I –  I mercanti

II – La setta

 

 

- Una setta eretica, dunque?

- Sì, a cui hanno aderito diversi giovani della città.

- Tra cui il figlio del duca, il giovane Pierre d’Aguilard?

Bohémond di Tours, vescovo di Rougegarde, ripete le parole che Jules Randonnay, uno degli uomini al suo servizio, gli ha appena riferito. Vuole essere sicuro di aver compreso bene. Se le notizie sono vere, si tratta davvero di un colpo di fortuna, dell’occasione che da tempo attende.

- Così dicono. Il giovane si ritrova con altri, in incontri segreti.

Il vescovo fissa l’uomo fermo davanti a lui, che annuisce, come per dare più forza alle sue parole.

- Sei certo di quello che mi racconti, Jules?

- Questa è la voce che circola. Che si trovino in segreto, la notte, per compiere i loro riti eretici.

- Guidati da Emich di Freiburg.

- Sì.

Emich è un eretico e non è strano che stia traviando alcuni giovani. Il duca lo ha sempre protetto, permettendogli di sfuggire alla giustizia. Se il vescovo avesse potuto farlo, da tempo quel seguace di Satana sarebbe stato arso sul rogo e non potrebbe più portare alla perdizione i giovani. Ma se davvero tra i suoi seguaci c’è il figlio del duca… questa sarebbe un’arma formidabile.

Ora che re Baldovino V è morto, sul trono di Gerusalemme sono saliti Sibilla, figlia di re Amalrico, e il marito Guido da Lusignano. È naturalmente Guido, in quanto uomo, ad avere il potere. La successione è stata oggetto di discussioni e ha visto crearsi due partiti contrapposti. Denis di Rougegarde non era tra i sostenitori di Guido e di conseguenza ora non gode più dell’appoggio incondizionato del re, come avveniva invece ai tempi di Amalrico e Baldovino IV. La posizione del duca si è indebolita, ma nonostante questo, le possibilità di azione del vescovo rimangono limitate: i suoi uomini possono arrestare un cittadino solo se colto mentre commette un reato, il che di fatto priva il vescovo di qualsiasi libertà di azione. Per poter interrogare un uomo sospetto di eresia, ma non colto sul fatto, Bohémond deve chiedere l’autorizzazione al re. Amalrico e Baldovino IV non l’avrebbero mai concessa: l’unica volta che Bohémond provò a chiederla, gli fu risposto di rivolgersi al duca, signore della città.

Jules abbassa la voce e prosegue:

- Alcuni sussurrano che in queste riunioni si profani l’ostia e si compiano atti immondi.

Il vescovo aggrotta la fronte.

- Sei sicuro?

- Sì, così dicono.

Il vescovo scuote la testa: Jules continua a riferire voci che corrono. Sa che odia il duca e vuole fargli piacere, ma per agire occorrono prove, non parole. Per quanto Guido da Lusignano sia ostile al duca, questi rimane il più valente tra i signori del regno e il re non sarebbe disposto a provocarne la perdita senza prove certe.

- Così dicono, così dicono… Jules, che me ne faccio delle voci di chi ciarla perché non ha nient’altro da fare? Ho bisogno di certezze, non di chiacchiere. Non posso combattere il duca con parole a vuoto. È un nemico mortale: Satana lo consiglia e lo protegge.

Jules rimane in silenzio, poi dice:

- Bisognerebbe arrestare l’eretico Emich e forzarlo a rivelare la verità. Dopo qualche tiro di corda, confesserebbe. Non credete che il re concederebbe l’autorizzazione?

Bohémond in effetti pensa che Guido potrebbe autorizzarlo ad arrestare Emich: i rapporti del re con il duca non sono buoni e questa sarebbe un’occasione per far capire a tutti che Denis di Rougegarde non gode del favore del nuovo sovrano. Ma Bohémond è scettico sull’opportunità di seguire questa via.

- Senza qualche prova, il duca direbbe che abbiamo forzato un povero vecchio a confessare cose non vere. Poco sappiamo di queste riunioni, se davvero si tengono, dove, chi vi partecipa. Il duca avrebbe buon gioco a salvare suo figlio. Sai bene che quell’Anticristo ha dalla sua parte il popolo, i borghesi, i nobili.

Bohémond scuote la testa. Tutti sono dalla parte del suo nemico, badano solo ai loro sordidi interessi, proprio qui, in Terrasanta, dove migliaia di guerrieri hanno dato la loro vita per affermare il dominio di Cristo. Ma la punizione divina incombe su tutti loro: già i saraceni si armano per attaccare il regno, tutta la Siria è nelle mani del Saladino e il Regno è scosso da violenti contrasti.

Bohémond aggiunge, con forza:

- Il duca d’Aguilard è di certo un eretico e un nemico della vera fede.

Jules annuisce. Il vescovo continua:

- Gli eretici vanno abbattuti. Ma è difficile estirpare la mala pianta: essa prospera.

Riflette un attimo e conclude:

- Può aver insegnato a suo figlio le idee dei nemici della Chiesa.

Jules fa nuovamente un cenno di assenso e osserva:

- Di certo costoro sono patarini, greci, armeni, manichei, bogomili e ariani.

Bohémond apre bocca per rispondere, ma la richiude senza dire nulla. Inutile spiegare a un uomo come Jules le differenze tra le diverse chiese e sette eretiche. E poi in questa terra, in cui da secoli si mescolano uomini diversi per fede e provenienza, ogni eresia può essere presente. La vera natura di questa setta, posto che di setta si tratti, ha poca importanza. Quello che conta è sapere se il figlio del duca partecipa realmente a queste riunioni. Bisogna riuscire a provare che il giovane Pierre d’Aguilard è coinvolto! Sarebbe un’arma formidabile per abbattere il padre.

Il duca è un uomo potente, maledettamente potente, e il vescovo non riesce a imporre la sua autorità in questa città. Il duca si è opposto al suo progetti di allontanare gli infedeli: pagani ed ebrei continuano a infestare con la loro funesta presenza una città che è stata resa alla vera fede versando il sangue dei cristiani. I greci continuano a praticare i loro riti e ogni setta prospera, senza che il vescovo possa intervenire: la città di Dio è piena di uomini che voltano le spalle all’Onnipotente.

Se il figlio del duca venisse riconosciuto colpevole di eresia, se contro il duca stesso emergessero prove inconfutabili di qualche crimine, di tradimento… Bohémond immagina il duca spogliato e poi squartato nella piazza, come avvenne per il conte Tancrède d’Espinel: sarebbe ciò che si merita questo anticristo!

- Devi scoprire dove si ritrovano, quando. E soprattutto chi sono. Di certo il duca li protegge, forse se ne serve per le sue macchinazioni. Dobbiamo sorprenderli sul fatto e allora saranno perduti.

Mentre lo dice, il vescovo fissa Jules. Jules non è in grado di comprendere le sottigliezze dottrinali, ma, nonostante i suoi limiti, è un uomo utile ed è disposto a ubbidirgli ciecamente. Sa leggere la volontà del suo signore. Farà tutto quanto è in suo potere per perdere l’uomo che il vescovo odia.

Jules si inchina ed esce.

Bohémond guarda la porta da cui Jules è uscito. Il pensiero va al passato, a quando, oltre venticinque anni fa, arrivò in Terrasanta. Contava di fare strada e i primi tempi erano stati fruttuosi: già quattro anni dopo il suo arrivo era diventato vescovo di Rougegarde, la perla della Terrasanta, che il duca Denis aveva appena strappato agli infedeli. Bohémond si era illuso di poter fare piazza pulita di maomettani ed ebrei e di tutte le eresie che in questa terra si moltiplicano. Era il più giovane vescovo dei regni franchi ed era sicuro che Rougegarde sarebbe stata solo la prima tappa di un cammino che lo avrebbe portato a diventare patriarca di Gerusalemme alla morte di Amalrico e poi…

A Rougegarde si è ritrovato con le mani legate: perfino per imprigionare un maomettano o un ebreo, deve chiedere l’autorizzazione al duca, che la nega sempre. I suoi continui smacchi a Rougegarde sono stati sfruttati dai suoi nemici per ostacolare la sua ascesa. E sei anni fa, alla morte di Amalrico, come patriarca di Gerusalemme è stato scelto Eraclio di Cesarea. Eraclio! Un uomo che ha una concubina, che da lei ha avuto figli! Colpa degli intrighi di Agnese di Courtenay, la madre di re Baldovino, e soprattutto di Denis d’Aguilard. Sono stati loro a impedirgli di diventare patriarca, una carica che gli spettava. Denis d’Aguilard, figlio del demonio, demonio egli stesso!

Bohémond si alza di scatto, facendo cadere il calice che era sulla tavola e che si spezza. Il vescovo lo guarda. Il vino che si sparge ha il colore del sangue.

 

Dopo che il vescovo lo ha congedato, Jules Randonnay si ritira nella stanza che occupa vicino al palazzo vescovile. Il vescovo vuole perdere il duca e di certo, se davvero questa setta esiste e il figlio di Denis d’Aguilard ne fa parte, la sua sorte è segnata. Sarebbe necessario raccogliere altre informazioni, ma nessuno sa niente di preciso. Qualcuno dei giovani si è lasciato sfuggire un’allusione, ma niente di più, e la gente ci ha ricamato sopra, come spesso fa. Conoscendo l’odio del suo padrone nei confronti del duca, Jules gli ha riferito come notizia certa quello che gli ha raccontato il fabbro Joseph. Ma non sa niente di sicuro: Joseph chiacchiera molto e magari domani avrà già cambiato versione, perché ama ricamare su ciò che sente.

Dovrà sorvegliare Emich di Freiburg, spiare i suoi movimenti, soprattutto quelli notturni. Se è lui il capo, sarà possibile scoprire dove si riuniscono e quando. Jules pensa a quei giovani che si ritrovano. Sarà vero che scopano? Tutti insieme? Jules sarebbe curioso di vederli. Pare che siano tutti maschi. Come faranno a scopare? Jules non ha mai avuto rapporti. L’uomo che lo ha trovato abbandonato in un campo lo ha consegnato a un monastero, dove è stato allevato. Non era abbastanza bello da destare il desiderio di qualche monaco poco casto, per cui è cresciuto senza che nessuno gli si avvicinasse. Molto giovane è passato al servizio del vescovo, che esercita un rigido controllo sui suoi servitori. A quarant’anni, Jules poco o nulla sa dell’incontro dei corpi: non ha mai visto né una donna né un uomo nudi. Le sue conoscenze gli vengono da qualche battuta sentita a palazzo o in città, da qualche accenno a storie che vengono raccontate, ma Jules non ha amici e i servitori del vescovo non gli danno confidenza.

Il desiderio preme e la notte talvolta Jules viene nel sonno. Molto di rado si masturba, quando non riesce a controllare la tensione del suo corpo. Allora non c’è un’immagine definita nella sua mente, ma spezzoni di ricordi: il petto sudato di un contadino che lavora sotto il sole; un uomo che si bagnava in un torrente, ma di cui ha visto solo la schiena, il cazzo di qualcuno che pisciava lungo la strada. Immagini che Jules ha veduto per un attimo, voltando ogni volta la testa, per evitare i rimproveri e i suoi stessi pensieri impuri, ma che gli sono rimaste impresse.

A San Giacomo d’Afrin sono stati bruciati sul rogo alcuni colpevoli del peccato di Sodoma. E anche a Santa Maria in Aqsa. Jules avrebbe assistito volentieri a un rogo, ma non ne ha mai avuto l’occasione: a Rougegarde nessuno è mai stato bruciato in piazza. Peccato. Ogni tanto qualcuno viene impiccato, ma non è la stessa cosa.

 

In serata Jules si apposta vicino nella locanda dove vive Emich. Al piano terreno c’è una taverna, con un certo viavai di avventori. Jules preferisce appostarsi all’estremità di un vicolo che si immette nella via della locanda: c’è un arco, alla cui ombra il buio è completo. Nella via invece si è troppo visibili: la notte è luminosa, perché il cielo è limpido e la luna alta in cielo.

Attende a lungo, senza muoversi. Ogni tanto qualcuno esce o entra, ma non si vede Emich. La taverna chiude presto: non è una di quelle bettole dove gli uomini tirano tardi ubriacandosi e giocando a dadi. Gli ultimi avventori escono e la porta viene chiusa. Jules attende.

Infine, quando si rende conto che ormai Emich non uscirà, si allontana. Percorre i vicoli bui, badando a evitare la ronda: non è proibito andare in giro di notte, ma l’ufficiale interroga chi viene trovato a gironzolare e Jules preferisce non dover raccontare la storia che si è preparato: molti sanno che è un uomo del vescovo e di sicuro l’ufficiale riferirebbe al duca, soprattutto se lo fermassero vicino alla locanda. Dicono che nella casa del mercante Giovanni, di cui la locanda occupa una parte, il duca abbia alloggiato due sue amanti e i suoi figli bastardi.

 

*

 

È mattina presto. Il duca Denis attraversa un cortile interno del palazzo ducale ed entra in un vasto spazio con soffitto a volta, che forse un tempo era usato come magazzino e che il duca ha attrezzato come sala d’armi.

Accompagnano Denis il figlio Pierre, il capo della guardia personale del duca, Manrique Cabrera, e Jacques, barone di San Giacomo d’Afrin. Jacques vive presso il duca da otto anni: sua madre Jeanne lo portò a Rougegarde dopo la morte del marito, il barone Charles di Soissons, per metterlo sotto la protezione di Denis d’Aguilard; temeva infatti che lo zio Olivier, reggente di San Giacomo per conto del nipote Philippe, lo facesse uccidere, per eliminare un rivale nella successione.

In realtà Jacques, come la sorella Christine, non è figlio di Charles, ma questo lo sa solo il suo vero padre, Olivier stesso, che per due volte prese il posto del fratello nel letto della cognata: Charles non era interessato alle donne.

Come Denis insegna al figlio a maneggiare le armi, così Manrique dà lezioni a Jacques. Le esercitazioni avvengono in comune, in modo che i maestri possano scambiarsi e i due giovani si trovino ad affrontare avversari diversi. Spesso Jacques e Pierre combattono tra di loro, mentre Denis e Manrique li osservano, per poter poi commentare le loro mosse.

E qualche volta i due uomini si affrontano sotto lo sguardo dei giovani: è uno spettacolo affascinante, perché non c’è guerriero in Terrasanta migliore del duca di Rougegarde e Manrique è l’unico che riesce a tenergli testa, almeno per un po’.

Con simili maestri Jacques e Pierre sono diventati molto abili con le armi: un’abilità fondamentale per chi deve difendere la propria vita sul campo di battaglia, ma anche da attacchi a tradimento.

Le lezioni sono quotidiane quando il duca è a Rougegarde o se vi è almeno Manrique, altrimenti Jacques e Pierre si esercitano tra di loro e a volte con altri soldati: ogni giorno almeno un’ora dev’essere dedicata agli esercizi militari. A volte si esercitano con Solomon, il misterioso orafo ebreo che combatte molto bene e gode della piena fiducia del duca.

Nella sala d’arme prendono anche lezioni di lotta, da Solomon e da due soldati esperti, un fiammingo e un turco.

Le lezioni nella sala d’arme si alternano a quelle che si svolgono all’aperto, in uno dei cortili più interni, dove spesso si usano anche i cavalli fatti venire dalle scuderie. Queste sono spesso molto faticose, anche perché a volte si tengono nelle ore centrali della giornata: Denis vuole che il figlio si abitui al clima estremo di queste terre e che si abitui a combattere anche quando il calore è soffocante.

 

La lezione volge alla fine. Pierre d’Aguilard respinge l’attacco, bloccando la spada del padre. Questi arretra, poi balza in avanti e colpisce due volte con forza. Pierre riesce a parare i due colpi, ma suo padre, con un movimento rapido del braccio, lo costringe ad abbassare lo scudo e prima che Pierre abbia il tempo di reagire, la spada del duca d’Aguilard si appoggia sul collo del figlio. Questi cala la propria arma, riconoscendo la sconfitta.

Denis d’Aguilard si toglie l’elmo e sorride.

- Ti sei difeso bene, Pierre. Ma non abbastanza. Togliti anche tu l’elmo, osserva con cura e cerca di capire dove hai sbagliato.

Pierre esegue e il duca riprende il movimento di prima, in modo che il figlio comprenda perché non è riuscito a difendersi.

- Ho capito il mio errore, padre. Scusatemi.

Denis sorride.

- Non devi scusarti, Pierre. Sei diventato molto bravo e se continui così, tra breve avrò timore ad affrontarti.

Anche Pierre sorride: suo padre è abilissimo nel maneggiare la spada e Pierre non sarebbe certamente in grado di difendersi a lungo, come nessun altro che Pierre conosca, tranne forse Manrique, che è un guerriero formidabile. Ma Pierre è conscio di aver davvero imparato molto da quando lo ha raggiungo in Terrasanta.

- Adesso voglio vederti affrontare Manrique e io sfiderò Jacques.

I due giovani lottano a lungo, con accanimento. Entrambi ci tengono a fare bella figura nei confronti di quelli che considerano i loro padri: per Jacques Manrique è davvero un padre, assai più di quanto lo fosse Charles di Soissons, che di lui non si è mai occupato. Manrique si è preso cura di Jacques come di un figlio e tra loro è nato un rapporto molto stretto. Jacques è stato felice quando sua madre si è risposata con questo guerriero possente.

Tra Jacques e Pierre esiste un buon equilibrio: impossibile dire che uno dei due sia più forte dell’altro. Manrique e Denis danno consigli ad entrambi.

 

Quando la lezione si conclude, sono tutti e quattro sudati per l’intensa attività fisica, benché il locale sia piuttosto fresco. Lasciano la sala d’armi e Denis propone:

- Ci facciamo un bel bagno tutti e quattro?

Lo fanno quasi sempre dopo gli allenamenti. In Terrasanta Denis ha preso l’abitudine di lavarsi spesso, un uso che ha imparato dagli arabi e che alla sua corte è molto comune. D’altronde a Rougegarde vivono molti musulmani e vi sono tanti bagni pubblici, nonostante le critiche del vescovo, che li considera luoghi di perdizione.

Nel Regno di Gerusalemme anche alcuni altri signori franchi prestano maggiore attenzione alla pulizia personale, ma molti, soprattutto tra quelli arrivati in tempi più recenti, non amano lavarsi: in Europa non è abituale e non a caso greci e arabi criticano i cavalieri franchi per la loro scarsa pulizia.

Anche Manrique si lava quotidianamente, come il suo signore. Non di rado si bagnano insieme: nelle giornate in cui gli impegni si moltiplicano, il bagno è uno dei pochi momenti in cui Denis d’Aguilard riesce a parlare a tu per tu con lui o con il figlio, perché ai pasti partecipano spesso ospiti, davanti a cui non tutto si può dire.

Dopo le lezioni anche Jacques si bagna con loro: a San Giacomo d’Afrin nessuno certo pensava molto all’igiene personale, ma qui a Rougegarde è molto diverso e Jacques si sente a disagio se non si lava dopo un esercizio fisico intenso.

 

Se la giornata non è troppo piena di impegni, dopo essersi lavati indugiano spesso nell’hammam, il bagno a vapore che l’emiro si era fatto costruire nel palazzo, o si bagnano nella grande vasca, una piscina interna. Se invece hanno poco tempo, si limitano alla pulizia personale. Di solito gli abiti di ricambio sono già stati preparati dagli inservienti.

Nello spogliatoio si tolgono gli abiti. Jacques osserva il duca. Gli sembra che sappia trovare sempre la misura giusta per ogni gesto, che si tratti di maneggiare la spada o di sfilarsi una giacca. Di fronte a lui Jacques si sente spesso maldestro e goffo. Evita invece di guardare Manrique perché la visione del suo corpo nudo lo turba sempre. Sa di desiderare gli uomini e gli sembra di essere sporco, anche se di certo non oserebbe neppure immaginare di avere rapporti con colui che ormai considera un padre. Ma questo maschio forte, su cui i segni del tempo e le cicatrici delle battaglie paiono quasi ornamenti, ha una bellezza virile che lo abbaglia. Il duca invece non lo attrae: è un forte guerriero, che porta sul viso e sul corpo i segni del tempo e delle guerre che ha combattuto, ma non ha la bellezza di Manrique.

Tra i quattro esiste una grande intimità e il tempo trascorso nel bagno è un momento di pace nella giornata, piena di impegni per il duca e spesso anche per Manrique. Chiacchierano tranquillamente, un po’ di tutto, consapevoli che ciò che viene detto non deve essere ripetuto al di fuori. Per Pierre, che dovrebbe un giorno ereditare Rougegarde, e per Jacques, che forse potrebbe diventare signore di San Giacomo d’Afrin, queste chiacchierate nel bagno sono un altro tipo di lezione altrettanto importante: come si amministra un territorio e lo si difende dai nemici interni ed esterni. Entrambi imparano molto da ciò che dice il duca, gli chiedono spesso chiarimenti e ottengono sempre risposte chiare ed esaustive. I due giovani e Manrique hanno modo di ammirare la lucidità con cui il duca sa analizzare ogni situazione e l’intelligenza con cui la gestisce.

Denis dice:

- Il Saladino ha conquistato Mosul.

- Circolava la voce, ma non si sapeva se fosse vero. Il suo potere cresce di giorno in giorno.

- Sì e presto si volgerà contro di noi.

- Non pensate che riusciremo a sconfiggerlo?

È stato Manrique a chiedere. Con il tempo il rapporto tra lui e Denis è cambiato: anche se il guerriero catalano è alle dipendenze del duca, tra loro è nata un’amicizia. Denis gli ha chiesto di dargli del tu, come tra le persone a palazzo solo Solomon fa, ma Manrique evita di farlo se non sono da soli. 

Denis scuote la testa:

- È un momento di grande debolezza per il Regno. Ci sono troppi contrasti interni e molti ritengono che Guido da Lusignano non sia in grado di gestire questa minaccia.

Tra questi molti vi è anche Denis, ma egli evita di esporsi: Pierre, Manrique e Jacques sanno benissimo che cosa pensa, ma Denis sceglie apposta formulazioni generiche, perché i due giovani imparino che la cautela nell’esprimere giudizi è una dote necessaria di chi governa.

Manrique chiede:

- E Raimondo di Tripoli? Rinuncerà davvero alle sue ambizioni?

Raimondo III di Tripoli ha sostenuto il partito contrario a Sibilla e Guido da Lusignano. Quando questi hanno trionfato, ha rinunciato ad opporsi.

- Ha scelto di evitare una guerra civile e non la scatenerà, ma non possiamo sapere che cosa accadrà, quando le circostanze muteranno.

Pierre è pensieroso:

- Mi sembrate molto pessimista, padre.

Denis lo guarda e gli sorride.

- Lo sono, hai ragione.

Manrique osserva:

- Non vi ho mai visto sbagliare le vostre previsioni, purtroppo. Spero che questa sia la prima volta.

Denis scuote la testa.

- Non so che cosa accadrà. Se il Saladino dovesse sconfiggerci, di sicuro Rougegarde e San Giacomo d’Afrin ritorneranno in mano ai Saraceni: sono troppo esposte per poter essere difese. Nel quale caso, Pierre, tu partirai per Bellerivière. E…

Pierre lo interrompe. Non succede mai, ma le parole di Denis lo hanno preoccupato.

- Io? E voi, padre?

- Io vedrò quale sarà la situazione, Pierre. Sono il signore di questa città e non posso pensare di lasciarla come si lascia una locanda perché i vicini di camera sono rumorosi o perché nel letto ci sono troppe cimici. Governare significa avere responsabilità e non solo onori. Ma per me è importante saperti in salvo. Se si arrivasse a quel punto, partirai e Manrique ti accompagnerà. Consiglierei a Jacques di partire insieme a te, perché se perderemo San Giacomo, non la riacquisteremo.

Tutti sono rimasti alquanto turbati. Manrique vorrebbe controbattere, ma preferisce non farlo ora. Si limita a dire:

- Ne parleremo.

A Jacques non spiace l’idea di lasciare la Terrasanta con sua madre, Manrique e Pierre: sono le persone a cui è più affezionato. Si rende conto che non desidera diventare signore di San Giacomo: preferirebbe la vita più semplice del cavaliere al servizio di un signore.

Osserva, per cambiare argomento e dissipare l’atmosfera un po’ cupa che le parole di Denis hanno creato:

- Mi piacerebbe vedere la Francia. Da come me ne parli, Pierre, Bellerivière dev’essere un posto molto bello.

- Lo è, Jacques, senza dubbio.

Il discorso passa alla Francia e alla Catalogna, da cui viene Manrique.

Infine si asciugano e lasciano il bagno.

Manrique segue Denis, che vuole ancora dirgli alcune cose: ci sono argomenti di cui il duca preferisce non discutere con il figlio e con Jacques, ma solo con Manrique, che deve essere a conoscenza di tutto quanto avviene.

 

*

 

In serata Jules si apposta nuovamente vicino alla locanda e attende, ma anche questa volta Emich non esce. C’è una luce però a una delle finestre, al primo piano. Jules sa che la stanza dell’eretico si trova al primo piano, ma ignora quale sia. Potrebbe essere quella. 

Jules vorrebbe vedere che cosa accade nella stanza, ma dalla via non è possibile. Allora si arrampica sul muro e sale sopra l’arco. Sa che è pericoloso, perché la luce lunare ora lo illumina e qualcuno potrebbe vederlo, ma è tardi: ormai passano poche persone e di solito i passanti non guardano in alto mentre camminano per la strada. Se dalla locanda qualcuno guardasse fuori, sicuramente lo vedrebbe, ma quasi tutte le finestre sono chiuse dalle ante: ormai la gente è a dormire, per cui Jules spera che nessuno si accorga della sua presenza. Sporgendosi un po’ a un’estremità, può vedere dentro la stanza. Ne scorge solo una parte. Dev’essere proprio la camera di Emich, perché lo si vede, seduto sul letto. Accanto a lui ci sono altri due uomini. Uno è Tristan, che da diversi anni ha affiancato Mariette nella gestone della locanda. L’altro è il medico che vive nella casa, in uno degli appartamenti affittati dal mercante Giovanni. Stanno parlando.

A un certo punto Jules vede una mano comparire e si rende conto che c’è anche un quarto uomo, ma non può vedere chi sia.

Jules non vuole rimanere a lungo sull’arco, perché qualcuno potrebbe scorgerlo. Dato che nella camera di Emich non succede niente di interessante, Jules decide di scendere.

 

Nella locanda Tristan e Istfan salutano Emich e tornano nell’appartamento che condividono, all’interno della casa del mercante. Salendo la scala, Istfan appoggia una mano sulla nuca di Tristan e l’accarezza. Sono ormai diciassette anni che stanno insieme e il loro legame è molto forte.

Morqos invece è rimasto nella camera con Emich.

- Ho bisogno di parlarti, Emich.

- Dimmi, c’è qualche problema? Ti vedo preoccupato.

- Sì, lo sono. E non poco, Emich. Per te, in primo luogo, per i giovani e per il duca.

Emich teme di aver intuito a che cosa fa riferimento l’amico. Non dice nulla. Si sente a disagio. Morqos riprende:

- Emich, quello che stai facendo è pericoloso. Pericoloso per te, perché se si venisse a sapere, neppure il duca riuscirebbe a salvarti dal rogo. Pericoloso per i giovani, che se ne venissero sorpresi rischierebbero la vita. Pericoloso anche per tutti noi, che ti frequentiamo.

Emich è nervoso e non nasconde la sua irritazione:

- Se vi preoccupa, potete non frequentarmi più.

Morqos scuote la testa. Emich è cambiato nel tempo. È diventato ostinato e non ha più una visione chiara della situazione. Da troppo tempo vive in un ambiente protetto. L’arrivo di Lucas ha peggiorato la situazione, perché l’entusiasmo del giovane ha reso Emich imprudente.

- Emich, temo che succederà anche questo. Ho parlato con Mariette e se la situazione non cambia, sarà bene che tu ti cerchi un’altra locanda.

Emich guarda l’amico, stupefatto. Sono vent’anni che alloggia nella locanda della Luna piena. Qui è vissuto in pace, circondato dall’affetto di quasi tutti coloro che abitano negli appartamenti affittati nella casa. Non si aspettava una simile minaccia, non riesce a immaginarsi di vivere altrove.

Dice, quasi balbettando:

- Mi… mi volete allontanare?

A Morqos spiace veder soffrire l’amico, ma i rischi sono troppo grandi.

- Emich, io preferirei che tu rimanessi qui, vorrei che continuassimo a frequentarci, a parlare liberamente tra di noi come abbiamo sempre fatto.

Emich non riesca ad accettare l’idea che lo vogliano allontanare. Ma perché? Che sia…

- È Lucas? È perché c’è lui che non mi volete più?

Morqos ha un movimento di impazienza.

- Emich, Lucas non è un problema per nessuno. Il problema sono gli incontri notturni, nella sala sotterranea.

Emich guarda Morqos, senza parole. L’amico sa. Di nuovo la voce gli esce incerta:

- Come fai… a saperlo?

Morqos alza le spalle.

- Il problema non è come faccio io a saperlo. Il problema è che come lo so io, lo sanno anche altri. Qualcuno ha parlato e la voce prima o poi arriverà al vescovo.

Emich tace, stordito. Morqos riprende:

- Emich, il duca ti ha protetto in tutti questi anni e tu sei vissuto tranquillamente qui a Rougegarde. Sai bene che in qualunque altra città del Regno non sarebbe stato facile per te. Probabilmente saresti finito sul rogo già da molto tempo. Ma quello che stai facendo ora, mette in pericolo questi giovani che si affidano a te, oltre a mettere in pericolo te stesso. E il duca non potrà proteggerti. Ti è chiaro?

Emich lo guarda, smarrito.

- Mi abbandonate così?

- Emich, sta a te scegliere. Se non metti in pericolo gli altri, nessuno di noi ti abbandonerà: ti vogliamo tutti bene. Altrimenti… non ci lasci alternative. Pensa a quello che ti ho detto. Pensaci bene.

Con queste parole Morqos esce. È alquanto preoccupato. Coglie in Emich un’ostinazione che non sa come vincere. Gli vuole bene, ma non può lasciarsi accecare dall’affetto che prova. Il rischio è mortale, per tutti loro.

 

Il giorno dopo Morqos si reca a palazzo. Chiede dell’ufficiale Pierre, come al solito, perché nessuno sospetti che lavora per il duca. Pierre è suo amico e vive anche lui nella casa del mercante Giovanni, con la moglie Sarah e i figli. È Pierre stesso a informare Denis d’Aguilard, duca di Rougegarde, che Morqos vuole parlargli.

Denis arriva poco dopo.

- Benvenuto, Morqos. Gli hai parlato?

- Sì, duca. Ma temo che le mie parole non abbiano avuto grande effetto. Emich è cambiato nel tempo. Si illude di non correre rischi, di essere sicuro. Tutti questi anni in cui è vissuto in pace gli hanno fatto credere di essere intoccabile.

- Ma questa è follia!

Morqos annuisce.

- Non è pazzo, no, ma non è neppure lucido come un tempo. È una cosa che ho notato negli ultimi anni. Nella casa del mercante Giovanni i rapporti sono molto diversi da quelli che ci sono normalmente all’interno di una casa qualsiasi. Di fatto siamo una comunità di uomini e donne che amano e pensano liberamente. Emich ha avuto un ruolo determinante nella formazione di questa comunità, ma ora non sembra rendersi conto che fuori dalla casa l’amore universale non è la regola e la libertà dei corpi è un pericolo mortale.

- Non ti è stato possibile fargli capire?

Morqos scuote la testa.

- Non credo che abbia compreso, anche se gli ho parlato molto chiaramente, anche se gli ho detto che se continuerà, non potrà rimanere alla locanda.

Denis riflette un momento, poi dice:

- E questo Lucas?

- Le parole di Emich lo hanno esaltato. Lucas è giovane. Non mi sembra, da quel poco che lo conosco, che abbia una grande influenza su Emich. È piuttosto il contrario: Lucas beve ogni parola del maestro e vorrebbe diffondere il suo Verbo.

- E provare a parlare con lui? Fargli capire che Emich rischia la rovina e la vita?

- Proverò anche questa strada.

 

Quando Morqos si è congedato, Denis raggiunge il laboratorio di Solomon, all’interno del palazzo. Solomon è a torso nudo, come a volte succede quando lavora. Deve aver fuso dell’oro da poco, perché nel locale fa caldo.

Appena lo vede entrare Solomon gli chiede:

- Che cosa c’è, Denis? Mi sembri preoccupato.

- Sì, è vero, è così.

E mentre lo dice, Denis sorride: Solomon sa sempre cogliere il suo stato d’animo. È bello sentirlo vicino, sapere di avere in lui qualcuno a cui confidare qualunque preoccupazione. Per anni Denis è stato molto solo: l’unico vero amico era Guillaume di Hautlieu, ma ha sempre avuto poche occasioni di vederlo. È molto affezionato al conte Ferdinando, ma non è un amico con cui possa davvero aprirsi pienamente, perché nella sua irruenza potrebbe rivelare ciò che è meglio tacere. 

Ora la sua situazione è molto diversa. C’è Solomon, il suo uomo, a cui può confidare tutto, che siano le preoccupazioni per la situazione politica, le macchinazioni a cui deve far ricorso per difendere la città dalle mire del vescovo, i suoi desideri più nascosti: in lui ha piena fiducia. Solomon ha una mentalità molto aperta, una grande sensibilità e una disponibilità totale nei suoi confronti.

E oltre a Solomon ora c’è Manrique, che ormai considera un amico. E suo figlio, Pierre, a cui lo lega un profondo affetto.

Solomon si limita a dire:

 - Emich, vero?

Sa benissimo di che cosa si tratta. È stato lui a cogliere una voce e ha trasmesso l’informazione a Denis e a Morqos, che ha indagato.

- Sì, la faccenda è seria.

- Se smetteranno di vedersi, rimarranno solo delle voci, che nessuno potrà provare.

Denis scuote la testa. Si siede su uno sgabello.

- No, Solomon. Il problema è proprio questo: Morqos gli ha parlato, ma Emich non sembra intenzionato a rinunciare, neanche di fronte alla minaccia di dover lasciare la locanda. Secondo Morqos, Emich è molto cambiato in questi anni.

- Sì, l’ho notato anch’io. Vive in una realtà molto particolare e ha finito per perdere i contatti con il mondo che incomincia fuori dalla porta della locanda, per non dire già al piano terreno, nella sala comune. Quando sono arrivato a Rougegarde era ancora molto prudente. Adesso… non dico che commetta imprudenze, ma mi rendo conto che non è più così vigile. L’immunità di cui ha goduto fino a ora lo rende meno attento. Questa degli incontri… è follia pura.

Denis annuisce, senza nascondere la sua preoccupazione. In questi giorni gli sembra che sulle sue spalle gravi un peso troppo forte.

- Il vescovo verrà a saperlo, prima o poi. E potrebbe essere la fine. Sai che i miei rapporti con il re non sono ottimali: non ho nessuna stima di Guido da Lusignano. Non si dimostra ostile nei miei confronti perché ha bisogno del mio appoggio contro i Saraceni, ma non gli spiacerebbe perdermi.

- Purtroppo è stato scelto come re l’uomo sbagliato.

- Mi chiedo se ho fatto bene a far tornare Pierre. Gli accordi con il Saladino e la nomina di Eraclio a patriarca di Gerusalemme mi avevano fatto sperare in un periodo di pace con i saraceni e di relativa tranquillità all’interno del regno. Ma adesso che il Saladino ha conquistato anche Mosul e Guido da Lusignano è re…

- Pierre è tuo figlio, Denis. E desidera stare con te quanto tu desideri averlo vicino.

Denis annuisce. Quello che dice Solomon è vero: il loro è un rapporto forte, anche se sono rimasti lontano sei anni. Pierre è ormai ventunenne.

- Non c’è futuro per lui, qui in Terrasanta.

- Ti riferisci alla situazione di Rougegarde?

Denis scuote la testa.

- Non c’è futuro per i cristiani in Terrasanta. I nostri domini non sono abbastanza forti e ora che la Siria e l’Egitto sono riuniti nella mani di un unico sovrano, saremo spazzati via. Non lo pensi anche tu, Solomon? Dimmi la verità.

- Sì, mi sembra probabile, ma in realtà non possiamo sapere ciò che accadrà: nessuno avrebbe potuto prevedere la conquista di queste terre da parte dei franchi, quasi un secolo fa.

- No, certo. Ma adesso… con Guido da Lusignano re e Reginaldo da Châtillon che ha acquistato tanta influenza a corte…

Sul viso di Solomon appare una smorfia.

- Reginaldo è una testa di cazzo. Oltre ad essere più un brigante che un signore.

- Già. E la sua influenza a corte è un bel problema nei rapporti con i Saraceni. E anche per Rougegarde. Il vescovo spera di ottenere una maggiore libertà d’azione in città, adesso che non posso più contare sull’appoggio incondizionato del re. E tra gli uomini intorno al re ho molti nemici. Anche il patriarca…

- Eraclio era un tuo alleato.

Denis ha una smorfia.

- Eraclio si allea con chi gli conviene. Ha sostenuto Sibilla e Guido da Lusignano, perché sapeva che il loro partito era il più forte.

Solomon annuisce. Denis ritorna all’argomento principale.

- Devo riuscire a fermare Emich, in un modo o nell’altro, prima che porti alla rovina quelli che si fidano di lui e anche me.

- Sì, a qualunque costo.

Solomon si è avvicinato. Gli accarezza il capo. Denis sente l’odore di sudore di questo corpo che ha stretto tante volte. Di colpo il desiderio si accende in lui. Non è sceso nel laboratorio di Solomon per scopare, ma questa carne che ora sfiora, questa mano che lo accarezza, l’odore che sente, la vista della peluria sul petto di Solomon, dove brillano alcune gocce, tutto infiamma il suo corpo.

Fissa il compagno negli occhi.

- Mi piace il tuo odore, Solomon.

Solomon ride.

- Sono tutto sudato: ho forgiato un bracciale e tra il calore del fuoco e il lavoro…

Guarda Denis e gli mette una mano sotto il mento. Gli solleva un po’ la testa e lo bacia. Quando si staccano, Denis dice:

- Prendimi, Solomon.

L’orafo sorride. Va alla porta e la blocca, poi torna da Denis e lo bacia di nuovo sulla bocca, con molta delicatezza. Schiude le labbra e fa avanzare la lingua, in un bacio appassionato.

Poi incomincia a spogliarlo, con gesti lenti e misurati: Solomon ama prendersi tutto il tempo necessario e solo di rado si fa trascinare dal desiderio, diventando irruente. Le sue mani sfilano la tunica, le calzature, i pantaloni. Uno dopo l’altro tutti gli indumenti vengono tolti, finché Denis rimane nudo. Solomon contempla l’uomo che ama, fa scorrere un dito su alcune delle cicatrici di questo corpo, poi prende le mani di Denis e se le mette sui fianchi. Denis raccoglie l’invito e cala i pantaloni. E allora finalmente Solomon lo stringe tra le braccia, le sue mani incominciano a percorrere il corpo di Denis, la schiena, scendono fino al culo, stringono con forza. I loro corpi aderiscono, i loro cazzi premono l’uno contro l’altro.

Poi, con un movimento questa volta brusco, l’orafo preme sulle spalle di Denis e lo forza a inginocchiarsi. Denis guarda il cazzo di Solomon, lo accarezza con la mano, poi lo prende in bocca e incomincia a leccarlo e succhiarlo. Solomon gli accarezza i capelli, si china su di lui, gli fa scivolare le mani lungo la schiena, fino al culo, le dita scorrono sul solco, stuzzicano l’apertura. Poi mormora, con voce roca:

- Mettiti sul tavolo.

Denis appoggia il torace sul tavolo, allargando le gambe. Solomon si inginocchia e passo la lingua sul solco, più e più volte, poi la spinge contro il buco. Morde il culo, poi lo bacia. Morde ancora, poi riprende ad accarezzare con la lingua il solco, mentre le sue mani stringono il culo di Denis, lo pizzicano, avanzano a stuzzicare i coglioni e il cazzo.

Denis geme, più volte. Solomon avvicina la cappella al buco, che ha ampiamente lubrificato, e spinge dentro. Denis lo accoglie con un nuovo, più forte gemito. Solomon avanza fino in fondo, godendo il calore e la consistenza del culo che ora  accoglie il suo cazzo. Le sue mani stringono le natiche, forte.

Solomon assapora le sensazioni intensissime che gli trasmette il corpo di Denis. Gli accarezza la schiena, si china a mordergli una spalla, a baciargli la nuca, a passargli la lingua dietro l’orecchio e sul collo, mentre prosegue la sua cavalcata.

Le sue mani tornano davanti, a stringere i coglioni, ad accarezzare il cazzo, mentre Denis geme, più volte, e la tensione cresce in entrambi.

Quando infine Solomon si rende conto di essere sul punto di venire, stringe con forza il cazzo di Denis, muovendo rapidamente la mano, allo stesso ritmo con cui muove il culo, finché sento che l’onda del piacere sale e li travolge entrambi.

Solomon si lascia andare su Denis, lo bacio sulla nuca e gli dice:

- Amore mio.

Rimangono un buon momento così, poi si staccano. Si puliscono e si rivestono. Denis lo bacia sulla bocca, poi lascia il laboratorio.

 

 

Lucas è nella sua camera alla locanda. Sta scrivendo una lettera alla sua famiglia, quando qualcuno bussa alla porta. Lucas apre.

- Ah, sei tu, Morqos.

- Posso parlarti un momento, Lucas?

- Certo, accomodati.

Morqos entra, chiude la porta e a un cenno di Lucas si siede sull’unica sedia. Lucas si mette sul letto. Morqos lo guarda. Lucas è davvero un bell’uomo, bello di viso e di corpo.

- È una faccenda seria, Lucas, molto seria.

- Dimmi.

- Lucas, in città circolano voci. Si parla di riunioni che si tengono in un locale segreto, qualcuno dice sotterraneo. Si dice che Emich le organizza e che diversi giovani vi prendono parte.

Lucas si è teso. Sa che Morqos è amico di Emich e che non è certo una spia del vescovo, ma il fatto che sia informato è comunque preoccupante. Non sa bene che cosa dire: negare gli sembrerebbe assurdo, ma preferisce non confermare. Morqos continua, senza aspettare una risposta di cui non ha bisogno.

- Lucas, quello che devi capire è che Emich e tutti voi rischiate la vita. Il vescovo verrà a saperlo, prima o poi, probabilmente già è stato informato.

- Nessuno certo confesserà di…

Morqos lo interrompe:

- Sarete arrestati e torturati, Lucas. Sai che cosa significa la tortura? Lo strappo, quando ti sospendono per i polsi e poi ti fanno precipitare, disarticolandoti le braccia? La stanghetta per triturati le caviglie o le cannette per spaccarti le dita? E se non parli, quando hanno deciso che devi confessare comunque, i ferri roventi per strapparti le carni? Le dita, un pezzo per volta, il cazzo, i coglioni? O quando ti fanno ingurgitare un barile d’acqua e ti gonfi tutto?

Lucas rabbrividisce. Manrique prosegue:

- Confesserete tutti, nessuno escluso. E anche se qualcuno riuscisse a resistere, la confessione degli altri lo perderà. Per voi ci sarà solo il rogo. Ce ne sono già stati qui in Terrasanta. A Santa Maria ad Aqsa e San Giacomo d’Afrin, di cui Bohémond è vescovo. Vuole un esempio per tutti coloro che a Rougegarde pensano di poter vivere liberamente e vuole colpire il duca. Questa è l’occasione che attende da anni.

Lucas tace, poi dice:

- Ma il duca… il duca ha sempre protetto Emich.

- Il duca lo ha protetto e continuerà a farlo finché sarà possibile. Ma la situazione è cambiata. Il duca non gode del favore del nuovo re e non sarà più in grado di proteggere Emich se questi si espone troppo.

Lucas è incerto. Non sa che cosa dire. Morqos prosegue:

- Lucas, parlo per Emich, per te e per tutti voi. Convinci Emich a rinunciare a questa follia o farete una morte orribile.

 

Jules è tornato al suo posto di osservazione: è la terza sera. C’è di nuovo la luce nella camera. La notte è molto buia perché la luna è coperta dalle nuvole: questo riduce il rischio di essere visto. Jules si arrampica sopra l’arco.

Appena arriva nel punto da cui può vedere la camera, scorge Emich, che è seduto sul letto, nudo. Accanto a lui è disteso un giovane, Lucas, anche lui nudo. Emich accarezza con la mano il corpo di Lucas. Jules ha l’impressione che gli manchi il fiato. Si chiede che cosa fare, ma in realtà non c’è nulla che abbia senso fare: anche se corresse subito dal vescovo per avvisarlo, sarebbe impossibile sorprendere i due peccatori. Quando arrivassero le guardie del vescovo e bussassero alla porta della locanda per farsi aprire, questi due, anche se stessero ancora scopando, si rivestirebbero rapidamente. E se anche Emich e Lucas fossero condannati come sodomiti, non è questo che interessa al vescovo. Il fatto che scopino è comunque una parziale conferma delle voci che circolano.

Emich si china e la sua bocca avvolge il cazzo di Lucas. Poi Emich si siede su Lucas. Prende nella mano il cazzo del giovane, lo mette in verticale e si impala lentamente.

Jules vede che Emich non è eccitato. E mentre lo osserva, pensa a quanto gli hanno raccontato: Emich non ha più le palle, è stato castrato dai saraceni. È naturale che non gli venga duro.

Jules Randonnay ansima. Non si accorge neanche che la sua mano è scesa al cazzo e lo stringe attraverso la stoffa dei pantaloni. Non si rende conto di avere il cazzo duro.

Emich si solleva e si abbassa, fino a che apre la bocca e si ferma. Poi sorride e con una mano accarezza il corpo di Lucas.

Solo nel momento in cui il seme si spande e il piacere lo travolge, Jules realizza di essersi masturbato fino a venire. Si guarda intorno, spaventato. Non c’è nessuno nella strada, né alle altre finestre della locanda. È buio, non dovrebbero averlo visto. Jules scende dal suo punto di osservazione. Si nasconde nell’ombra. Non capisce che cosa gli sia successo. Come è stato possibile?

Jules rimane in silenzio. Attende che il battito del suo cuore rallenti. Guarda la finestra illuminata. Nella sua testa c’è una grande confusione.

 

Intanto Lucas ed Emich sono stesi sul letto, uno accanto all’altro.

Lucas dice:

- Morqos mi ha parlato. Secondo lui le riunioni sono pericolose. Se ci scoprono…

Emich lo interrompe.

- Nessuno potrà scoprirci.

- Se Morqos è venuto a saperlo… vuol dire che circolano voci.

- Sono solo voci, probabilmente qualcuno si è lasciato sfuggire una mezza frase, ma nessuno di noi è tanto sciocco da raccontare quello che succede.

- Mi chiedo se non sarebbe meglio sospendere per un po’ i nostri incontri.

- Le nostre anime ne hanno bisogno come i nostri corpi. Il Signore ci proteggerà.

Lucas è incerto, si preoccupa per Emich e anche per se stesso e per gli altri giovani. In qualche misura si sente responsabile, perché è stato lui a darsi da fare per organizzare questi incontri, ispirato dal sogno di amore universale di Emich. Se il vescovo lo venisse a sapere… Emich non sembra inquietarsi, forse ha ragione. In fondo vive a Rougegarde da tanti anni, sa quel che fa.

 

Ormai è molto tardi, non usciranno più. Jules si allontana. Cammina per le strade, confuso. Sente dei passi: probabilmente la ronda. Si acquatta in un angolo buio. Guarda i sei soldati passare. Chissà se scopano tra di loro? Se qualcuno se lo fa mettere in culo? Che cosa si prova a farselo mettere in culo?

Jules scuote la testa. Le domande gli sono venute in testa così, senza che se ne rendesse conto. Si dice che sta impazzendo, quello che ha visto lo ha sconvolto.

Non appena i soldati sono passati, esce dal suo nascondiglio e si dirige rapidamente verso il palazzo del vescovo. Vuole rinchiudersi nella sua stanza, accanto al palazzo, mettersi a letto e dimenticare tutto.

 

Il giorno dopo riferisce al vescovo. È in imbarazzo, perché non conosce i termini adatti. Li ha sentiti qualche volta, ma non è sicuro di usarli correttamente. Non vuole usare certe parole che probabilmente il vescovo non approverebbe.

- L’eretico non è uscito dalla locanda. La luce nella sua camera era accesa e sono salito su un arco per vedere. Era in camera con un giovane e…

Jules si ferma. Non sa come continuare.

- E…? Che c’è, Jules?

- Avevano… avevano… insieme…

Bohémond intuisce:

- Un rapporto contro natura?

Il termine dev’essere quello.

- Sì, credo di sì.

- Come, credi? Non li hai visti?

- Sì, sì, li ho visti.

L’immagine di ciò che ha visto gli torna anche adesso davanti agli occhi. Gli sembra che il fiato gli manchi, mentre il cazzo gli si tende. Cerca di nasconderlo, tenendo le mani incrociate davanti al rigonfio delle braghe.

- Facevano… quella cosa lì.

Bohémond ride dell’imbarazzo di Jules: lo conosce ed è certo che non abbia mai avuto rapporti. D’altronde, brutto com’è, chi potrebbe desiderarlo?

- Avevano un rapporto carnale tra di loro: un uomo con un altro uomo, il peccato di Sodoma, il più infame dei vizi. Anche se Emich… non è neppure un uomo. Il Signore onnipotente lo ha punito per i suoi vizi infami, ma il diavolo lo guida e lui non ha desistito. La virtù è inaccessibile a chi vuol perseverare nel vizio.

Il vescovo scuote la testa. Aggiunge:

- Questo è un altro elemento contro Emich, ma non è sufficiente, non dobbiamo perdere solo lui. Quello che ci serve è scoprire dove e quando si riuniscono i giovani.

- In queste sere non è uscito.

Bohémond prosegue:

- Anche questa sera tornerai ad appostarti vicino alla locanda. Se ci sono queste riunioni, prima o poi Emich vi andrà e allora sapremo quello che ci serve.

Jules fa un cenno d’inchino. Spera di non vedere di nuovo Emich e Lucas scopare. O forse… non sa bene che cosa spera.

 

*

 

Jacques gioca un momento con il fratellino, figlio di sua madre Jeanne e di Manrique, poi, quando il bambino viene messo a letto, passa negli appartamenti del duca, per parlare con Pierre d’Aguilard.

Quando Pierre è ritornato in Terrasanta, dopo sei anni di lontananza, hanno fatto rapidamente amicizia. Li accomunano molte cose: hanno la stessa età; sono entrambi nobili e potrebbero un giorno diventare signori di territori sempre minacciati dai saraceni; hanno nemici che vorrebbero sbarazzarsi di loro per poter realizzare i loro progetti. Risultano entrambi essere figli di un uomo che non è il loro vero padre, ma questo nessuno dei due lo sospetta.

Pierre è sempre contento di vedere Jacques: ha trovato in lui un amico sincero, con cui può confidarsi.

Quando sono da soli, Pierre chiede:

- Non sei andato, questa sera? È giovedì, il giorno della riunione, no?

Jacques scuote la testa. Pierre è a conoscenza degli incontri che si svolgono in un locale sotterraneo. Una volta Jacques lo ha portato, ma quando ha capito di che cosa si trattava, Pierre ha preferito non tornare: sa che in quanto figlio del duca deve fare molta attenzione a ciò che fa, perché potrebbero servirsi dei suoi errori per colpire suo padre. E comunque, per quanto l’esperienza sia stata molto piacevole, preferisce avere rapporti con una donna.

- No, Pierre. Io… vorrei andare, ma so che non faccio bene.

- Non c’è nulla di male. Come dice Emich, siamo creature di carne e il Signore ci ha creato dandoci il desiderio: è un suo dono.

- Sì, Pierre, però… tu hai deciso di non andare più.

- Io sono il figlio del duca.

- E io sono sotto la sua protezione.

- Sì, hai ragione. Bisogna essere molto prudenti, Jacques, questo di sicuro.

Dopo aver parlato a lungo con Pierre, Jacques ritorna nella sua stanza. Si spoglia e si mette a letto. Il suo corpo arde e a tratti prova l’impulso di alzarsi e uscire, per raggiungere gli altri, ma si trattiene. Il tempo passa, ma il sonno non viene. Ormai comunque sarebbe troppo tardi per andare.

Nel buio della stanza, Jacques pensa a Lucas. Tra tutti i giovani che si incontrano nel sottosuolo, è quello che più lo ha colpito, forse perché è forte e virile e ha qualche anno in più degli altri. Jacques è attratto dagli uomini con diversi anni in più; i giovani della sua età non destano il suo desiderio.

Jacques pensa al conte Ferdinando e al nero Adham. Vengono spesso a Rougegarde, perché sono legati al duca. Quando sono a palazzo, danno anche loro lezioni con la spada a Jacques e a Pierre e poi partecipano al bagno. Se li guarda nudi, a Jacques viene subito duro. Quando sono nel bagno, deve fare molta attenzione.

Adham ha un corpo splendido, elegante ed armonioso, e un cazzo superbo. Ferdinando non è bello, tutt’altro, ma è un Ercole che gli anni hanno appesantito senza togliergli forza. E il suo cazzo è tanto grande da essere inquietante. Ferdinando è un porco e a volte nel bagno si accarezza senza pudore. Allora il cazzo si ingrossa ancora, anche se il conte non prosegue fino a farselo venire duro.

Un altro maschio che gli piace è Solomon, il misterioso orafo ebreo che il duca ha preso al suo servizio e che qualche volta si bagna con loro. È amico di Manrique e ha un rapporto di grande familiarità con il duca. Dà anche lezioni di lotta a Jacques e a Pierre: alquanto strano che un orafo conosca la lotta, ma è davvero in gamba. L’altro giorno ha bloccato Jacques a terra, impedendogli di alzarsi. E mentre sentiva il corpo di Solomon premere sul suo, Jacques è stato sul punto di venire.

La mano di Jacques scende al cazzo e lo accarezza, mentre la sua mente immagina Adham che si mette a quattro zampe e Ferdinando che lo penetra. Chissà com’è il cazzo del conte, quando è duro? Dicono che sia un vero toro. Immagina di guardare i due uomini che scopano. E mentre li guarda Solomon gli si avvicina alle spalle e Jacques sente il cazzo dell’ebreo premere contro il suo culo. Jacques non è mai stato penetrato, ma ora le sue dita stuzzicano l’apertura e il desiderio cresce ancora, fino a che la tensione esplode e il seme sgorga.

 

*

 

Jules Randonnay è tornato al suo punto di osservazione sotto l’arco. 

Sorprenderà di nuovo Emich e Lucas? Vorrebbe vederli scopare ancora, ma nello stesso tempo il pensiero lo turba. Quello che è successo ieri sera non deve ripetersi. Eppure… Jules è confuso.

C’è la luce nella camera di Emich, ma Jules aspetta prima di salire sull’arco: è ancora presto, ogni tanto passa qualcuno e non è il caso di rischiare, anche se la tentazione di salire è forte. Poco dopo però la luce si spegne.

Emich si è messo a dormire? Difficile, è presto, la locanda non ha ancora chiuso. Le altre sere si è coricato più tardi. Uscirà?

Jules rimane nascosto nell’angolo buio e in effetti poco dopo la porta della locanda si apre ed Emich esce. Non è solo: con lui c’è qualcun altro, forse l’uomo che scopava con lui.

Emich si guarda attorno e si muove. L’altro gli cammina accanto. Passano davanti a Jules, senza accorgersi di lui, e procedono. Jules si stacca e li segue, con molta cautela, guardandosi intorno. Ogni tanto incrociano qualcuno: non è ancora molto tardi.

Infine raggiungono Santo Stefano, una vecchia moschea che è stata trasformata in chiesa. Emich spinge la porta che si apre nel muro del cortile e i due entrano.

Sarà il luogo degli incontri? Il cortile ha su un lato la chiesa, sull’altro il giardino di una casa privata. Emich e il suo compagno andranno nella casa? Difficile, perché l’ingresso è sulla strada e un muro separa il giardino dal cortile. Nella chiesa è impossibile che entrino: c’è una porta laterale, ma sicuramente sarà chiusa. E allora? Jules cerca di ricordare se c’è altro nel cortile. È stato più volte nella chiesa, ma solo di rado nel cortile. Forse ci sono alcune costruzioni. Dovrà verificare, ma non ora: bisogna capire se arriverà qualcun altro.

Jules si ferma all’angolo di un vicolo. Poco dopo sente dei passi Qualcuno sta arrivando. Un uomo che si guarda intorno, poi si infila nel cortile. Dopo di lui un altro. Questo è il luogo dove si ritrovano e questa è l’ora. Infatti nei minuti che seguono arrivano altri quattro. Sei persone, più l’eretico e l’uomo che era con lui.

Le voci che circolano sono vere.

È il caso di correre dal vescovo? No, è meglio raccogliere prima tutte le informazioni, poi il vescovo stabilirà il da farsi. Non è la prima riunione, non è certamente l’ultima.

Jules rimane fermo nel suo angolo. Si chiede se non cercare di entrare, ma teme di essere sorpreso: se qualcuno lo vedesse per strada, non ci sarebbe nessun problema, ma nel cortile della chiesa, come giustificherebbe la sua presenza? Se lo sorprendessero gli uomini che sono riuniti ora, potrebbero anche ucciderlo.

Jules si chiede che cosa stanno facendo. Scoperanno come Emich e il giovane che ha visto dall’arco? Stanno scopando ora? Sgomento Jules si accorge che gli sta venendo duro.

Si stacca dall’angolo in cui si è nascosto e avanza fino alla porta. Esita, poi la spinge. Il cortile è immerso nell’ombra, ma appare deserto. Sul lato opposto alla porta e su quello lungo il giardino vicino ci sono effettivamente delle costruzioni basse. Jules fa due passi, poi si ferma. I rischi sono troppo alti. Il vescovo non avrà nessuna difficoltà a capire in quale di questi edifici avvengono gli incontri: essendo nel cortile di una chiesa, potrà farli controllare facilmente. Jules torna verso la porta, ma si ferma nuovamente. Staranno scopando, come Emich e l’altro? Tutti insieme? Vorrebbe vederli!

Fa ancora due passi verso gli edifici sull’altro lato del cortile, poi si volta e raggiunge la porta. Esce e ritorna al suo punto di osservazione.

È la seconda vigilia quando la porta si apre nuovamente. Un uomo si sporge a guardare fuori, poi fa un cenno agli altri. Escono tutti insieme e si disperdono. Jules coglie frammenti di conversazione. Uno è importante:

- A giovedì prossimo.

Così le riunioni si tengono il giovedì. Ottimo. La settimana prossima ci sarà una sorpresa per questi uomini.

Jules entra nel cortile e raggiunge gli edifici sul lato della casa. Non ha una lanterna e in ogni caso non sarebbe prudente accenderla. Le porte degli edifici sembrano essere tutte chiuse. Forse Emich ha una chiave. Anche sul lato opposto alla strada da cui è entrato, Jules trova solo porte sbarrate.

Riattraversa il cortile ed esce. Si dirige verso il palazzo del vescovo. A un certo punto gli sembra di sentire un rumore dietro di lui, forse dei passi. Si volta, inquieto, ma non c’è nessuno.

Raggiunge la casa dove abita, in una stanza al secondo piano. Apre la porta e sale. Si spoglia e si stende a letto.

Che cosa avranno fatto gli uomini che si sono riuniti? Jules si pente di non aver cercato di raggiungerli. Potrebbe… giovedì prossimo potrebbe appostarsi all’interno del cortile, magari riuscirebbe a vedere. Ma probabilmente il vescovo vorrà agire, senza attendere.

 

L’indomani mattina Bohémond ascolta la relazione di Jules Randonnay, che gli racconta tutto quanto ha visto e sentito.

- Perfetto, Jules. Hai fatto un ottimo lavoro. Non sarà difficile scoprire in quale degli edifici si ritrovano. Farò controllare questa sera stessa.

Jules è contento che il vescovo sia soddisfatto. Bohémond prosegue:

- Giovedì prossimo. Abbiamo una settimana per preparare tutto. Perfetto. Li sorprenderemo durante i loro riti. Colti in flagrante. Sarà la loro fine. Un grande rogo per quei giovani… quanti erano, Jules, hai detto sette?

- Sì, sono usciti in sette, oltre a Emich.

- Sette giovani e l’eretico che li capeggia. Un grande rogo per celebrare la vittoria su Satana.

Bohémond vorrebbe che sul quel rogo ardesse anche il duca, ma per questo è ancora presto. È comunque il primo passo: un uomo che il duca ha sempre protetto finisce sul rogo. E se davvero tra i giovani ci fosse il figlio del duca… la partita allora sarebbe tutta da giocare. Per Denis d’Aguilard, signore di Rougegarde, sarebbe la fine.

In settimana bisognerà provvedere a tutto il necessario. In primo luogo controllare il luogo in cui si tengono le riunioni: verificare se ci sono altre uscite e dove appostarsi per sorprenderli. Un edificio della Chiesa: ottimo questo. