducia illimitata nelle sue capacità militari e strategiche, mentre ritiene Guido un emerito coglione.

Inoltre gli pesa moltissimo non avere Adham accanto a sé, ma il suo compagno non vuole combattere contro altri musulmani. Non è la prima volta che si separano perché Ferdinando deve partecipare a una spedizione, ma fino a ora al fianco del conte c’era Denis. Non è presente neppure Guillaume, che comanda la guarnigione di castello San Marco, non lontano da San Giacomo d’Afrin: i forti in quell’area, minacciata da Ubayd il Leone, non sono stati sguarniti.

Ferdinando ha pochissimi rapporti con gli altri signori del regno. Tutti gli riconoscono coraggio e capacità guerriere, ma molti, soprattutto tra i nobili di antica origine, disprezzano questo siciliano, che è arrivato oltremare con le pezze al culo e ha conservato modi rozzi. Ferdinando non frequenta la corte di Gerusalemme e non ha legami di sangue con nessuna delle famiglie nobili: il suo peso politico nel regno è quasi nullo. Anche le voci che circolano sui suoi gusti rendono alcuni diffidenti nei suoi confronti: meglio non farsi vedere troppo con lui.

Perciò Ferdinando rimane in disparte e anche quando partecipa alle riunioni in cui si prendono decisioni, non interviene: sa di non avere quelle doti strategiche e diplomatiche che il suo amico Denis possiede in massimo grado.

L’esercito è accompagnato dai vescovi di Lydda e Acri, che portano la reliquia della Vera Croce. Normalmente è il patriarca in persona a portarla, ma molti dicono che Eraclio ha avuto paura e che perciò ha preferito rimanere con la sua amante, quella Paschia de Riveri che chiamano la Patriarchessa. Ferdinando considera la preziosa reliquia pura superstizione e quando tutti si fanno il segno della croce al suo passaggio, li imita per non farsi guardare male e nello stesso tempo bestemmia, ma lo fa sottovoce, per non farsi sentire.

La notte il corpo di Ferdinando arde: è sempre stato un uomo di forti appetiti. Chiama a sé qualche soldato che condivide i suoi gusti, ma è altro quello che desidera: è un corpo scuro, di cui conosce ogni dettaglio, l’odore, il sapore, la forza.

L’armata del Saladino avanza nel regno, spingendosi fino a Nazareth e al Tabor. I contadini cristiani scappano all’arrivo dei maomettani, che appiccano il fuoco ai raccolti e ai villaggi, distruggendo tutto. Infine Tiberiade viene assediata, mentre i franchi raggiungono le sorgenti di Seffori. I due eserciti non sono molto distanti: una giornata di marcia forzata. Presto si troveranno ad affrontarsi.

 

Tra i cavalieri vi è Barisano, la cui famiglia è originaria dell’Italia meridionale. È lui ad avvicinarsi a Ferdinando, perché ha sentito parlare della sua dotazione e dei suoi gusti.

- Buongiorno, conte.

Ferdinando guarda questo sconosciuto: non frequentando la corte, non ha mai avuto occasione di vederlo.

- Buongiorno.

Non dice altro: aspetta che l’uomo si presenti e dica che cosa vuole.

- Mi chiamo Barisano. Sono arrivato oltremare tre anni fa e vivo a Gerusalemme.

Fa una piccola pausa e poi prosegue, sorridendo:

- Ho sentito parlare molto di voi.

Ferdinando incomincia a farsi un’idea delle intenzioni di Barisano. Lo guarda. Non è un bell’uomo, ma è uno di quei maschi forti che gli piacciono. Non sarebbe male combinare qualche cosa con lui.

- Ah, sì? E che cosa avete sentito dire?

- Che siete un guerriero coraggioso e molto forte.

Il conte annuisce, senza commentare. È sicuro che il cavaliere proseguirà. E infatti così avviene:

- Dicono anche che avete altre doti.

- Davvero? Quali doti?

Il sorriso di Ferdinando dice chiaramente che ha capito a che cosa fa riferimento Barisano.

- Pare che siate il miglior stallone di tutto l’Oltremare e che la vostra attrezzatura sia degna di questa fama.

Il conte ride.

- Non bisogna credere a tutto quello che si dice. Bisogna verificare.

- In effetti è quello che mi sono detto anch’io. La gente parla, ma a volte inventa o esagera. È sempre meglio controllare di persona.

C’è un momento di pausa, poi Barisano chiede:

- Non vi spiace se controllo questa sera?

- No, mi sembra giusto che possiate controllare se le dicerie corrispondono a realtà o se invece sono soltanto… dicerie.

La sera Barisano raggiunge la tenda di Ferdinando. Il conte è in piedi e gli dà la schiena. Al suo ingresso si volta verso di lui. La lanterna, posata a terra, lo illumina dal basso, dando alla sua figura massiccia un aspetto quasi inquietante. La luce proietta l’ombra del conte contro il telo della tenda. Barisano si avvicina, senza dire nulla.

Ferdinando sorride, va alla lanterna e abbassa gli schermi, lasciando filtrare solo un po’ di luce: in questo modo da fuori nessun potrà vedere le ombre e capire ciò che sta succedendo all’interno.

Barisano incomincia a spogliare Ferdinando, sfilandogli la camicia. Contempla la larghe spalle del guerriero, il petto villoso, le cicatrici delle ferite riportate in battaglia. Poi la sua mano scivola nella folta pelliccia che ricopre il torace di Ferdinando e stuzzica un po’ i capezzoli. Le mani afferrano i pantaloni e li calano. Ora Barisano può vedere il cazzo di Ferdinando, che già si protende in avanti. Si sente la gola secca. Non riesce a parlare. Non ha mai visto nulla del genere.

Ritrova la voce per dire:

- Avete ragione, non bisogna credere a quello che si dice. La vostra fama è molto al di sotto della realtà.

Ferdinando sorride.

- Dovete ancora verificare il funzionamento.

Barisano si inginocchia e prende in bocca il cazzo del conte. Incomincia a succhiare la cappella. Ferdinando chiude gli occhi. È bravo, Barisano, ci sa fare: è chiaramente esperto. La sensazione della lingua che scorre lungo il cazzo e accarezza la cappella, delle labbra che avvolgono, della bocca umida che accoglie l’arma, tutto trasmette a Ferdinando un brivido di piacere. È davvero bravo Barisano, molto bravo. Ferdinando gli è grato del piacere che gli trasmette e gli accarezza il capo, sorridendo.

Quando il cazzo di Ferdinando è perfettamente teso, Barisano si stacca e lo contempla. La sua mano accarezza ancora i coglioni, poi Barisano si alza e con gesti rapidi si spoglia. Guarda ancora Ferdinando e si stende prono sul giaciglio, allargando le gambe.

- Fate piano, conte. Non ho mai accolto un simile spiedo.

Ferdinando sorride. Guarda il culo che gli si offre. Fianchi larghi, pelosi, sodi. Un bel culo, giovane, ma virile. Ferdinando lo afferra con le mani. Forse l’ultimo culo che avrà nella sua vita: potrebbe morire in battaglia. O essere catturato e ucciso dopo lo scontro: di solito i nobili catturati possono riscattarsi pagando, ma anni fa Barbath ha promesso a Ferdinando di ucciderlo se lo catturerà. E Barbath guida l’esercito: anche se è al servizio dell’emiro di Jabal al-Jadid, il Saladino lo ha scelto come comandante in seconda.

Ferdinando accarezza il culo di Barisano. Se è l’ultimo che gusterà, avrebbe preferito che fosse il culo di Adham, ma va bene così. Ancora una volta il piacere, poi forse la morte. Ferdinando si inginocchia di fianco a Barisano. Lascia cadere un po’ di saliva sull’apertura e la sparge con le dita. L’indice penetra nel culo, senza incontrare nessuna resistenza.

Ferdinando si stende sul giovane e preme la cappella contro il buco del culo. Entra con molta cautela, come è abituato a fare: sa di avere una dotazione eccezionale e non vuole fare male. La carne cede senza fatica. Ferdinando non se ne stupisce: è evidente che Barisano ha un’ampia esperienza. Ferdinando avanza fino in fondo, poi si ritrae e inizia a muoversi avanti e indietro, con un ritmo regolare. Barisano geme, piano, più e più volte. È bello spingere a fondo, penetrando in questo culo caldo, è bello sentire la tensione che cresce. Un momento di piacere puro, una pausa, in cui il mondo tutt’intorno si dissolve, il futuro non esiste e il passato non conta.

A lungo cavalca Ferdinando e Barisano fa fatica a non urlare per il piacere. E infine Barisano viene e subito dopo di lui, Ferdinando, con le ultime spinte vigorose.

Barisano chiude gli occhi. Di rado ha goduto così. Il culo gli fa male, parecchio, ma ne valeva la pena.

Ferdinando scivola di lato, Barisano si volta sulla schiena e lo guarda. Posa la mano sul magnifico cazzo che ha accolto in culo, poi dice:

- Direi che anche per quel che riguarda il funzionamento, la vostra fama è al di sotto della realtà. Spero di avere ancora occasione di provare.

Ferdinando ride. Il presente riacquista contorni definiti. Scuote la testa. Pensa ai combattimenti che li attendono, alla morte che incombe su di loro.

- Dipende, dipende da come va questa fottuta spedizione. Se volete riprovare, non vi consiglio di aspettare: potrebbe non esserci un’altra occasione.

Barisano si accorge che sotto la sua mano il cazzo di Ferdinando sta riacquistando consistenza e volume.

- Non… non ce la faccio, conte. Il mio culo non è abituato a simili mazze. Ma se volete, posso  lavorare di nuovo un po’ con la bocca.

Ferdinando annuisce.

- Sì, va bene, mi sembra un’ottima idea.

Barisano si sposta un po’, in modo da avere il cazzo di Ferdinando davanti alla faccia. Lo guarda. Pensa che quest’uomo è davvero un toro. Guarda il grosso cazzo, che svetta contro la peluria scura che ricopre il ventre. La cappella emerge, grande e violacea. Non è molto pulita, ma a Barisano non dispiace sentirne l’odore forte, di piscio, sudore e sborro. Prende in bocca la cappella e incomincia a pulirla. Ne apprezza i gusti, forti come gli odori.

Poi incomincia a succhiare. Ogni tanto si interrompe e lavora un po’ con la lingua, facendola scorrere lungo il cazzo teso, fino ai coglioni, grossi e pelosi. Ferdinando si tende, il suo respiro diventa affannoso. La sua mano si posa sulla nuca di Barisano e preme con forza. Il giovane sente il grosso cazzo penetrargli a fondo in gola. Gli sembra di soffocare. Ferdinando viene e il suo sborro si riversa nella bocca di Barisano. Non è molto: il conte è venuto da poco. Barisano inghiotte.

- Ci sai fare, Barisano. Credo che più tardi te lo farò assaggiare di nuovo in culo.

Ferdinando è passato al tu, senza pensarci.

A Barisano non spiace l’idea di prendersi un’altra volta in culo questa magnifica mazza, anche se vorrà dire rinnovare il male.

- Di questa notte?

- Meglio approfittare dell’occasione. Se ci ammazzano, non potremo più scopare, no?

Barisano ride.

- Certo. Ma i saraceni di solito cercano di catturare vivi i signori, per ottenere un riscatto.

Ferdinando sorride.

- Conosci di nome Barbath, che guida l’esercito?

- Il Flagello? Certo, chi non lo conosce? Dicono che i saraceni lo chiamano Thlath-kurat, Tre coglioni. Non credo che ne abbia davvero tre.

- E invece ti sbagli. Ne ha proprio tre, belli grossi.

- Lo hai visto?

- L’ho visto e l’ho anche fottuto.

Barisano è alquanto perplesso.

- Ma come è possibile?

- Barbath venne catturato da Denis, il duca di Rougegarde, quando sconfiggemmo il Circasso.

- Sì, ora che lo dici, ricordo che qualcuno mi aveva raccontato questo. Ma riuscì a scappare, no?

- Sì, durante una caccia in cui avrebbe dovuto trovare la morte.

- Anche delle vostre cacce ho sentito parlare. Vi piace uccidere.

- Sì, molto. Uccidere un maschio forte è bello.

Barisano non dice nulla. Quest’uomo forte gli appare inquietante. Dopo un momento di silenzio, riprende:

- Ma perché mi parlate di Barbath?

- Prima della caccia gustai il suo culo. E anche dopo.

- Dopo la caccia?

Ferdinando si rende conto che non avrebbe dovuto parlare. Se Barisano raccontasse in giro, qualcuno potrebbe pensare a una complicità tra Barbath e Ferdinando e l’accusa di tradimento sarebbe inevitabile.

- Anni dopo, quando ci ritrovammo. Ma questo non conta. Quando lo stuprai, prima della caccia, Barbath mi promise che mi avrebbe castrato se mi avesse ucciso in battaglia e se mi avesse catturato vivo, mi avrebbe castrato prima di uccidermi.

- Pensate che il Saladino glielo lascerebbe fare?

- Barbath è il comandante che ha scelto. Di certo non gli negherà questo favore. Che cosa vuoi che gli importi di un signorotto del cazzo?

Ferdinando ride e aggiunge:

- Che potrebbe diventare un signorotto senza cazzo. E senza coglioni.

Barisano rabbrividisce.

Chiacchierano ancora un momento, poi Ferdinando dice:

- Ci divertiamo ancora un momento, prima di metterci a dormire?

Barisano è sazio e il culo gli fa male.

- Non me la sento, adesso.

- Va bene, pazienza, non è un problema.

Barisano si alza. Ferdinando lo imita.

- È ora che io vada

- Sì. Io esco anch’io. Ho bisogno di pisciare.

Barisano sorride e dice, ridendo:

- Perfetto.

Si inginocchia, apre la bocca e accoglie la cappella. Ferdinando lo guarda e ride, poi incomincia a pisciare.

Barisano beve, gustando ogni goccia. Gli piace sentire il piscio scendergli in gola. Quando Ferdinando ha finito, Barisano prende a leccare e succhiare il magnifico cazzo che ha tra le labbra. Vede che diventa duro in fretta. Le sue mani intanto stringono il culo di Ferdinando, gli accarezzano i coglioni, il ventre e il petto.

Ferdinando viene, per la terza volta.

Barisano si stacca.

- Ora davvero è bene che vada.

Si riveste, saluta e se ne va. Ferdinando si stende per dormire.

Barisano rientra nella sua tenda. Pensa che non ha mai conosciuto un maschio così in tutta la sua vita.

 

 

Il giorno dopo arriva la notizia che i saraceni hanno aperto brecce nelle mura di Tiberiade e la contessa Esciva di Bures, moglie di Raimondo III di Tripoli, ha dato ordine alla guarnigione di ritirarsi nella fortezza, perché la città non è più difendibile. La contessa chiede aiuto.

