I –  I mercanti

II – La setta

 

III – Manovre

 

 

Mentre Denis e Ferdinando tornavano a Rougegarde, Bohémond ha percorso la stessa strada in direzione opposta. È vescovo anche di San Giacomo d’Afrin e abitualmente vi trascorre una parte del tempo. Non aveva previsto di recarvisi ora, in questa estate rovente: preferisce trascorrere i mesi più caldi a Rougegarde. Adesso però ha bisogno di allontanarsi dalla città e vuole parlare con il barone Olivier.

Ha incominciato a elaborare un piano per perdere definitivamente il duca: è ora di risolvere la faccenda una volta per tutte. Vuole vedere il suo nemico squartato in piazza, come avvenne con il conte d’Espinel. E riuscirà a ottenerlo. Il momento è favorevole: Guido da Lusignano è ostile al duca e non gli dispiacerebbe poter assegnare Rougegarde a qualcuno di coloro che hanno favorito la sua ascesa al trono e che ora lo sostengono.

Bohémond sa che anche il re deve muoversi con prudenza, perché il duca è molto potente, ma se ci fossero le prove inconfutabili di un tradimento, la sorte di Denis di Rougegarde sarebbe segnata.

Arrivato a San Giacomo d’Afrin, raggiunge il suo palazzo, posto a fianco della cattedrale. Comunica il proprio arrivo al barone e lo informa che vorrebbe parlargli il giorno seguente.

Bohémond considera Olivier un alleato prezioso: a differenza del duca, ha l’appoggio del nuovo re, che ha sostenuto contro le pretese di Raimondo di Tripoli. Il sostegno del barone di San Giacomo d’Afrin non è certo stato determinante, ma Guido da Lusignano è ben disposto nei confronti di questo signorotto.

Olivier, in quanto reggente per il nipote Philippe, ha tutto l’interesse a perdere il duca: per diventare signore della città a pieno titolo, dovrebbe eliminare entrambi i nipoti, ma Jacques è sotto la protezione di Denis di Rougegarde. Per poter sopprimere il giovane, bisogna che il duca muoia.

Bohémond ha messo a punto un piano per provocare la rovina del duca, del figlio Pierre e di Jacques: in questo modo sa che avrà l’appoggio incondizionato di Olivier.

Il barone comunica che verrà in mattinata: nei confronti del vescovo è sempre molto deferente. Bohémond sa benissimo che Olivier lo appoggia solo perché hanno gli stessi nemici e interessi comuni, ma l’alleanza può essere vantaggiosa per entrambi.

 

Il giorno dopo Olivier si presenta al palazzo vescovile. Saluta il vescovo, si informa del viaggio, gli chiede notizie di Rougegarde. A sua volta Bohémond pone qualche domanda sulla salute di Olivier, su quella del nipote Philippe, sulla città.

Dopo i preamboli di cortesia, Bohémond incomincia:

- Ho chiesto di parlarvi perché ho bisogno di confrontarmi con voi. Ora che il Saladino ha riunito tutta la Siria sotto il suo possesso e che, dominando anche l’Egitto, stringe il Regno di Gerusalemme in una morsa, la situazione è diventata molto più difficile. Non possiamo aspettarci aiuti dall’imperatore o dai re d’Europa, troppo occupati a guerreggiare tra di loro, per difendere la città santa dove il Figlio di Dio si è sacrificato per il riscatto dei nostri peccati.

Olivier non ha idea di dove voglia arrivare il vescovo, ma sa che lo scoprirà presto, per cui si milita a un generico:

- Purtroppo è così, eccellenza.

- In queste circostanze si vedono coloro che davvero sono animati dalla vera fede e sono pronti ad affrontare il martirio.

Olivier annuisce. Le parole del vescovo non lo ingannano, come il suo assenso non inganna Bohémond. Si conoscono a fondo e sanno benissimo che agiscono entrambi per brama di potere, ma fingono di condividere una grande fede.

Bohémond fa una pausa, poi prosegue:

- Ma si vedono anche coloro che pensano solo al potere e sono disposti a tradire per ottenerlo… o per conservarlo.

- Certamente. Di fronte al pericolo si rivela la vera natura dell’uomo.

Olivier continua a manifestare la sua approvazione, mentre attende una spiegazione.

Il vescovo fa un passo avanti, avvicinandosi, e abbassa la voce, per dire:

- Pare che il duca stia cercando un accordo con il Saladino. Sa che Rougegarde è troppo esposta per poter essere difesa a lungo. Intende sottomettersi al Saladino, in cambio del riconoscimento della sua autorità sulla città. Non teme ribellioni: in città sono numerosi i maomettani e gli ebrei, ansiosi di ricongiungersi agli altri infedeli.

Olivier guarda Bohémond. Sa benissimo che ciò che gli racconta il vescovo è falso, ma coglie l’intenzione del vescovo: ciò che è falso deve diventare la verità, una verità infamante, che ribalterebbe la situazione. Se si scoprisse che il duca cerca un accordo segreto con i saraceni, sarebbe la sua fine. Lo squarterebbero in piazza, come fecero con Tancrède d’Espinel. Sarebbe magnifico: a Olivier piacciono le esecuzioni cruente e non c’è uomo al mondo che vedrebbe più volentieri squartato e castrato di Denis d’Aguilard, duca di Rougegarde. E con lui Ferdinando: nessuno dei tre fratelli ha mai sopportato quello zotico siciliano, che ha un titolo superiore al loro e non sa nemmeno leggere.

Con l’appoggio del vescovo Olivier potrebbe prendere il loro posto e divenire signore di Rougegarde e dell’Arram.

Risponde:

- Non sospettavo nulla, ma ciò che mi dite non mi stupisce. Il duca è sempre stato un uomo molto ambizioso e credo che lui e il conte Ferdinando, che è sempre al suo fianco, siano disposti a tutto, pur di conservare i loro territori.

Ora il vescovo sa che Olivier vuole la fine anche di Ferdinando. Bohémond non aveva pensato a lui, non dando nessuna importanza al conte, ma in effetti è meglio sbarazzarsene. Tutti sanno che è molto legato al duca ed è comprensibile che nelle trattative segrete sia coinvolto anche lui.

- Certo. L’ambizione è ciò che li muove. Entrambi sono traditori, a cui Iddio riserverà la fine che meritano.

Stabilito che sono d’accordo, ora devono trovare il modo di ottenere ciò che desiderano. Olivier osserva:

- Il duca è molto potente, anche se non gode del favore del nuovo re: molti vedono in lui il difensore della Cristianità.

Bohémond storce la bocca in una smorfia di disprezzo.

- Un empio che non ha rispetto per la Chiesa, che tollera eretici, maomettani, ebrei.

- Purtroppo molti non sanno vedere oltre la superficie delle cose.

- Quando l’infamia sarà rivelata, dovranno riconoscere di essersi sbagliati. Grande sarà la loro vergogna.

- Certo, ma per perdere il duca, bisognerebbe avere prove certe del suo tradimento.

-  Credo che ci siano delle carte: uno scambio di lettere tra il duca e l’emiro di Jabal al-Jadid. Sapete che il duca è in buoni rapporti con lui e credo che l’emiro faccia da intermediario tra il duca e il Saladino.

- Non fatico a crederlo. So che insieme hanno sgominato la setta che ha ucciso mio fratello, con un’operazione che ha preso di sorpresa tutti.

Il vescovo annuisce. Olivier prosegue:

- Bisognerà trovare quelle carte e portarle al re.

- Certo, questo occorrerà fare. Richiederà un certo tempo, ma so come venirne in possesso.

Olivier sorride. Sa bene come il vescovo ne verrà in possesso: fabbricandole. È un’ottima cosa, purché non faccia errori.

- Benissimo. Suppongo che anche il figlio sia coinvolto. In ogni caso, se il padre è un traditore, non è pensabile che il figlio possa ereditare il feudo.

- No, di certo, comunque credo che sia complice anche lui: non può essere all’oscuro delle manovre del padre. Quando ci saremo procurate queste carte, vedremo esattamente qual è la situazione, ma esiste di certo una vasta rete di complicità.

- Mi chiedo se…

- Ditemi.

- Mi chiedo se anche mio nipote Jacques non sia coinvolto.

Bohémond fissa Olivier. Ha capito benissimo l’obiettivo del barone: sbarazzarsi definitivamente di Jacques, in modo da poter eliminare Philippe e diventare il signore di San Giacomo d’Afrin.

- È possibile. Sarebbe suo interesse eliminare il cugino, in modo da potersi impadronire della città. Certamente, se Rougegarde venisse consegnata al Saladino, San Giacomo si troverebbe del tutto isolata e non potrebbe resistere. Mi sembra molto probabile che il duca abbia coinvolto vostro nipote.

Olivier sorride: l’accordo è concluso, le carte dimostreranno il tradimento di Denis, del figlio, di Ferdinando e di Jacques. Tutto verosimile, poiché di certo se Rougegarde finisse nelle mani dei saraceni, l’Arram e San Giacomo subirebbero la stessa sorte.

- Vedremo che cosa emerge dalle carte.

- Certamente.

Olivier riflette un momento, poi aggiunge:

- Bisognerà riuscire a convincere il re e la corte: molti non vorranno credere a un simile tradimento.

- Sì, sarà necessario muoversi con molta cautela. Il duca è potente e di certo sosterrà che si tratta di un falso. Purtroppo ha ancora molti amici a corte. Ma quando avremo trovato le carte e la avremo consegnate al re...

- Le carte, certo. Però…

- Sì?

- Non credete che sarebbe opportuno preparare il terreno, prima, eccellenza?

- Che cosa intendete? In che modo?

- Creare qualche sospetto, in modo che le carte appaiano come una conferma.

Bohémond annuisce: l’idea è buona, ma non facile da realizzare.

- Potrebbe essere una bella idea, ma come?

- A questo dobbiamo pensare.

Olivier non ha in mente niente di preciso, ma diffondere qualche sospetto sarebbe utile per ottenere più facilmente il risultato desiderato. Riflette un momento e aggiunge:

- Una prima cosa che potrei fare io, è comunicare al re che ci sono scambi di messaggi tra Rougegarde e Jabal al-Jadid, comunicazioni segrete che arrivano direttamente all’emiro. Posso dire che mi ha informato una mia spia.

- Sì, potrebbe essere. Il re penserebbe a un traditore, senza sospettare del duca, probabilmente. Però… se il re chiedesse al duca stesso di indagare?

- Questo non cambierebbe molto. Il duca indagherebbe davvero, senza scoprire nulla.

- Sì, è probabile. Direi che è una buona idea.

- Sarebbe utile trovare anche qualche cos’altro, senza scoprirsi troppo.

- Ditemi.

- Potrei segnalare al re che i saraceni sembrano informati di certi movimenti delle mie truppe… no, non ha senso. E se invece voi…

Il vescovo lo interrompe:

- Io non devo figurare in nessun modo. Vedremo come far arrivare quelle carte al re, ma non posso essere io a consegnarle. Tutti sanno che il duca mi è ostile e se le trovassi io, direbbero che è una manovra da parte mia per perderlo.

Olivier si passa una mano sulla barba.

- Sì, avete ragione. Potrei sorprendere io nel territorio di San Giacomo un uomo del duca con carte compromettenti e rivelare al re il tradimento.

- Esatto, rendereste così al re un servizio di cui non si dimenticherà. Saprà come ricompensare chi ha permesso di scoprire un orribile tradimento.

Bohémond non lo dice, ma il pensiero inespresso è chiaro: il re dovrebbe affidare Rougegarde a colui che l’ha salvata, impedendo che il duca la consegnasse nelle mani del Saladino. Per Olivier è l’occasione a lungo attesa.

Molti dettagli vanno definiti, ma nelle grandi linee il piano è chiaro. Olivier e Bohémond sanno di rischiare moltissimo entrambi. La manovra è azzardata e i rischi sono forti: se si scoprisse che hanno prodotto carte false per eliminare quello che tutti considerano il baluardo della Cristianità oltremare, verrebbero giustiziati, come Tancrède d’Espinel. Il loro è un tradimento e la loro esecuzione sarebbe probabilmente altrettanto infamante e atroce. Olivier non ha nessuna intenzione di finire squartato in piazza.

- Bisogna essere molto cauti. Il duca è potente.

- Quanto più si è in alto, tanto più fragorosamente si cade.

Olivier sorride.

 

Dopo la partenza di Ferdinando e Adham, Denis guida il figlio Pierre nella rete di passaggi sotterranei. Con loro ci sono Manrique, Solomon e Pierre da Caen, l’ufficiale che abita nella casa di Giovanni: le persone in cui Denis ha completa fiducia. Denis li ha presi con sé per avere una scorta e per far conoscere anche a loro una parte del labirinto sotterraneo.

Pierre conosce già alcuni di questi cunicoli, tra cui i due che dal palazzo ducale portano fuori città, oltre le mura.

- Avete un’idea di chi li fece costruire, padre?

- Non furono costruiti tutti insieme Pierre. Avrai modo di notarlo anche tu: le tecniche di costruzione sono diverse e anche la funzione di questi passaggi non è la stessa. I due che conducono fuori città furono senza dubbio scavati per obiettivi bellici: poter uscire dalla città in caso d’assedio o poter far entrare persone e rifornimenti. Gli altri credo che servissero per permettere al signore della città di spostarsi in segreto, ma anche di sorvegliare nemici… e amici.

È l’ufficiale a chiedere:

- E come li avete scoperti?

- Mi informarono della loro esistenza e individuai senza difficoltà alcuni di quelli che partivano dal palazzo ducale. Non tutti, vero, Solomon?

Solomon sorride. In effetti Denis non aveva pensato al condotto dell’acqua che permette di raggiungere la grande cisterna sotterranea: gli Hashishiyya se ne servirono per cercare di uccidere il duca, ma fu proprio l’intervento dell’ebreo a salvare il signore di Rougegarde.

- Quello a cui alludete non è un vero e proprio passaggio, anche se può essere usato per entrare.

- Non più. Ora una grata lo blocca.

Dopo aver risposto a Solomon, Denis si volta verso Pierre e dice:

- In seguito trovai qualche cosa di cui sospettavo l’esistenza.

- E sarebbe?

- Una mappa di questi passaggi. Custodita nella biblioteca, ma nascosta. E così proseguii con l’esplorazione.

È di nuovo l’ufficiale a chiedere.

- È una rete molto estesa, da quel che dite.

- Immensa. Collega al palazzo le principali dimore signorili della città e le moschee più importanti. Con ingressi segreti, che possono essere bloccati solo da chi arriva dal palazzo ducale.

Manrique osserva:

- Si direbbe quasi che questi passaggi siano stati costruiti per ordine dell’emiro, per poter tenere sotto controllo la città.

- Come dicevo, sono stati costruiti in epoche diverse, ma uno degli ultimi emiri, forse il padre di quello a cui tolsi Rougegarde, li fece sistemare. E di sicuro il suo obiettivo era quello che dici, Manrique.

Procedono ancora per un tratto, poi Denis dice:

- Ora siamo di fianco al palazzo vescovile.

Pierre d’Aguilard dice:

- Potremmo fare una visita al vescovo.

- Sì, ci sono ben due passaggi che conducono in punti diversi del suo palazzo.

- Il vescovo ne è a conoscenza?

- Lo escludo.

- Perché secondo voi ben due passaggi tra i due palazzi? Uno non era sufficiente? Chi viveva qui?

- Apparteneva a una delle famiglie più importanti di al-Hamra, ma non so a quando risalgano i passaggi, né perché l’emiro di quel tempo li avesse fatti scavare.

- Siete sicuro che fosse l’emiro?

- Era certamente il proprietario dell’attuale palazzo ducale, perché i passaggi partono di lì e, come gli altri, possono essere bloccati dall’interno, ma non dall’attuale palazzo vescovile.

- Avete verificato?

- Sì, li esplorai, prima dell’arrivo del vescovo. Fu una delle prima cose che feci quando divenni signore di Rougegarde: esplorare i passaggi che partivano dal palazzo. Volevo essere sicuro che nessuno potesse entrare nel palazzo servendosi dei cunicoli sotterranei. La conquista di Rougegarde era avvenuta facilmente, ma non tutti erano felici del cambiamento e preferivo essere sicuro di non venire assassinato nel sonno.

- Mi rimane il dubbio del perché ben due passaggi.

- Non ho nessuna risposta sicura, ma un’ipotesi. Un passaggio immette dalla parte dell’appartamento principale, quello dove sta il vescovo, e credo che chi abitava allora nel palazzo ne fosse a conoscenza: un buon modo per incontrarsi senza che nessuno lo sapesse. Il secondo passaggio invece scende nei sotterranei, dove ci sono le celle, e forse il proprietario del palazzo ne ignorava l’esistenza.

- Poteva servire per attaccare il palazzo, ad esempio?

- O per mandare qualche sicario. Raccogliendo informazioni ho scoperto che quasi un secolo fa, al tempo in cui i franchi si stavano preparando a partire per conquistare Gerusalemme, il potente Tahir ibn Ikram, proprietario del palazzo e suocero dell’emiro, fu trovato morto sul letto: strangolato nel sonno. Nessuno seppe mai come gli assassini fossero potuti entrare e poi uscire senza essere scoperti.

- Dici che potrebbe averlo fatto uccidere l’emiro?

- Potrebbe essere. È solo un’ipotesi: non conosco queste vicende. Ma è molto probabile che il passaggio sotterraneo sia stato utilizzato in quell’occasione. Adesso però c’è un’altra cosa che voglio farvi vedere, nel passaggio inferiore.

Scendono per una ripida scala.

Denis indica qualche cosa al centro del passaggio.

- Ecco: quello.

- Quello cosa? Che cosa c’è?

- Se metti un piede lì sopra, precipiti in una fossa. 

Denis fa pressione su una pietra nel muro, che cede. Abbassa una leva e un tratto del pavimento scompare.

Denis si inginocchia sull’orlo e si sporge con la lanterna sul vuoto.

- Lì al fondo ci sono molte ossa.

- Ossa? Di uomini?

- Sì. Non so se persone cadute in una trappola, magari mentre cercavano di entrare, o se il pozzo servisse per sbarazzarsi dei cadaveri. Ma di ossa ce ne sono tante.

- Come lo sapete?

- Mi ci sono calato.

- E se uno vuole proseguire?

Denis si alza. Aziona la stessa leva, sollevando la botola. Poi fa vedere come bloccarla.

- Così possiamo passare.

Proseguono ancora il giro, poi tornano al palazzo ducale. Quando gli altri se ne sono andati, Denis dice al figlio:

- Pierre, adesso hai un quadro più preciso dei passaggi. Attraverso uno di questi abbiamo fatto fuggire i giovani che Emich aveva riunito. Costituiscono una risorsa importante, anche perché nessuno sa dove si trovino.

- Certamente.

- Voglio che tu li conosca e possa servirti della mappa, perché quando sarò lontano dalla città, in guerra o a Gerusalemme o impegnato in qualche missione, tu possa utilizzarli, se è necessario. Non li userai tu direttamente: ci sono Manrique e Pierre, che possono scegliere alcuni uomini sicuri. O Solomon.

Pierre dice, pensieroso:

- Solomon…

Denis avverte che Pierre è dubbioso.

- Che c’è, Pierre? Qual è il problema con Solomon?

- Vedo che siete in ottimi rapporti con lui ed è un uomo che apprezzo, ma sono rimasto stupito che oggi fosse con noi.

- Pierre, ci sono pochissime persone al mondo su cui posso davvero contare, sempre. Tu e Manrique e alcuni dei miei uomini. Ma se parliamo di coloro che non sono legati a me da vincoli di parentela o di lavoro, ho una fiducia totale soltanto in due persone: Guillaume di Hautlieu, che però vedo di rado, e Solomon.

- Non nel conte Ferdinando? È un uomo leale.

- Sì, Pierre, certamente leale, ma irruente e talvolta incapace di dominarsi. Agisce prima di pensare, si lascia guidare dall'impulso del momento. Non è certo uomo da tradire: sarebbe disposto a morire per me senza esitare. So che posso contare su di lui sempre quando si tratta di agire. Ma preferisco che non sappia troppo, perché potrebbe rivelare un segreto o commettere un errore. Puoi sempre rivolgerti a lui, se io fossi via.

Pierre annuisce.

Denis continua: ha colto che Pierre ha delle riserve su Solomon e vuole capire di che cosa si tratta. Sospetta forse il legame che li unisce?

- Non mi hai detto quali sono i tuoi dubbi su Solomon.

- Padre… è un’ottima persona, ma è un ebreo. Mi stupisce che abbiate completa fiducia in un ebreo.

- Pierre! Non dire sciocchezze. Non è certo la comunanza o la diversità di fede che rende un uomo leale o infido, come una fede non rende un uomo grande o meschino. Pensa al vescovo Bohémond.

Pierre annuisce. Ha sempre guardato a Solomon con una certa diffidenza, proprio perché ebreo. Pierre si rende conto che negli anni trascorsi a Bellerivière ha acquisito tutta una serie di pregiudizi che ora, di fronte alle esperienze di ogni giorno in Terrasanta, rivelano la loro infondatezza. Ma non è facile liberarsene.

- Avete ragione, padre. In Francia, da vostro zio, c’è molta diffidenza nei confronti degli ebrei.

- Sì, lo so. Noi cristiani non siamo capaci di accettare che altri possano credere in modo diverso. O non credere. Ma questo non vale solo per i cristiani. Vale anche per musulmani ed ebrei. Non tutti, naturalmente, ma molti sono così.

- Sì, c’è molta intolleranza.

- Esatto. E per molti baroni del regno la mia tolleranza nei confronti di musulmani ed ebrei è inaccettabile, quasi un tradimento.

 

Mahmud si è rimesso completamente. Denis ha avuto l’impressione che fosse un forte guerriero e ora che è in grado di combattere, decide di metterlo alla prova, facendogli affrontare Manrique.

Mahmud si rivela subito un avversario temibile. Manrique alla fine ha la meglio, ma il curdo lo ha fatto sudare alquanto. Denis ha assistito e dice:

- Bene, Mahmud, resterai qualche mese qui a dare lezioni a mio figlio e al barone Jacques. Poi ti renderò la tua libertà. Ti va bene?

Mahmud si stupisce che il duca gli chieda se gli va bene: è uno schiavo e non ha certo il diritto di dire la sua. Ma ha capito che Denis di Rougegarde non è un padrone come gli altri.

- Certamente, duca, ti ringrazio per la tua generosità.

- Credo che tu sia anche un buon lottatore. O mi sbaglio?

- Amo lottare. E me la cavo bene.

- Perfetto. Voglio che i due giovani imparino anche la lotta. Ti farò conoscere l’altro uomo che insegna loro la lotta. Domani vi affronterete.

 

L’incontro previsto si svolge in modo del tutto inatteso. Solomon arriva che Mahmud è già presente. Guarda Mahmud, allibito e gli dice:

- Mahmud!? Che ci fai qui?

- Solomon, fratello!

Per quanto abbiano avuto poco modo di frequentarsi, si considerano fratelli, in quanto entrambi fratelli adottivi di Ishan. Si abbracciano. Denis, Pierre e Jacques li guardano, stupefatti.

Quando si staccano, Mahmud risponde alla domanda, indicando Denis:

- Sono schiavo del duca.

Solomon aggrotta la fronte.

- Il duca non tiene schiavi.

- Lo so. Mi ha detto che mi lascerà libero, ma che per il momento mi tiene: mi ha acquistato e mi guadagnerò la libertà facendo fare esercizio di uso delle armi e di lotta ai due giovani.

Denis non è intervenuto e Pierre e Jacques, per quanto estremamente curiosi, hanno seguito il suo esempio e non si sono mossi. Solomon si volta verso Denis e dice:

- Allora Mahmud è vostro schiavo.

- Sì, provvisoriamente. Ma come mai lo conosci?

- È mio fratello.

Denis, Pierre  e Jacques lo guardano perplesso. Solomon ride.

- Vi ho parlato di Boran, il capo curdo che fu assassinato da Jorge da Toledo. Mi adottò perché avevo salvato uno dei suoi figli da una leonessa. Loro mi considerano un fratello e anch’io li considero miei fratelli. Certamente più simili a me di Amos, a cui voglio un gran bene, ma con cui non riesco a intendermi.

- E Mahmud che c’entra?

- Mio fratello Ishan, il figlio maggiore di Boran, ha adottato Mahmud come fratello, perciò adesso anche lui è mio fratello. L’ho visto per la prima volta quando sono andato da loro per farmi accompagnare da Sinan. Fu Ishan a portarmi dal capo dei nizariti.

Denis sorride.

- Strana combinazione.

Mahmud ha capito che si parlava di lui, ma non ha potuto seguire il discorso. In questo periodo trascorso a Rougegarde ha imparato solo alcune parole ed espressioni della lingua dei franchi.

Invece Denis, Pierre e Jacques conoscono bene l’arabo, per cui Solomon torna a rivolgersi a Mahmud e gli chiede:

- Come mai sei finito qui?

Mahmud racconta brevemente la sua vicenda.

- I nostri fratelli sanno che sei a Rougegarde?

- No, sanno che sono stato catturato, ma credono che io sia ancora prigioniero del barone.

- Bisogna che li informi. Saranno in ansia per te.

Mahmud guarda il duca, incerto. Non si è chiesto se Denis di Rougegarde gli avrebbe permesso di scrivere ai suoi fratelli.

- Duca, saresti disposto a far arrivare un messaggio ai miei fratelli?

- Certamente. Per me non c’è problema. Puoi scrivere oggi stesso, dopo la lezione.

Poi Solomon si rivolge a Denis:

- So che dovevamo affrontarci, perché poteste valutare il nuovo maestro, ma non è necessario: Mahmud è un lottatore molto forte. Ho avuto modo di vederlo all’opera e credo che sarà un ottimo maestro. I miei fratelli sono tutti bravi nella lotta, ma lui è il migliore.

- Perfetto. Allora vi lascio: darete voi le istruzioni per la lezione di lotta. Dopo passate da me, Solomon, per favore.

- Certamente, duca.

Solomon spiega a Mahmud come si svolgono di solito le lezioni, poi i due maestri affrontano i giovani allievi.

Jacques si trova a lottare contro Mahmud. Preferisce affrontare questo avversario sconosciuto. Quando si trova a lottare con Solomon non riesce a concentrarsi e il desiderio emerge prepotente.

Mahmud è davvero un lottatore formidabile. Jacques si ritrova bloccato in pochissimo tempo. D’altronde il divario di forze e di esperienza è troppo grande. Mahmud non ha mai dato lezioni di lotta, ma Solomon lo guida a spiegare ai due giovani tecniche e posizioni.

Provano diverse volte, poi Solomon affronta Jacques e Mahmud Pierre. Jacques cerca di concentrarsi, ma il desiderio è troppo forte. Fortunatamente Solomon quando lo blocca a terra lo lascia subito, perché altrimenti Jacques verrebbe. Si è messo un pezzo di stoffa nelle brache, per evitare che si vedesse la macchia umida, nel caso venisse.

Dopo un’ora di lotta, sono tutti sudati, per quanto non faccia caldo. Pierre propone:

- Solomon, mi piacerebbe vedervi affrontare Mahmud. Credo che vedervi lottare sia un bellissimo spettacolo.

Pierre ha parlato nella lingua dei franchi. Solomon si volta verso Mahmud e gli dice:

- Il figlio del duca avrebbe piacere che ci affrontassimo. Ti va bene?

- Certamente, fratello.

L’incontro di lotta è davvero spettacolare. I due avversari sono molto forti e rapidi nei movimenti. Solo dopo una lunga lotta, in cui i loro corpi si sono coperti di sudore, Mahmud riesce a mettere sotto Solomon e a bloccarlo. Mahmud è steso su Solomon, che è schiacciato dal peso del fratello e non può liberarsi, perché Mahmud gli ha piegato il braccio dietro la schiena, rendendo ogni movimento impossibile.

A Jacques è venuto duro. Immagina Mahmud che cala i pantaloni di Solomon e lo incula con un movimento brusco.

Anche Mahmud si rende conto di avere il cazzo duro. Sono mesi che non scopa e sentire il corpo di Solomon sotto il suo ha destato il suo desiderio. Si vergogna, perché l’ebreo è suo fratello e teme che possa accorgersene: le brache che entrambi hanno indossato per la lezione di lotta sono corte e leggere e probabilmente Solomon sente contro il proprio culo la pressione esercitata dal cazzo duro di Mahmud.

Solomon non sembra averlo notato. Dice:

- Hai vinto, Mahmud. Devo arrendermi. Ma sapevo che mi avresti vinto. Sei più forte.

Mahmud si stacca. Tiene le mani davanti, per nascondere il rigonfio nei pantaloni.

- Forse, ma non mi sarei stupito se fossi stato tu a vincere: sei un avversario temibile, fratello.

Solomon si alza. Ride e osserva:

- Averti sulla schiena è come essere sotto un cumulo di massi, fratello.

Poi si rivolge a Jacques e Pierre e dice:

- Adesso direi che abbiamo tutti bisogno di un buon bagno.

Pierre annuisce:

- Certamente.

Solomon mette un braccio sulle spalle di Mahmud e si dirigono ai bagni.

Solomon e Pierre si spogliano in fretta, ben contenti di liberarsi dei vestiti che il sudore gli ha appiccicato addosso. Mahmud si spoglia più lentamente, perché l’erezione si riduca. Jacques si volta per non vedere il corpo di Solomon. Si toglie gli abiti molto lentamente. Quando ha finito, gli altri tre si stanno già lavando.

Dopo che si sono lavati, Jacques dice che preferisce andare e Pierre lo imita. Mentre si rivestono, Pierre chiede:

- Mi sembri alquanto turbato, Jacques. Che cosa c’è?

Jacques ridacchia, un po’ nervoso. Sa che a Pierre può raccontare tutto, ma è in imbarazzo.

- Non ce la faccio a vedere quei due magnifici maschi. Se stavo lì a guardarli… no, non ce la facevo proprio.

Pierre ride.

- Capisco. Meglio andarsene, in questi casi.

Mahmud e Solomon sono rimasti nel bagno. Solomon si fa raccontare tutti i dettagli della cattura e poi della prigionia. Osserva i segni delle frustate, ben visibili sulla schiena del fratello.

- Olivier di San Giacomo d’Afrin è un figlio di puttana, Mahmud.

Mahmud annuisce.

- Spero un giorno di trovarmelo davanti in battaglia.

- Te lo auguro. E lo auguro anche a lui.

- È stata una fortuna che il duca mi abbia visto e acquistato. Altrimenti a quest’ora sarei un eunuco. O sarei morto.

- Sì. Il duca è generoso.

Chiacchierano un buon momento. Quando si alzano per rivestirsi, Solomon dice:

- Sapevo che eri un lottatore formidabile. Oggi me ne hai data un’altra prova. Mi hai bloccato senza fatica.

Mahmud scuote la testa.

- Senza fatica? Scherzi, fratello? Credo di non aver mai faticato tanto a bloccare qualcuno.

Solomon ignora l’osservazione e prosegue:

- Credo che il duca abbia fatto un buon affare. I due giovani impareranno molto da te, più che da me.

- Non ne sono sicuro. So lottare, ma non ho mai insegnato la lotta.

- Andrà benissimo. E già solo vederti lottare è una buona lezione.

- Ci affronteremo ancora?

- Senz’altro. Ogni lezione prevede anche un incontro tra i maestri: per i giovani è una bella occasione per imparare.

Mahmud annuisce, senza dire niente. Teme che ciò che è successo si ripeta. Mentre si infilano i pantaloni, Solomon chiede:

- C’è qualche cosa che non va, fratello?

Mahmud guarda Solomon. Decide di essere sincero con lui.

- Credo che tu ti sia accorto, Solomon… quando ti ho bloccato…

Solomon annuisce.

- Sì, ho notato che tra i macigni che mi schiacciavano ce n’era uno che mi premeva sul culo. Credo che sia normale. Probabilmente non scopi da un po’. Ti preoccupa questo?

- Non vorrei mancare di rispetto a mio fratello.

Solomon scuote la testa.

- Nessuna mancanza di rispetto. Siamo fratelli, ma questo non significa che non possa esserci desiderio tra di noi. Siamo due maschi e i nostri corpi hanno le loro esigenze.

Mahmud guarda Solomon, immobile. È un bell’uomo, suo fratello l’ebreo, dal corpo forte e armonioso.

- Solomon, io…

- Mi hai lealmente battuto nella lotta, Mahmud. Vuoi prenderti il premio del vincitore?

- Non c’era nessun premio per il vincitore.

- Ci può essere. Sai che non di rado in un incontro di lotta si mette in palio qualche cosa.

Mahmud è fortemente tentato. Il fratello gli piace molto e il desiderio è forte, ma gli sembra di non avere il diritto di fare ciò che Solomon gli propone. L’orafo coglie la sua esitazione e dice:

- Facciamo un secondo incontro, Mahmud.

Poi si sfila i pantaloni.

- Nudi, così siamo già pronti.

Solomon va alla porta che dà sul cortile e la blocca. Poi fa lo stesso con la porta interna.

Mahmud si è calato i pantaloni. Il cazzo gli si sta irrigidendo. Si affrontano di nuovo. Solomon si scaglia su Mahmud, che cerca di evitarlo, riuscendoci solo in parte. Finiscono entrambi a terra, ma Solomon riesce a impedire al fratello di bloccarlo e lo manda invece a gambe all’aria. Mahmud ha capito che Solomon non si sta offrendo come una facile preda e ne è contento. Si getta di nuovo su di lui e rotolano insieme. Solomon riesce a immobilizzarlo, ma Mahmud sguscia via, sottraendosi alla stretta, poi si scaglia su di lui e lo fa volare via. Sono di nuovo uno di fronte all’altro, chinati in avanti.

Solomon sorride e dice:

- Non sono una preda facile!

- Non ho mai pensato che lo fossi.

Si avvinghiano ancora, poi si staccano e si guardano. Lo stringersi dei corpi ha attizzato il desiderio: i loro cazzi hanno drizzato il capo. La lotta prosegue, si stringono e si separano, si avviluppano l’uno all’altro per poi lanciarsi lontano.

E infine Mahmud si lancia su Solomon e quando rotolano a terra, riesce a bloccarlo a pancia in giù. Con le ginocchia puntate a terra, gli tiene un braccio dietro la schiena e con la mano gli preme la testa contro il suolo. La presa è troppo salda perché Solomon possa liberarsi e non lo vorrebbe: ha proposta di affrontarsi per venire incontro al desiderio di Mahmud, non perché desiderasse possederlo.

- Hai vinto, Mahmud. Lealmente.

Mahmud annuisce e poi il desiderio è troppo forte. Lascia la presa, si sputa sulla mano e sparge un po’ di saliva sull’apertura. Poi avanza il suo formidabile uccello e con molta lentezza infilza il culo del fratello. Le sue mani accarezzano le spalle del suo avversario, mentre la picca avanza, inesorabile.

Il piacere che Mahmud prova è violento e rende la sua cavalcata più impetuosa di quanto vorrebbe. Infine il piacere lo travolge e allora Mahmud afferra il cazzo di Solomon e lo porta al piacere.

È stato bellissimo, ma ora Mahmud è confuso.

- Solomon, io…

Mahmud non sa come continuare.

- È stato bello Mahmud. Siamo fratelli e ti ho sentito più vicino. Grazie.

Mahmud annuisce. Anche lui si è sentito più vicino a Solomon, questo suo fratello d’elezione che poco conosce. E ne è contento.

- Grazie a te.

Si puliscono e si rivestono.

 

 

Solomon raggiunge Denis. Gli dice subito:

- Mi sono fermato un po’ con Mahmud.

- L’ho pensato.

Poi Denis chiede ciò che gli preme sapere:

- Vuoi che lo lasci libero?

- Senz’altro, ma non è necessario che tu lo faccia subito. Dare qualche lezione a Pierre e Jacques sarà per lui un buon modo per guadagnarsi la libertà e non sentirsi troppo in debito nei tuoi confronti. Puoi lasciarlo libero più avanti. L’importante è che Ishan e i fratelli siano avvisati.

- Ottimo. Penso che potrei servirmene anche per altro. Non ho ancora chiare le idee, ma se le cose vanno come penso, potrebbe essermi utile. Devo parlarti di ciò che si prepara, ma non è ancora il momento. Comunque per Mahmud, rimaniamo d’accordo che scrivete tutti e due ai vostri fratelli. Vedremo come fare arrivare le lettere a destinazione. Non credo che sia un problema.

- No, di certo. Le affidiamo a qualche mercante in viaggio.

Durante la giornata sia Mahmud, sia Solomon scrivono una lettera. Le missive vengono affidate a mercanti in viaggio verso il nord della Siria.

 

La due lettere raggiungono Ishan e i suoi fratelli. Sono tutti felici di sapere che Mahmud è nelle mani di Denis di Rougegarde, che ha fama di essere un signore giusto e generoso, e non più schiavo di Olivier di Afrin, che i musulmani disprezzano. Lo scoprire i dettagli su come è avvenuto il passaggio di proprietà tra i due signori conferma l’opinione che già avevano di entrambi, aumentando il loro disprezzo per Olivier e la loro ammirazione per Denis. Solomon scrive che il duca intende lasciare libero Mahmud, anche se non lo farà subito: della parola del duca e di quella di Solomon nessuno dubita. Perciò c’è molta allegria in casa e anche la moglie di Mahmud è sollevata a sapere che il marito è prigioniero di un uomo giusto, che intende lasciarlo libero presto.

Riccardo coglie l’allegria, ma non ne capisce i motivi: la sua conoscenza del curdo è ancora limitata. Ishan è sul punto di dirgli che Mahmud potrà ritornare a casa, ma poi decide di non dire nulla. Ha promesso a Riccardo di liberarlo, se Mahmud fosse stato affrancato. Preferisce evitare di affrontare l’argomento, perché gli pesa l’idea che Riccardo se ne vada.

Nella casa però non si parla d’altro, per cui infine Riccardo scopre che Mahmud è prigioniero del duca e prima o poi verrà liberato. In lui si riaccende la speranza di recuperare la libertà. Preferisce non ricordare la promessa a Ishan, ma si limita a dirgli:

- Mahmud ha potuto scrivervi. Posso mandare una lettera a mio zio a Rougegarde? Starà in pena per me.

Ishan non può certo dire di no.

- Va bene, Riccardo. Scrivi la lettera. Farò in modo che arrivi da tuo zio. C’è sempre un gran viavai di mercanti per al-Hamra.

Riccardo ottiene l’occorrente per scrivere e può infine comunicare allo zio e ai cugini la sua situazione. Dice di essere stato catturato da un gruppo di curdi e di essere loro schiavo. Spiega che lo trattano bene e aggiunge che spera di poter ottenere la libertà, prima o poi.

 

Come le lettere di Mahmud e Solomon, quella di Riccardo placa l’ansia dei familiari: Riccardo è ancora vivo e può comunicare con loro. Giovanni spera di ottenere la sua liberazione.

Anche Solomon viene a saperlo: nella casa di Giovanni non si parla d’altro.

Dopo una lezione di lotta, lascia che Jacques e Pierre se ne vadano e parla con Mahmud, chiedendogli come mai Riccardo è diventato schiavo dei suoi fratelli. Si accorge che Mahmud è un po’ in imbarazzo nel raccontare.

- Ci eravamo incontrati a Damasco, nei bagni. Ci eravamo già visti. Lui… lui era attratto da noi e ce ne siamo accorti. Allora…

- Allora avete scopato. Mahmud, conosco Riccardo. So che gli piacciono gli uomini e che i miei fratelli sono esattamente il tipo d’uomo che desta il suo desiderio. Conoscendo l’avversione di Ishan nei confronti dei cristiani, temo che siate stati alquanto bruschi, ma penso che anche questo non sia dispiaciuto a Riccardo.

- Sì, è vero, dopo il primo giorno non l’abbiamo visto per un po’, ma poi è sempre tornato. A Ishan piaceva molto e ha deciso di prenderselo come schiavo. Da quando l’abbiamo catturato è il suo schiavo di piacere.

- Credo che a Riccardo questo non dispiaccia, ma di certo vorrebbe essere libero.

- Se lo chiedi a Ishan, senz’altro lo libererà.

Solomon sa che quanto dice Mahmud è vero, ma non vuole obbligare il fratello a fare ciò che questi non vorrebbe.

- Non voglio forzarlo. Ishan deciderà liberamente che cosa vuole fare.

- Lo schiavo gli piace davvero molto. Ha un bel corpo.

- Come tutti i miei fratelli.

- E come te.

Si guardano un attimo, poi Solomon chiede, un po’ ironico:

- Un altro incontro di lotta?

- Se ti va bene…

- So già quale sarà il risultato, ma va bene.

 

Solomon scrive a Ishan una lettera, in cui gli dice che Riccardo è un suo amico e lo prega di trattarlo bene.

La lettera turba molto Ishan. Ne comunica il contenuto ai fratelli:

- Solomon mi ha scritto. Mi dice che Riccardo è un suo caro amico.

Yilmaz ridacchia. Non perde mai occasione di punzecchiare, per cui dice:

- Avrà anche lui gustato il suo culo? Sarebbe giusto, sarebbe l’unico di noi fratelli a non averlo fatto.

Sarajil vede che Ishan è infastidito dalla battuta del fratello. Si dice che deve parlare a Yilmaz e invitarlo a non provocare Ishan su questo tema: Yilmaz non è maligno, parla perché non ha capito che Ishan è davvero affezionato a Riccardo.

Osserva:

- Se Riccardo è amico di Solomon dovremo trattarlo bene. Sarebbe una vergogna se non ci prendessimo cura di un amico di nostro fratello.

Yilmaz osserva, ora serio:

- Se è amico di nostro fratello, forse dovresti lasciarlo libero.

Ishan non replica. Si morde il labbro. L’ha pensato anche lui, ma gli spiace rinunciare al suo schiavo cristiano.

Sarajil capisce e interviene:

- Ti ha forse chiesto di liberarlo?

- No, no. Scrive solo che spera che stia bene.

- Allora non c’è problema. Nessuno di noi gli manca di rispetto.

Ciò che è successo a Bagdad pare del tutto dimenticato, anche se i tre fratelli lo hanno ben presente.

Sarajil aggiunge:

- Quando Solomon verrà a trovarci, vedremo il da farsi.

Negli ultimi anni Solomon è venuto di rado, per cui il problema non appare urgente.

Ishan annuisce e si dichiara d’accordo: è contento di aver un po’ di tempo, di non dover prendere ora una decisione. Yilmaz non ha obiezioni.

Tutto rimane come prima. Riccardo dorme sempre sulla stuoia, ma ben coperto.

Un giorno però si sveglia indolenzito. Svolge i suoi compiti, ma con lentezza, tanto che Ishan lo rimprovera. Man mano che passano le ore, fatica sempre di più a stare in piedi. Nel primo pomeriggio, mentre sta portando a Ishan da bere, si rende conto che le gambe non lo reggono più. Barcolla. Vorrebbe riuscire a posare la coppa senza versarne il contenuto, ma il mondo oscilla paurosamente e Riccardo crolla a terra. La coppa si rovescia e una parte della bevanda si versa sulla veste di Ishan. Riccardo vorrebbe scusarsi, me non riesce nemmeno a parlare. Pensa che Ishan ora lo batterà.

Ma Ishan non sembra irritato, piuttosto preoccupato, mentre si china su di lui, chiamandolo per nome. Riccardo non è più in grado di alzarsi. Devono sollevarlo di peso, Ishan, Sarajil e due servitori. Riccardo perde i sensi.

Quando si risveglia, è steso nel letto di Ishan, che si prende cura di lui. Riccardo è stupito della sua sollecitudine. Poco dopo arriva il medico, che Ishan ha mandato a chiamare.

La febbre continua a salire, Riccardo ha i brividi, ma gli pare che il suo corpo bruci. Si chiede se morirà qui, tra queste montagne, schiavo di uomini di cui conosce poco la lingua, senza neppure potersi confessare. I momenti di lucidità diventano sempre più rari, gli sembra di avere un incendio nei polmoni, fa fatica a respirare. Dopo tre giorni Riccardo perde completamente coscienza. A tratti delira. Passano così due giorni, poi la febbre cala e Riccardo sprofonda in un torpore da cui non riesce a emergere neppure quando gli danno qualche cosa da mangiare o da bere.

Quando riapre gli occhi, finalmente lucido, Ishan è al suo fianco e gli sorride.

Dopo qualche giorno Riccardo incomincia a migliorare. Presto sta bene e riprende ad alzarsi. Ishan passa parecchio tempo con lui, lo invita a non affaticarsi, lo fa accudire da un servitore.

Riccardo continua a dormire nel letto di Ishan. Si aspetta che Ishan gli dica di tornare a coricarsi sulla stuoia, ma un giorno il tappetino scompare.

E adesso, dopo averlo posseduto Ishan spesso lo abbraccia. È bello dormire tra le braccia forti di Ishan, una sensazione splendida. Sono catene che valgono la libertà.

Ishan passa molto tempo con lui e gli insegna il curdo. Riccardo impara a seguire le conversazioni che si svolgono nella casa di Ishan. Chiacchiera con gli altri servitori, con cui continua a mangiare: è sempre uno schiavo, ma gode di un trattamento di favore e può uscire dalla casa anche da solo. Nessuno sembra sorvegliarlo, ma Riccardo sa benissimo che fuggire sarebbe impossibile: verrebbe subito raggiunto e riportato indietro.

 

Solomon e Mahmud si fermano spesso a chiacchierare insieme. Hanno preso l’abitudine di fare un incontro di lotta più o meno una volta la settimana. Mahmud ha regolarmente la meglio, ma Solomon gli dà sempre più filo da torcere: l’ebreo ormai conosce bene il suo avversario e sa come affrontarlo.

Ogni volta il vincitore si prende il premio. Mahmud ha superato l’imbarazzo iniziale e non ha più remore a scopare con Solomon. Ora dopo il rapporto rimangono spesso abbracciati.

Un giorno però succede ciò che Mahmud stesso si aspettava: Solomon riesce a bloccarlo e non gli permette di liberarsi. Mahmud ha un attimo di smarrimento, perché nessuno lo ha mai posseduto, ma non intende certo sottrarsi: è un uomo leale.

È però Solomon stesso a dirgli:

- Mahmud, credo che tu non sia mai stato preso. 

- Questo è vero, fratello.

- Se non te la senti, possiamo lasciar perdere.

Mahmud corruga la fronte.

- Perché mi offendi, fratello? Da te non me lo sarei mai aspettato.

- Non è mia intenzione offenderti, ma non voglio forzarti.

- Solomon, non ho mai provato. Adesso proverò e sono contento che sia mio fratello a farlo. Sottrarmi… sarebbe infame.

E senza dire altro Mahmud si mette a quattro zampe.

Solomon accarezza il culo forte che gli si offre. Non vuole fare male a Mahmud, in nessun modo. Sarebbe disposto a rinunciare, ma si rende conto che per Mahmud sarebbe uno schiaffo. E allora tanto vale assaporare il momento. Le sue mani forti risalgono lungo le cosce scure di Mahmud, poi lungo la schiena, fino ad arrivare al collo. La destra indugia sulla nuca e poi sul capo. Poi le sue mani ridiscendono lungo il corpo, caldo e madido di sudore per la lotta.

Solomon si inginocchia dietro il fratello e gli morde leggermente il culo, più volte, lasciando piccoli segni rossi che rapidamente scompaiono. La prima volta Mahmud sussulta, poi non ha più reazioni, fino a che a un certo punto gli sfugge un gemito

Rimanendo in ginocchio, Solomon passa due dita tra le gambe di Mahmud, stuzzicandone i coglioni, poi le fa scorrere lungo il solco tra le natiche, due volte. Le inumidisce con la saliva e stuzzica delicatamente l’apertura. Sente il corpo di Mahmud tendersi e poi, man mano che ripete il movimento, rilassarsi.

Si alza e guarda il culo, forte, coperto da una peluria scura. Il desiderio preme. Inumidisce bene l’apertura, poi, facendo entrare appena la punta di un dito, inumidisce anche l’interno. Anche questa volta Mahmud si tende, ma poi la tensione svanisce e nuovamente geme, più forte. Il fratello lo sta guidando in un mondo che non conosce e il suo corpo reagisce disorientato a ogni nuova mossa, ma si abitua a ciò che inizialmente lo sorprende e quasi lo spaventa, fino a provare un piacere crescente.

Solomon avvicina l’arma all’apertura, mette le mani sulle natiche di Mahmud, le allarga e sorride. Con delicatezza, molta delicatezza, spinge il cazzo fino a che la cappella non forza lo sfintere. Poi si ferma.

Le sue mani sul culo di Mahmud avvertono la nuova tensione del corpo, che si sta abituando alla presenza estranea. Gli dà il tempo di rilassarsi e poi avanza leggermente. Gli accarezza nuovamente il culo, più volte, contenendo l’impulso a spingere subito fino in fondo. Le sue carezze ora sono più ruvide, perché il desiderio preme. Avanza ancora, lentamente.

Mahmud emette un gemito quando l’arma di Solomon entra completamente. Solomon si ritrae leggermente, poi avanza di nuovo. Il corpo di Mahmud si tende ancora e Solomon lo accarezza, lentamente, pizzicandogli ogni tanto il culo. Poi la sua mano passa davanti, scende sul ventre, dove trova il cazzo di Mahmud, che ha già alzato la testa.

Incomincia a spingere con decisione, avanti e indietro, imprimendo al culo un vigoroso movimento. Mahmud geme più forte, ma nella mano Solomon sente che l’eccitazione del fratello va crescendo.

È bello avanzare e arretrare in questo culo caldo, sodo, sentire il proprio cazzo scorrere contro le pareti di carne che si dilatano al suo avanzare, per poi ritrarsi.

Sente nei coglioni la tensione salire e l’ondata di piacere crescere. Spinge, con forza, con un ritmo sempre più rapido. La tensione si scioglie in una corrente che furiosa lo travolge, mentre il seme si sparge nelle viscere di Mahmud.

Si abbandona riverso sul corpo del fratello, ma la sua mano destra incomincia a scorrere rapida intorno alla calda preda che stringe, fino a che sente il cazzo di Mahmud vibrare e un gemito violento uscire dalla bocca, mentre il seme si sparge.

Accarezza il capo di Mahmud e chiede:

- Come va, fratello? Tutto bene?

Mahmud annuisce:

- Sì, fratello. Grazie.

Solomon pensa che è strano che Mahmud lo ringrazi, anche se intuisce i motivi: grazie per essersi battuto sul serio, fino al punto da vincerlo; grazie per non aver rifiutato di prendersi il premio della vittoria; grazie per averlo fatto godere. Forse grazie anche per avergli fatto scoprire un piacere nuovo.

- Grazie a te, fratello.

Solomon esce e si stende accanto a Mahmud. Questi si sdraia anche lui sulla schiena. Gli prende una mano e la stringe. Vorrebbe esprimere ciò che ha dentro, ma non trova le parole. Va bene così. Solomon è in grado di capire.

 

Solomon si lava e poi passa da Denis, che gli ha detto di volergli parlare.

- È ora che ti parli di ciò che si prepara, Solomon. E di quello che intendo fare.

Solomon ha colto che da tempo Denis è preoccupato per qualche cosa, ma non ha chiesto niente: non vuole che l’amico si senta forzato a raccontare.

- Dimmi, Denis.

- Il vescovo sta facendo preparare una mia lettera, diretta all’emiro di Jabal al-Jadid. Non ne conosco esattamente il contenuto, ma essenzialmente io chiedo all’emiro di fare da intermediario con il Saladino. Gli offro Rougegarde e Ferdinando offre l’Arram: gli cederemmo i nostri domini, giurandogli fedeltà, a condizione che ce li lasci. Suppongo che ci dichiariamo disposti a convertirci.

Solomon annuisce. Non chiede come fa Denis a saperlo: di certo il duca ha un suo uomo nella cancelleria del vescovo. Si limita a dire:

- Sai quello che penso del vescovo e non occorre che lo ripeta. Questo si chiama alto tradimento: per la sua ambizione cerca di mandare a morte due signori leali, uno dei quali è il principale baluardo del regno, il signore più temuto dai saraceni. Meriterebbe la fine di Tancrède d’Espinel.

- Conto di farlo finire in quel modo.

- Ottimo. Non amo gli spettacoli molto sanguinosi, ma in questo caso assisterei con grande piacere. Come intendi muoverti?

- Quella lettera deve finire nelle mani del re. Il problema è come intendono farlo. Il vescovo potrebbe consegnarla direttamente a Guido da Lusignano, ma non mi sembra probabile: credo che preferisca non apparire.

- Giustamente. In questo caso è probabile che sia Olivier a farlo, dicendo che ha fermato un tuo messaggero.

- Esatto. La domanda è: ci sarà davvero un messaggero?

- In qualche modo deve esserci. Per dare credibilità alla faccenda. Un uomo che verrà fermato da alcuni soldati.

- Quando il re lo farà interrogare, scoprirà che non sono stato io a mandarlo.

- In effetti, credo che il messaggero sarà ucciso al momento in cui lo fermeranno. Una volta morto, sarà difficile dimostrare che non era un tuo uomo.

Denis annuisce. Solomon prosegue:

- Che cosa conti di fare?

- Chiudere la partita con il vescovo, usando le sue stesse armi.

- Ottimo.

Denis espone il suo piano. Conclude:

- Adesso bisogna capire chi è il messaggero.

- Se deve morire, sarà un uomo di cui il vescovo vuole sbarazzarsi. O comunque qualcuno che non gli serve più a molto.

- Hai un nome in testa, vero?

- Sì. Dev’essere qualcuno che non risulta alle dipendenze del vescovo, ma che è abbastanza affidabile da potergli affidare questo compito.

- E allora?

- Jules Randonnay potrebbe essere un buon candidato. Ormai sono in molti a sapere che lavora per il vescovo, ma ufficialmente non è alle sue dipendenze. Vedo di sondare il terreno.

Denis non chiede a Solomon come intende fare, come Solomon non gli ha chiesto in che modo ha saputo del piano.

 

Bohémond è di nuovo a San Giacomo d’Afrin. Ha preparato tutto l’occorrente perché Denis di Rougegarde venga accusato di alto tradimento.

Parla a Olivier:

- È bene che siate voi a trovare quelle carte e a consegnarle al re. Il sovrano sa che i rapporti tra me e il duca non sono mai stati facili e non vorrei che qualcuno insinuasse… c’è chi mi odia, a corte, lo sapete bene. Uomini invidiosi, che vorrebbero perdermi.

Olivier annuisce. I suoi rapporti con il duca sono in apparenza cordiali, per quanto si detestino, per cui il re non dovrebbe avere sospetti. Osserva:

- Dobbiamo fare molta attenzione. Non possiamo permetterci errori. Il re vorrà indagare. Si tratta del duca, non di un signorotto qualunque.

- Certo.

- Bisognerebbe che ci fosse effettivamente un messaggero. Un uomo di Rougegarde, che noi potremmo fermare, prendendogli le carte.

- Io non posso certo mandare un uomo del duca o indurre il duca a mandarne uno.

- No, questo è chiaro. Ma noi potremmo ucciderlo, dicendo che ha cercato di sfuggire all’arresto, per cui non potrebbe dire che non è stato il duca a mandarlo.

Bohémond riflette un momento

- Quindi… voi dite… provvedere davvero a mandare una lettera. Voi potreste dire che siete stato avvisato e avete deciso di fermare il messaggero e farvi consegnare le carte. Ma l’uomo ha reagito, cercando di uccidere le guardie che volevano arrestarlo ed è rimasto ucciso

- Potrebbe essere un’idea, no?

- Bisogna capire chi mandare. Non può essere un mio uomo.

- Ma dev’essere qualcuno di cui vi fidate.

Bohémond appare alquanto perplesso. Olivier riprende.

- Tra gli uomini al vostro servizio ce ne sarà qualcuno di cui vi fidate, ma che non è poi così utile. Lo mandate a San Giacomo con le carte, dicendogli che sarà catturato e imprigionato e che la notte qualcuno lo farà scappare.

Il vescovo non nasconde la sua perplessità.

- Scappare? Il barone di San Giacomo cattura un uomo con carte compromettenti e se lo lascia scappare?

- Non scapperà, perché non verrà arrestato. Verrà ucciso quando lo cattureremo, ma lui deve credere che potrà fuggire, altrimenti… dubito che collabori.

- Questo si potrebbe fare.

- Avete un uomo che potete sacrificare?

Bohémond riflette un momento. Il pensiero va a Jules Randonnay: l’ha usato per anni come spia, ma ormai è conosciuto. Non è più molto utile.

- Sì, credo di avere l’uomo che fa al caso nostro.

- Perfetto. Lo fermeremo fuori città e lo uccideremo. Manderò solo due uomini in cui ho piena fiducia, che diranno che il messaggero ha cercato di scappare.

Bohémond riflette un momento, poi dice:

- Sarebbe meglio fare in un altro modo. Farlo arrestare da un drappello, gente che possa testimoniare. Gli suggerirò di dire che viaggia per conto del duca. La notte in carcere… si ucciderà.

- Mi sembra un’ottima idea. Tutti i soldati avranno sentito che ha affermato di essere un uomo del duca.

- Perfetto. Il duca e il conte sono perduti: il re avrà la prova del loro tradimento.

Il vescovo non ha fatto riferimento a Pierre d’Aguilard e soprattutto a Jacques. Olivier vuole sbarazzarsi di questo nipote, che in realtà è suo figlio.

- E il barone Jacques?

Bohémond sorride.

- Di lui e del giovane Pierre intendo occuparmi in altro modo. A Rougegarde non ci sono mai stati roghi di peccatori. Molti sono convinti di poter vivere nel peccato impunemente. Ci sarà un processo e il rogo ricorderà a tutti la verità: nessuno è tanto in alto da sfuggire alla giustizia divina.

Olivier vorrebbe saperne di più: per lui l’eliminazione di Jacques è un obiettivo prioritario.

- Che cosa intendete?

- Farò arrestare un uomo e attraverso di lui colpirò il giovane barone e il figlio del duca: saliranno sul rogo, ve lo garantisco. E con loro numerosi altri.

 

A Rougegarde in assenza del vescovo, i suoi uomini rimangono per gran parte del tempo rintanati nel palazzo: in città c’è una grande ostilità nei loro confronti e non è raro che siano insultati per strada se vengono riconosciuti. È già capitato che venissero presi a sassate.

Non possono accettare questa umiliazione, ma sanno che se reagissero rischierebbero di essere arrestati, senza che il vescovo, lontano, possa intervenire a chiedere la loro liberazione.

Jules Randonnay non risulta essere al servizio del vescovo, ma ormai diversi sanno che fa da spia. Un giorno esce dalla sua abitazione per recarsi nella locanda della Luna piena: ci va spesso, perché è uno dei posti che il vescovo vuole tenere sotto controllo. Arrivato vicino alla locanda, si accorge che un gruppetto di uomini lo guarda in modo minaccioso. Si allontana fingendo indifferenza, ma voltandosi scopre che lo stanno seguendo. Ha paura, vorrebbe ritornare alla propria abitazione, ma il gruppetto che lo segue gli blocca la via del ritorno. Svolta in una via che costeggia la casa del mercante.

Sente un grido alle sue spalle.

- Bastardo!

La prima pietra colpisce Jules alla coscia destra. La seconda gli sfiora la testa. Jules ha paura. Fa per mettersi a correre, ma dal fondo della via vede altri uomini che vengono nella sua direzione, fissandolo ostili. È un agguato. Si blocca, paralizzato dal terrore. Qualcuno del gruppo grida:

- Ammazziamo questo bastardo.

Un’altra pietra lo manca di poco.

- No! No!

Jules non vede vie d’uscita: davanti e dietro uomini minacciosi, una pietra lo prende al petto. Jules barcolla.

Improvvisamente una porta si apre. Un uomo appare: è Solomon, l’orafo del duca. È a torso nudo: evidentemente stava lavorando.

- Presto, venite dentro.

Jules non esita: si precipita verso quella che gli appare l’unica salvezza. Appena la porta viene richiusa, si sentono dei colpi: pietre scagliate contro il legno, poi qualcuno che bussa rabbioso, voci concitate che chiedono di aprire.

Jules trema.

- Non temete, la porta è solida. La bottega di un orafo è ben protetta. Ma togliamoci di qui. Venite al piano superiore: quelli si stuferanno.

Solomon conduce Jules nel suo appartamento.

Jules trema. Non si aspettava l’attacco e la violenza. È la prima volta che gli capita una cosa del genere. Non ha mai combattuto, non si è mai trovato a rischiare la vita e questa aggressione del tutto inattesa lo ha sconvolto. Ora che è passato il pericolo, gli sembra di non riuscire a stare in piedi.

- Sedetevi. Vi hanno colpito?

Jules annuisce, mentre si abbandona su una sedia.

- Dove?

- Qui. E qui.

Jules si mette una mano sul petto e sulla coscia.

- Spogliatevi, che do un’occhiata alle ferite, ho una certa esperienza. Se sono gravi cerco il medico. Ce n’è uno che vive nella casa.

Jules si toglie la tunica. Sul petto ha una vera foresta scura. Dove ha preso il colpo c’è solo un’escoriazione. Solomon si china a esaminarla.

- Niente di grave, direi. Vi verrà un livido, probabilmente, ma non credo che la pietra abbia rotto nulla. E alla gamba?

Jules esita. L’idea di calarsi i pantaloni davanti a questo sconosciuto lo turba. Guarda Solomon. È un bell’uomo, forte.

- Su, calatevi i pantaloni, così vediamo.

Jules obbedisce. Anche le gambe sono piuttosto pelose. Sulla coscia c’è un po’ di sangue. La vista della piccola ferita e del sangue lo fa impallidire.

Solomon prende una ciotola, la riempie d’acqua e lava con cura la ferita. Jules guarda quest’uomo chino a terra, che lo pulisce. Pensieri torbidi affiorano nella sua mente. È conscio del proprio corpo sgraziato e della bellezza di questo maschio, di cui può sentire il leggero odore di sudore. Un profumo gradevole, che lo confonde e lo turba.

- Siete molto pallido. Vi siete spaventato molto. Forse è meglio che vi stendiate.

- Non voglio disturbare…

- Non disturbate. Tanto per il momento non potete andarvene. È bene aspettare che si siano dispersi. Poi magari vi farò uscire dalla parte della locanda, è più sicuro. Venite, stendetevi un momento sul letto.

Solomon fa strada e Jules lo segue. È un po’ in imbarazzo a stare quasi nudo in casa di uno sconosciuto, ma Solomon non sembra porsi nessun problema.

Jules si stende e sente una grande stanchezza invaderlo.

- Siete ancora molto pallido.

Jules annuisce. Vorrebbe rispondere, ma non trova le parole.

- Riposate, ora.

Jules chiude gli occhi. Un torpore lo invade. Non è vigile, ma neppure addormentato. Il mondo sembra non avere una consistenza definita, se socchiude le palpebre le immagini fluttuano: la stanza sembra dissolversi nella penombra; il corpo possente di Solomon, seduto accanto al letto, pare divenire più grande e più vicino.

Lentamente Jules riprende a respirare normalmente, il senso di debolezza lo abbandona. Apre gli occhi. Le immagini sono ferme. Nella stanza si sta bene. È bello vedere Solomon vicino, che sorride.

- Grazie, mi avete salvato la vita.

- Salvato la vita, non so. Diciamo che avreste passato un brutto momento.

- Molto brutto.

Jules guarda il corpo di Solomon, le spalle larghe, il torace villoso. Si rende conto troppo tardi del proprio desiderio, che il suo corpo rivela.

Solomon sorride, un sorriso un po’ ironico.

- Vedo che state meglio e avete ripreso le forze.

Jules annuisce. Non sa che cosa dire. Dovrebbe alzarsi, rivestirsi e andarsene, ma rimane a fissare Solomon.

- Tutto bene? Le ferite non fanno più male?

Solomon gli passa una mano sul petto, senza sfiorare la ferita. È una carezza leggera. Jules mette una mano su quella di Solomon, poi si vergogna e si blocca. Lascia la mano, che continua a muoversi sul suo corpo, incendiandolo.

Poi Solomon la ritrae.

- Non voglio turbarvi.

Jules lo guarda, poi gli prende la mano e la guida al proprio corpo. Non osa parlare, gridare il suo desiderio. Lascia che sia il suo corpo a farlo.

Solomon finisce di spogliarlo, poi si toglie i pantaloni e rimane nudo davanti a lui. Jules pensa che quest’uomo è bellissimo. Gli guarda il cazzo. È la prima volta che può osservare da vicino un cazzo. Non è più a riposo.

Jules lo vorrebbe gustare, lo vorrebbe dentro di sé, ma non sa come chiedere, non sa che cosa dire. Prova vergogna e paura.

Le mani di Solomon lo accarezzano, giungono al cazzo e le dita lo percorrono, prima molto delicatamente, poi in modo più energico. Jules geme. Il piacere esplode improvviso. Il seme si sparge sul ventre, sul petto. Qualche goccia arriva fino alla barba. Jules ha chiuso gli occhi, sopraffatto dal piacere. Ora però si vergogna.

Dice:

- Scusate.

Solomon sorride.

- Che cosa dovrei scusare? Eravate teso dopo questo brutto episodio e ho cercato di calmarvi. Le mie carezze hanno avuto un effetto imprevisto, ma nessuno di noi due sarà tanto ingenuo da raccontarlo.

Solomon gli porge uno straccio con cui Jules si asciuga. Il pensiero va al vescovo. Si mette a sedere di colpo. Ora è agitato.

- No, no, certo! Non è il caso di raccontare nulla.

Poi dice ancora:

- Forse è meglio che vada.

- No, è troppo presto. Non è detto che non girino ancora da queste parti. E poi siete ancora scosso. Rimanete qui. State disteso, scambiamo due chiacchiere.

Mentre Jacques si stende nuovamente, Solomon aggiunge:

- Vi ho visto più volte. Dicono che lavoriate per il vescovo, forse per questo ce l’avevano con voi.

- Io… no, sì… qualche volta mi affida un incarico, piccole cose con cui mi guadagno da vivere.

- Purtroppo in questo momento il vescovo non è molto popolare qui in città.

- No… è vero, l’ho sentito. Ma io non c’entro.

- Certo. Ma sapete com’è la gente. Se la prende con i pesci piccoli. È sempre così.

Chiacchierano un momento. Solomon non si è rivestito e Jules lo guarda. Si tira un po’ su, appoggiandosi su un gomito, in modo da vederlo meglio.

Solomon gli parla di sé e del suo lavoro; Jules racconta della sua infanzia di trovatello in convento. Nulla di molto personale.

Infine Jules si rende conto che è ora di andare. Si alza e Solomon lo imita. Ora sono a un passo l’uno dall’altro. Il desiderio si riaccende in Jules. Ripensa alla mano di Solomon. Guarda il cazzo dell’uomo davanti a lui, un cazzo circonciso, grosso. Guarda il viso, un bel viso. Il desiderio di stringere questo corpo è violento. Jules non ha mai stretto un altro corpo. Fa un mezzo passo. Ora i loro corpi si sfiorano.

- Siete ancora molto turbato, Jules.

Solomon lo abbraccia e lo attira a sé. Per la prima volta Jules è tra le braccia di un maschio, per la prima volta il suo corpo aderisce a quello di un altro uomo, per la prima volta ne sente il calore, la forza. Chiude gli occhi. Vorrebbe che questo momento durasse, non vuole staccarsi. Appoggia la testa sul petto di Solomon. Questo è il paradiso.

Solomon gli accarezza la testa. Jules pensa a Emich e Lucas. Vuole… non osa formulare il pensiero. Ma la sua bocca dice parole che non ha pensato:

- Prendetemi.

Solomon lo guida a stendersi sul letto.

- Come… come devo mettermi?

- Non avete mai avuto un rapporto con un uomo, vero, Jules?

Jules scuote la testa.

- Siete sicuro di desiderarlo?

Un cenno d’assenso. Jules non riesce a parlare.

- Stendetevi sulla schiena.

Jules esegue. Solomon gli allarga le gambe e si inginocchia nello spazio così creato. Gli prende un piede e lo poggia su una spalla, poi fa lo stesso con l’altro piede. Raccoglie un po’ di saliva e la sparge prima sulla cappella, poi sull’apertura. Jules lo guarda, spaventato.

- Se non ve la sentite, mi fermo qui.

Jules scuote la testa. Ha paura, ma non vuole fermarsi. Vuole scoprire che cosa significa scopare, essere posseduti.

- No, va bene così.

- In qualunque momento, se volete fermarvi, ditelo.

La frase tranquillizza Jules. Ha fiducia in quest’uomo, sente che non gli farà male.

Solomon si accarezza il cazzo, fino a che è completamente rigido. Lo avvicina all’apertura e lentamente lo spinge in avanti. Al sentire la pressione Jules si irrigidisce.

- Non tendetevi, Jules, o vi farà male.

Jules annuisce, ma rimane teso. Solo quando Solomon gli accarezza il petto, dolcemente, si rilassa. Solomon lascia passare un po’ di tempo, prima di avanzare ancora. Jules sente dentro di sé, per la prima volta, il cazzo di un altro maschio. È una strana sensazione, in cui si mescolano piacere e dolore. Solomon si muove con molta lentezza e il piacere lentamente cresce, supera il dolore, lo ricaccia in un angolo. Una mano di Solomon gioca con il cazzo di Jules, che si tende.

Jules chiude gli occhi, si abbandona completamente alle sensazioni che gli trasmettono il cazzo che si muove dentro di lui e la mano di Solomon.  

La tensione cresce e infine Jules sente il piacere travolgerlo. Viene.

Solomon si ritrae. Posa le gambe di Jules sul letto. Gli passa una mano sul viso e sul torace in una carezza leggera.

A Jules sembra di non essere mai stato così bene nella sua vita, anche se il culo gli fa un po’ male. Ora sa che cosa vuole dire scopare. Sa che cosa significa sentire dentro di sé il cazzo di un maschio vigoroso. Rimane disteso, assaporando il benessere di questo momento. Quasi senza accorgersene, scivola nel sonno.

Solomon si stacca, si pulisce, si riveste e poi torna a sedersi. Tutto ha funzionato come immaginato: il gruppo che di fatto ha costretto Jules a prendere la strada della bottega, il finto attacco, il salvataggio. Quello che è successo dopo, Solomon non l’aveva previsto: il suo obiettivo era quello di fare conoscenza e conquistare la fiducia di Jules, apparendo come il suo salvatore. Non aveva calcolato di avere un rapporto con Jules, perché non intendeva correre rischi. Ma non ne aveva escluso la possibilità, perché avrebbe potuto essere un modo per legarlo a sé. Quello che non si aspettava era questo abbandono totale, questo corpo vergine che gli si è offerto. Ne ha colto la fragilità, il desiderio, la solitudine. È un uomo infame, una spia al servizio del vescovo, disposto a qualsiasi bassezza. Eppure gli fa pena.

Jules si sveglia dopo un’ora. Per un attimo non capisce dove si trova, poi i ricordi riaffiorano. È disorientato. Solomon non è nella stanza. Jules si alza e si riveste. Solomon lo sente muoversi e arriva.

- Tutto bene?

Jules si blocca.

- Sì, sì. Ho dormito.

- Avevate bisogno di riposare. Avevate passato un brutto momento.

Jules pensa che è valsa la pena di vivere quel brutto momento, per quello che è seguito dopo.

- Grazie. Grazie per avermi salvato. Grazie… di tutto.

Solomon sorride.

- Grazie a voi.

Jules prosegue:

- Spero… spero che ci vedremo ancora.

- Lo spero anch’io. Prendendo le dovute precauzioni.

Jules pensa un attimo. Poi chiede.

- Se venissi domani sera?

Appena l’ha detto si vergogna e china la testa. Gli sembra di essere stato sfacciato, teme di aver offeso Solomon, ma l’orafo annuisce e sorride.

- Sì, al buio è meglio. Dopo i Vespri. Bussate alla porta del laboratorio, in un momento in cui non ci sia nessuno nella via.

Jules esce dalla locanda. Si guarda intorno, temendo di vedere nuovamente gli uomini che lo hanno assalito, ma non incrocia sguardi ostili: la gente che passa nella via non bada a lui. Jules preferisce comunque tornare a casa e rimanervi al sicuro. Nel corso della giornata il pensiero va spesso a Solomon. Lo rivedrà domani sera.

 

 

Il vescovo rientra in città la sera stessa. Il mattino dopo convoca Jules.

Jules si sente a disagio davanti al vescovo. Se sapesse quello che lui ha fatto il giorno prima, quello che intende fare in serata…

Ma il vescovo non nota il suo turbamento. Lo fa sedere e gli dice:

- Jules, devo affidarti una missione importante. Importante e molto delicata.

- Cercherò di svolgerla nel miglior modo possibile.

- Domani mattina partirai con una lettera. Sarai arrestato quando entrerai nel territorio di San Giacomo: alcuni soldati del barone ti fermeranno.

Jules è sorpreso.

- Arrestato?

- Sì. Ti bloccheranno e ti ingiungeranno di andare con loro. Dirai che non possono fermarti, che ti manda il duca di Rougegarde, che devi andare a Jabal al-Jadid.

- Il duca?

- Sì, dirai che è il duca ad averti mandato. Ti sequestreranno la lettera e ti metteranno in una cella a San Giacomo. Nella notte qualcuno ti farà evadere e ti porterà in un luogo segreto, dove rimarrai qualche giorno, prima di tornare qui.

Jules annuisce.

- Ti interrogheranno. Tu rifiutati di rispondere. Non dirai il tuo nome. Dirai solo che dovevi portare all’emiro Jabal al-Jadid una lettera da parte del duca di Rougegarde.

- Non mi tortureranno?

 Il vescovo ride.

- Certamente no, Jules! Siamo d’accordo, il barone e io.

Jules chiede ancora qualche dettaglio, poi il vescovo lo congeda. Riceverà la lettera solo domani mattina, al momento di partire. La missione è del tutto diversa dai compiti che il vescovo di solito gli affida. Non gli sembra pericolosa, ma è insolita. Gli spiace sapere che per diversi giorni non potrà rivedere Solomon. Il suo pensiero va in continuazione all’ebreo, a ciò che hanno fatto. Se il vescovo lo sapesse… ma il vescovo non lo saprà mai.

Jules conta le ore che lo separano dalla sera, quando infine potrà raggiungere Solomon.

La giornata gli sembra interminabile. Non ha compiti da svolgere e preferisce non uscire, perché ha paura di incontrare nuovamente il gruppo che lo ha assalito.

Infine arriva la sera e può recarsi da Solomon. Si rende conto di essere molto agitato all’idea di rivederlo. Pensa alle sensazioni del giorno precedente.

Nel buio percorre la strada. Tutto sembra tranquillo. Arrivato alla porta della bottega bussa, piano. La porta si apre subito. Jules entra e la porta viene richiusa. Una lanterna getta una fioca luce nella stanza.

- Solomon!

Jules fa un passo, poi si ferma intimorito. Solomon si avvicina, sorridendo.

- Sono contento che siate venuto.

Jules l’osserva, senza dire nulla. Poi avvicina il suo viso, senza distogliere lo sguardo dagli occhi di Solomon. Non osa andare oltre ed è Solomon a baciarlo sulla bocca. Il primo bacio è appena uno sfiorarsi delle labbra. Il secondo è più ardente, le braccia dell’ebreo cingono il corpo di Jules, che ricambia l’abbraccio.

Scivolano entrambi su una stuoia posta a terra, stretti l’uno all’altro. Jacques è impacciato, ma il desiderio guida i suoi gesti: carezze, strette e poi baci, abbracci. Le mani di Solomon accarezzano, poi si infilano nei pantaloni di Jules, stringono con forza il culo e infine incominciano a spogliarlo.

Ora hanno i pantaloni abbassati e lo stesso desiderio si manifesta in entrambi. L’uccello vigoroso di Solomon preme contro quello di Jules, che riesce a dire, facendosi forza:

- Prendetemi.

Solomon lo guarda, sorride e finisce di spogliarsi e di spogliarlo. Lo bacia ancora, poi, come il giorno precedente, si inginocchia davanti a lui, si pone le gambe sulle spalle e, mentre le sue mani accarezzano il ventre e l’uccello dell’uomo, avvicina la cappella all’apertura. Dopo aver inumidito con un po’ di saliva spinge in avanti la sua arma, facendola affondare nella carne. Jules geme, un gemito di piacere. Solomon passa delicatamente le sue mani sul corpo dell’uomo che sta possedendo, gli sfiora il viso, poi prende a muoversi con vigore. Guarda il volto dell’uomo del vescovo, su cui legge il piacere. Jules fa scorrere la sinistra sul viso di Solomon, poi la mano scende lungo il corpo. 

Solomon procede nella sua cavalcata a un ritmo costante e sente che il piacere cresce in entrambi. E quando infine avverte che il momento è vicino, con la destra stringe l’uccello di Jules, già gonfio di sangue e rigido, e lo guida a venire insieme a lui. Gemono entrambi, mentre il seme di Jules si sparge sul suo ventre, quello di Solomon nelle sue viscere.

Giacciono sulla stuoia, appagati.

Jules pensa che è stato bellissimo, che vorrebbe potersi dare a Solomon tutti i giorni, ma domani deve partire.

- Sarò via alcuni giorni.

- Partite?

- Sì, devo andare a…

Jules esita. Si rende conto che non può certo dire che il duca lo manda a Jabal al-Jadid, tra gli infedeli: non sarebbe credibile, dovrebbe spiegare. Ma non può neanche dire la verità. Prosegue:

- …a San Giacomo d’Afrin.

Solomon è a conoscenza del ritorno del vescovo e giunge alla conclusione che sia proprio Jules il messaggero, come aveva sospettato. Decide di attuare la strategia che ha elaborato.

- Che combinazione! Parto domani anch’io. Che strada contate di seguire?

- La via meridionale, non quella di castello San Marco, naturalmente, quella che passa ai piedi delle Alture dell’Orso. Ma anche voi andate in quella direzione?

- Sì, devo consegnare un monile a un emissario dell’emiro che incontrerò a Labiteh. Possiamo fare la strada insieme, che ne dite?

L’idea di fare un pezzo di strada con Solomon lo tenta, ma Solomon non deve vederlo quando verrà arrestato. Jules è incerto.

- Prima di passare nel territorio di San Giacomo forse dovrò fermarmi. Possiamo fare insieme le prime due tappe.

- Va benissimo. Quando partite?

- In mattinata, non so esattamente quando.

- È meglio che non ci vedano insieme, ci possiamo dare un appuntamento.

Stabiliscono di ritrovarsi nei pressi di un villaggio non lontano. Jules è contento pensando che domani scoperà ancora con Solomon. Il suo corpo lo chiede

Jules si congeda. Solomon sale in casa e bussa alla porta di Pierre e Sarah. Parla un momento con Pierre, poi si dirigono a palazzo, Solomon incappucciato, Pierre a capo scoperto.

Tutto è pronto. Solomon ritira ciò che deve, si fa dare alcune provviste per il viaggio e torna a preparare l’occorrente.

 

L’indomani mattina si ritrova con Jules al posto indicato, poco lontano dalla città. Cavalcano tutto il mattino e nelle ore più calde si fermano ai piedi di un pendio boscoso. Tra gli alberi scorre un torrente e i due viaggiatori si riposano all’ombra di un grande cedro. Solomon osserva:

- Mi lavo un momento.

Si spoglia in fretta. Jules osserva il corpo robusto emergere dagli abiti: l’ampia schiena, il culo vigoroso. Il desiderio gli secca la bocca e gli tende il cazzo. Si guarda intorno. Sono in un angolo tranquillo, ma la pista non è lontana e qualcun altro potrebbe arrivare. Torna a fissare Solomon, che entra in acqua e si sciacqua rapidamente, poi esce e rimane in piedi al sole, per asciugarsi. Jules osserva il torace villoso, il ventre, il cazzo vigoroso. Il desiderio cresce ancora. Guarda alle sue spalle, dove la vegetazione è un po’ più fitta.

- Solomon, io…

Non prosegue, perché si vergogna. Solomon capisce.

- No, Jules. Non qui. Non dobbiamo correre rischi.

Jules annuisce, ma non riesce a distogliere lo sguardo dal cazzo di Solomon. Solo quando l’orafo si riveste, la tensione si riduce.

 

La sera si fermano a una locanda, dove c’è parecchia gente, ma il locandiere ha una stanza libera per loro due. Quando sono in camera, Jules si avvicina a Solomon. Vorrebbe stringerlo, baciarlo, ma è imbarazzato. L’ebreo capisce e lo abbraccia. La stretta accende il desiderio di Jules, che riesce a dire:

- Prendimi.

Solomon annuisce. Lo spoglia e poi lo depone sul letto. Dopo essersi tolto gli abiti, si stende su di lui, lo abbraccia ancora e poi lo prende. A Jules sembra di essere in paradiso.

Dopo aver scopato scendono a cenare. Alla fine del pasto Jules è preso da una sonnolenza molto forte. Quando risalgono in camera ha l’impressione di fare fatica a stare in piedi. Solomon lo aiuta a spogliarsi e lo mette a letto. In pochi minuti Jules incomincia a russare: l’oppiaceo che Solomon ha versato nel vino ha fatto effetto.

Solomon fruga nello scarno bagaglio di Jules fino a trovare ciò che cerca. Procede spedito, con la sicurezza che gli dà la lunga esperienza di lavori manuali di precisione.

Quando infine ha concluso, guarda Jules che dorme. È una spia del vescovo, pronto a compiere qualsiasi lavoro sporco, eppure Solomon prova nuovamente pena per quest’uomo mandato al macello dal suo padrone: anni e anni di cieca fedeltà ricompensati con la morte.

Il mattino dopo Solomon sveglia Jules.

- È ora che ci prepariamo e andiamo.

Jules è ancora assonnato e ha la testa pesante.

- Solomon. Che è successo? Ieri sera…

- Vi siete addormentato. Forse avete bevuto un po’ troppo e il vino non era buono.

Jules annuisce. Si alza e si veste: adesso in effetti è ora di andare.

La sera si fermano in un altro villaggio, dove un contadino affitta loro una camera. Dopo aver cenato, scopano e quando entrambi hanno raggiunto il piacere, Solomon continua ad accarezzare Jules, sfiorandogli il petto, il viso, le labbra, le braccia, il ventre, il cazzo, in un movimento continuo. La spia del vescovo non ha mai sperimentato tanta tenerezza in tutta la sua vita: gli sembra di essere in paradiso.

Infine si mettono a dormire. Prima di abbandonarsi al sonno, Jules si dice che è innamorato di quest’uomo. Quando potrà tornare a Rougegarde, andrà ogni giorno da lui.

L’indomani si separano: in tarda mattinata Jules entrerà nel territorio di San Giacomo d’Afrin, dove lo fermeranno.

Solomon guarda Jules che si allontana. Va a morire, senza saperlo. Ma le carte che ora porta con sé lo vendicheranno.

Solomon è triste. Anche se disprezza Jules, gli sembra orribile che venga mandato a morire in questo modo. In serata ha cercato in qualche modo di regalargli un po’ di quella tenerezza che nessuno deve avergli mai dato, quasi per indennizzarlo di ciò che lo attende.

L’ebreo fa un giro e torna a Rougegarde: non ha motivo per proseguire il viaggio.

 

Jules raggiunge Villeneuve, un paese fondato da coloni franchi, che i signori di San Giacomo hanno fatto venire dalla Picardia. Quando lascia il paese, incrocia un drappello di dodici uomini, che gli bloccano la strada.

Jules si ferma. Sa che tutto è stato concordato, ma nel vedere questi soldati dall’aspetto truce e l’atteggiamento ostile si sente un po’ a disagio.

Il dialogo si svolge come stabilito. L’ufficiale che guida il drappello dice:

- Siamo soldati del barone di San Giacomo. Sappiamo che porti un plico di carte.

- Non sono affari vostri.

Intanto gli uomini hanno circondato Jules.

- Devi consegnarci quelle carte e venire con noi.

- Non avete nessun diritto di chiedermi queste carte. Mi manda il duca di Rougegarde.

- Appunto. Dacci le carte.

- Non avete nessun diritto di...

L’ufficiale lo interrompe:

- L’hai già detto!

Poi fa un cenno a uno dei soldati, che strattona Jules e gli prende la borsa.

- Sei in arresto. Vieni con noi.

Jules protesta ancora.

- Non potete arrestarmi!

L’ufficiale gli risponde brusco:

- Sta’ zitto, o ti faccio gustare la lama della mia spada.

Jules tace: ha fatto la sua parte e non è il caso di insistere.

Arrivano a San Giacomo nel tardo pomeriggio. La gente vede sfilare i soldati con il loro prigioniero. Molti si chiedono chi sia costui e i motivi dell’arresto.

Presto si diffonde la voce che si tratta di un corriere proveniente da Rougegarde e diretto nei territori saraceni: una voce che Olivier stesso ha fatto mettere in circolazione.

Qualcuno però sta dando anche un’altra informazione: l’uomo è un certo Jules Randonnay, una spia del vescovo Bohémond. La notizia di questo arresto desta la curiosità dei cittadini: perché mai il barone ha fatto arrestare un uomo del vescovo? Tra il signore della città e il prelato i rapporti sono molto buoni.

Jules viene interrogato, ma rifiuta di dare informazioni, a parte il fatto che lo manda il duca e che il messaggio è per l’emiro di Jabal al-Jadid. Nega di conoscerne il contenuto, il che è vero: non sa che cosa conteneva il plico quando è partito da Rougegarde e non sa che cosa contenga ora. Non sospetta minimamente che il contenuto sia stato cambiato.

Jules viene rinchiuso in una cella, come il vescovo gli aveva annunciato. Si distende sul pagliericcio. Conta di dormire un po’: dopo la sua liberazione non sa dove dovrà nascondersi, né quando tempo dovrà rimanere. Il sonno però non viene. La situazione nuova in cui si trova lo turba. Si pone domande su questo piano di cui costituisce un elemento, ma di cui non sa nulla. E, man mano che le ore passano, il pensiero va sempre più spesso a Solomon e il desiderio si accende, impetuoso.

La cella è completamente buia e la mano di Jules scende al cazzo, lo stringe con forza, mentre Jules ripensa all’abbraccio dell’orafo, al suo odore di maschio pulito, a quello di sudore la prima volta nella bottega, alle carezze, al cazzo che gli è entrato in culo, al piacere intensissimo che ha provato.

Viene con un gemito. Spera di ritrovare presto il bell’ebreo, di scopare ancora con lui.

Infine si addormenta, ma poco dopo la porta si apre e due uomini entrano nella cella.

- Alzati. È ora di andare.

Jules obbedisce. Uno dei due uomini gli si avvicina, poi muove la sua mano, vibrando un colpo di taglio, con tutta la sua forza,  sul collo di Jules. Si sente il rumore secco della trachea che si rompe. Jules boccheggia, gli occhi dilatati dal terrore. Cerca invano di far entrare aria nei polmoni. Si rende conto di stare morendo, di essere stato tradito.

I due non si occupano di lui: stanno fissando un cappio alla parete.

- Sollevalo, Joscelin.

Joscelin afferra Jules, che non è in grado di reagire, e lo mette contro la parete, sotto la corda. L’altro uomo gli passa il cappio intorno al collo.

- Lascialo pure.

Joscelin molla Jules. Il corpo scivola. Jules scalcia, ma l’agonia si conclude in fretta.

Il giorno dopo il cadavere viene ritrovato nella cella. Il prigioniero si è impiccato con una corda che probabilmente usava come cintura.

In tutta San Giacomo si parla dell’arresto e della morte di questo messaggero proveniente da Rougegarde.

 

Olivier scrive il mattino stesso al re. Spiega che da tempo i suoi uomini segnalavano scambi di messaggeri tra Jabal al-Jadid e Rougegarde e che infine è riuscito a intercettare un messaggero, con un plico di carte. L’uomo arrestato ha cercato di sfuggire all’arresto sostenendo di essere stato inviato dal duca di Rougegarde. Poi non ha voluto più dire nulla. Nella notte si è ucciso in cella.

Olivier non ha aperto il plico di carte, sigillate: preferisce che sia il re stesso a farlo: in questo modo nessuno potrà accusarlo di aver manomesso il contenuto.

Il messaggero parte immediatamente per Gerusalemme.

Più tardi nella giornata Joscelin chiede di parlare a Olivier.

- Barone, devo riferirvi una cosa.

- Dimmi, Joscelin.

- In città circola voce che l’uomo arrestato fosse un certo Jules Randonnay, al servizio del vescovo.

Olivier non si aspettava che qualcuno lo riconoscesse. Non può supporre che sono stati alcuni uomini al soldo di Denis a diffondere la voce, già il giorno precedente.

- Merda!

Olivier riflette. Si dice che non dovrebbe essere un problema: il re non lo verrà mai a sapere, nessuno certo andrà a riferirglielo.

 

Guido da Lusignano guarda il sigillo sul plico intercettato dagli uomini di Olivier, ma si tratta solo di una croce su un po’ di cera, che non corrisponde al sigillo di nessuno. All’interno c’è un secondo sigillo, che Guido riconosce e guarda stupito. Il suo stupore cresce mentre legge le carte che gli sono state consegnate.

Appena ultimata la lettura, convoca il duca di Rougegarde, scrivendo solo che ha bisogno di parlargli con estrema urgenza. Denis parte non appena riceve il messaggio. Affida la città a Pierre e chiama Ferdinando: preferisce che ci sia anche il conte in città a dare una mano, se necessario.

 

Non appena Bohémond viene informato che il duca è stato convocato dal re a Gerusalemme, decide di agire.

Solomon è uscito dalla casa del mercante Giovanni e si dirige al palazzo ducale. Denis è via, ma Solomon vuole concludere un lavoro che ha lasciato in sospeso.

Vede all’angolo un gruppo di guardie del vescovo e qualche cosa nel loro atteggiamento lo mette in sospetto. Non ci sono vie laterali in cui svoltare e in ogni caso sarebbe inutile: se vogliono fermarlo per qualche motivo, lo faranno.

In effetti quando arriva vicino al gruppo, l’ufficiale si mette davanti a lui e gli uomini lo circondano.

- Tu sei l’orafo Chlomo, detto Solomon, vero?

Inutile negare.

- Sì, sono io.

- Sei in arresto, vieni con noi.

- In arresto? Avete un ordine del re?

- Non ci serve un ordine del re, porco giudeo. Muoviti o assaggi questo.

L’ufficiale estrae la spada e gliela punta al petto.

Solomon sa di non avere scelta.

Lo conducono per le vie. Le persone che incrociano guardano incuriosite, ma senza prestare molta attenzione: non c’è nulla di strano che le guardie del vescovo portino al palazzo un uomo, forse lo hanno arrestato perché sorpreso a rubare in chiesa. Solo chi conosce Solomon è stupito.

Solomon sa che deve far arrivare la notizia del suo arresto al palazzo ducale: Denis non c’è, ma Pierre cercherà di fare qualche cosa.

Quando arrivano nella piazza davanti al palazzo vescovile, dove si tiene il mercato e c’è parecchia gente, Solomon vede alcune persone che lo conoscono. Allora dice, forte:

- Mi hanno arrestato mentre camminavo per la strada, senza nessun diritto. È un abuso.

L’ufficiale scatta, mollandogli un ceffone.

- Taci, porco giudeo!

Si sente un mormorio correre tra la folla. Questo ebreo è Solomon, l’orafo del duca. Perché è stato arrestato come un comune malfattore? Come è possibile? Per un momento l’attenzione si concentra tutta su Solomon e chi è più indietro cerca di alzarsi sulle punte dei piedi per vedere quest’uomo tra le guardie vescovili.

Qualcuno dice:

- È un ebreo, chissà che cosa ha combinato…

- È l’orafo del duca. Perché il vescovo lo ha fatto arrestare?

- Per fare arrestare il vescovo ha bisogno dell’autorizzazione del re. O deve sorprenderlo mentre compie un reato. Ma Solomon è un ricco orafo… di certo non va a rubare nelle chiese.

Domande si accavallano. Tutti conoscono l’ostilità esistente tra il duca e il vescovo. Il vescovo ha fatto arrestare l’orafo del duca sperando di poter in qualche modo danneggiare il signore della città? Non ci sarebbe da stupirsi.

- Quel bastardo ha fatto ammazzare un povero vecchio. Adesso se la prende con l’orafo.

Solomon sente i mormorii della gente e coglie il nervosismo delle guardie. Potrebbe cercare di fuggire, ma sarebbe una mossa molto rischiosa. Ripete:

- Mi hanno arrestato mentre camminavo per la strada.

L’ufficiale lo colpisce con un pugno. Non è un colpo così forte, ma Solomon finge di non riuscire a reggersi e si lascia cadere a terra.

Tutta la gente ormai segue la scena.

- Picchiano un innocente.

- È un ebreo, qualche cosa deve aver combinato.

- Perché il vescovo lo ha fatto arrestare?

- Non siamo più liberi di camminare per le strade, adesso?

- Questo è un abuso.

Molti pensano che nella partita mortale che lo oppone al duca il vescovo abbia fatto una mossa azzardata. Chi avrà la meglio? Il duca è fuori città, è partito per Gerusalemme, e di certo, anche se qualcuno dei suoi uomini riuscisse a raggiungerlo per avvertirlo dell’arresto, non potrà rientrare prima di alcuni giorni: l’ebreo sarà già stato torturato e magari avrà confessato. Ma che cosa dovrebbe confessare? Qual è l’accusa? E se Solomon non confessasse, se non ci fossero prove nei suoi confronti? Allora sarebbe il vescovo a rischiare.

- Vorranno fargli confessare cose che non ha fatto.

- È probabile. I loschi tiri di quel bastardo…

Intanto l’ufficiale, sempre più nervoso, ha fatto alzare Solomon.

- Muoviti, porco giudeo! Se dici ancora una parola, ti becchi due palmi di ferro in pancia.

Solomon lo guarda, senza dire nulla.

- Cammina, porco!

Solomon segue l’ufficiale. Sa che la notizia del suo arresto arriverà presto a palazzo.

 

In effetti non passa molto tempo prima che Pierre, reggente della città in assenza del padre, riceva l’informazione. Pierre sa che Solomon è molto legato a Denis e la notizia del suo arresto lo preoccupa alquanto. Per quale motivo Solomon è stato arrestato?

Pierre manda subito Manrique al palazzo vescovile. Il vescovo lo fa attendere a lungo prima di riceverlo.

Manrique dice:

- Vengo da parte del reggente. Questa mattina è stato arrestato l’orafo del duca, Chlomo, detto Solomon. Il reggente vuole sapere se il re ha autorizzato il suo arresto.

- Non vedo perché dovrei rispondere.

- Perché solo il duca può fare arrestare un cittadino che non sia stato sorpreso mentre commetteva un reato. E l’orafo stava camminando per strada quando è stato arrestato.

- Non ho più bisogno dell’autorizzazione del re.

- Quello che avete fatto è un grave abuso.

Il vescovo sorride e aggiunge:

- Il tempo dell’Anticristo è finito. Il regno di Dio tornerà e coloro che hanno servito Satana pagheranno.

Manrique sa che ormai è inutile proseguire. Le parole del vescovo lo preoccupano molto. Dice comunque quello che deve:

- Dovete liberare immediatamente l’orafo.

- Andate, finché potete farlo. Pagherete anche voi i vostri peccati. Dio abbatte i suoi nemici.

Manrique esce e torna al palazzo ducale.

Solomon viene portato nei sotterranei del palazzo. Non sa quale sia l’accusa, ma sospetta che la sua situazione sia molto grave. Nessuno può essere arrestato dal vescovo a Rougegarde se non su ordine del re, perciò o c’è un ordine regio o il vescovo ha infranto le norme perché sicuro di poterlo fare impunemente. Con ogni probabilità Bohémond è convinto che Denis sarà arrestato a Gerusalemme. Questo non avverrà, ma prima che il duca sia di ritorno, il destino di Solomon si sarà compiuto.

Si dice che scoprirà presto che cosa vogliono da lui.

L’interrogatorio ha luogo in un’ampia stanza, dove sono ben visibili gli strumenti di tortura. Solomon sa che avrà modo di provarli e che il suo corpo sarà devastato.

A condurre l’interrogatorio è padre Joaquim, un sacerdote che Solomon ha visto qualche volta: un uomo di fiducia del vescovo, ovviamente. Accanto a lui ci sono solo lo scrivano, che prende nota di tutte le domande e delle risposte, e il carnefice, un uomo robusto a torso nudo, la cui presenza equivale a una condanna.

- Qual è il tuo nome?

Solomon potrebbe rispondere che lo sanno benissimo, ma non ha senso.

- Chlomo, detto, Solomon.

- Chi fu tuo padre?

- Un soldato cristiano che stuprò mia madre, come spesso fanno i cristiani con le donne ebree.

Solomon coglie un irrigidirsi del sacerdote, che prosegue:

- La tua religione?

- Sono ebreo.

- Dove abiti?

- In un appartamento nella casa del mercante Giovanni.

Gli vengono chieste altre informazioni che tutti sanno. Per il momento Solomon non ha la più pallida idea di dove voglia arrivare padre Joaquim. Un primo indizio viene da un’altra domanda:

- Tu ti rechi molto spesso nei territori saraceni.

- Sì.

- Perché?

- Perché alcuni signori saraceni mi richiedono gioielli.

- Perché mai dei signori saraceni dovrebbero rivolgersi a un giudeo?

- Perché apprezzano i miei lavori.

- Chi sono questi signori?

Le domande successive riguardano i suoi rapporti con i signori arabi e curdi. Il sacerdote insiste in particolare sull’emiro di Jabal al-Jadid.

- Vai spesso da lui?

- No. Mi capita ogni tanto.

- Ogni quanto?

- Forse una volta l’anno.

- Che cosa prepari?

- Gioielli: bracciali, collane, fermagli.

- Sappiamo che il duca ti affida dei messaggi per l’emiro.

Solomon aggrotta la fronte. Questo è il primo attacco. Non è detto che sia l’unico. Vogliono un’ulteriore conferma dei rapporti tra il duca e l’emiro, per dare maggiore peso ai documenti falsi che il vescovo ha fatto produrre.

- No, non è mai successo.

- Non mentire. Sappiamo benissimo che è avvenuto. Eri uno dei messaggeri che il duca inviava. I gioielli erano una scusa.

- È falso.

- Temo che ricordi male. Abbiamo molti sistemi per farti ricordare meglio. Dobbiamo usarli?

- Per farmi dire il falso?

- Per farti ricordare cose che forse hai dimenticato.

- Ho detto la verità.

- Ve bene. Torneremo dopo su questo e credo che ci dirai la verità.

Padre Joaquim sorride. Poi il sorriso scompare.

- Tu vivi nella casa del mercante Giovanni.

- Ve l’ho già detto.

- Conoscevi Emich di Freiburg, l’eretico?

- Certo, viveva nella locanda che fa parte della casa.

- Sai che aveva rapporti contro natura, con altri uomini?

- Non ne so niente. È la prima volta che lo sento.

- Tu menti. Anche tu avevi rapporti con lui.

- No, mai.

- Tu menti. Hai partecipato alle riunioni che si tenevano in una sala sotterranea vicino alla chiesa di Santo Stefano?

- Non ho mai sentito parlare di queste riunioni.

- Tu menti. Tu hai partecipato a queste riunioni e hai avuto rapporti contro natura con il figlio del duca, Pierre di Rougegarde, e con il barone Jacques di San Giacomo d’Afrin.

- Mai avuto rapporti con loro, né con nessun altro.

- Tu menti. Bada, sappiamo come farti dire la verità.

- Non mento.

- Tu hai avuto rapporti anche con il conte Ferdinando.

Ormai non sono più domande, ma affermazioni.

- Mai.

- Tu menti. Se non ti decidi a confessare, dovremo ricorrere alla tortura.

- Non posso confessare colpe che non ho. Non posso accusare innocenti.

Solomon ormai ha un quadro preciso della situazione. Il suo arresto serve per perdere anche Pierre e Jacques, in modo da sgomberare completamente la strada a Olivier o a chi altri dovrebbe prendere il posto di Denis.

Il vescovo è convinto che Denis verrà arrestato a Gerusalemme.  Non sarà così. Ma la confessione di Solomon metterebbe sotto accusa Pierre e Jacques, che verrebbero a loro volta arrestati.

- Non vuoi confessare?

- Non ho nulla da confessare.

Il sacerdote fa un cenno al carnefice. Questi si avvicina a Solomon, gli ordina di togliersi tutti gli indumenti, tranne i pantaloni, e lo fa distendere su un tavolaccio alle cui estremità ci sono delle corde e da un lato un ingranaggio. Solomon sa che sarebbe inutile resistere.

Il carnefice passa la lama sulla pelle di Solomon, recidendo la peluria che, ora più densa, ora meno, copre il corpo. Le sue mani si muovono sicure, in gesti che conosce bene, che ha ripetuto molte volte: ogni prigioniero, prima di essere sottoposto alla tortura, viene depilato.

Solomon tace, disteso sul tavolaccio, mentre l’uomo maneggia il suo corpo, prima davanti, poi dietro, fino a completare l’operazione. Pensa che la sua vita si avvia alla fine. Prima che Denis torni, sarà morto o storpiato per sempre, probabilmente castrato, forse accecato.

L’uomo gli prende le braccia e le solleva, legandole all’ingranaggio che tenderà il suo corpo fino a slogare le articolazioni. Poi lega le caviglie dalla parte opposta.

Padre Joaquim si avvicina e chiede:

- Prima che dia ordine di incominciare, sei disposto a rispondere alle domande?

- Ho già risposto.

- Ma non hai detto la verità.

- Ho detto la verità, non le menzogne che vuoi estorcermi.

- Dirai la verità?

Solomon guarda il soffitto della stanza. Non risponde nemmeno a quest’uomo che disprezza. Non cambierebbe nulla: sa bene che sarà torturato fino a che gli estorceranno una confessione o fino a che il suo corpo sarà straziato. La morte lo attende. Solomon non intende cedere: nessuno al mondo lo forzerà ad accusare Denis d’Aguilard e gli altri.

Padre Joaquim dà ordine di procedere.

Solomon guarda il carnefice che sopra di lui gira il meccanismo che tende le corde. Sente la tensione nelle braccia e nelle spalle crescere.

Il sacerdote pone la domanda:

- Il duca ti affidava messaggi per l’emiro di Jabal al-Jadid?

- No.

A un cenno del sacerdote, il carnefice fa girare l’ingranaggio. La tensione cresce ancora.

- Di’ il vero. Il duca ti affidava messaggi per l’emiro di Jabal al-Jadid?

- No.

Il sacerdote fa un cenno.

Il nuovo strattone gli strappa un gemito. Il dolore ai polsi e alle spalle aumenta ancora anche le caviglie e le anche sono tese. Solomon si chiede se intendono proseguire fino a che le articolazioni cederanno o se si fermeranno prima. È più probabile che oggi si fermino: spesso preferiscono non provocare gravi danni il primo giorno di tortura. Il prigioniero sperimenta umiliazioni e sofferenze su cui potrà meditare durante la notte. Molti cedono dopo aver passato una notte di terrore e gli inquisitori ottengono una confessione senza che la vittima abbia troppi segni evidenti di tortura, senza che lo spettacolo del rogo sia rovinato dal fatto che il prigioniero deve essere trascinato fino al luogo dell’esecuzione perché le gambe non lo reggono più.

Se invece non confessano, il giorno dopo la tortura prosegue senza limiti. Poco cambia per Solomon: lo hanno arrestato dopo la partenza di Denis, per evitare che il duca potesse far valere la sua autorità. Quando il duca tornerà, per Solomon sarà troppo tardi. Solomon sa che la tortura può fare impazzire e che pur di farla cessare c’è chi è disposto ad ammettere qualunque colpa. Sa che anche lui potrebbe cedere, ma sicuramente non intende dare al vescovo nessuna arma per colpire.

- Il duca sarà arrestato per tradimento a Gerusalemme. Noi sappiamo che il duca e il conte Ferdinando sono in contatto con l’emiro. Confessa che porti messaggi del duca all’emiro e le risposte dell’emiro al duca.

- È falso.

Il confessore chiede ancora. Solomon tace. La pressione aumenta, il dolore diventa intollerabile, Solomon stringe i denti.

Il carnefice riduce leggermente la tensione. Solomon respira più liberamente.  Il confessore continua a porre domande, ma non riceve risposte. A un suo cenno, la tortura riprende.

Infine Joaquim fa segno al carnefice, che scioglie le corde.

Solomon è esausto, coperto di sudore. Il suo corpo è percorso da brividi. Anche quando le braccia e le gambe non sono più tese dalla corda, il dolore alle articolazioni è feroce. A tratti batte i denti.

Il carnefice sta scaldando un ferro su un braciere.

- Adesso proverai il fuoco, se non dici la verità.

- Ho detto la verità.

- Confessa di aver partecipato alle riunioni segrete accanto alla chiesa di Santo Stefano.

- Non so di che cosa parli.

A un cenno di padre Joaquim, il carnefice avvicina il ferro rovente al torace di Solomon, poi lo appoggia. Solomon lancia un urlo di dolore, mentre nella stanza si diffonde il lezzo della carne bruciata. Solomon ha l’impressione che il mondo svanisca, ma è solo un attimo. Il sudore gli imperla la fronte. Nuovamente rabbrividisce. È esausto.

- Confessa di aver avuto rapporti con il figlio del duca e con il barone Jacques durante quegli incontri.

- Non ho mai… avuto… rapporti con loro. Non ho mai… partecipato… a nessuna riunione.

Il carnefice ha nuovamente posto sulla fiamma il ferro. Ora lo prende. Il corpo di Solomon si tende, la bocca si apre. Padre Joaquim gli intima ancora di confessare, ma il prigioniero tace. Il carnefice appoggia nuovamente il ferro sulla carne. L’urlo di Solomon sembra dissolvere la realtà. Ha perso i sensi. Sui pantaloni si allarga una chiazza: si sta pisciando addosso.

 

Sono ore che l’interrogatorio procede. Il vescovo ha ordinato di aspettare un giorno prima di storpiare per sempre l’orafo. Il sacerdote chiede ancora, furente per la resistenza che incontra. Si era illuso di avere la meglio nel primo giorno di interrogatori, ma ormai ha capito che dovrà spezzare questo corpo per estorcergli la verità.

- Per oggi basta così. Vedo che non intendi cedere. Domani mattina faremo sul serio. Ti spezzeremo le gambe e le braccia, ti slogheremo le spalle, ti schiacceremo i testicoli. Confesserai. Te lo assicuro. Confessano tutti.

Poi si rivolge al carnefice:

- Portatelo nella cella.

Padre Joaquim se ne va. Entra una guardia.

Il carnefice libera Solomon dai lacci. L’orafo vede il mondo oscillare e poi scomparire.

Vedendolo privo di sensi il carnefice e la guardia lo prendono uno sotto le ascelle e l’altro per le gambe, strappandogli una serie di gemiti. Solomon riprende coscienza e guarda il suo aguzzino, che sorride.

Lo portano in una cella e lo depongono sul giaciglio. Solomon si abbandona, del tutto inerte, esausto, ma i suoi occhi scorrono lungo le pareti. Il carnefice si volta verso la guardia e ghigna.

- Adesso ci gustiamo questo bel culo.

Solomon ha sentito dire che a volte il carnefice e le guardie stuprano i prigionieri: il vescovo finge di non saperne niente o davvero non sa; gli ufficiali li lasciano fare, anche se dovrebbero impedire un peccato mortale, perché l’umiliazione, come la tortura, piega molti uomini.

Solomon non ha la forza per opporsi. Mormora:

- Bastardi!

Il ceffone del carnefice gli fa colare un po’ di sangue dal labbro.

Il primo a prenderlo è il carnefice. Gli toglie i pantaloni, l’unico indumento rimasto e li getta di lato. Poi volta il prigioniero, gli allarga le gambe, gli mette le mani sul culo e divarica le natiche. Ride. Si abbassa i pantaloni, si accarezza il cazzo fino a che è duro, poi lo spinge con forza attraverso l’apertura, ben dentro nel culo. Gli piace fottere questo maschio vigoroso che non ha voluto abbassare la cresta, ma domani cederà.

- Quando non avrai più i coglioni, quando ti taglieremo il cazzo, cederai, stronzo, cederai, te lo assicuro.

Il carnefice spinge con forza. È un uomo robusto, ben dotato, con una buona resistenza. Fotte Solomon con spinte decise. L’orafo non dice più nulla. Sopporta questo ulteriore sfregio, a cui non può sottrarsi. Non è la prima volta che viene posseduto, ma non gli era mai capitato di essere stuprato. Ormai non ha più nessuna importanza. Pensa che è nato da uno stupro e uno stupro accompagna la sua morte.

Il carnefice lo fotte a lungo, finché viene.

Poi è il turno della guardia, che lo infilza con un movimento deciso, ma viene molto rapidamente. Quando si ritira, lo sborro dei due uomini scivola dal culo di Solomon.

 

Con fatica Solomon si rimette supino, ma non guarda i suoi stupratori. Il suo sguardo vaga per le pareti

I due uomini escono, ridendo.

- A domani. Domani il galletto sarà un cappone e canterà.

La cella sprofonda nel buio: c’è solo una finestrella e ormai è calata la sera. Ma Solomon ha visto quello che cercava.

Rimane disteso: muoversi è troppo doloroso.

Sa che le nuove torture rischiano di farlo cedere: il vescovo non si pone limiti, è sicuro che Denis non tornerà e allora nessuno gli chiederà mai conto dell’agonia di un giudeo. E se non cedesse, lo aspetta comunque la devastazione del suo corpo. Domani sera non sarà più un uomo, non sarà più in grado di camminare, di muovere le braccia. Ma non ci sarà domani sera per lui.

Anche rimanendo fermo, ogni tanto ondate di dolore lo assalgono. Può riposare ancora, ha tempo. È appena sera. Basta che faccia quello che deve prima di domani mattina. Non ci sarà domani mattina per lui.

Solomon lascia che la sua mente vaghi e raggiunga Denis. Sa che il duca soffrirà moltissimo per la sua morte

 

I pensieri del vescovo sono di ben altra natura. Joaquim gli ha detto che il prigioniero non ha voluto confessare, ma è sicuro che domani cederà e confesserà: il tradimento del duca e del conte e il peccato di Sodoma di cui si sono macchiati il figlio del duca, il barone Jacques, Emich, il conte.

Il vescovo è soddisfatto. Denis d’Aguilard sarà certamente squartato a Gerusalemme e con ogni probabilità il re farà arrestare anche Ferdinando, che si è macchiato della stessa colpa. I due giovani nobili finiranno sul rogo, insieme a Solomon: Rougegarde conoscerà infine il potere del vescovo, i musulmani e gli ebrei saranno scacciati. Gli eretici conosceranno il rogo. Bohémond pregusta il suo completo trionfo.

 

 

Nella cella Solomon si alza. Ogni movimento è dolore, ma la forza di volontà lo guida. Prende i pantaloni con una mano. Si appoggia alla parete e alza il braccio. Fa fatica a contenere l’urlo: il dolore alla spalla è una lama che lo trafigge. Trova infine il gancio che ha visto sporgere, che di certo serve per fissare le catene dei prigionieri. I pantaloni sono di stoffa leggera, ma riuscire ad annodarli gli costa uno sforzo. Ora rimane la parte più difficile: fissarli al gancio. Per riuscirci deve alzare le braccia e le fitte sono lancinanti. Ma la volontà è di ferro e infine tutto è pronto: le brache formano una specie di cappio. Basterà infilare la testa e avvitarsi su se stessi perché il cappio gli stringa il collo in una morsa mortale. Anche se i piedi non si staccheranno da terra, sarà il peso stesso del suo corpo a trascinarlo verso il basso e a permettere al tessuto di strangolarlo. Probabilmente sarà una fine lenta, perché non è una corda con un nodo scorsoio, per cui la pressione che eserciterà è limitata, ma prima che la guardia lo scopra, tutto sarà compiuto.

Solomon si siede. Ha bisogno di riprendere fiato.

Pensa ancora a Denis, l’unico uomo che ha davvero amato nella sua vita. A Morqos e Manrique, che sono i suoi amici. Ai nipoti, a cui lo unisce un affetto profondo. A Ishan e Mahmud, suoi fratelli d’elezione. Ad Amos, suo fratello di carne. Alle donne e agli uomini della casa di Giovanni, a tutto il suo mondo da cui tra poco uscirà, sospeso per il collo ai suoi pantaloni, perché quel mondo non vada in pezzi.

Decide di riposarsi un momento. Non ha timore di restare addormentato: è abituato a svegliarsi quando gli serve. Avrà bisogno di tutte le sue energie per morire.

 

A destarlo è il rumore della serratura della porta che scatta. Per un attimo teme di aver dormito troppo a lungo e che sia già mattina, ma dalla minuscola finestrella in alto non si vede nessun chiarore.

La porta si apre. Alla luce di una lanterna può vedere alcuni uomini incappucciati. Uno porta una lanterna e gli si avvicina.

- Riesci a camminare?

Solomon conosce la voce dell’uomo che ha parlato e, nelle condizioni di prostrazione in cui si trova, quasi un nome gli sfugge, ma si controlla. Il cuore gli batte forte. Come è possibile?

Solomon scuote la testa.

- No, non credo di farcela.

L’uomo, un colosso, lo solleva e se lo mette in spalla senza sforzo apparente. Muove la lanterna per vedere se c’è qualche cosa da prendere. Vede i pantaloni annodati. Li guarda un attimo senza capire, poi comprende. Rabbrividisce.

Escono dalla cella e passano nel corridoio, dove c’è il cadavere della guardia. Al fondo del corridoio c’è un’apertura. Vi si introducono, chinandosi. Poi l’apertura viene richiusa e ora avanzano lungo un corridoio.

Solomon ha capito: uno dei passaggi sotterranei che collegano il palazzo ducale con altri edifici della città, quello che il duca ha mostrato loro non molto tempo fa.

Solomon chiude gli occhi. Il dolore è forte, perché le ustioni premono contro il corpo dell’uomo che lo sta portando. Solomon sa chi è: il conte Ferdinando. Pensa che ci sarà ancora un domani e che rivedrà Denis.

 

Ferdinando tiene una mano sul culo di Solomon, per evitare che il corpo gli sfugga e cada. Il contatto gli trasmette una sensazione piacevole. Solomon gli piace molto e se non fosse l’uomo di Denis, ci avrebbe già provato. La sua mano si sposta un po’, accarezzando questo bel culo forte su cui appoggia. Si accorge che il cazzo gli si sta tendendo. Si dice: “Sei il solito cazzone, Ferdinando. Solo a scopare pensi!” Ride.

Raggiungono il palazzo ducale. Solomon viene portato in una delle stanze dell’appartamento dove sono ospiti il conte e Adham. Qui Ferdinando e gli altri si tolgono il cappuccio.

Mentre il conte lo depone sul letto, Solomon riesce a dire:

- Grazie, conte.

Ferdinando gli sorride, senza dire nulla.

Istfan li attende e si mette subito al lavoro, aiutato da un inserviente e dal conte. Pone domande, muove con cautela braccia e gambe, medica le ustioni. L’inserviente lava il corpo, con grande delicatezza.

Quando Istfan ha medicato Solomon, Ferdinando chiede:

- Qual è la situazione?

- Avrà bisogno di un lungo periodo di riposo, ma credo che si rimetterà completamente. Non gli hanno slogato le articolazioni. Di fatto, niente di davvero grave. Rimarranno le cicatrici delle bruciature.

Poi Istfan si stende nel letto vicino: dormirà nella camera, pronto a intervenire se il paziente avrà bisogno di assistenza.

Ferdinando chiede ancora:

- Avete bisogno di qualcosa, Solomon?

- Di dormire e dimenticare. Grazie, conte.

Ferdinando gli passa la mano sul viso in un gesto affettuoso e si ritira.

Raggiunge la stanza dove Pierre lo aspetta. Il giovane è già stato informato del successo dell’impresa, ma attende notizie di Solomon.

- Istfan dice che non ci sono stati danni irreparabili. Siamo intervenuti in tempo.

Ferdinando pensa al cappio che ha visto nella cella. Hanno rischiato di trovare un cadavere appeso a un gancio nel muro. Pensa a quanto ne avrebbe sofferto Denis. Ripete:

- Sì, siamo intervenuti in tempo.

Parlano un momento, poi Ferdinando si congeda e raggiunge la camera dove dorme con Adham. Mentre si corica pensa alla sensazione del culo di Solomon sotto la sua mano. Sorride.

 

L’indomani mattina gli uomini del vescovo trovano il cadavere della guardia e scoprono la fuga di Solomon. Bohémond viene avvisato immediatamente. Non riesce a capire che cosa possa essere successo.

Gli sembra difficile che il prigioniero sia riuscito a uccidere la guardia: da quello che gli ha detto padre Joaquim e che il carnefice ha confermato, riusciva a malapena a stare in piedi. Ma nessuno può essere entrato nel palazzo e essere arrivato alle segrete senza farsi notare. E, posto che invece qualcuno sia riuscito a entrare, magari confondendosi con altre persone in ingresso e poi nascondendosi da qualche parte, come ha fatto a uscire trasportando un uomo che non era in grado di camminare?

Bohémond può fare ben poco. Protestare con il figlio del duca sarebbe inutile: quell’infame negherebbe qualsiasi addebito e di certo il fuggiasco è nascosto bene.

Bisognerà attendere l’arresto del duca e l’arrivo degli inviati del re, che di sicuro si faranno accompagnare da diversi soldati, per poter arrestare anche Ferdinando. A meno che il conte non sia convocato a Gerusalemme, per essere arrestato là.

In ogni caso per il duca e il conte non c’è speranza. E Bohémond è sicuro di riuscire a mettere le mani anche su Solomon, una volta che a governare la città ci sia un inviato del re, in attesa della condanna e dell’esecuzione del duca.

Al pensiero del processo con cui si concluderà l’esistenza di Denis di Rougegarde, il vescovo sorride. Nonostante la fuga di Solomon, la vita del duca è giunta alla fine e nulla ormai può salvarlo.

Intanto i servitori comunicano un’altra novità. Lungo le strade che conducono al palazzo vescovile stanziano gruppi di armati, piuttosto numerosi: almeno una quindicina di soldati per ogni via. Qual è il senso di queste manovre? È impensabile che il figlio del duca voglia attaccare il palazzo ducale, d’altronde gli uomini non si muovono.

Il vescovo manda un messaggero, che ritorna con la spiegazione: il figlio del duca vuole essere sicuro che nessun altro cittadino venga arbitrariamente arrestato. Questo significa che se le guardie del vescovo cercassero di tornare a palazzo con un uomo che hanno fermato, i soldati del duca li bloccherebbero. È un vero affronto, come lo è anche la richiesta del figlio del duca di liberare l’orafo ebreo: Bohémond è sicuro che dietro la scomparsa del giudeo ci sia proprio Pierre d’Aguilard. Per quanto ritenga la presenza dei soldati del duca offensiva, non gli conviene tentare una prova di forza, in una città che gli è profondamente ostile. Non è un problema: il giorno della vendetta è molto vicino.

 

Il giorno delle vendetta è davvero molto vicino. Il re è a colloquio con Denis di Rougegarde e non nasconde il suo turbamento. Ha ricevuto il duca non nella sala delle udienze, ma in una stanza interna, dove non c’è nessun altro.

- Duca, vi ho convocato perché un messaggero che portava delle carte da Rougegarde a Jabal al-Jadid è stato intercettato e ora queste carte sono nelle mie mani.

Denis finge stupore.

- Delle carte, mi dite? Da Rougegarde a Jabal al-Jadid? Una corrispondenza privata?

Sul viso di Guido appare una smorfia.

- Privata nel senso di segreta, sì, ma purtroppo non viene da un qualunque cittadino.

- Non so di cosa parliate. Ditemi.

Il re prende un fascio di carte e le porge al duca, dicendo:

- Leggete voi stesso, duca.

Denis prende le carte e incomincia a esaminarle. C’è una lettera diretta all’emiro di Jabal al-Jadid e ci sono una serie di fogli con le mappe delle fortificazioni di Rougegarde e di San Giacomo d’Afrin e alcune altre indicazioni sulle difese delle due città. Le due mappe sono piuttosto dettagliate e ricche di informazioni anche sulle guarnigioni delle città.

La lettera non lascia nessun dubbio: facendo seguito a scambi precedenti avvenuti attraverso l’emiro di Jabal al-Jadid, Bohémond, vescovo di Rougegarde e San Giacomo d’Afrin, offre al Saladino informazioni strategiche molto importanti per la conquista delle due città. Ricorda al signore della Siria e dell’Egitto, che questi in cambio gli ha promesso la signoria sulla città. Si dichiara disposto a invitare il duca a palazzo e a farlo avvelenare, per poi aprire le porte la notte, in modo che il Saladino possa entrare nella città senza incontrare resistenza.

Denis interrompe la lettura due volte, guardando il re, come se non potesse credere ai suoi occhi. Appare sconvolto.

- Dio mio… mai avrei pensato… le mappe delle fortificazioni… ma… è incredibile! No, non è possibile.

Guido da Lusignano annuisce, torvo.

- Sì, se non avessi questa lettera tra le mani, se non vedessi con i miei occhi… Suppongo che le mappe e le informazioni fornite riguardo a Rougegarde corrispondano alla realtà.

Denis annuisce.

- Con una precisione tale da farmi pensare a uno studio sistematico della situazione. Non basta vivere a Rougegarde per conoscere tutto questo.

- È spaventoso.

- Ma, Vostra Maestà, non è possibile. È il vescovo. Come può rivolgersi a un maomettano, proporgli di consegnare una città cristiana, fornendogli le informazioni per conquistare l’altra? Con che garanzie poi, che il Saladino mantenga i patti? Sarebbe comunque sotto un signore che lo considera un infedele. No, non è possibile.

Denis appare davvero scettico, come se fosse convinto che la lettera non sia autentica.

- Duca, ho confrontato la scrittura con quella di due lettere riservate del vescovo in mio possesso. Non esistono dubbi su chi ha scritto quelle parole. E vi dirò di più: l’uomo che portava questa lettera prima ha detto di essere stato mandato da voi…

- Da me?

- Sì, di certo queste erano le istruzioni che aveva ricevuto nel caso fosse stato fermato: pensava di potersela cavare. Nella notte si è ucciso in cella.

- Ucciso in cella? Intendete… So che un uomo del vescovo è stato arrestato a San Giacomo, un certo Jules Randonnay. Lo hanno riconosciuto. Mi sono stupito, non capivo perché fosse stato arrestato. Era lui? Mi hanno riferito che si è impiccato nella prigione.

- Certamente era lui.

Denis scuote il capo.

- Non ho mai avuto buoni rapporti con il vescovo, ma non avrei certo pensato…

- È un uomo ambizioso. So che sperava di diventare patriarca di Gerusalemme, ma non ci è riuscito: la nomina di Eraclio gli ha fatto perdere ogni ritegno. Farebbe di tutto per il potere.

- Ma… pensate davvero che il Saladino accetterebbe di lasciare la perla della Terrasanta nelle mani di un cristiano.?

- Credo che si sia dichiarato disposto a convertirsi. C’è un accenno nella lettera, a un impegno preso. E si rivolge al Saladino chiamandolo “Campione della fede” e poi “Principe dei credenti”! Un vescovo che chiama un maomettano “Campione della fede”! “Principe dei credenti”! Come lo spiegate, duca?

C’è un ghigno di scherno sul viso del re. Denis china la testa, come se riconoscesse la propria sconfitta.

Guido riprende:

- Comunque, duca, non ha importanza sapere se il Saladino avesse intenzione di mantenere la sua promessa. Quello che conta è la prova inoppugnabile del tradimento. Queste carte non lasciano spazio a dubbi.

Denis ha esaurito tutte le argomentazioni fasulle che ha preparato per difendere il vescovo. Il re ha dato le risposte prevedibili: se non l’avesse fatto, Denis avrebbe provveduto lui a fornirle.

- Purtroppo è così.

- Ho già convocato il patriarca. Umfredo di Toron mi rappresenterà. Intendo agire in fretta.

 

Denis è tornato nei suoi appartamenti. Conta di partire l’indomani per Rougegarde, con Eraclio e Umfredo, quando riceve un messaggio dal figlio.

La lettera gli comunica che l’orafo Solomon è stato arrestato dalle guardie del vescovo e interrogato, ma non si sa di che cosa sia accusato. Denis capisce bene di che cosa si tratta ed è angosciato per Solomon: il vescovo, sicuro del proprio trionfo, vuole estorcergli una confessione per perdere altri. Non si fermerà davanti a nulla, pensando che nessuno potrà chiedergliene conto.

Per Denis è una giornata d’inferno. Ha bisogno di tutto il suo autocontrollo per non tradire ciò che prova. Vorrebbe tornare subito a Rougegarde, ma non può partire e in ogni caso prima che sia arrivato sarà troppo tardi. La sua rabbia nei confronti del vescovo cresce a dismisura.

La sera stessa arriva un secondo messaggio: nella notte il carceriere è stato ucciso e Solomon è fuggito o è stato portato via dalla prigione. Altro non si sa. Denis legge. Non capisce, ma almeno Solomon non è più nelle mani del vescovo. C’è un altro messaggio per il duca d’Aguilard, un foglio che il messaggero gli consegna quando sono soli. C’è solo una frase, molto generica:

A palazzo tutto a posto

Denis sorride, tranquillizzato: Pierre è intervenuto, risolvendo la faccenda, ed è stato tanto saggio da scrivergli un messaggio che, anche se fosse caduto nelle mani di uno dei suoi nemici, non avrebbe compromesso nessuno.

 

Solomon si sta riprendendo. Rimane per la maggior parte del tempo seduto o disteso, ma è in grado di alzarsi e camminare. Solo la spalla sinistra gli fa ancora molto male, per cui Istfan gli ha fatto una fasciatura che gli blocca il braccio. Della sua presenza a palazzo sono informati, oltre a Pierre d’Aguilard e a Istfan, solo coloro che lo hanno salvato: Ferdinando, Adham e due uomini del conte. È stato Ferdinando stesso a proporre di assumersi l’intero carico dell’impresa: se qualche cosa fosse andato storto, Pierre sarebbe stato implicato solo marginalmente. Ferdinando avrebbe sostenuto di essere a conoscenza del passaggio perché glielo aveva mostrato Denis e di aver deciso di agire autonomamente.

Istfan passa due volte al giorno a visitare Solomon. Ferdinando viene più spesso.

Il terzo giorno gli dice:

- Ho visto il cappio, Solomon.

- Non c’era altra via.

- Pensavi…

- Mi avrebbero costretto a confessare o, se non fossero riusciti, mi avrebbero comunque castrato, storpiato.

Ferdinando annuisce.

- Mi chiedo come hai fatto a prepararlo, in quelle condizioni. Anche adesso muovi a fatica la sinistra.

Solomon passa al tu, adeguandosi a Ferdinando.

- Dovevo farlo, Ferdinando.

- Dovevi farlo, sì, lo capisco. Ma mi chiedo come ci sei riuscito…

 

L’indomani mattina, molto presto. Ferdinando si alza per pisciare, mentre Adham dorme ancora.  Poi raggiunge la camera di Solomon, che riposa sul letto. Non si è coperto e la luce che filtra dagli scuri socchiusi è sufficiente per vederlo. Dorme, ma ha il cazzo duro. Ferdinando si avvicina e lo osserva.

È un bell’uomo, Solomon, un maschio forte, come quelli che piacciono al conte. Ferdinando sa che dovrebbe uscire dalla stanza e tornare nella propria camera, ma non riesce a staccare lo sguardo dal cazzo di Solomon, dal corpo che si offre ai suoi occhi.

La mano scivola sul cazzo dell’orafo.

Solomon si desta.

- Ferdinando!

- Che c’è, Solomon?

- Che cosa stai facendo?

- Controllo che tu stia bene. Se a un maschio viene duro, significa che non sta così male.

Solomon scuote la testa, mentre la mano di Ferdinando giocherella con il suo cazzo.

- Mi piaci, Solomon, davvero. Se tu non fossi l’uomo di Denis credo che ti avrei già preso, con le buone o con le cattive.

Solomon sorride. Non ha mai dato davvero importanza ai giochi del corpo. Il legame che lo unisce a Denis è fortissimo ed unico. Ma del suo corpo può servirsi per essere più vicino a un amico, per ottenere ciò che gli serve o per offrire piacere.

- Puoi farlo, se lo desideri, Ferdinando.

Ferdinando rimane senza parole.

- Davvero?

Solomon sorride.

- Sì, ma Denis non deve saperlo.

- Non sarò certo io a dirglielo.

- Né io.

Ferdinando vorrebbe farlo ora, ma teme che le ustioni e il dolore alle articolazioni rendano il rapporto doloroso per Solomon. Non è uomo da procrastinare il piacere, ma in questo momento sarebbe disposto a farlo.

- Te la senti, Solomon?

- Sì. Muoviti con cautela.

Ferdinando annuisce. Riflette un attimo, poi si spoglia completamente, passa di lato e solleva Solomon, spostandolo, in modo che abbia il culo all’estremità del letto. Si poggia le gambe dell’ebreo sulle spalle. Sul viso di Solomon compare una smorfia.

- Ti ho fatto male?

- Solo un po’, non ti preoccupare.

Ferdinando si accarezza il cazzo, già duro e guarda il culo che sta per prendere, poi sorride a Solomon. Gli piace fottere in questa posizione, guardando in faccia l’uomo che sta inculando. Si sputa sulla mano, inumidisce bene la cappella, sputa di nuovo e passa le dita intorno al buco del culo, lubrificandolo.

Sorride e preme la cappella contro l’apertura. Entra lentamente, per quanto il desiderio sia violento: vorrebbe spingere con forza, impadronirsi di questo corpo che gli si offre. Vede per un attimo una smorfia di dolore sul viso di Solomon, che lascia il posto a un sorriso. Spinge piano, fino a penetrare a fondo, poi si ritira. Mette le mani sulle ginocchia dell’orafo e guarda il viso, un po’ contratto. Sa che il piacere che gli trasmette non è scevro da dolore. E mentre lo fotte, rivede la scena che gli è apparsa quando hanno aperto la cella, ripensa al gorgoglio della gola tagliata della guardia, che ora sembra mescolarsi con i gemiti di Solomon e con i proprio grugniti. Le sue dita stringono le gambe dell’ebreo, mentre lo cavalca, prima cauto, poi più deciso, senza pietà, trascinato dal piacere che cresce sempre di più. Vorrebbe continuare ancora a lungo, ma il desiderio è incontenibile e l’ondata del piacere lo travolge. Viene con una serie di spinte violente e un grugnito.

Chiude gli occhi. Dice:

- Grazie.

La sua mano afferra il cazzo di Solomon e lo guida al piacere. Gli piace vedere la tensione sul viso dell’orafo, la bocca che si schiude in un gemito, il seme che schizza sul ventre.

Ripete ancora:

- Grazie.

Solomon sorride.

Poi Ferdinando lo sposta di nuovo, con molta cautela.

- Tutto a posto. Il dolore non è aumentato?

- Adesso ho male anche al culo, ma questo l’avevo messo in conto.

Ferdinando gli accarezza il viso con le dita, un tocco lieve. Poi, d’impulso, si china e lo bacia sulla bocca.

 

Il duca è tornato a Rougegarde, con il barone Umfredo IV di Toron, rappresentante del re, e con il patriarca Eraclio. Il vescovo è molto stupito quando gli comunicano la notizia. Contava che Denis venisse arrestato a Gerusalemme.

Bohémond si pone mille domande. Perché il re ha lasciato in libertà il duca e gli ha permesso di tornare a Rougegarde? Pensa di farlo arrestare qui? Sarebbe una manovra molto rischiosa, perché il duca potrebbe sfuggire facilmente alla cattura: i suoi uomini certo lo difenderebbero, anche contro gli emissari del re.

Oppure il re non ha creduto ai documenti? Eppure la lettera non lasciava dubbi. Vuole altre prove?

E perché il duca non è tornato solo? Perché c’è Umfredo? E, soprattutto, perché Eraclio? Il patriarca di Gerusalemme non ha nessun ruolo nell’arresto di uno dei signori del regno. Non è una faccenda religiosa, questa.

 

Dopo aver sistemato i suoi ospiti, Denis parla con Pierre, che racconta quanto è avvenuto.

Denis lo abbraccia e dice:

- Sono orgoglioso di te, figlio.

Pierre è felice dell’approvazione del padre. L’arresto di Solomon lo ha costretto a prendere una serie di decisioni delicate, per cui avrebbe preferito avere il padre al suo fianco.

Denis chiede ancora:

- Dov’è Solomon, ora?

- Nell’appartamento di Ferdinando.

- Perfetto.

Denis si reca dall’amico e si fa accompagnare da Solomon. Ferdinando esce e li lascia soli.

Solomon è seduto su una poltrona, il braccio al collo. È a torso nudo e i segni delle ustioni sono ben visibili. Denis non dice nulla, sopraffatto dall’emozione: le parole gli mancano e gli sembra di essere senza forze. Solomon sorride.

- Sono qui, Denis. Sono vivo e intero. Il braccio sinistro mi fa male, ma Istfan dice che non è niente di grave, andrà a posto, bisogna solo dargli tempo. E delle bruciature rimarranno soltanto le cicatrici.

Denis annuisce. Tende un braccio e la sua mano traccia una carezza leggera sul viso dell’uomo che ama, scende al petto, evitando le zone bruciate. Denis ha un groppo alla gola, non riesce a parlare, a esprimere la propria sofferenza. La sua mano scende fino alle brache, si ferma.

Solomon coglie la domanda inespressa.

- Non mi hanno fatto niente. Mi hanno detto che il giorno dopo mi avrebbero castrato, ma non hanno fatto in tempo. Non angosciarti, Denis, è stato solo un brutto momento.

Denis annuisce. Poi chiede:

- Che cos’altro ti hanno fatto?

- Mi hanno stuprato, la guardia e il carnefice. E a parte quello, niente di significativo.

Di nuovo Denis fa un cenno con il capo.

Solomon allunga il braccio destro, posa la mano sulla nuca di Denis e lo attira a sé. Denis scivola in ginocchio davanti a lui, appoggia la testa sulle ginocchia. Solomon gli accarezza il capo.

- Va tutto bene, Denis. Va tutto bene.

Denis chiude gli occhi. Si abbandona a questa carezza che lenisce il suo dolore.

Solomon dice ancora:

- Voleva perdere Pierre e Jacques. Voleva farmi confessare che avevo avuto rapporti con loro, con Emich, con Ferdinando. Sperava di accendere un grande rogo.

Denis freme.

- Pagherà, Solomon, pagherà. Nulla gli sarà risparmiato, te lo garantisco.

 Si alza e bacia Solomon sulla bocca.

- Ora devo andare a preparare tutto. A più tardi.

 

L’indomani mattina Bohémond riceve una convocazione al palazzo ducale. Una comunicazione formale, in cui Umfredo, in qualità di rappresentante del re, con pieni poteri, gli intima di presentarsi immediatamente. Non è un invito: è un ordine perentorio, a cui Bohémond non può certo sottrarsi. Sembra quasi che sospettino di lui. Il duca potrebbe aver convinto il re che la lettera è falsa e che è una manovra del vescovo? Potrebbe essere. In questo caso la manovra è fallita, ma il duca non potrà provare niente.

 

Bohémond è nervoso. Viene introdotto nella sala, dove Denis di Rougegarde ha ceduto il seggio ducale al barone e si è messo alla sua sinistra. Alla destra c’è invece Eraclio. I tre uomini sono seduti e Bohémond, a cui non è stata data una sedia, rimane in piedi davanti a loro. Ha l’impressione di essere l’imputato in un processo, un’impressione che le parole di Umfredo confermano:

- Bohémond, vescovo di Rougegarde e di San Giacomo d’Afrin, sono qui in qualità di rappresentante dei nostri sovrani per interrogarvi.

- Interrogarmi?

- Sì. Dovete rispondere alle domande che vi farò.

Bohémond fa un cenno d’assenso.

- Ubbidisco all’ordine del re.

- Un messaggero diretto ai territori dei nostri nemici è stato intercettato, con una vostra lettera, che non lascia dubbi sulle vostre intenzioni.

Bohémond è rimasto stupefatto: non si aspettava un’accusa del genere.

Guarda il duca, che assiste impassibile. Il colpo viene da lui e la presenza di Umfredo e di Eraclio gli dice che è un colpo mortale. È la sua vita stessa a essere in pericolo. Cerca di difendersi.

- Non ho inviato nessun messaggero.

- Jules Randonnay non era un vostro uomo? Mi dicono che fosse uno dei più fidati e che gli affidaste spesso missioni delicate.

Bohémond impallidisce. Se sanno che il messaggero era Jules, di certo non crederanno mai che l’abbia mandato il duca.

Ha l’impressione che gli manchi l’aria . Intuisce di essere perduto. Cerca di difendersi, ma non si aspettava l’accusa, è disorientato, confuso. Commette un errore, che cancella le sue già minime possibilità di riuscire a discolparsi:

- No… cioè… sì, era un mio uomo, ma non l’ho inviato io dall’emiro.

Umfredo lo guarda, poi dice con una voce gelida:

- Come sapete che era diretto all’emiro? Io non l’ho detto.

Bohémond rimane paralizzato

- Negate di aver ricevuto diverse lettere dall’emiro?

- Nego, non ho mai corrisposto con lui. Io, vescovo di Rougegarde, corrispondere con l’emiro? Come avrei potuto corrispondere con un infedele?

Umfredo scuote la testa. Si rivolge a Denis:

- Fate entrare l’uomo.

A un gesto di Denis un arabo viene introdotto.

È un uomo di circa quarant’anni, brutto di viso, ma con un corpo forte. Il suo portamento altero fa pensare che abbia una posizione importante.

Umfredo si rivolge a Bohémond.

- Quest’uomo è stato fermato ieri sera, mentre stava venendo da voi.

- Da me?

L’uomo parla a Denis, in arabo.

- Duca, devo nuovamente protestare per il trattamento che mi è stato riservato. Non sono un malfattore. Sono venuto in pace a portare un messaggio da parte del mio signore e sono stato arrestato ieri sera, mentre mi apprestavo a svolgere il compito assegnatomi dal mio signore.

- Non siete stato arrestato, ve l’ho già detto, ma ho dovuto trattenervi. Non è mio costume trattenere a forza chi non commette reati, ma nel vostro caso è stato necessario per scoprire un crimine.

Bohémond conosce abbastanza l’arabo per comprendere la conversazione, ma non riesce a capire chi sia quest’uomo e perché lo abbiano fatto venire.

L’uomo replica, con durezza:

- Non ho partecipato a nessun crimine.

- Voi no, lo so. Rispondete a ciò che vi verrà richiesto e recupererete la vostra libertà.

Il duca fa un cenno a Umfredo.

Il barone guarda l’uomo e chiede:

- Chi sei?

- Mi chiamo Qais ibn Rashad, detto al-Albashie. Sono un ufficiale al servizio dell’emiro ‘Izz ibn Ashraf, signore di Jabal al-Jadid.

- Perché sei qui a Rougegarde?

- Sono venuto ad al-Hamra perché mi ha inviato il mio signore, come sapete benissimo, visto che mi avete sottratto il messaggio che portavo con me.

Qais appare irritato da queste domande, che evidentemente gli appaiono inutili.

- E perché ti ha mandato qui?

- Per portare un messaggio, quel messaggio che mi è stato preso quando sono stato arrestato.

Qais lancia un’occhiata al duca, lasciando trapelare un’irritazione crescente.

- È la prima volta che portavi un messaggio del tuo signore?

Qais esista un attimo, poi risponde:

- No, sono già venuto due volte.

- A portare messaggi del tuo signore?

- Sì.

- Li hai ricevuti da lui in persona?

- Sì, sempre dalle sue mani.

- E a chi erano destinati?

- Anche questo lo sapete, penso. Comunque dovevo consegnarli al vescovo.

Bohémond rimane un momento senza parole. Poi esplode:

- Non è vero! Non è vero! Quest’uomo mente! È una congiura!

Umfredo guarda il vescovo con una smorfia di disprezzo. Il duca dice, con un sorriso ironico:

- Parlate di congiura, voi?

Qais sembra perplesso, come se non capisse che cosa succede. Le sue conoscenze della lingua dei franchi sembrano limitate, probabilmente non capisce pienamente ciò che viene detto.

Umfredo si rivolge di nuovo a lui.

- Li hai sempre consegnati al vescovo?

- Certo, nelle sue mani. Avevo ordine di non darli a nessun altro.

- Ti presentavi al palazzo vescovile?

- No, avevo ordine di rivolgermi a un uomo che vive lì vicino, Jules Randonnay.

- Li davi a lui?

- No, ve l’ho detto. Potevo darli solo al vescovo. Jules andava a chiamarlo e io gli davo i messaggi.

Bohémond è schiacciato. Si rende conto di essere perduto.

- Non ho ricevuto niente. Quest’uomo mente! Non mi ha mai portato niente.

Umfredo lo guarda. Nei suoi occhi Bohémond legge infinito disprezzo.

- Vescovo, come vi ho detto un vostro messaggero è stato intercettato. La vostra lettera è nelle mani del re e ora io ho la lettera che vi ha inviato l’emiro, per chiedervi come mai non gli avete ancora inviato ciò che vi eravate impegnato a mandare. La testimonianza di quest’uomo…

Bohémond lo interrompe, con una voce che l’angoscia rende stridula:

- È un saraceno, un maomettano, un infedele. La sua parola contro quella di un vescovo?

Umfredo scuote la testa.

- Le vostre parole, vescovo, quelle che avete scritto voi, sono sufficienti a condannarvi.

- Non è possibile, non è possibile. È una congiura contro di me. È quest’uomo!

Bohémond punta un braccio contro Denis.

- Questo figlio del demonio, che protegge eretici, ebrei e maomettani. L’Anticristo. È lui, è lui…

Eraclio non ha detto nulla fino a ora. Interviene:

- Vescovo, non è più il tempo delle accuse, questo. Neanche il tempo della difesa. È ora di confessarvi e raccomandare la vostra anima a Dio.

Bohémond è impallidito. Arretra.

Denis fa un cenno ai soldati, che portano via il finto Qais. Poi guarda Umfredo, che si alza in piedi e dice:

- Le loro maestà hanno pronunciato una condanna a morte e mi hanno inviato qui per interrogarvi e valutare se farla eseguire o richiedere ulteriori indagini. Ciò che è emerso non lascia spazio a dubbi di sorta e rende inaccettabile qualsiasi rinvio. Patriarca, avete qualche cosa da dire?

Eraclio risponde:

- Che Iddio abbia pietà della sua anima.

Umfredo conclude:

- In nome delle nostre maestà, Guido e Sibilla, confermo il verdetto di colpevolezza che è stato pronunciato e affido al duca il compito di eseguire al più presto la sentenza. L’esecuzione non sarà pubblica, in segno di rispetto per nostra Santa Madre Chiesa, che voi così indegnamente avete rappresentato.

Denis fa un cenno a Pierre, che è al fondo della sala. Pierre apre la porta. Entrano otto soldati armati.

Bohémond grida:

- No, no, non ho tradito. È lui, è il duca, il traditore, l’Anticristo.

Eraclio sibila:

- Tacete e pensate all’anima vostra.

 

La notizia dell’arresto e della condanna a morte del vescovo viene messa in circolazione poche ore dopo e per tutto il pomeriggio a Rougegarde non si parla d’altro: per quanto le tensioni tra il duca e il vescovo fossero note a tutti, nessuno si aspettava che Bohémond fosse colpevole di alto tradimento. Ma il rappresentante del re e il patriarca di Gerusalemme sono venuti per il processo e la condanna.

Il vescovo sarà giustiziato domani stesso: il re ha dato ordine di procedere al più presto all’esecuzione, se quanto emerso dalla lettera intercettata fosse stato confermato dall’interrogatorio.

 

Eraclio di Cesare è molto turbato. In questa terra dove molti cristiani hanno versato il loro sangue in nome della fede, è la prima volta che un vescovo deve essere giustiziato. 

- È terribile. Che un uomo così si sia lasciato condurre a tal punto dal desiderio di potere…

Denis d’Aguilard annuisce.

- L’ambizione lo ha accecato. Contava di diventare patriarca. Non ha mai accettato che siate stato scelto voi.

Eraclio annuisce. Sapendo che i rapporti tra il duca e il vescovo sono sempre stati molto difficili, teme che Denis voglia giustiziare pubblicamente Bohémond per vendicarsi, nonostante l’ordine del re.

- Duca, l’uomo che renderà domani l’anima al suo Signore, è un servitore dell'Onnipotente. Come ha detto l’inviato del re, la condanna non può essere eseguita pubblicamente. Sarebbe un’offesa per la Chiesa.

Il duca annuisce.

- Certamente, patriarca. L’avevo pensato anch’io, prima di sentire l’ordine esplicito dato dai sovrani. Sarebbe stato infamante. Lo giustizieremo nell’appartamento in cui lo teniamo prigioniero.

- Se penso che un cristiano spegnerà la vita di un vescovo…

- Ho pensato anche a questo. Prenderemo uno schiavo musulmano. Ne posseggo uno che fa al caso nostro. Eviteremo così che sia un cristiano a uccidere un vescovo.

Il patriarca sembra sollevato. Ora che i problemi di procedura sono stati risolti, può tornare a occuparsi d’altro. Per quanto l’esecuzione di un vescovo lo turbi, se tutto avverrà a porte chiuse, non ci sarà un ulteriore scandalo. D’altronde Bohémond non ha mai riscosso la sua simpatia: troppo ambizioso, questo vescovo di Rougegarde che ambiva a diventare patriarca di Gerusalemme.

Umfredo parla con Denis in un momento in cui Eraclio non è presente.

- Il re avrebbe voluto un’esecuzione pubblica. Eviscerazione, castrazione e squartamento. Il patriarca si è opposto. Capisco le sue ragioni, ma è un crimine talmente orrendo… Sua maestà ritiene comunque che il vescovo debba avere una pena infamante, anche se rimarrà segreta.

Denis è sorpreso: con il re ha parlato, ma non gli ha detto niente. È vero che il colloquio è avvenuto prima che il re convocasse Umfredo ed Eraclio, affidando loro il compito di giudicare il vescovo.

- Sarà fatto.

Denis aveva già deciso di vendicarsi, ma l’invito del re gli lascia carta libera. Il vescovo non ha tradito per consegnare Rougegarde ai saraceni, ma voleva far morire il principale difensore del regno per i suoi obiettivi di potere e per desiderio di vendetta: un tradimento non meno grave.

Umfredo prosegue:

- Quell’uomo non merita riguardi. Un vescovo disposto ad abiurare e a consegnare una città in mano al Saladino… Meriterebbe di finire affogato in una cloaca. Non deve essere sepolto in terra cristiana. Gettate davvero il suo cadavere nelle fogne: è la fine che merita.

Denis annuisce. Concorda con il suo interlocutore.

 

L’indomani mattina Eraclio e Umfredo partono per Gerusalemme. Poiché l’esecuzione non sarà pubblica, non ritengono necessario assistere. Umfredo sarebbe rimasto, ma Eraclio preferisce lasciare la città prima che il vescovo venga giustiziato.

 

Denis manda un sacerdote da Bohémond per confessarlo. Dopo mezz’ora il confessore esce.

Si rivolge a Denis e dice:

- Si protesta innocente, duca.

Denis risponde, fermo:

- Le loro maestà hanno pronunciato una condanna a morte. L’inviato del re l’ha confermata. Il patriarca l’ha approvata.

Denis non aggiunge altro. Il sacerdote china la testa. Il vescovo gli è parso sincero, per cui ha preferito esprimere il suo dubbio, ma non può sapere come stanno le cose. E in ogni caso, ora è tardi. Il vescovo verrà giustiziato. Che Iddio abbia pietà della sua anima. Se davvero voleva consegnare Rougegarde ai saraceni…

 

Quando il duca e Mahmud entrano nella stanza, Bohémond si alza in piedi. Il vescovo fissa il duca. Nel suo sguardo si legge un odio senza limiti.

- È giunta l’ora, vescovo.

In bocca al duca il titolo ha un sapore di scherno. Il vescovo non dice nulla: sa bene che ormai le parole sono inutili.

Il duca fa un cenno. Mahmud passa una corda intorno al polso destro del vescovo, poi la stringe intorno al sinistro, legandogli le mani dietro la schiena. Il vescovo ha un piccolo scatto.

- Venite con noi, vescovo.

Il duca prende una chiave dalla cintura e apre una porta della stanza, percorre un breve corridoio, poi apre una seconda porta, prende una torcia che qualcuno ha acceso e lasciato appesa a un anello nel muro e incomincia a scendere le scale. Il vescovo segue, riluttante, spinto da Mahmud.

- Dove mi portate?

- Al luogo dell’esecuzione, vescovo.

Al termine della scala, un nuovo corridoio, in cui si aprono tre porte. Il duca prende un’altra chiave e fa scattare la serratura della prima. La stanza in cui entrano è spoglia. Solo un tavolo, una sedia, qualche straccio, due secchi di legno sotto il tavolo, uno pieno d’acqua e uno vuoto. Il vescovo registra mentalmente queste cose. Si accorge di rabbrividire.

Mahmud gli scioglie la corda che gli stringe i polsi.

- Spogliatevi, vescovo.

- Spogliarmi? Perché mai? Che cosa volete fare?

- Verrete strangolato, vescovo, lo sapete. Perciò perderete il controllo dei vostri visceri. Volete che le vostre vesti siano lordate? Che coloro che vi chiuderanno nella bara raccontino che il vescovo puzzava di piscio e merda? Spogliatevi.

Un’ultima umiliazione. Bohémond non può sapere che nessuno vedrà il suo cadavere e che Denis sta inventando una scusa per realizzare più facilmente quello che ha in mente.

Il vescovo lentamente si spoglia. Prima di abbassare i calzoncini, esita un attimo, ma poi obbedisce. Mahmud gli lega di nuovo le mani dietro la schiena.

Il vescovo stringe i denti. Fa per sedersi sulla sedia, ma il duca sorride e scuote la testa. Prende il secchio vuoto e vi getta dentro uno straccio. Poi si abbassa le brache e incomincia a pisciare nel secchio. Il vescovo non capisce.

Quando Denis d’Aguilard ha concluso, Mahmud prende il secchio e lo posa sulla tavola. Poi con tutte le sue forze colpisce al ventre il vescovo con un pugno. Bohémond si piega in due, inebetito dal dolore, e spalanca la bocca per far entrare aria. Con un movimento rapido, il boia afferra lo straccio intriso di piscio e glielo infila in bocca, poi gli passa intorno alla testa una striscia di panno, imbavagliandolo. Il vescovo volge lo sguardo al carnefice, che sorride e di nuovo lo colpisce con forza allo stomaco. Bohémond si piega in due e Mahmud lo spinge contro il tavolo, forzandolo ad appoggiare il torace sul ripiano.

Denis dice:

- Questo è un mio regalo personale, vescovo. Perché dalla vostra bocca sono uscite solo falsità e calunnie.

Il duca fa un cenno. Mahmud si cala i pantaloni, esibendo una mazza tesa ed imponente. Si mette di fianco al vescovo e gliela fa vedere. Bohémond capisce e cerca di alzarsi, ma il boia glielo impedisce.

- Questo invece è per Solomon. È quello che ha subito ad opera dei vostri uomini.

Il vescovo cerca di gridare, ma il bavaglio gli impedisce di farlo: riesce solo a emettere una serie di mugolii.

Mahmud gli divarica le natiche e lo incula con una spinta decisa. Il vescovo ha un guizzo: il dolore è lancinante. Denis d’Aguilard sorride.

Mahmud fotte con energia, a lungo.

Infine il vescovo sente le spinte più violente che gli riempiono le viscere di un liquido caldo. Le lacrime gli colano sul viso. Mai ha subito una simile umiliazione.

Il duca prende il secchio e ne lancia il contenuto in faccia al vescovo.

- Siamo alla fine, vescovo. Ma vi devo ancora qualche cosa per Pierre, che avete cercato di far morire solo perché era mio figlio.

Mahmud afferra i testicoli del vescovo e incomincia a stringere. Il viso di Bohémond diventa rosso. Ondate di dolore lo invadono. Quando i coglioni cedono, sviene.

È il liquido che gli scorre sulla faccia a farlo rinvenire: Mahmud gli sta pisciando in faccia. Quando vede che il vescovo ha aperto gli occhi, lo schiavo gli passa un laccio intorno al collo. Bohémond ringrazia Dio che il suo martirio sia giunto alla fine.

Lo schiavo si appoggia su di lui, schiacciandolo contro il tavolo.

Il vescovo sente ancora la voce del duca:

- Ora avrete la morte che vi meritate, prima che il vostro corpo sia gettato nella cloaca. Non avrete sepoltura in terra consacrata. Per uno come voi, c’è posto solo nelle fogne. 

Le parole del duca sono una staffilata, ma svaniscono di fronte al dolore che gli esplode in culo, atroce oltre ogni misura. Bohémond cerca di liberarsi, di sfuggire alla spada che è stata introdotta attraverso l’apertura e ora lentamente gli penetra nelle viscere. Ma la spada non si arresta: avanza molto piano, squarciandogli gli intestini. Vorrebbe gridare, ma riesce solo a emettere un mugolio disperato. Quando la spada è tutta dentro il suo corpo e l’elsa preme contro l’apertura lacerata, Bohémond sente un nuovo inferno accendersi nella sua gola. Il laccio stringe e il respiro gli manca. Non ha più la forza di dibattersi. La morte è una liberazione.

Denis fa un cenno con la testa e Mahmud si carica il cadavere su una spalla. Segue il duca, che scende ancora lungo una scala, fino a raggiungere un pozzo al fondo del quale scorre un canale della fognatura. A un cenno di Denis, Mahmud fa scivolare il suo carico nel pozzo. Il cadavere precipita fino a sprofondare nel liquame, che lo inghiotte.

Il duca e Mahmud risalgono le scale. Mahmud guarda il duca davanti a lui. Pensa che al posto di Denis d’Aguilard altri lo farebbero uccidere, perché non possa raccontare l’orrenda vendetta che il duca ha preso sul vescovo. Ma Mahmud sa che otterrà la libertà che gli è stata promessa: Denis d’Aguilard è un uomo di parola. Mahmud potrà raggiungere i suoi fratelli, dopo mesi di prigionia.

 

Dopo la morte del vescovo il carnefice che ha torturato e stuprato Solomon viene arrestato. Processato in segreto, viene condannato a morte per stupro e sodomia. Lo impiccano in uno dei cortili del palazzo.

La stessa sorte è riservata allo scrivano che ha scritto la falsa lettera di Denis all’emiro: viene condannato per tradimento e impiccato.

Il palazzo del vescovo viene perquisito. Il duca scrive al re di aver trovato altri documenti che confermano il tradimento di Bohémond di Tours.

Dopo qualche giorno Ferdinando e Adham ripartono. Solomon ormai sta bene, anche se porta ancora il braccio al collo.

Mahmud passa a salutare il fratello, che gli dà alcuni doni da portare agli altri fratelli e alle donne della casa.

- Avevo preparato questi monili per quando saresti tornato dai nostri fratelli.

Mahmud prende gli oggetti. Sono gioielli splendidi, come tutti quelli opera di Solomon.

- Questo invece è per te.

Solomon porge un bracciale su cui è incisa una scena di lotta: due uomini che si affrontano nudi. Guarda il fratello, sorride e aggiunge:

- Per un valente lottatore.

- Il mio fratello è generoso, ma questo lo sapevo già. Vorrei lottare con te un’ultima volta, ma non è possibile.

- Forse avremo modo di farlo ancora, in futuro.

Solomon fa un passo avanti, passa una mano dietro la vita di Mahmud e lo attira a sé. Si abbracciano e rimangono stretti così un momento.

 

Ishan e i suoi fratelli sono a casa quando arriva un messaggero, con una notizia che provoca una grande agitazione: sta per giungere Mahmud, che è stato liberato dal duca Denis. Ishan dà ordine di preparare una grande festa e con i suoi fratelli si avvia incontro a Mahmud.

Nella casa tutti si mettono al lavoro, sotto la direzione delle mogli dei fratelli di Ishan. Anche Riccardo collabora ai preparativi, mentre alcuni servitori vengono mandati a invitare le altre famiglie della valle.

In serata arrivano Ishan e i suoi fratelli con Mahmud. Appaiono tutti felici e si abbracciano in continuazione.

La sera si svolge il grande banchetto, a cui sembra partecipare tutta la valle. Ma Riccardo sente dire che è solo il primo di una serie di festeggiamenti in onore di Mahmud, che andranno avanti per un’intera settimana. Il banchetto prosegue fin quasi al mattino e quando si corica Ishan sprofonda immediatamente nel sonno. Riccardo rimane sveglio un momento a pensare, ma poi la stanchezza ha la meglio e anche lui si addormenta.

Il mattino dopo fervono i preparativi per i nuovi festeggiamenti, che proseguono per diversi giorni, come è stato annunciato. Ishan è sempre indaffarato e si occupa ben poco di Riccardo, che aiuta gli altri servitori a preparare i banchetti. La sera si coricano sempre molto tardi, dopo aver bevuto e mangiato molto, e Ishan si addormenta senza cercare il corpo di Riccardo. 

Riccardo si chiude in un silenzio che interrompe solo quando è indispensabile. Osserva Ishan e i suoi fratelli, guarda le altre persone intorno a sé. Pensa molto, forse troppo: le sue riflessioni lo fanno stare male, ma Riccardo si rende conto che è giunto il momento di fare chiarezza dentro di sé.

Infine i festeggiamenti si concludono. Riccardo ha meditato ancora a lungo nell’ultima notte, un’altra di quelle in cui si sono messi a letto molto tardi e non hanno fatto l’amore. Questa volta non ha quasi dormito.

Si sente lacerato, ma sa che parlerà.

Quando si alzano, Riccardo si rivolge a Ishan:

- Avevi promesso che mi avresti lasciato libero se tuo fratello Mahmud fosse tornato.

Ishan si irrigidisce. Guarda Riccardo negli occhi. Riccardo sostiene lo sguardo. Gli sembra di leggere sofferenza, forse rabbia. Ishan si volta e si allontana, senza dire nulla.

Per tutto il giorno Ishan non gli rivolge più la parola, ma ogni tanto lo guarda. L’allegria dei giorni precedenti è svanita.

Riccardo rimane in silenzio: non parla con nessuno.

Quando arriva la notte e tutti si coricano, Ishan si rivolge a Riccardo.

- Vieni con me.

Escono nello spiazzo davanti alla casa. Un cavallo è legato a un palo, con una bisaccia sul dorso. Ishan gli indica il destriero, uno splendido animale. Poi gli prende un braccio e gli mette in mano una borsa. Riccardo la sente pesante, carica di monete.

- Ho una parola sola. Nessuno ti fermerà. Sali a cavallo e vattene. Potrai raggiungere Aleppo in due giorni.

Ishan si volta e rientra in casa, accostando la porta dietro di sé.

Riccardo rimane fermo nell’oscurità a guardare il cavallo, tenendo la borsa piena d’oro in mano. La luna è alta in cielo e c’è abbastanza luce per seguire senza difficoltà la pista che percorre la valle. La notte è fresca, il calore del giorno è svanito. Condizioni ideali per cavalcare.

Oltre la valle ci sono cittadine, in cui Riccardo può fermarsi: nella borsa ci devono essere abbastanza monete per vivere mesi interi. Aleppo non è lontana e i possedimenti cristiani neppure. Riccardo potrà ritrovare gli amici, la famiglia, riprendere la sua attività.

Riccardo annuisce, come se si dichiarasse d’accordo con un interlocutore invisibile.

Si volta e spinge la porta che Ishan non ha chiuso. La casa è immersa nell’oscurità, ma un po’ di luce lunare filtra dalle finestre. Riccardo raggiunge la camera da letto di Ishan. Sa che Ishan lo ha sentito arrivare, ma il curdo non dice nulla. A tentoni Riccardo cerca la cassa e vi posa la borsa. Poi si spoglia e si stende sulla sua parte del letto. Con un movimento lento si avvicina al centro, fino a che avverte che il corpo di Ishan è vicinissimo al suo. Allora si volta verso la parete, dando la schiena a Ishan.

Sente la mano di Ishan sul suo fianco, poi il corpo che aderisce al suo, il braccio che lo stringe. Rimangono un momento immobili, poi Ishan lo accarezza, a lungo, e per la prima volta lo bacia.

Infine Ishan si sposta leggermente e le sue dita inumidiscono l’apertura. Ishan spinge lentamente e Riccardo sente la poderosa mazza trafiggerlo. Quando arriva in fondo, Ishan lo bacia di nuovo sul collo e gli sussurra:

- Grazie, fratello.

 

 

 

IV – La disfatta

V – Addii

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Area aperta

Storie

Gallerie

Indice