Guido da Lusignano convoca tutti i capi dell’esercito per sentire il loro parere e deliberare sul da farsi. Si accende una violenta discussione. Molti vorrebbero che l’esercito partisse subito, per affrontare il Saladino. Solo alcuni ritengono follia affrontare in campo aperto il Saladino, perché significa giocare il tutto per tutto: se l’esercito venisse sconfitto, non si potrebbe più difendere il regno. Ferdinando è d’accordo con questa posizione, ma non interviene, conscio che le sue parole non avrebbero peso.

Parla invece Raimondo III, a cui appartiene la città.

- Tiberiade mi appartiene e mia moglie si trova lì assediata: nessuno di voi ci ha rimesso quanto me; nessuno di voi, senza detrimento per la Cristianità, avrebbe soccorso e aiutato la città con più zelo di me. Ciononostante, sia lungi dal re e da tutti noi tale decisione, cioè di lasciare l'acqua, le vettovaglie e i mezzi di sussistenza, per condurre una tale moltitudine di persone e di bestie a morire nel deserto di fame, di sete e a causa del clima rovente. L'armata è grande, l'estate ardente e siccitosa: voi stessi sapete che non si può resistere all' arsura nelle ore più calde del giorno, né d'altra parte i nostri nemici sono in grado di raggiungerei senza patire la sete e senza gravi perdite di uomini e di bestie.

A Ferdinando il discorso appare quanto mai sensato, ma si rende conto che intorno a lui alcuni mormorano, senza nascondere il loro malcontento. Uno dice: 
- Costui si cela ancora in una pelle di lupo.

Intanto Raimondo prosegue:

- Restate dunque nel mezzo della vostra terra, vicino alle fonti d'acqua e ai viveri, perché certamente i saraceni, dopo aver conquistato la città di Tiberiade, si saranno
tanto insuperbiti che non vorranno sviarsi a destra né a sinistra, ma si affretteranno lungo la via più diretta, attraverso il vasto deserto, per venirci addosso e sfidarci a
battaglia. Allora il nostro esercito, ben rifocillato di pane e d'acqua, uscirà con gioia dal campo per affrontare il nemico. Montati su cavalli freschi, con l'aiuto e la protezione del Legno del Signore, sbaraglieremo gli infedeli, spossati dall' arsura e privi di rifornimenti. Se saremo assistiti dalla grazia di Gesù, i nemici della Croce non
potranno mettersi in salvo dirigendosi verso il mare o tornando al fiume, ma saranno uccisi a colpi di spada o di lancia, moriranno di sete o verranno catturati.

Il discorso chiaramente non piace: in tanti  sembrano impazienti di affrontare il nemico, certi di una vittoria che non può sfuggire.

Raimondo conclude:

- Di più: se le cose si mettessero male per noi e dovessimo scappare - che Dio ce ne scampi! -, avremmo comunque nei paraggi delle fortezze in cui rifugiarci.

Di nuovo di fianco a Ferdinando due cavalieri mormorano:

- Che vigliacco!

- Vigliacco o traditore? È venuto a patti con il Saladino. Sta dalla parte dei pagani, questo bastardo.

Diversi intervengono, accusando velatamente Raimondo di viltà, se non di tradimento: d’altronde Guido non si fida di lui, che ha osteggiato la sua ascesa al trono.

Gerardo di Ridefort, il Maestro del Tempio, prende la parola e sostiene la necessità di muovere contro il Saladino.

Ferdinando non si contiene e sbotta:

- Non vi è bastata la disfatta di Cresson, Maestro?

Gerardo impallidisce. Tutti sanno che fu lui a volere l’attacco suicida, che provocò una strage di cavalieri templari e ospedalieri e la morte dello stesso Ruggero des Moulins, Maestro dell’Ospedale.

- Iddio è dalla nostra parte.

- Contate che vi aiuti a scappare anche questa volta?

In effetti Gerardo è riuscito a fuggire, evitando di rimanere ucciso a Cresson.

Ferdinando sa di aver commesso un errore. Si è creato un nemico mortale e l’uomo che ha pubblicamente offeso è uno dei più potenti del regno.

Gli risponde Godefroi, il templare che da vent’anni è comandante civile di Santa Maria in Aqsa: è stato lui a far arrestare e processare anni fa due uomini di Ferdinando e conserva la confessione di Antonio, che dichiara di aver avuto rapporti contro natura con il conte.

- Conte, pensate ai vostri peccati, che non sfuggono a Colui che tutto vede.

Gerardo ignora Ferdinando e riprende il suo discorso, appoggiato da numerosi altri. Così Guido, temendo di essere tacciato di viltà, respinge la proposta di Raimondo.

 

Ferdinando torna nella sua tenda. Pensa che potrebbe essere l’ultima notte della sua vita. Non ha nessuna voglia di morire per un Maestro del Tempio fanatico e coglione e un re illegittimo e incapace. E per di più senza avere Adham vicino, senza avere Denis al suo fianco. Merda!

Barisano passa a trovarlo. La discussione si è protratta a lungo ed è ormai molto tardi. Ferdinando è di pessimo umore.

- Barisano?! Che cazzo vuoi?

L’accoglienza è pessima, ma Barisano non ci bada. Sa che la rabbia di Ferdinando non è diretta contro di lui.

- Pensavo che prima di andare a morire, potremmo divertirci ancora una volta.

Ferdinando grugnisce qualche cosa di incomprensibile, mentre annuisce. Si spoglia in fretta e rimane nudo, in piedi davanti al giovane. Barisano pensa nuovamente che non ha mai visto un maschio come questo. Ne ammira la forza erculea, ne coglie la rabbia cieca, che gli trasmette un brivido. Per un attimo pensa di lasciar perdere: la furia di Ferdinando gli fa paura. Ma decide di andare avanti.

Si inginocchia e avvicina la bocca al cazzo del conte. La sua lingua accarezza e stuzzica, ora la cappella, ora l’asta tesa, scende fino ai coglioni, li lecca, poi la bocca li avvolge e li libera, le labbra risalgono lungo l’asta, i denti mordicchiano leggermente, la lingua avviluppa.

- Troia!

L’insulto è come uno schiaffo inatteso. Barisano lascia la presa e solleva il capo, per guardare Ferdinando.

- Datti da fare, anzi, no…

Ora Ferdinando vuole gustare il culo del giovane. Non gli interessa sapere se Barisano è d’accordo o no, non ha importanza: è molto più forte e in un modo o nell’altro intende prenderlo. Il giovane non oppone resistenza quando il conte lo prende per il collo e lo forza a mettersi sul pagliericcio, a pancia in giù. Barisano si mette a quattro zampe e Ferdinando gli appoggia le mani sul culo e gli divarica le natiche. Guarda l’apertura, poi sputa sul buco e spinge avanti il cazzo, fino a che tocca il culo che sta per fottere. Nuovamente grugnisce. Poi, senza interrompere il movimento, spinge, forzando l’apertura, e avanza fino in fondo. Barisano sussulta: l’ingresso è stato troppo deciso e il dolore forte. Ferdinando l’ignora. Questa notte, che forse è l’ultima della sua vita, non gli importa di non fare male. Ha dentro una rabbia sorda, che si esprime in questa presa di possesso violenta, senza pietà. Quando il suo cazzo è tutto dentro il culo che l’ha accolto, Ferdinando si ferma, con un nuovo grugnito di piacere. Poi si ritrae e prende a spingere vigorosamente, avanti e indietro. Di fianco a lui la lanterna proietta le loro ombre sulla parete. Qualcuno da fuori potrebbe vederle, ma a Ferdinando non fotte un cazzo che qualcuno li veda, come non gli fotte un cazzo dei gemiti di Barisano, che gli chiede sottovoce di fare piano.

Ferdinando prosegue nella sua opera, rallentando il ritmo ogni qual volta il piacere rischia di debordare: vuole farlo durare il più possibile. Probabilmente è l’ultima scopata della sua vita. Domani o dopodomani Barbath castrerà il suo cadavere o, peggio, gli taglierà il cazzo e i coglioni mentre è ancora vivo.

Infine la tensione diviene troppo forte e si scioglie in una serie di spinte selvagge, tanto violente che Barisano fa fatica a trattenere un urlo di dolore. Ferdinando continua a spingere e a  grugnire. Poi si stacca ed esclama:

- Merda!

Non sa se Barisano sia venuto o meno. Non gliene fotte un cazzo.

Il giovane si alza. Ha le lacrime agli occhi. Ferdinando sa che dovrebbe scusarsi, stringerlo, farlo venire, ma rimane indifferente. Lo guarda rivestirsi e uscire, senza dire una parola.

Quando Barisano è uscito, dice ancora:

- Merda!

Si stende, ma non dorme. È un leone in gabbia e vorrebbe poter sbranare qualcuno per sfogare la sua rabbia.

Barisano torna alla sua tenda. È confuso e non riesce a capire perché Ferdinando lo ha preso così, come un animale, insultandolo. All’umiliazione si aggiunge il violento dolore al culo.

 

Il mattino seguente l’esercito cristiano lascia le sorgenti di Seffori per raggiungere Tiberiade: è quanto il Saladino si augurava. Tra le sue truppe c’è euforia: tutti sono sicuri della vittoria, perché li guida Salah ad-Din e sanno che il Cane dagli occhi azzurri non è presente.

Gli informatori hanno riferito chi sono i capi delle truppe. Barbath scopre così che si troverà per la prima volta ad affrontare il conte Ferdinando.

Ripensa alla notte prima della caccia all’uomo, organizzata per farlo fuggire, quando Ferdinando lo stuprò e lo fece godere mentre lo prendeva. Barbath era stato stuprato molte volte dal Circasso, ma aveva sempre provato solo rabbia e umiliazione. Essere fottuto da Ferdinando gli era piaciuto e proprio per questo Barbath gli aveva promesso che lo avrebbe ucciso e, se lo avesse catturato, lo avrebbe castrato prima di ammazzarlo. Barbath sa di provare una violenta attrazione nei confronti del conte, un desiderio che è puramente fisico, ma è più forte di tutto quello che ha mai provato nella sua vita. Si sono rivisti, quando hanno conquistato il castello degli Hashishiyya, e hanno avuto un rapporto, ma la promessa rimane valida. Barbath spera di poterla mantenere. È l’unico modo per spegnere il desiderio che preme. O forse per soddisfarlo.

 

L’esercito cristiano marcia, oppresso dal calore soffocante di luglio e dalla sete. Il sole rende incandescenti le armature e per i cavalieri è un tormento continuo. I fanti, che devono camminare rapidamente per stare al passo con la cavalleria, patiscono ugualmente il caldo e hanno la gola riarsa.

Le truppe non riescono a raggiungere Tiberiade, perché i saraceni sbarrano la strada e attaccano. I franchi non possono scendere al lago, distante appena un miglio, né arrivare ai pozzi di Hattin: sono costretti a fermarsi e a montare un accampamento in un luogo dove non c’è acqua.

Nella notte l’esercito cristiano viene bersagliato di frecce e il mattino si trova circondato da forze di gran lunga superiori. Il caos è totale. L’esercito è stremato dalla sete, mentre i fuochi accesi dai saraceni ardono la sterpaglia. Il calore e il fumo rendono la situazione intollerabile. Il malcontento serpeggia tra i soldati, consci di essere in una situazione insostenibile. Molti criticano la decisione suicida di lasciare le sorgenti di Seffori. Ferdinando è furente. Bestemmia e impreca contro quella banda di cazzoni che ha messo l’intero esercito in questa situazione di merda.

L’esercito si dispone in formazione, ma i fanti si staccano e dichiarano di non essere in grado di combattere per la sete. I saraceni hanno buon gioco nel loro attacco e rapidamente il disastro si profila.

Ferdinando è a fianco di Raimondo di Tripoli, che, in quanto signore del territorio, è all’avanguardia. Con lui c’è anche Barisano. Raimondo cerca di rompere l’accerchiamento, attaccando le truppe di Taki ad-Din, il nipote di Saladino che i franchi chiamano Techedino. Il comandante musulmano, conoscendo la grande forza d’urto della cavalleria franca, fa aprire un varco per lasciarli passare. I franchi si infilano nel corridoio creato dai saraceni e si ritrovano al di fuori dell’accerchiamento, ma dietro di loro il passaggio si richiude.

Raimondo si volta e guarda il luogo dove la battaglia infuria e i cristiani vengono massacrati. Dice:

- È finita. Non possiamo fare nulla per loro.

A Ferdinando sfugge un:

- Quelle teste di cazzo…

Raimondo annuisce: sa che Ferdinando ha ragione.

- È stata una follia e ora il regno è perduto. Inutile perdere anche le nostre vite. Vedremo se riusciremo a salvare qualche cosa.

Ferdinando vorrebbe salvare almeno i suoi fanti, ma si rende conto che è impossibile. I saraceni stanno massacrando i soldati appiedati e lanciarsi nuovamente contro di loro con i pochi cavalieri al suo servizio significherebbe solo andare incontro a morte certa. Il vescovo di Acri viene ferito a morte e il vescovo di Lydda raccoglie la Vera Croce, mentre i saraceni sterminano i fanti. Infine la Vera Croce cade in mano ai musulmani: per i cristiani che avevano sempre considerato la reliquia un emblema dell’aiuto divino, è un chiaro segno della fine che incombe.

Il gruppetto di sopravvissuti si allontana.

La battaglia si conclude con la sconfitta dei cristiani. Il re e i principali baroni del regno sopravvissuti alla strage vengono catturati. La reliquia della Vera Croce cade nelle mani dei saraceni, che la distruggono.

Quando la battaglia è conclusa, Barbath fa cercare il conte Ferdinando. Sa che non è tra i prigionieri che Salah ad-Din ha portato nella sua tenda. Si chiede se sia morto o se sia stato catturato. Se è stato ucciso, gli spiace davvero non essere stato lui a farlo. Se è ancora vivo, conta di chiedere al sultano di concedergli il prigioniero: sa che Salah ad-Din lo farà. Potrà castrarlo e poi ucciderlo.

Il conte però non è tra i prigionieri. Feisal gli dice che potrebbe essere tra i cavalieri che sono riusciti a rompere l’accerchiamento e ad allontanarsi.

Barbath interroga alcuni degli uomini che hanno assistito alla carica di Raimondo e che confermano:

- Sì, il conte era insieme a Raimondo di Tripoli. Sono fuggiti insieme.

- Merda!

Quando l’uomo si è allontanato, Barbath guarda in lontananza e aggiunge:

- Manterrò la mia promessa, Ferdinando.

 

Subito dopo la battaglia Salah ad-Din offre cinquanta dinar egiziani a chiunque gli consegni un prigioniero  appartenente all’Ordine del Tempio o dell’Ospedale. Vengono così radunati circa duecento cavalieri. Tra loro vi è Godefroi, comandante civile di Santa Maria in Aqsa, catturato dagli uomini di Taki ad-Din.  Chiede a un ospedaliere che è vicino a lui:

- Perché il Saladino paga per averci?

Gli risponde Roger di Villeneuve, comandante del forte San Michele, che è stato catturato alla fine della battaglia, quando ormai, stremato dal caldo, dalla sete e dalla fatica, non era più in grado di difendersi:

- Perché intende farci uccidere tutti e sa bene che nessun comandante sarebbe disposto a rinunciare a un prigioniero per cui può chiedere un riscatto o che può vendere come schiavo.

Godefroi china il capo. Il martirio non lo spaventa, ma avrebbe preferito morire in battaglia.

Quando si sparge la voce che i templari e gli ospedalieri saranno tutti uccisi, molti devoti, asceti, dottori e sufi chiedono di poter partecipare al massacro. Salah ad-Din lo concede loro. 

I cavalieri vengono costretti a inginocchiarsi e uno dopo l’altro vengono decapitati. Alcuni, come Roger de Villeneuve, sono più fortunati: il loro carnefice maneggia bene la spada e recide il capo con un taglio netto. Godefroi invece viene colpito quattro volte da un giovane sufi, poco esperto nell’uso delle armi: i tagli alla spalla e al collo gli provocano sofferenza, senza dargli la morte. La sua agonia ha fine solo quando un asceta spinge via il carnefice inetto e con un colpo vibrato con decisione tronca la testa.

Il re e i nobili vengono inviati a Damasco potranno riscattarsi: solo Reginaldo di Châtillon viene ucciso dal Saladino in persona, per aver osato portare la guerra nei Luoghi Santi dell’Islam. Al sovrano serve una vittima illustre, per affermare il suo ruolo di vero difensore della fede.

I fanti catturati vengono avviati ai mercati degli schiavi: per loro non c’è riscatto, ma una vita di schiavitù. Molti troveranno la morte nelle miniere, altri diventeranno eunuchi, qualcuno sarà riscattato o liberato negli anni seguenti.

Il terreno rimane coperto da cadaveri, abbandonati agli animali selvatici. Un anno dopo ‘Izz ad-Din ibn al-Athir, storico arabo, vedrà la terra completamente ricoperta di ossa, visibili anche da grande distanza, raccolte in cumuli o sparpagliate qua e là. E questo oltre a tutte quelle che erano state portate via dai torrenti e dalle fiere per quei colli e valli.

 

Barisano e alcuni altri cavalieri raggiungono il campo di Seffori e di lì si dirigono a Gerusalemme, a portare la notizia della sconfitta e a preparare una difesa che sanno essere inutile.

Dal campo Ferdinando si dirige verso l’Arram. Intende tornare in quella che è la sua casa. Sa che lo sarà ancora per poco. L’esercito è stato sterminato e le sorti del regno sono segnate. Neppure la presenza di Denis potrà rovesciare la situazione e salvare i territori orientali, troppo esposti. Ma ha bisogno di ritrovare Adham, di confrontarsi con Denis.

 

I messaggeri portano la notizia a Rougegarde, mentre il Saladino trasmette al Leone l’ordine di avanzare: intende spegnere ogni possibile resistenza.

Denis sa bene che cosa significa la sconfitta: il Regno è perduto. Forse le città sulla costa potranno salvarsi, ma Gerusalemme cadrà. E per Rougegarde e San Giacomo d’Afrin non esiste nessuna possibilità di salvezza. Anche se Denis riuscisse a sconfiggere il Leone, il re è prigioniero e con lui i grandi signori del regno. L’esercito è stato annientato.

Denis manda subito un messaggero per avvisare Philippe di San Giacomo: gli consiglia di evacuare la popolazione della città prima dell’arrivo delle truppe nemiche. Cercare lo scontro non ha senso: la prigionia del re e dei grandi signori del regno rende inutile ogni resistenza. Rougegarde e altre città del regno possono ospitare i fuggiaschi mentre si condurranno le trattative per ottenere la liberazione del re.

Philippe sa che il duca ha ragione, ma non vuole rassegnarsi all’idea di cedere la città che governa da così poco tempo.

Intanto il Leone avanza, dirigendosi verso Afrin. Lungo la strada, a poche miglia dalla città, c’è il castello di san Giorgio. A capo della guarnigione c’è in questo periodo Jorge da Toledo: dopo il fallimento del tentativo di uccidere Barbath, i suoi superiori hanno deciso di non affidargli altre missioni per un certo periodo di tempo.

 

*

 

Sporgendosi tra i merli, Jorge guarda l’esercito nemico che risale lungo la riva del fiume. Dove è diretto il feroce Ubayd, detto il Leone, implacabile nemico dei cristiani in Terrasanta? Verso il castello o verso la città? Se attaccheranno il castello, per tutti loro sarà la fine. Non possono sperare soccorso dalla città: gli uomini validi a San Giacomo di Afrin sono troppo pochi per affrontare il nemico in campo aperto e non ci sarà nessuna spedizione dalla città per accorrere in loro aiuto.

Gilles di Montségur ha proposto di andarsene e raggiungere la guarnigione di San Giacomo, ma Jorge si è opposto: il compito assegnato loro è quello di difendere il castello e lui non intende cedere. La proposta di Gilles era sensata, Jorge lo sa benissimo, ma nei confronti di questo provenzale, bello e colto, Jorge prova un’istintiva antipatia. In ogni caso il comando spetta a lui, che fa parte dell’Ordine, non a Gilles, che gli è pari di grado, ma non ha pronunciato i voti.

Anche se i saraceni attaccheranno prima la città, la loro sorte è segnata: per quei miscredenti, dopo aver conquistato San Giacomo, impadronirsi del castello sarà un gioco. Il sogno dei Crociati sta svanendo. Gerusalemme, senza uomini per difenderla a lungo, cadrà presto nelle mani dei nemici, le altre roccaforti seguiranno lo stesso destino.  

- Vanno verso San Giacomo!

La voce di Rodrigo lo scuote. Jorge lo guarda. Rodrigo, vent’anni e un viso d’angelo. Rodrigo, una tentazione continua, che gli accende la carne. Ci sono momenti in cui il desiderio di possederlo è tanto forte che Jorge fa fatica a controllarsi. Lo avrebbe già preso, da tempo, ma nel castello non è possibile: tutti gli spazi sono comuni. Sa che presto saranno tutti morti, ma prima di morire, vuole gustare quel culo. Ha pensato a lungo come fare e infine ha individuato quella che gli sembra l’unica via possibile.

- Dopo San Giacomo di Afrin toccherà a noi.

Bertrand dice ciò che tutti loro sanno, ma Jorge non è contento di sentirlo. Non è il caso di scoraggiare ulteriormente gli uomini, che sono già fin troppo consci della loro situazione critica. Jorge interviene, con durezza:

- Taci, Bertrand! Affidiamoci a Dio.

Poi aggiunge:

- Andremo in perlustrazione, per controllare i loro movimenti. Saliremo sulla collina di  e di là cercheremo di farci un quadro della situazione domani mattina, per poi rientrare dopo il tramonto.

Jorge prosegue:

- Andrò io. Per non dare nell’occhio, saremo solo in due. Rodrigo, verrai tu con me.

È inusuale che ad andare in esplorazione sia il comandante, che non mandi invece due dei suoi uomini: per un intero giorno il castello sarà sotto il comando di un altro, proprio in un momento in cui il pericolo è massimo. Il comandante non dovrebbe esporre la sua vita così. Ma nessuno dice nulla: i monaci-soldati sono abituati all'obbedienza assoluta, militare e religiosa. 

Jorge si accorge che Gilles di Monségur lo sta fissando. Ricambia lo sguardo, sfidandolo. Forse il cavaliere provenzale ha intuito, ma non spetta a lui intervenire. Gilles distoglie lo sguardo e si rimette a osservare i saraceni che avanzano lentamente verso la città. Non hanno fretta, loro. Sanno che San Giacomo dovrà arrendersi, come si stanno arrendendo altri castelli e città, ora che il Saladino ha trionfato e tiene prigioniero il re di Gerusalemme. L'onda di piena avanza e travolge ogni resistenza. Jorge sente la rabbia salire. Il sentirsi impotente di fronte ai nemici lo umilia. Vorrebbe provocare Gilles, quest'uomo che gli sembra mettere in discussione la sua autorità, che ha troppo ascendente sugli altri. Quest'uomo troppo coraggioso, troppo generoso, troppo bello, che anche Rodrigo guarda con desiderio.

Jorge scende dalle mura. Fa un giro d'ispezione. Controlla che tutto sia a posto, che ognuno stia svolgendo il suo compito. Jorge non ammette errori: è in gioco la loro vita, è in gioco il dominio cristiano in questa terra. Eppure Jorge sa bene che nulla potrà evitare o anche solo ritardare la catastrofe finale.

Le ore passano lentamente, nella calura soffocante di questa estate incandescente. Solo la sera porterà un po' di frescura.

Jorge fa chiamare Rodrigo.

- Usciremo due ore prima dell'alba, in modo da poter raggiungere il versante della collina senza che quei bastardi ci avvistino. Abbiamo bisogno di acqua e di un po' di cibo per domani. Poca roba: dobbiamo poterci muovere liberamente, senza essere appesantiti. Occupati di far preparare il tutto.

Mentre parla, Jorge osserva il viso di Rodrigo, i capelli neri che lo incorniciano, gli occhi scuri, la bocca. Domani. Domani, che Rodrigo lo voglia o no. Il desiderio si accende, violento. Jorge fissa di nuovo Rodrigo. Sorride. Un sorriso da lupo.

Rodrigo annuisce e va a occuparsi di tutto. Da tempo ha colto nello sguardo del comandante il desiderio. Non ha mai avuto rapporti, ma i corpi forti dei suoi compagni lo attraggono. Gli piace moltissimo Gilles, il più bell’uomo che Rodrigo abbia mai visto. Quando è vicino a lui, avverte il desiderio, forte. Il comandante invece non è un bell’uomo, ma la sua forza, la sua brutalità, la sua autorità lo soggiogano. Domani forse… Rodrigo ha paura. Vorrebbe sottrarsi, anche se forse una parte di lui lo desidera.

 

Jorge si mette a dormire nello stanzone che serve alla guarnigione: il castello San Giorgio è piccolo, non c'è una camera per il comandante. Solo un tramezzo di legno separa l'angolo in cui dorme Jorge dal resto del locale. Jorge non ha dato l'ordine di svegliarlo: sa bene che si desterà prima dell'ora fissata. Il pensiero che domani fotterà Rodrigo infiamma il suo corpo. Il grosso cazzo si tende. Jorge si accarezza, ma smette prima di venire. Domani, domani avrà quello che desidera.

Jorge si alza molto prima del tempo. Ha riposato poco, tormentato dall'immagine di Rodrigo. Si prepara e poi va a destare Rodrigo. Alla luce della lanterna lo guarda dormire. Davvero un viso d'angelo. Sente su di sé uno sguardo e gira il capo: è Gilles, che lo fissa. Jorge lo ignora. Chiama Rodrigo.

- È ora di andare.

Gilles rimarrà al comando fino al suo ritorno: ha il grado più alto, anche se non è membro dell'Ordine. 

Rodrigo si veste rapidamente. Non indossano l'armatura: si muoveranno più liberamente senza essere appesantiti da elmi e corazze. Se dovessero imbattersi in un gruppo di saraceni, non sarebbe certo l’armatura a salvarli. Portano con sé solo la spada e un coltello.

Escono dal castello e si dirigono rapidamente verso la collina. La luna è tramontata, ma ci sono molte stelle e la loro luce è sufficiente per muoversi con sicurezza lungo sentieri che entrambi conoscono bene. Non dicono nulla e si sforzano di muoversi il più silenziosamente possibile: sanno bene che potrebbero esserci spie nemiche nell'area.

Il cielo è ancora completamente buio quando raggiungono la loro meta: una posizione elevata quasi in cima a un pendio boscoso, che offre numerosi nascondigli, tra gli alberi e le rocce. Ci sono diversi punti di osservazione da cui si possono vedere bene la città e la pianura circostante. Si fermano tra i pini, dove la macchia è più fitta, e attendono, in silenzio. Intorno a loro non si sente nessun rumore.

Rimangono immobili, mentre a oriente il nero del cielo incomincia lentamente a impallidire e le stelle svaniscono.

Man mano che la luce permette di intravedere i contorni delle cose, Jorge si guarda intorno con attenzione: vuole essere sicuro che non ci siano nemici appostati. Pare non esserci nessuno.

A est l'orizzonte diviene sempre più chiaro. L'alba è vicina. Con cautela Jorge si muove e perlustra l'area. Tutto appare tranquillo. Allora raggiungono un punto da cui possono osservare la città e il territorio circostante. Ci sono diversi cespugli e arbusti che li nascondono alla vista e un grande pino proietta su di loro la sua ombra.

L'accampamento dei saraceni è vicino al fiume: non tutte le tende sono state montate, ma la città è già completamente circondata dalle postazioni nemiche. I saraceni hanno incominciato l’assedio di San Giacomo. Forse aspetteranno che la città stremata si arrenda per fame, forse attaccheranno, approfittando della loro schiacciante superiorità numerica. In ogni caso non c’è speranza: San Giacomo di Afrin è perduta.

Il campo si sta ridestando e, dopo la preghiera del mattino, i soldati si mettono al lavoro per preparare le postazioni per l'assedio e montare le ultime tende. Non ci sono movimenti di truppe in direzione del castello: i saraceni sanno benissimo che i difensori sono pochi e non paiono intenzionati a dividere le loro forze per mettere sotto assedio anche la fortezza. Evidentemente la guarnigione della fortezza non desta nessuna preoccupazione. Jorge conta di tenere sotto controllo la situazione per tutta la giornata, per cercare di capire meglio le intenzioni dei nemici. In ogni caso non sarebbe prudente cercare di rientrare di giorno.

Jorge si volta verso Rodrigo.

- Mettiamoci al riparo, ora. Torneremo qui più tardi, per vedere se ci sono novità.

Scendono dalle rocce e ritornano verso la macchia dove si sono fermati al loro arrivo.

Jorge rallenta il passo e lascia che Rodrigo lo superi. Ne osserva il corpo snello e il desiderio si accende. Tra poco, tra poco lo prenderà. Rodrigo si ferma e attende che Jorge lo raggiunga. Si infilano tra i cespugli, alla ricerca di un posto adatto per rimanere nascosti: il rischio che alcuni saraceni salgano sulla collina per controllare la situazione è molto forte e se fossero scoperti, per loro sarebbe la fine.

Raggiungono infine un piccolo spiazzo dove sono del tutto invisibili dall’esterno e qui si fermano. All’ombra dei pini si sta bene, benché la giornata sia serena e non ci sia un alito di vento: è ancora molto presto e solo tra qualche ora il calore diventerà soffocante, anche sotto gli alberi.

Jorge si sfila la tunica e rimane a torso nudo.

- Godiamoci un po’ il fresco.

Rodrigo esita un momento, poi si sfila anche lui la tunica e, imitando Jorge, la appende a un ramo. Jorge è dietro di lui e le sue braccia stringono Rodrigo, che si irrigidisce, ma rimane fermo, incapace di reagire. Ciò che teme sta per succedere. Rodrigo vorrebbe sottrarsi, ma gli sembra di non avere forze, gli pare che le gambe lo reggano a malapena.

Jorge pensa che dovrebbe blandire Rodrigo, tranquillizzarlo, sedurlo, ma non sa maneggiare le parole come le armi. E il desiderio preme, impetuoso. Le mani di Jorge sciolgono la cintura di Rodrigo e con un gesto brusco fanno scivolare i pantaloni a terra, poi stringono le natiche, afferrando la carne.

Ha un bel culo, Rodrigo, fianchi stretti, da ragazzo. Il giovane non oppone resistenza, ma Jorge lo sente tendersi. Non ha importanza.

Jorge lo forza a stendersi a pancia in giù sull’erba. In Rodrigo la paura diventa più forte di tutto. Cerca di rialzarsi, ma Jorge lo costringe a rimanere disteso, premendogli sulla schiena con la mano. 

Rodrigo dice:

- No, no!

- Taci.

La voce di Jorge è appena un sussurro. Rodrigo si libera della mano che preme, ma prima che riesca ad alzarsi, Jorge lo afferra di nuovo e si stende su di lui.

- No!

Quello di Rodrigo è quasi un urlo. Non vuole, non vuole. Jorge gli tappa la bocca con la mano. La voce è perentoria:

- Silenzio. Potrebbero sentirci.

Jorge toglie la mano e, rimanendo disteso su Rodrigo, si abbassa i pantaloni. Ora il suo cazzo, ormai gonfio di sangue, si appoggia tra le natiche del giovane guerriero, che ha un movimento convulso. Ma Jorge si sputa sulla mano, inumidisce la cappella, poi sputa di nuovo e passa due dita umide sul solco, indugiando sul buco. Nuovamente Rodrigo ha un guizzo, ma Jorge spinge in avanti il cazzo, forzando l’apertura. Rodrigo si tende e geme. Jorge gli tappa la bocca e con un unico movimento deciso affonda tutto l’uccello dentro il corpo che il suo peso schiaccia al suolo. Il giovane sussulta e gli sfugge un gemito più forte, quasi un urlo, che la mano del comandante non soffoca completamente.

Rodrigo chiude gli occhi: il dolore è stato violento e si accorge di stare piangendo. Vorrebbe che Jorge uscisse da lui, ma non è in grado di difendersi.

Jorge rimane immobile per un momento: la sensazione è stata tanto forte da mozzargli il respiro. Toglie la mano dalla bocca di Rodrigo.

Il giovane rimane in silenzio, mentre lentamente il dolore si calma. Non cerca più di resistere, di sottrarsi: ormai è troppo tardi. Vorrebbe solo che finisse in fretta.

Dopo un momento Jorge incomincia a muovere energicamente i fianchi, ritraendo il cazzo e poi spingendolo fino in fondo, mentre le sue mani stringono con forza il culo del giovane, che riprende a gemere, piano.

Rodrigo avverte di nuovo il dolore crescere e alla sofferenza si aggiunge l’umiliazione per questo stupro.

La cavalcata prosegue a lungo, finché Jorge viene, spargendo il suo seme in culo al giovane. Jorge si toglie e si distende sulla schiena, appagato. Rodrigo rimane nella posizione in cui si trova. Un singhiozzo fa voltare la testa a Jorge. Solo ora si accorge che il giovane sta piangendo.

Jorge non dice nulla. Dopo un po’ si rimette i pantaloni e si mette a sedere. Rodrigo si alza e si riveste, senza guardare il comandante. Nessuno dei due parla di quanto è successo.

Rodrigo si rimette disteso, sulla schiena, la testa voltata dalla parte opposta a quella dove si trova Jorge. Guarda i rami degli alberi tra cui si vedono squarci di cielo. Pensa che è stato posseduto. Il dolore al culo va diminuendo, fino a svanire quasi completamente, mentre una tristezza profonda dilaga in lui. L’uomo che lo ha preso è il suo comandante, che ha fatto voto di castità. Lo ha preso con la forza, senza chiederglielo, senza preoccuparsi di lui.

 

Nel pomeriggio si muovono per risalire al punto da cui hanno osservato i movimenti dei saraceni. Camminare gli provoca delle fitte, ma Rodrigo non si lamenta: non vuole che Jorge se ne accorga, perché si vergogna e preferisce ignorare il dolore.

Giungono al punto di osservazione. I saraceni stanno completando la sistemazione dell’accampamento e le opere necessarie per l’assedio della città. Jorge e Rodrigo scendono nuovamente a nascondersi dove la vegetazione è più fitta.

Rodrigo è teso: tema che Jorge intenda prenderlo di nuovo. Jorge sorride, lo afferra, lo forza a stendersi sulla schiena e si mette su di lui. Si guardano. Jorge legge negli occhi di Rodrigo la paura. Ride, mentre le sue mani incominciano a spogliare il giovane, che non oppone resistenza: sa che sarebbe inutile. Quando gli ha tolto i pantaloni, Jorge gli solleva le gambe, se le mette sulle spalle e avvicina la cappella al culo di Rodrigo. Questi respira a fondo, ma non dice nulla. Jorge spinge, entrando con lentezza dentro di lui. Rodrigo si morde il labbro inferiore per non urlare. Chiude gli occhi. Jorge incomincia a fottere.

Rodrigo rimane silenzioso. Riapre gli occhi, ma distoglie lo sguardo. Il dolore cresce. Questa volta ci sono anche altre sensazioni, confuse, ma sofferenza e umiliazione sono più forti di tutto.

Jorge lo fotte a lungo. Rodrigo sembra impassibile. Tiene la testa girata di lato, come se non volesse vedere l’uomo che lo sta possedendo. Solo ogni tanto sul suo viso appare una smorfia di dolore, quando Jorge spinge con maggior vigore. Infine il comandante viene con alcune spinte più violente. Vede che Rodrigo non è venuto, che non ha neppure il cazzo duro, ma non ha importanza. Si abituerà.

 

Quando diventa buio, ritornano al forte. Nei due giorni successivi, ogni volta che si trova vicino a Rodrigo, Jorge sente il desiderio esplodere, violento. Non può scopare al forte. Anche se non dà importanza alla castità, Jorge non vuole che gli uomini possano criticare il suo comportamento: questo potrebbe minare la sua autorità e il morale della guarnigione.

Rodrigo preferirebbe evitare il comandante, ma in un forte di piccole dimensioni, come quello in cui si trovano, non è possibile. A volte si trova a fissarlo, quando Jorge gli dà la schiena. Pensa che è l’uomo che lo ha preso, che probabilmente lo prenderà ancora. Il pensiero è umiliante, ma la sua mente ritorna in continuazione a quanto è successo.

 

Il terzo giorno Jorge comunica:

- Questa notte andremo nuovamente in esplorazione.

E mentre lo dice, guarda Rodrigo e sorride. Rodrigo china il capo.

Jorge sa benissimo che uscire dal forte li espone a rischi e non ha alcuna utilità, ma non intende rinunciare a soddisfare il suo desiderio.

Escono nuovamente prima dell’alba. Quando il sole sorge, raggiungono il posto di osservazione. I saraceni hanno finito di predisporre tutto il necessario per l’assedio.

- Non hanno ancora attaccato.

- No, forse sperano che il barone Philippe consegni la città.

- Lo farà?

- Sarebbe una vergogna. Meglio affrontare la morte in battaglia.

Rodrigo non dice niente. Pensa che sia assurdo cercare di resistere quando non c’è più nessuna speranza, ma preferisce non dirlo.

Dopo un po’ ritornano dove si sono fermati durante la ricognizione precedente. Rodrigo sa che cosa lo aspetta. Preferirebbe evitarlo, ma non può sottrarsi.

- Spogliati e mettiti a quattro zampe.

Rodrigo esita un attimo, poi si toglie gli abiti, ma rimane in piedi, nudo. Jorge passa dietro di lui. Gli appoggia le mani sulle spalle e lo forza a inginocchiarsi e poi a chinarsi in avanti. Rodrigo appoggia le braccia a terra. Non cerca di resistere. Jorge gli passa un piede tra le caviglie e Rodrigo le allarga.

Rodrigo sente sulle natiche le mani del comandante, che gli aprono bene il culo. Cerca di non irrigidirsi: l’altro giorno è stato molto doloroso.

Le dita di Jorge scorrono sul solco e indugiano sul buco, poi si spingono leggermente dentro. Al giovane sfugge un gemito. Ora le mani di Jorge gli stringono con forza le natiche, le divaricano.

Rodrigo soffoca un lamento. Ha l’impressione di vacillare, di essere sul punto di cadere. Chiude gli occhi. Ed ora sente, forte, contro il buco ormai umido, il cazzo del comandante. Sta per succedere. Il cazzo forza l’apertura e avanza piano. Rodrigo geme di nuovo. Per un momento accanto al dolore, bruciante, c’è una sensazione non spiacevole, ma la sofferenza è più forte e cancella tutto il resto. Rodrigo fa fatica a reggere l’arnese che gli riempie il culo.

Infine l’avanzata si arresta. Lentamente, molto lentamente, il poderoso cazzo si ritrae e quando lo sente uscire Rodrigo emette un lamento. Il dolore si attenua, ma ritorna prepotente quando sente di nuovo affacciarsi ed entrare l’arma che lo trafigge. Singhiozza.

Jorge procede, avanzando ogni volta più a fondo e poi arretrando fino ad uscire. Quando infilza Rodrigo, lo fa in modo sempre più deciso e il dolore aumenta di nuovo. Rodrigo vorrebbe che Jorge uscisse e il male al culo gli pare intollerabile. Ancora una volta il cazzo di Jorge esce e poi affonda nel culo di Rodrigo, che geme più forte, quasi urla.

Le spinte diventano più decise, il dolore cresce ancora. Rodrigo ha le lacrime agli occhi. Infine Jorge viene e poco dopo si rialza, soddisfatto.

Rodrigo rimane disteso, poi si mette a sedere. Jorge vede che ha pianto. Scuote la testa.

- Ti abituerai. Alla fine ti piacerà.

Ride. Rodrigo tiene il capo chino, evitando di guardarlo.

 

 

Quando escono dalla macchia di alberi per raggiungere nuovamente la cima della collina, c’è un movimento improvviso tra i cespugli. Prima che si rendano conto di che cosa sta accadendo, alcuni guerrieri si avventano su di loro: erano in agguato nascosti tra la vegetazione. Jorge fa appena in tempo a estrarre la spada, ma prima che possa colpire, gli uomini gli sono addosso e lo bloccano. Sono in tanti, almeno una dozzina, e hanno facilmente ragione di loro. Gli legano saldamente le mani dietro la schiena.

Rodrigo è sopraffatto da un’ondata di terrore. Jorge non mostra paura: sa che la sua vita è arrivata alla fine, ma affronterà la morte con dignità e coraggio. Sputa a terra, in segno di disprezzo.

L’uomo che li comanda, Sabri, dà ordine che i due prigionieri vengano condotti all’accampamento. Scendono lungo il fianco della collina e poi raggiungono l’accampamento. I guerrieri li portano da un ufficiale, che guarda Jorge ed esclama:

- Ma quest’uomo… Il ritratto!

- Dici che è…

- Sì, è lui: Jorge da Toledo!

Jorge sa che lo aspetta la morte: le regole dell’ordine vietano il riscatto dei cavalieri catturati e anche il Saladino ha fatto uccidere tutti i templari e gli ospedalieri catturati nella battaglia di Hattin. Ma le parole dell’uomo gli fanno correre un brivido lungo la schiena. Sa di essere uno degli uomini più odiati dai saraceni, ma non si aspettava di essere riconosciuto immediatamente. Il ritratto che si è fatto fare da Waahid è la sua rovina.

- Avvisiamo subito il Leone.

Quando gli annunciano di aver catturato Jorge da Toledo, Ubayd dà ordine di portare immediatamente i prigionieri nella sua tenda. Guarda Jorge e sorride, un sorriso feroce.

- Jorge da Toledo! Sia ringraziato Iddio onnipotente che ti ha messo nelle mie mani.

Si rivolge poi a Sabri e dice:

- Il giovane guerriero ti spetta, Sabri, per aver catturato questa preda magnifica.

L’ufficiale si inchina e ringrazia: il bel giovane è davvero un bocconcino da re. Sabri potrà venderlo a caro prezzo al mercato degli schiavi: sarà acquistato dal proprietario di qualche bordello o da qualche ricco come schiavo di piacere. Se Rodrigo avesse qualche anno di meno, Sabri magari lo terrebbe con sé, ma il giovane non è più un ragazzo, per cui si limiterà a gustare qualche volta il suo culo prima di metterlo in vendita.

Ubayd si rivolge a Jorge.

- Quanto a te, Jorge da Toledo, prima che giunga il momento della tua morte, ti pentirai molte volte di essere nato e maledirai quella puttana di tua madre per averti messo al mondo.

Ubayd parla benissimo la lingua dei franchi e il templare ne è stupito. Poi il Leone si rivolge ai suoi uomini:

- Portatelo fuori.

Jorge viene trascinato fuori dalla tenda, in uno spiazzo.

- Spogliatelo.

Quattro uomini gli tagliano la tunica, poi gli strappano gli abiti di dosso, lasciandolo nudo. Jorge li guarda con disprezzo. Non mostrerà certo paura. Lo caricano su un dromedario, mettendolo rivolto all’indietro, in segno di spregio. Lo portano fino alla collina davanti a San Giacomo: evidentemente il Leone vuole che i cittadini assistano alla sua fine.

Lo fanno scendere e lo forzano a mettersi a quattro zampe. Gli bloccano i polsi e le caviglie con anelli di ferro fissati al suolo da lunghi picchetti. Sotto il petto viene infilato un blocco di legno, in modo che Jorge non possa appoggiarsi a terra.

Jorge non capisce che cosa intendano fargli. Non è la posizione in cui vengono abitualmente messi coloro che devono essere impalati. E allora? Gli uomini intorno a lui ridacchiano. Il Leone fa un cenno con la testa a un ufficiale.

- Abdel Nasser, procedi.

L’uomo si inchina al comandante e fa un cenno a uno dei guerrieri.

- Incomincia tu, Khaled.

Khaled fa un cenno d’assenso e si spoglia. Si volta e, dando le spalle a Ubayd e Abdel Nasser, si accarezza il cazzo, fino a che viene duro. Allora si gira nuovamente, per mostrare la sua attrezzatura e passa davanti a Jorge, che lo guarda. È un colosso, di pelle piuttosto scura, chiaramente con sangue africano nelle vene. Esibisce un grosso cazzo perfettamente teso.

Jorge lo guarda, senza capire, stupito. Solo quando l’uomo passa dietro di lui gli poggia le mani sul culo, divaricando la natiche, capisce. Non vuole crederci, non può accettarlo. Non possono stuprarlo!

A un cenno di Abdel Nasser, l’uomo preme con la cappella contro il buco del culo, lo forza e spinge il cazzo ben dentro, fino a che i coglioni sbattono contro le natiche del templare. Il dolore è violento: l’uomo è entrato brutalmente e Jorge non è abituato. Un’unica volta nella sua vita è stato penetrato, da Ishan, il figlio di Boran. Più ancora del dolore, è forte l’umiliazione: mai Jorge avrebbe pensato di venire violentato. Da uno schifoso maomettano, per di più.  

L’uomo spinge con forza, avanti e indietro, assaporando il piacere che gli trasmette questo culo caldo e la coscienza di stare fottendo un bastardo infedele, un assassino che ha ucciso a tradimento molti credenti, spesso stuprandoli. Ora questo figlio di puttana ha ciò che si merita.

Khaled procede a lungo, con spinte molto violente.

Quando infine viene e si ritira, sul cazzo ha un po’ di sangue. Vedendolo sorride.

Jorge ha abbassato il capo. Il dolore è stato bestiale, ma più forte ancora è l’umiliazione, la rabbia: stuprato da un infedele, un mezzo negro, per di più. Schifoso bastardo.

Il Leone sorride, soddisfatto: ha apprezzato lo spettacolo. Fa di nuovo un cenno ad Abdel Nasser, che dice:

- Avanti il prossimo.

Jorge ha l’impressione che una mano gli stringa la gola: pensava che dopo lo stupro lo avrebbero ucciso, ma non è così.

L’uomo che lo prende è anch’egli molto alto e forte e alquanto dotato. Anche lui entra con violenza e il dolore esplode. Jorge stringe i denti. L’uomo lo fotte a lungo. Quando infine viene, si ritrae. Dal culo del templare cola un po’ di sborro, misto a sangue. L’uomo passa davanti, il grosso cazzo ancora gonfio di sangue. Ride e dopo un momento incomincia a pisciare in faccia a Jorge. Il templare chiude gli occhi.

Uno dopo l’altro gli uomini lo prendono. Per tutto il giorno i soldati del Leone fottono il templare, gli pisciano in faccia e sulla testa, lo deridono. Dal culo di Jorge il sangue cola, misto a molto seme. Il dolore diviene sempre più forte.

La notte Jorge viene lasciato nella posizione in cui si trova. Sprofonda in un sonno torbido, da cui si sveglia spesso. Il dolore non si attenua.

Il giorno dopo la violenza riprende. A tratti Jorge delira. È il secondo giorno che non mangia ed è esposto al sole. La sete è talmente forte, che talvolta quando i soldati gli pisciano in faccia, Jorge apre la bocca per bere un po’. La sera lo slegano e lo riportano ai piedi della collina. Camminare è un tormento continuo. Dal culo scendono sborro e sangue e il dolore è feroce.

Il mattino seguente Jorge viene nuovamente condotto in cima alla collina, per l’esecuzione. Con l’aiuto di uno schiavo, Jorge si carica in spalla il palo che lo trafiggerà. È pesante e, per quanto Jorge sia forte, non riuscirebbe a portarlo, se lo schiavo non lo aiutasse a reggerlo. Jorge impreca, mentre cerca di trovare la posizione giusta per poter sostenere il palo. Una frustata al culo gli ricorda che deve muoversi.

- Avanti, cane!

Jorge si avvia lungo la pista che sale sulla collina. Dietro di lui cavalca Abdel Nasser, seguito da un nutrito gruppo di schiavi che porta tutto l’occorrente per il supplizio.

La giornata è calda, il palo è pesante. Presto Jorge è tutto bagnato dal sudore che gli appiccica i capelli al capo e cola dalla fronte fino a perdersi tra la barba, scorre in fitti rivoli sul petto, facendo luccicare la peluria scura. Il palo gli pesa sulla spalla, sfregando contro la pelle e provocando abrasioni. Dal culo cola ancora sangue misto a sborro.

Jorge non intende mostrare segni di debolezza e si sforza di camminare a passo sicuro, malgrado la fatica. La strada è breve, ma a Jorge appare interminabile: eppure ciò che lo aspetta è molto peggio di questa camminata sotto il peso del palo e il sole che sembra schiacciare a terra ogni cosa.

Jorge barcolla. Riceve una nuova frustata. Lascia cadere il palo, come se non riuscisse a reggerlo, e si affloscia a terra. Pare privo di forze. Una violenta frustata non riesce a smuoverlo.

- Muoviti, porco immondo!

Jorge guarda il soldato, come se non lo vedesse neanche. Jorge prende il braccio che uno degli uomini gli porge e si solleva, a fatica. Poi, con un movimento rapido, prende all’uomo la spada e rivolge la punta contro la propria gola, ma prima che riesca a colpirsi quattro guerrieri lo bloccano. Jorge cerca di liberarsi. Lo colpiscono al ventre, ma Jorge non cede. Solo due ginocchiate ai coglioni lo costringono a lasciare l’arma.

La marcia riprende, come prima. Jorge non è riuscito a darsi la morte.

Raggiungono infine la cima della collina. Davanti a loro San Giacomo d’Afrin: gli assediati hanno assistito al suo stupro, ora assisteranno alla sua morte.

Jorge può posare il palo. Gli legano subito le mani dietro la schiena, in modo che non possa più fare nulla. Gli uomini sistemano gli strumenti del supplizio: una sella di legno, su cui Jorge sarà costretto ad appoggiarsi, le corde per legargli le caviglie e allargargli le gambe, il forcone per bloccargli il collo e tenerlo in posizione, il coltello che servirà per allargargli il buco del culo. Il carnefice lo guarda e sorride.

Quando lo afferrano, Jorge si dibatte. Non ha modo di sottrarsi al supplizio, lo sa, ma il suo corpo rifiuta lo scempio a cui è destinato. Jorge insulta gli uomini, che infine lo costringono a inginocchiarsi e appoggiarsi con il torace sulla sella. Due di loro premono sulla sua testa, impedendogli di alzarla e un terzo gli blocca il collo con il forcone, le cui punte si infilano nel suolo. Altri due gli tengono ferme le gambe e passano le corde alle caviglie. Tirano verso l’esterno, in modo da divaricare bene le gambe e le natiche.

- Bastardi!

Un uomo si inginocchia dietro di lui. Jorge si tende. Avverte la pressione di una punta che si infila nel suo culo. Maledice ancora, mentre la lama affonda poi, con un movimento brusco, si sposta verso l’alto, squarciando l’apertura. Jorge urla, un grido di puro dolore. Il sangue cola abbondante. L’uomo si alza. Il culo del templare è pronto ad accogliere il palo.

Gli uomini prendono il legno e lo mettono in posizione, la punta acuminata contro l’apertura sanguinante. Jorge sente la pressione del palo che tra poco entrerà dentro di lui, regalandogli una morte terribile.

Abdel Nasser ride e dice:

- Ora gusterai un cazzo ancora più grosso e più duro di quelli che ti sei preso ieri e l’altrieri.

Jorge non fa in tempo a rispondere: mentre Abdel Nasser conclude la frase, il boia colpisce il palo, che penetra a fondo nel culo del suppliziato. Jorge grida, la testa schiacciata a terra, in preda a un dolore atroce. Si divincola, invano. Il martello del boia si abbatte di nuovo sul palo, che si fa strada nella carne, dilaniando le viscere del condannato. A ogni colpo Jorge urla, un urlo che non è più umano.

Poi la voce gli manca e quello che esce dalla sua bocca è solo più un suono soffocato, versi animali che sgorgano insieme a saliva e sangue. Jorge non vede più nulla, non sente più nulla, solo il palo che gli scava le viscere e avanza, inesorabile, dentro di lui, sempre più a fondo, nel petto.

Il boia si ferma. Il corpo del condannato è infilzato dal palo fino allo sterno. Può bastare così.

Gli uomini tolgono il forcone che bloccava la testa di Jorge, che emette suoni inarticolati, poi bestemmia Maometto. Gli uomini hanno preparato il buco nel terreno in cui infilare il palo. Quando il palo viene issato, il movimento è un nuovo strazio, che porta il palo a penetrare ulteriormente nel corpo del suppliziato. Jorge grida ancora.

Il mondo ondeggia, senza contorni precisi. Anche le voci sono solo un ronzio indistinto. Lentamente le immagini ritornano nitide e stabili. Jorge può vedere gli uomini che lo fissano: il boia e i suoi aiutanti, sudati per lo sforzo e soddisfatti del loro lavoro; Abdel Nasser sul suo cavallo, con un sorriso, che si afferra i coglioni attraverso la stoffa dei pantaloni, in segno di scherno.

Dentro Jorge sente il dolore che pulsa, atroce, un fuoco inestinguibile nel culo, nel ventre, nel torace. Il suo corpo è solo sofferenza. Jorge respira a fatica.

Abdel Nasser si avvicina, sorridente.

- Più tardi ti castreremo, ma prima ti lasciamo godere il palo.

Jorge guarda Abdel Nasser.

- Figlio di puttana.

Abdel Nasser scuote la testa.

- Non ti pieghi, eh?

Abdel Nasser chiama Khaled.

- Spacca i coglioni a questo bastardo.

Il soldato guarda l’ufficiale perplesso.

- Hai capito bene. Prendigli i coglioni nelle mani e spaccaglieli.

Khaled afferra i due coglioni di Jorge e incomincia a stringere, ma non riesce a stritolarli. Allora lascia il sinistro e afferra solo il destro con entrambe le mani. Stringe con forza, sudando.

Jorge sente la pressione aumentare e un dolore violento salire e percorrerlo tutto. Con un guizzo cerca di sollevarsi, sfuggendo al palo e alle mani che stritolano, ma è impossibile.

Il soldato preme ancora e infine sente il coglione cedere. Jorge urla, un grido inumano, da bestia macellata. Il corpo ha un sussulto.

- Porco… bastardo…

Khaled sorride e afferra il coglione sinistro. Preme con forza. Jorge solleva la testa e spalanca la bocca, mentre il dolore si moltiplica e infine esplode. Per un momento, il mondo svanisce. Jorge ha un conato di vomito.

Il soldato ride.

- Fatto, signor comandante.

- Bene.

Jorge sente nuove ondate di dolore salirgli dai coglioni maciullati, dal culo, dal petto.

Più tardi uno dei soldati chiede di appartarsi per i suoi bisogni.

Abdel Nasser gli dice:

- Porta qui la tua merda, che la diamo al brigante.

L’uomo guarda perplesso il comandante, ma qualche minuto dopo ritorna, tenendo in uno straccio uno stronzo scuro.

- Spargigliela sui coglioni.

Abdel Nasser ride e aggiunge:

- Su quel che ne rimane.

L’uomo prende la merda e incomincia a spargerla sullo scroto di Jorge, gonfio di sangue. Jorge si contorce, mentre a ogni contatto della mano una fitta violenta lo percorre tutto.

Quando l’uomo ha finito, lo scroto di Jorge è coperto di una merda scura, quasi nera.

Più tardi altri spargono la propria merda sul cazzo, sul ventre, sul torace, sulla schiena, sul culo e sulla gambe del suppliziato. Gli uomini ridono vedendo il corpo di Jorge cosparso di merda in diverse sfumature di colore e di consistenza. Ma ovunque è sempre più fitto lo strato di insetti che si cibano della merda che ricopre il corpo e del sudore e del sangue del templare.

Quando ormai la parte del corpo raggiungibile da terra è imbrattata, un soldato sale a cavallo e sparge altra merda sulle spalle, poi sul collo e infine sul viso.  

Le sentinelle si allontanano un po’, perché il fetore diventa sempre più forte. Attratti invece dalla merda e dal sudore, centinaia di mosche, tafani e altri insetti volano intorno al corpo e si posano sulla pelle dell’agonizzante. Essi ricoprono il viso di Jorge, dove il sudore scorre in rivoli, il suo petto villoso, dove le gocce si perdono tra i peli, il ventre, il cazzo e i coglioni. Le punture e i morsi sono una continua sofferenza, che si aggiunge al dolore tremendo che sale dalla carne attraversata dal palo e dai coglioni spaccati.

Gli insetti lo divorano: il suo corpo si copre dei segni rossi lasciati dalle punture e dai morsi, che fanno gonfiare la pelle e la lacerano. Le piccole ferite attraggono altri insetti.

Quando Jorge apre la bocca per cercare l’aria che gli sfugge, gli insetti gli si infilano in gola. Jorge tossisce e sputa

Le punture irritano il cazzo di Jorge, a cui affluisce il sangue e che si protende in avanti, grottesca parodia di quando era il desiderio a rizzarlo.

Abdel Nasser chiede al carnefice:

- Vivrà fino a domani?

- Sì, certamente.

- Allora lo castreremo domani. Il Leone vuole che la sua agonia duri il più a lungo possibile.

 

La notte quattro sentinelle rimangono di guardia. Jorge a tratti perde i sensi, ma poi ritorna cosciente.

Poco dopo l’alba Abdel Nasser torna sulla collina. Sorride e ordina:

- Castratelo.

Il boia si avvicina a Jorge. Incurante della merda e degli insetti, afferra con la sinistra i coglioni e il cazzo, tanto gonfio per le punture da essere quasi rigido. Ride e avvicina la lama. Jorge lo guarda: è ancora cosciente.

Quando la lama incomincia a tagliare la carne, il templare grida. Il pugnale prosegue nella sua opera e il sangue si mescola alla merda, al sudore, agli insetti. Jorge urla ancora, mentre il boia completa la sua opera. L’urlo diventa un rantolo.

L’uomo sale su uno sgabello e gli infila i coglioni in bocca. Il grosso cazzo sporge tra le labbra, grottesco.

Jorge sente che il respiro gli manca. Anche se la morte è una liberazione, cerca di far entrare ancora aria, ma non riesce. Reclina il capo all’indietro. Il mondo svanisce.

I soldati non si accorgono subito che il templare è morto. È Abdel Nasser a capirlo:

- Merda! È morto.

Il cadavere di Jorge da Toledo rimane esposto sulla collina, in modo che i cittadini di San Giacomo possano vederlo. Viene decapitato e la testa è infilzata su una picca, che nella notte viene piantata davanti al castello San Giorgio: un monito per ricordare ai difensori della roccaforte che presto toccherà a loro. Ma la piccola guarnigione, sotto il comando di Gilles de Montségur ha già abbandonato la postazione che non può più essere difesa.

 

I cittadini di San Giacomo hanno assistito allo stupro e all’agonia del templare. Lo spettacolo ha scoraggiato anche coloro che erano più decisi a resistere.

Philippe sa che non c’è più speranza. Si pente di non aver seguito il consiglio di Denis di Rougegarde, ma dopo aver atteso per anni di diventare il signore di San Giacomo, gli pesava rinunciare. Il suo dominio sulla città è durato poche settimane

Philippe decide di inviare un messaggero al Leone.

Ubayd al-Asad ascolta seduto il messaggero del giovane barone che, in piedi davanti a lui, gli riferisce quanto gli ha ordinato il suo signore.

- Il barone è disposto a cedere la città, se accettate di garantire la vita dei suoi abitanti.

Ubayd guarda l’inviato di Philippe. Annuisce e pare riflettere un momento. Poi risponde:

- Se il barone mi aprirà la porta della città e ne prenderò possesso senza incontrare resistenza alcuna, gli abitanti potranno andarsene, portando con sé solo quello che possono caricarsi sulle spalle.

- Dovranno quindi lasciare la città?

- Sì, ad Afrin non potranno rimanere: i miei confratelli vennero tutti scacciati dalla città quando era sotto il dominio di quel cane di Renaud, il padre dell’attuale signore. Allo stesso modo dovranno andarsene i cristiani. Se ne andranno senza servirsi di carri o cavalli.

- Dovranno allora lasciare anche le cavalcature?

- Sì. Potranno portare un asino se devono trasportare un anziano, una donna incinta o qualcuno che non può camminare, ma sull’asino non potranno caricare nient’altro.

- Perderanno tutti i loro beni, quindi.

- Sì. E uscendo dalla città dovranno versare una certa somma, che dipenderà da ciò che porteranno con sé.

- E chi non ha nulla?

- A chi se ne andrà senza avere nulla, a parte gli abiti che indossa, nulla verrà richiesto.

C’è un attimo di pausa, poi il Leone aggiunge:

- Tutti gli schiavi saranno liberati.

- Non potranno portare con sé neppure gli schiavi?

- No.

- E per quanto riguarda il mio signore?

- Anche lui dovrà andarsene, ma gli sarà lasciata salva la vita. Potrà portare con sé un cavallo e tutto ciò che riuscirà a caricare sulla sella. Lui non dovrà versare nessun tributo.

Il messaggero si inchina.

- Ti ringrazio, signore, per avermi ascoltato. Porterò la mia risposta al mio signore.

- Ti aspetto domani mattina per conoscere le sue intenzioni.

 

Il messaggero riporta quanto gli ha detto Ubayd il Leone.

Philippe convoca i suoi consiglieri ed espone loro le proposte. Si accende una discussione.

- Significa perdere tutto.

- Significa salvare la vita. E poter portare con sé oro e gioielli.

- Che in parte saranno sequestrati. Non sappiamo neanche in che misura.

- Significa mettersi completamente nelle loro mani! E se decidessero di prenderci tutto?

- Qual è l’alternativa? Rimanere assediati, fino a che espugneranno la città e faranno strage di noi tutti? Abbiamo forse qualche speranza che la situazione cambi?

- Se il duca di Rougegarde…

Philippe interviene, interrompendo l’uomo che parla:

- Il duca di Rougegarde non interverrà. Il nostro re è prigioniero, insieme ai principali baroni del regno. Anche se il Leone venisse sconfitto, non cambierebbe nulla. San Giacomo è perduta.

C’è un momento di silenzio. Sanno tutti che la situazione è questa. Uno dei consiglieri dice:

- Non credo che nessuno di noi sia contento all’idea di lasciare le proprie case e perdere quasi tutto, ma non vedo altra soluzione. Cercare di resistere significherebbe morire. Non vorrei finire come il comandante del castello San Giorgio.

Il corpo impalato e decapitato di Jorge da Toledo è ben visibile in cima alla collina.

Le parole dell’ultimo consigliere sono accolte dal silenzio. Poi, uno dopo l’altro, tutti si dichiarano d’accordo.

Nel pomeriggio i banditori annunciano la decisione del signore. Alcuni protestano, ma i più si rendono conto che non c’è via d’uscita. Almeno avranno salva la vita e potranno portare qualche cosa con sé.

La sera in ogni casa ci si prepara.

 

I controlli sono rigorosi: chi esce viene perquisito e deve cedere un quarto dei beni di valore che porta con sé. Qualcuno cerca di nascondere oro o gioielli, ma le perquisizioni sono piuttosto accurate. Chi viene sorpreso perde tutto ciò che ha con sé: viene spogliato e deve avviarsi nudo. Un uomo che si ribella viene ucciso immediatamente. L’esempio è sufficiente: non c’è più nessun tentativo di ribellarsi e alcuni di quelli che hanno nascosto delle monete d’oro preferiscono mostrarle, pagando la quota dovuta, invece di rischiare.

Tutti vengono interrogati: devono dire la propria religione e la propria condizione. Se sono schiavi vengono allontanati dalla carovana. Gli schiavi musulmani ed ebrei sono liberati, quelli cristiani possono scegliere se stare con i loro padroni o fermarsi e recuperare la loro libertà: se si convertiranno all’Islam, riceveranno una somma di denaro e potranno raggiungere i territori arabi, altrimenti dovranno cavarsela da sé.

 

Quando gli abitanti si sono avviati, la città viene saccheggiata. Cavalli e altri animali domestici, suppellettili, armi e strumenti, abiti e tessuti, tutto ciò che ha qualche valore viene preso dalle case e caricato su carri. Nessuno può impadronirsi di ciò che trova: il bottino verrà diviso tra tutti. Sono pochi i soldati che cercano di sottrarre qualche cosa: il Leone è un comandante giusto, ma molto severo. Tutti sanno che distribuisce generosamente il bottino, ma non accetta che qualcuno cerchi di prendere di più: le punizioni sono dure.

Alcuni soldati lamentano di non poter prendere come schiave le donne cristiane: il Corano lo permetterebbe, ma Ubayd non lo concede. Dicono che sia un uomo molto pio. Quando Salah ad-Din conquistò Mosul, gli offrì di scegliere tra tutte le schiave dell’atabeg le tre più belle, ma il giovane declinò l’offerta. Vive in assoluta castità: non ha rapporti con donne, non gli piacciono i ragazzi, non cerca gli uomini. I suoi soldati vedono in lui un vero guerriero, che pensa solo alla vittoria.

Il saccheggio di Afrin si conclude solo il terzo giorno. Quando tutto ciò che ha un valore è stato caricato sui carri e sui muli, la carovana si dirige verso i territori arabi, a parte quei carri e cavalli che portano ciò che può servire alle truppe.

Poi il Leone dà l’ordine:

- Bruciate tutto. Non deve rimanere nulla.

Buona parte della città è stata costruita in legno, per cui brucerà facilmente. Nei palazzi in pietra e nella cattedrale viene ammassata legna, poi il fuoco viene appiccato in diversi punti.

Ubayd al-Asad è salito in cima alla collina, dove il corpo decapitato di Jorge da Toledo si decompone sotto il sole cocente. Il fetore è intollerabile, ma il Leone rimane accanto al palo. Osserva la città che arde. Il fuoco si leva già in diversi punti, i tetti ardono e il vento diffonde le scintille tutt’intorno. Altri tetti prendono fuoco, qualcuno crolla, mentre colonne di fumo salgono in aria. Ben presto San Giacomo è un immenso falò: le fiamme che divorano gli edifici divampano sempre più alte, alimentate dalla grande quantità di materiale combustibile, e sulla città grava una cappa di fumo nero. Una dopo l’altra le case si consumano e crollano. Le fiamme divampano anche nella cattedrale, l’edificio più alto della città. Divorano il tetto, che precipita all’interno, poi anche il campanile si spezza e cade nella piazza antistante.

Ubayd sorride. Poi volta lo sguardo verso il cadavere di Jorge, ricoperto di merda e di insetti. Il ventre si è aperto e le larve scendono verso terra. C’è un ghigno feroce sul viso del condottiero.

Nessuno sa perché Ubayd abbia dato l’ordine di distruggere Afrin ora che era nelle sue mani: la città non aveva più l’importanza di un tempo, ma avrebbe potuto essere ripopolata. In ogni caso le decisioni del Leone non si discutono. Qualcuno dice che Ubayd ha espressamente richiesto a Salah ad-Din di poter annientare Afrin.

Forse vorrebbe imporre la stessa sorte ad al-Hamra, ma di certo Salah ad-Din non lo permetterà e il Leone non agirà senza il suo consenso. Non avrebbe senso distruggere la più bella città della Siria.

Ubayd contempla a lungo la città in cui le fiamme, non più alimentate, si stanno spegnendo, poi guarda il cadavere impalato e infine lascia il suo punto di osservazione e raggiunge i suoi uomini. Appare soddisfatto.

Sorride ai suoi uomini, poi guarda verso occidente. Il sorriso scompare. Sul suo viso è scesa un’ombra, sembra quasi che abbia timore, ma che cosa può spaventare questo guerriero invitto?

Ordina:

- Verso Qasr Iblis.

 

Qasr Iblis è una fortezza sulla più meridionale delle piste che conducono da Afrin a Rougegarde, una strada che pochi percorrono se devono andare da una città all’altra, perché allunga notevolmente il cammino.

Il nome cristiano è castello San Marco, ma tra gli arabi questa fortezza, costruita al tempo della prima crociata, è conosciuta come Qasr Iblis, il castello del Diavolo.

Narra una leggenda che l’emiro di Afrin voleva costruire un castello, ma non aveva né i fondi, né la manodopera necessaria per condurre a termine l’impresa. Il diavolo gli promise di edificare uno splendido castello in tre giorni, se l’emiro gli avesse donato un diaspro rosso chiamato al-Quds, che la famiglia dell’emiro possedeva da quasi cinquecento anni: dicevano che il diaspro fosse un dono del grande califfo Umar.

Il padre dell’attuale emiro prima di morire gli aveva fatto giurare che non avrebbe mai dato ad altri la pietra, ma la proposta del diavolo sembrava davvero ottima: il diaspro era bello, ma non aveva un grande valore. D’altronde l’affare sarebbe sembrato vantaggioso, anche se il diavolo avesse richiesto rubini e diamanti, invece di al-Quds: un castello vale molto di più. L’emiro ignorò il giuramento che aveva fatto e che avrebbe dovuto richiedere a suo figlio e si dichiarò disposto a consegnare al diavolo la pietra.

Il diavolo mantenne la promessa: la sera del terzo giorno il castello sorgeva in cima alla collina, con le sue alte mura rosse, che alla luce del tramonto sembrano ardere come le fiamme infernali. L’emiro mantenne la sua promessa e diede al diavolo il diaspro, ma in quegli stessi tre giorni al-Quds, la città santa, quella che i cristiani chiamano Gerusalemme, venne conquistata dagli infedeli: mentre l’emiro entrava nel suo castello, i crociati entravano nella città, dove il sangue, rosso come il diaspro, arrivava loro fino alle caviglie.

 

 

Ferdinando ritorna nelle sue terre con i pochi uomini scampati alla battaglia: sei cavalieri, tre fanti e alcuni servitori rimasti all’accampamento a Seffori.

È quasi sera quando Ferdinando raggiunge infine l’Arram. È triste e rabbioso. La sua furia è rivolta contro tutti: contro quel coglione di Guido da Lusignano, che ha portato l’esercito alla disfatta e provocato la fine del regno; contro tutti quegli altri coglioni che volevano a ogni costo la battaglia e hanno ignorato gli avvertimenti di Raimondo di Tripoli; contro i Saraceni che hanno ucciso tanti dei suoi uomini; contro Denis, che non era al suo fianco; contro Adham, che non ha voluto venire con lui. Sa che la sua collera è assurda: i Saraceni fanno ciò che fanno i Franchi; Denis non aveva nessun scelta; Adham è un guerriero maomettano e non gli si può chiedere di combattere contro altri maomettani. Ma si crogiola nella sua rabbia, che in qualche modo attutisce la sua sofferenza.

Entra nel palazzo. Sa che dovrà lasciarlo e anche questo lo irrita. Ci è sempre stato benissimo e aveva pensato di viverci fino alla morte, ma dovrà andarsene per una massa di incapaci presuntuosi. A quarantasette anni dovrà ricominciare da capo per quella massa di coglioni! Merda! Merda! Merda!

Nessuno ha annunciato il loro arrivo, per cui Adham non gli è venuto incontro. Ferdinando chiede, furente:

- Dov’è Adham?

- Nel bagno.

La risposta sembra accrescere la sua rabbia. Ferdinando pensa che ha combattuto, rischiato la vita, visto morire i suoi uomini, sofferto il caldo e la sete, patito la solitudine, mentre il suo uomo viveva tranquillamente a palazzo. Sono pensieri assurdi, lo sa benissimo, ma la coscienza che sta per perdere tutto ciò che ha costruito si aggiunge alla rabbia per l’assurda sconfitta e la stanchezza gli toglie la lucidità.

Ferdinando raggiunge il bagno ed entra nella stanza senza spogliarsi.

Sul bordo della grande vasca, Adham è a quattro zampe e Martino, uno dei guardacaccia, lo sta fottendo.

- Merda!

I due uomini guardano nella sua direzione. Il guardacaccia si alza e si stacca, ma la vista del suo cazzo duro e il pensiero che un attimo fa era nel culo di Adham fa esplodere la rabbia del conte.

- Merda! Sei una troia, Adham!

È un’offesa assurda. Il loro rapporto, molto forte, non è esclusivo: spesso scopano in tre o in quattro e tutti e due hanno occasionalmente rapporti con altri. Anche Ferdinando ha scopato con qualche soldato e poi con Barisano durante la spedizione. Con Martino ha scopato più volte. Ma adesso gli sembra un tradimento inaccettabile.

Adham non capisce. Ferdinando è l’unico uomo da cui accetta di farsi possedere e si è offerto a Martino per rivivere le sensazioni che gli trasmette l’uomo che ama quando lo prende. Mentre il guardacaccia lo fotteva, pensava che fosse il conte a possederlo e in qualche modo questo rapporto ingannava la sofferenza per la lontananza di Ferdinando.

La gioia intensa che ha provato per un attimo vedendo Ferdinando di ritorno, sano e salvo, è svanita. Guarda il conte e chiede:

- Ferdinando! Che ti succede?

Ferdinando ha già lasciato il locale. Chiama quattro guardie.

- Arrestate Adham e gettatelo in cella.

Adham non oppone resistenza. Si rende conto che Ferdinando è stravolto ed è sicuro che recupererà la lucidità e si scuserà.

 

Un po’ più tardi, quando ormai è buio, Ferdinando entra nella cella. Ad Adham è sufficiente un’occhiata per capire che la rabbia è rimasta intatta.

- Domani mattina facciamo una bella caccia, Adham. Una caccia al nero.

Adham rabbrividisce. Sa benissimo che Ferdinando ama cacciare maschi vigorosi e ucciderli: è il modo in cui esegue le condanne a morte nel suo dominio, perché gli piace uccidere. Anche Adham ha partecipato ad alcune di queste cacce sanguinose, che non gli trasmettono le stesse sensazioni. È assurdo, completamente assurdo. Adham non dice nulla: sa che non può far ragionare Ferdinando in questo momento. E una tristezza infinita lo prende. Ha amato quest’uomo, lo ama con tutto se stesso, darebbe la vita per lui e ora Ferdinando lo vuole uccidere per qualche cosa che nel loro rapporto non ha mai avuto la minima importanza. Adham non capisce e non ha nemmeno voglia di capire.

- Mettiti in posizione, troia, che ti fotto per l’ultima volta.

Ferdinando ghigna, poi aggiunge:

- No, magari ti fotto anche domani, quando ti ammazzo.

Adham obbedisce. Ferdinando non si spoglia: si limita a estrarre il cazzo. Incula Adham con un’unica spinta decisa. Sa che gli fa male, parecchio, ma si dice che non gli importa. Non è vero e se ne rende conto, anche se ricaccia il pensiero. A muoverlo è la disperazione che sente crescere dentro di sé, per questa ennesima cazzata.

Quando il cazzo di Ferdinando gli è entrato in culo Adham ha sussultato. Il dolore è stato forte, ma non è la sofferenza di questo ingresso violento a schiantarlo. È la coscienza che l’uomo che ama è rinchiuso in un bozzolo di rabbia e dolore. Intuisce che Ferdinando ha passato giorni atroci e vorrebbe consolarlo, ma il conte non vuole consolazione, non vuole affetto, vuole solo una vendetta insensata che lo farà stare molto peggio.

Ferdinando fotte con furia e il cazzo che squassa il culo di Adham non gli trasmette gioia, ma un dolore violento. Quando infine viene, il piacere è più forte della sofferenza, ma è solo un attimo, poi ripiomba in una disperazione ancora più forte.

- Goditi la tua ultima notte.

Ferdinando si tira su le brache e se ne va. Si stende sul letto, senza nemmeno svestirsi. È stanco, di una stanchezza mortale, in cui si sommano le fatiche del viaggio, l’incubo della battaglia, la coscienza che i giorni del suo dominio sono alla fine e, più forte di tutto, la disperazione per ciò che ha fatto e ciò che farà all’uomo che ama. Ma il sonno non viene.

Il calore è opprimente e allora Ferdinando si spoglia completamente, poi si stende nuovamente.

Se riuscisse a dormire, si sveglierebbe riposato e lucido e si renderebbe conto della follia che ha in testa, ma le ore trascorrono senza che il conte riesca a chiudere occhio e la stanchezza si accumula. Si alza che è ancora buio, incapace di rimanere oltre a letto. Si infila solo le brache e non appena il cielo incomincia a schiarirsi, fa preparare tutto per la caccia.

Adham viene condotto su un carro ai bordi della foresta. Ferdinando stesso gli dà il coltello. Il nero lo guarda negli occhi e Ferdinando sente il dolore che lo schianta. Vorrebbe che Adham lo colpisse, ora, mettendo fine ai suoi giorni.

Adham si volta e si allontana. Non corre, cammina, come se non gli importasse salvarsi. Non gli importa. Vorrebbe poter alleviare la sofferenza di Ferdinando, ma sa solo che la sua morte la renderà inestinguibile.

Ferdinando libera i cani senza aspettare il solito tempo: vuole concludere, il più in fretta possibile. Segue a cavallo i cani, che raggiungono in fretta il fuggitivo.

Allora Ferdinando avanza, il coltello in mano. Adham è di fronte a lui. Non dice nulla, conscio che le parole sono inutili.

Ferdinando attacca, senza convinzione. Adham si sottrae. Il conte guarda il pugnale che Adham stringe in mano. In un lampo capisce quello che davvero vuole: che Adham lo uccida. Attacca e si scopre, deliberatamente, offrendo il petto e il ventre alla lama, ma il nero non colpisce.

Ferdinando comprende che Adham preferisce lasciarsi scannare: non vuole ucciderlo. E la disperazione lo inghiotte.

 

Un’ora dopo il conte ritorna a palazzo. È cupo e non dice nulla, non parla con nessuno. Fa un bagno e poi torna in camera. Per tutto il giorno non tocca cibo. Non parla con nessuno.

Nei giorni seguenti l’umore non migliora. I servitori sono tutti inquieti: non riconoscono il loro padrone in quest’uomo torvo e silenzioso, che si aggira per il palazzo come un’anima in pena, di giorno e di notte, che inghiotte appena un boccone ogni tanto, che non chiama nessuno nella sua camera per scopare.

Intanto in tutto l’Arram si è diffusa la voce che il conte ha ucciso il nero che era il suo amante e lo ha fatto sbranare dai cani.

Quando la notizia giunge a Denis, questi rimane sconvolto. Vorrebbe accorrere dall’amico, ma sul momento non può lasciare Rougegarde. Dopo aver distrutto San Giacomo, Ubayd al-Asad marcia sul castello San Marco, che le sue truppe hanno già posto sotto assedio. La situazione in città richiede la presenza del duca.

 

*

 

Dall’alto della torre di castello San Marco Guillaume di Hautlieu guarda l’accampamento saraceno: centinaia di tende disseminate ai piedi della collina.

La più grande è quella di Ubayd al-Asad, il Leone, fiero e spietato nemico dei cristiani, il conquistatore di San Giacomo di Afrin e del Castello San Giorgio.

Guillaume avrebbe evacuato il castello già da tempo, ma diverse centinaia di soldati del Leone sono arrivati improvvisamente, quando l’assedio di San Giacomo era appena incominciato, e hanno bloccato ogni via di fuga. Ora l’intero esercito li ha raggiunti.

La guarnigione del forte è composta da trenta uomini, a cui vanno aggiunti gli abitanti del villaggio vicino, rifugiatisi tra le mura all’arrivo dell’esercito nemico.

Lungo il fianco della collina sale un uomo a cavallo, senza armi. Un messaggero? Verrà a intimare la resa? Guillaume pensa agli uomini che hanno cercato protezione nel forte, ai soldati: la resa significa consegnarli tutti alla schiavitù. Combattere significa destinarli alla morte. Che cosa è meglio? Guillaume sa di prigionieri vissuti per mesi in condizioni inumane, nelle miniere o sulle navi, prima che la morte li liberasse da una vita divenuta ormai solo sofferenza. Non tutti gli schiavi dei musulmani vivono un’esistenza così orribile, ma di certo per i soldati non c’è pietà. I templari, non potendo riscattarsi, saranno giustiziati, come è avvenuto dopo la battaglia di Hattin.

Guillaume sa che lo attende la morte, ma questo non lo spaventa. Lo preoccupa invece il destino degli uomini che si sono messi sotto la sua protezione

Guillaume scende dalla torre e passa sulle mura accanto alla porta d’ingresso del castello. Il messaggero ha raggiunto il ponte levatoio. Molti soldati sono sul cammino di ronda, in attesa di sapere che messaggio porta il cavaliere.

Guillaume chiede:

- Che cosa vuoi?

L’uomo conosce il francese e risponde:

- Mi manda il grande capitano Ubayd al-Asad, il Leone che Allah ha inviato sulla terra per liberarla dall’invasore infedele. Chiedo di parlare con il comandante del forte.

- Sono io.

- Il tuo nome.

- Guillaume di Hautlieu.

L’uomo annuisce: è il nome che si aspettava.

- Il nostro capitano, Ubayd al-Asad, ti comunica che se ti consegnerai nelle sue mani, tutti coloro che si trovano nel castello potranno allontanarsi e raggiungere al-Hamra senza che nessuno li fermi.

C’è un mormorio di stupore tra gli uomini. L’offerta è molto generosa: tutti sanno che non potrebbero difendere il castello a lungo e i nemici avrebbero facilmente ragione di loro. Ma quale destino attende il loro comandante, Guillaume di Hautlieu?

- La libertà di tutti, in cambio della mia vita? È questa l’offerta del tuo signore?

- Sì: devi consegnarti, vivo, domani mattina all’alba, e coloro che si trovano al forte potranno lasciarlo. Truppe del nostro capitano, il grande Ubayd al-Asad, li scorteranno fino in vista di Rougegarde.

Guillaume risponderebbe subito di sì, ma l’uomo dice:

- Tornerò al tramonto a chiedere la risposta.

Il messaggero volta il cavallo e si allontana, senza attendere una replica.

Lionel si avvicina a Guillaume:

- Non possiamo accettare questa proposta, comandante.

Guillaume sorride:

- E perché no? Abbiamo forse qualche possibilità di difendere il forte? Attendiamo un aiuto?

- Comandante, voi sapete bene che cosa hanno fatto davanti a San Giacomo di Afrin al comandante del forte San Giorgio. È stato il Leone a farlo.

Guillaume annuisce. Tutti conoscono i dettagli raccapriccianti dell’esecuzione di Jorge da Toledo, avvenuta davanti alle mura di San Giacomo d’Afrin qualche giorno prima che il barone Philippe la consegnasse. Se quello è il destino che lo attende, è orrendo, ma se il suo martirio significa la vita per tutti gli uomini del forte, ben venga. Che senso avrebbe mandare a morte i soldati e gli abitanti del villaggio quando non c’è nessuna speranza di salvarsi?

- Non possiamo sapere che cosa farà, ma non cambia nulla. Accetterò la proposta.

Anche Roger e Pagano si fanno avanti:

- Moriremo da uomini, in battaglia. Non possiamo accettare che il nostro comandante venga scannato in quel modo orrendo per salvarci.

- Meglio la morte, comandante, non vogliamo…

Guillaume alza la mano, a interrompere le parole di Roger:

- Devo ricordarvi che qui le decisioni le prendo io? Preparate le vostre cose e dite agli uomini del villaggio che domani mattina lascerete il forte.

- E se fosse un inganno? Potrebbero massacrarci tutti e allora che senso avrebbe il vostro sacrificio, comandante?

- Il Leone è feroce, lo so, ma nonostante il suo odio per i cristiani, non ha mai mancato alla sua parola. E in ogni caso, Pagano, ricordati che non esistono vie d’uscita. L’offerta è generosa e sono grato al Leone di averla fatta.

- Ma…

- Basta! Sono il comandante e non accetto che nessuno metta in discussione le mie decisioni. Chiaro?

La voce di Guillaume è aspra, il viso severo: non è così che di solito comanda, non è così che ha conquistato la stima e l’affetto incondizionato dei suoi uomini. Ma ora è necessario. Gli uomini chinano il capo.

- Eseguite i miei ordini!

Guillaume volta le spalle e si dirige verso la sua camera. Sente le parole di Roger:

- Non è possibile, non può morire così…

Guillaume non sa perché il Leone abbia fatto un’offerta che giudica generosa. Forse vuole portarlo sotto le mura di Rougegarde, dove presto si consumerà l’ultimo atto dell’avventura dei crociati in quest’area. Lo martirizzerà sotto lo sguardo dei difensori, come ha fatto con Jorge da Toledo a San Giacomo di Afrin, per creare il terrore e spingere alla resa?

La camera del comandante è piccola. Guillaume guarda il letto dove trascorrerà un’ultima notte di veglia: il sonno non verrà facilmente. Poi guarda lo specchio, bottino di guerra preso ad un castello arabo. Il comandante precedente l’aveva fatto portare qui e Guillaume l’ha sempre giudicato un oggetto inadatto alla camera di un soldato. Ora però lo fissa. Osserva il proprio viso riflesso. Un viso che il tempo ha segnato. Guarda gli occhi. Gli caveranno gli occhi? Guillaume rabbrividisce. Affrontare la morte in battaglia è diverso dall’offrirsi alle torture. Lentamente Guillaume si spoglia. Ora è nudo di fronte allo specchio che riflette la sua immagine: un uomo non più giovane, che porta le tracce delle battaglie e degli anni, ma ancora vigoroso, un guerriero; una vittima da sgozzare, un animale al macello. La destra di Guillaume scende ai testicoli e li afferra. Glieli taglieranno? Le sue dita sfiorano l’uccello. Anche questo? Le mani risalgono lungo il corpo, trovano antiche cicatrici, immaginano nuove ferite che non diventeranno cicatrici. Il suo corpo sarà abbandonato agli avvoltoi, come è successo per Jorge da Toledo, la sua testa sarà piantata davanti alle mura di Rougegarde, con le occhiaie vuote e i genitali in bocca? Una mano passa dietro, scorre lungo il solco tra le natiche. Jorge da Toledo fu violentato per due interi giorni. Coloro che videro il suo corpo prima che gli avvoltoi lo straziassero, dicono che lungo la parte interna delle cosce e delle gambe vi erano larghe strisce di sangue e di seme, che giungevano fino alle caviglie.

Guillaume chiude gli occhi. Non vuole più vedere la sua immagine. Si volta. Riapre gli occhi. Si corica sul letto. Chiude di nuovo gli occhi. Che ne sarà di lui? Che ne sarà della sua anima? C’è davvero un’anima, qualche cosa di lui che rimarrà anche dopo? A volte Guillaume se l’è chiesto. Mai Dio gli è apparso lontano come in questa terra dove è nato Gesù. Ciò che ha visto fare in nome di Dio, ad opera dei cristiani come dei musulmani, ha indebolito una fede che ora è solo più un’ombra. Neppure davanti alla morte qualche cosa si desta delle antiche credenze.

Ha peccato, secondo le regole della Chiesa ha peccato, più volte. Ha ceduto alle tentazioni del suo corpo. Si pente di aver ceduto? No, in lui non c’è traccia di pentimento. Ha desiderato, ha regalato e ricevuto in dono piacere e gioia. Ha amato. Il pensiero va a Jean. È peccato, questo?

Non proverà più piacere. Solo una sofferenza atroce lo attende, ma se questo è il prezzo per salvare le vite che gli sono state affidate, ben venga anche il martirio.

Guillaume rimane a lungo disteso. Poi si alza: deve controllare che i preparativi procedano, deve dare gli ordini necessari. Ciò che occorre distruggere, perché non cada in mano ai nemici, ciò che gli uomini cercheranno di portare con sé.

Guillaume si riveste ed esce. Il viso è sereno: difficile leggervi traccia dell’angoscia che il comandante prova.

Davanti alla porta ci sono Roger e Riccardo, che subito si fanno avanti.

- Comandante, non è possibile. Non possiamo accettare…

La voce di Guillaume tronca il discorso:

- È questa l’ubbidienza di cui date prova? Tacete e obbedite.

Guillaume procede, ignorando i due uomini. Finge di non vedere la loro angoscia. È già abbastanza difficile così, senza sentire su di sé il peso della sofferenza altrui.

Guillaume percorre il forte. Dà le istruzioni, con la consueta lucidità. Nessuno direbbe che la sua vita stia per chiudersi. Se qualcuno cerca di dire una parola su quanto gli succederà, Guillaume tronca il discorso.

Quando il sole sta calando all’orizzonte, Guillaume sale sulle mura. Il messaggero sta lasciando il campo musulmano. Tra pochi minuti sarà al castello. Guillaume guarda il tramonto. Forse l’ultimo che vedrà.

Il cavaliere si ferma davanti alla fortezza.

- Guillaume di Hautlieu, qual è la tua risposta?

La voce di Guillaume è ferma:

- Domani all’alba mi consegnerò, se tutti gli uomini saranno risparmiati e potranno raggiungere Rougegarde.

- Questo ha promesso Ubayd al-Asad, che Dio lo conservi a lungo, e egli ha una sola parola. La tua vita riscatta quella di tutti gli altri. Ti consegnerai a noi e gli altri andranno per la loro strada.

- Così avverrà.

Il messaggero volta il cavallo e si allontana.

C’è silenzio sulle mura. Una cappa di piombo pare pesare sui soldati. Domani potranno andarsene, ma la libertà che li attende ha un sapore di morte e di sconfitta.

Guillaume passa le ore seguenti a controllare che tutto sia pronto. Poi ritorna in camera e affida la sua anima a Dio. Si stende sul letto, ma non prende sonno.

Il pensiero va all’uomo che ha amato, a Jean.

Guillaume si dice che forse è meglio così. È stanco, stanco di combattere, di uccidere, di veder morire.

 

Quando il cielo incomincia a schiarirsi, Guillaume fa un ultimo giro di controllo. Tutto è pronto per la partenza. Gli uomini lo guardano, smarriti, ma non dicono nulla. Ora si sono abituati all’idea di poter sfuggire alla morte, hanno avuto una notte per accarezzare sogni di libertà, speranze di continuare a vivere, di ricominciare altrove. Ora se il comandante si tirasse indietro, sarebbe difficile per tutti accettare una realtà di morte.

Ultimato il giro, Guillaume sale sulle mura. È una giornata di vento, che solleva mulinelli di polvere. È quasi l’alba. Una parte delle truppe arabe è schierata davanti alla fortezza. Guillaume rimane a guardare fin quando vede che il sole sta per sorgere. Allora scende e ordina di aprire la porta.

Esce, solo. Il convoglio è pronto a mettersi in marcia.

Il messaggero lo attende. Guillaume gli porge la spada. L’uomo la prende e la passa a un soldato. Poi gli ordina:

- Spogliati.

Guillaume obbedisce. Si toglie quanto indossa, fino a che rimane solo con la tunica. L’uomo fa cenno a un altro, che afferra le braccia di Guillaume e le lega saldamente dietro la schiena.

- Da’ ordine che si avviino.

Guillaume dice:

- Andate.

Mentre gli uomini escono dal forte e sfilano, silenziosi, il messaggero raccoglie da terra una manciata di polvere e la sparge sul capo di Guillaume. Gli uomini che escono dal forte distolgono lo sguardo.

Guillaume ha chiuso gli occhi. Quando li riapre, gli ultimi uomini stanno uscendo dal forte. Guillaume li segue con lo sguardo, finché non sono ai piedi della collina, scortati dai soldati arabi.

Poi qualcuno infila un cappuccio sulla testa di Guillaume, gli passa un cappio intorno al collo e, senza dire una parola, lo tira. Guillaume si mette in cammino, cercando di non cadere. L’uomo che lo conduce si muove lentamente e Guillaume, pur incespicando più volte, riesce a rimanere in piedi.

Dopo un po’, il terreno diviene pianeggiante. L’accampamento non deve essere lontano. Guillaume sente le voci. Conosce l’arabo e sente qualcuno che esprime ammirazione per il suo coraggio. Altri si chiedono che cosa lo aspetta. Qualcuno fa riferimento alla fine orrenda di Jorge da Toledo. Neppure loro paiono conoscere le intenzioni del Leone.

Di colpo Guillaume non sente più il vento: devono essere entrati in una tenda.

- Inginocchiati.

Guillaume obbedisce: rifiutarsi non avrebbe senso. L’uomo gli slega la corda che stringe il collo e gli toglie il cappuccio. Sono in una tenda, come Guillaume aveva intuito. Un servitore a torso nudo ha in mano una bacinella d’acqua. Con uno straccio bagnato pulisce accuratamente il viso e i capelli del comandante cristiano. Poi l’uomo che lo ha guidato nella tenda gli solleva la tunica sul davanti, facendola passare dietro la testa: Guillaume è nudo, ora, solo le braccia legate e una parte della schiena sono coperte dalla tunica.

L’uomo gli pone una benda nera e di nuovo Guillaume si ritrova al buio.

- Puoi sederti o stenderti, come vuoi. Ma non cercare di liberarti o di fuggire.

Guillaume sa bene che, anche se riuscisse a liberarsi le mani e togliersi la benda, non avrebbe nessuna possibilità di fuggire dall’accampamento saraceno.

Guillaume rimane un momento in piedi, poi si siede, ma con le mani legate dietro la schiena non è una posizione comoda, per cui si mette disteso su un fianco. Il suolo è coperto da tappeti. Guillaume non può vedere nulla, può solo attendere.

L’attesa si prolunga. E Guillaume sente che la stanchezza della notte insonne ha il sopravvento. Forse morirà presto, tra atroci tormenti, ma ora il suo corpo chiede il riposo. Guillaume chiude gli occhi e si abbandona al sonno.

Lo sveglia una voce:

- Che razza di uomo sei? Dormi come se ti trovassi nel tuo letto e non in mano ai tuoi nemici. Dormi come se la tua vita non potesse finire tra poco. Dormi come se non sapessi tra quali tormenti è morto il comandante dell’ultimo forte che il Leone ha conquistato.

- Chi sei tu, che mi desti dal sonno?

- Sono un sacerdote di San Giacomo d'Afrin, prigioniero di Ubayd al-Asad, che mi ha autorizzato a confessarti.

Guillaume si mette a sedere. Se il Leone ha autorizzato un prete a confessarlo, è perché intende ucciderlo, ma questo non lo stupisce: si aspettava la morte. Spera solo che non gli venga riservato lo stesso orrore che ha subito Jorge.

- Mi attende la morte, vero?

- Questo non lo so. Ma è ora che tu ti confessi.

Guillaume si inginocchia. È davvero giunto il momento di chiedere perdono dei propri peccati.

Non ha molte colpe da confessare: ha combattuto lealmente, ha sempre mantenuto la sua parola, ha cercato di essere giusto. Di un unico peccato si è macchiato, più volte:

- Ho desiderato i corpi di altri uomini, più volte, e ho avuto rapporti carnali con alcuni di loro, in passato.

- Ti penti di questo?

Guillaume guarda dentro di sé. Gli pare che ci sia un immenso vuoto. Che senso hanno avuto quegli amplessi? A parte Jean, che ha davvero amato, gli altri sono stati il rapido soddisfacimento di un desiderio.

- Di tutti mi pento, tranne che di uno, dell’unico che ho amato.

- Devi pentirti anche di quello.

- Non sono pentito di aver amato un giovane e di averlo posseduto, tre notti.

- Quando avvenne?

- Dieci anni fa.

- Perché non ti vuoi pentire di questa colpa?

- Perché so che se potessi, la ripeterei. Posso ripudiare tutti gli altri uomini a cui mi ha unito il desiderio di un momento, ma ho amato Jean. Lo dirò a Dio, quando lo incontrerò, senza vergogna, anche se so di aver violato i voti pronunciati.

- Se non sei pentito, non posso assolverti.

- Datemi la vostra benedizione, padre.

- No, non è possibile. Addio, Guillaume di Hautlieu.

Guillaume ha l’impressione che l’uomo si allontani, ma il suolo è coperto da tappeti, che attutiscono i rumori. Forse si sbaglia.

Guillaume sente due mani che si posano sulle sue guance e poi una bocca che sfiora la sua. Rimane talmente sbalordito da restare immobile.

La bocca, così vicina alla sua, mormora:

- Guillaume, amore mio.

Quella voce è come un colpo al petto: per quanto sia mutata c’è qualche cosa di inconfondibile nel suono. A Guillaume pare che il cuore si fermi, mentre grida:

- Jean!

Le mani sciolgono la benda. Davanti a lui è inginocchiato il grande Ubayd, al-Asad, il Leone. È molto cambiato dall’ultima volta che Guillaume l’ha visto: dieci anni trasformano un ragazzo in un uomo. Anche l’abbigliamento è completamente diverso: un condottiero saraceno non si veste certo come un contadino franco. Ma Guillaume sa che l’uomo che ha davanti è Jean.

Jean lo bacia ancora, dolcemente, poi passa dietro di lui, scioglie le corde che gli legano le mani e gli libera le braccia dalla tunica.

- Jean!

Guillaume non riesce a dire altro. Non riesce a credere che davvero il ragazzo che ama e che ha a lungo cercato sia davanti a lui.

- Jean, non è possibile…

Jean scuote la testa.

- Ormai sono Ubayd. Mi sono convertito. Ma non ho mai smesso di amarti, anche se pensavo che non ti avrei ritrovato. Quando mi hanno detto che eri il comandante di Qasr Iblis

Jean scuote la testa. Ha le lacrime agli occhi. Guillaume gli prende il viso tra le mani e lo bacia.

Poi l’esigenza di capire, di sapere, li spinge a chiedere. Le domande si accavallano. Ora a chiedere è il templare, ora è il condottiero. Ognuno racconta brevemente gli anni trascorsi. Ci saranno altre occasioni per sapere di più: adesso per entrambi è importante riannodare i fili di un rapporto troncato dieci anni fa, contro la loro volontà.

Guillaume è nudo. Jean lo guarda. Sono otto anni che non ha rapporti, da quando il suo padrone Roland di Chartres lo stuprò per l’ultima volta, prima che Jean lo uccidesse per salvare dalla violenza un ragazzino. Ha giurato a se stesso che non si sarebbe mai più dato a nessuno, se non avesse ritrovato l’uomo che amava. Anche Guillaume non ha più rapporti da molto tempo.

Ognuno dei due vorrebbe stringere il corpo dell’altro, ma esitano, quasi spaventati. È un po’ come se fosse la prima volta per entrambi. Si erano amati tre notti, dieci anni fa. Non è facile riprendere.

A un certo punto Guillaume si alza: troppo a lungo è rimasto disteso, poi in ginocchio: ha bisogno di sgranchire le gambe. Anche Jean si alza, ma il desiderio sta crescendo in lui. Si volta, vergognandosi. Guillaume si avvicina, ora è alle sue spalle, ma non osa toccarlo. Jean fa un mezzo passo indietro e i loro corpi aderiscono. Guillaume lo cinge con il braccio e gli poggia il capo sull’incavo della spalla. Con molta delicatezza gli passa una mano sulla guancia.

- Jean, Jean.

Jean chiude gli occhi. Nessun altro uomo lo ha mai accarezzato: è stato violato, più volte, ma solo a Guillaume si è dato liberamente e solo lui gli ha donato amore e carezze. Una sensazione di benessere profondo lo invade: ha ritrovato Guillaume, si amano ancora, può sentire il calore del corpo dell’uomo che ama contro il proprio, la sua mano che gli accarezza il viso. Jean si abbandona a questo abbraccio, che cancella dieci anni di sofferenza. Lascia che le dita di Guillaume, con molta delicatezza, lo spoglino. È bello sentire le carezze. A Jean sembra di non volere altro, anche se il desiderio cresce.

Guillaume lo tiene le sue braccia, lo stringe. Rimangono così a lungo, poi a una leggera pressione del templare, si lasciano andare sui tappeti. Jean steso sulla schiena, Guillaume sopra di lui. Jean asseconda i movimenti di Guillaume, ma non prende iniziative: non c’è traccia del condottiero sicuro di sé. Gli sembra di essere tornato un ragazzo inesperto che si affida al valoroso comandante del forte. Sente che il desiderio cresce, che il sangue affluisce all’uccello, ma lascia che sia Guillaume a condurre il gioco.

Il templare lo bacia sulla bocca e le sue mani percorrono il corpo. Jean sente il peso del corpo che grava sul suo. Avverte l’odore di Guillaume, di maschio, di sudore. Cerca le labbra di Guillaume, stordito dalla pressione forte che avverte contro il ventre, mentre le mani del templare lo stringono. È un vortice che lo trascina e a cui Jean si abbandona completamente.  

Guillaume si stacca e si inginocchia sul tappeto, di fianco a Jean. Si china su di lui, mentre le sue mani ne accarezzano il corpo. Entrambi non sono ancora sazi di carezze, per troppi anni non hanno avuto le carezze che desideravano.

Ma ora il desiderio è troppo forte, in entrambi, e supera ogni remora. Jean guarda il cazzo di Guillaume, grande, teso, con la pelle un po’ più scura del resto del corpo e la cappella rossastra. Ha un momento di smarrimento. Sa che quel cazzo gli entrerà dentro, che l’uomo che ama lo prenderà, come ha fatto molti anni fa. È come se fosse la prima volta. Ha paura e nello stesso tempo lo desidera, vuole appartenergli di nuovo, tornare a essere suo.

Guillaume lo accarezza, poi le loro bocche si cercano, in un bacio.

Guillaume non dice nulla, non chiede nulla, ma Jean si volta e si stende sulla pancia. Allarga bene le gambe.

Guillaume si inginocchia tra le sue gambe e lo accarezza ancora: le sue mani gli percorrono la schiena, scendono alle natiche, stringono il culo, poi risalgono.

Guillaume si stende su Jean, gli bacia la nuca, gioca con i suoi capelli, gli sussurra:

- Jean, amore mio.

Poi il peso scompare: Guillaume si è di nuovo messo in ginocchio e inumidisce l’apertura con le dita bagnate, poi si stende su di lui e Jean sente la pressione della cappella. Si tende, ma Guillaume lo bacia sul collo, gli passa la lingua dietro l’orecchio, gli accarezza il culo e Jean si rilassa. Il cazzo avanza e Jean cede alla mazza che prende possesso di lui, accetta di essere penetrato, di appartenere nuovamente a quest’uomo che lo abbraccia, lo bacia e lo possiede, lo fa suo.

Dalle labbra gli sfugge:

- Sì!

Il cazzo di Guillaume continua ad avanzare, fino a penetrare completamente. C’è un po’ di dolore in questa conquista, ma Jean è felice anche di questo. Ora Guillaume è dentro di lui, una presenza ingombrante e forte, a cui Jean si sottomette completamente. È felice di essere posseduto dall’uomo che ama, l’uomo che ora lo bacia e lo abbraccia.

Guillaume prende a muoversi, lentamente. Il dolore cresce, ma Jean non vorrebbe che smettesse. Guillaume si ferma un momento, lascia che il corpo di Jean si abitui al nuovo padrone, allo spiedo che lo trapassa. Ora il dolore si attenua. Guillaume riprende a spingere, a un ritmo crescente. È bello. È doloroso, ma è bello. È davvero quello che Jean ha desiderato in tutti questi anni.

Guillaume spinge con forza ora, spinte vigorose che martoriano il culo di Jean, fino a che geme, forte. Le spinte divengono ancora più intense e poi si attenuano, mentre l’ondata del piacere investe anche Jean, che sparge il suo seme sul tappeto.

Guillaume si abbandona sul corpo di Jean e lo bacia sul collo.

Rimangono a lungo così, appagati.

 

 

 

V – Addii

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Area aperta

Storie

Gallerie

Indice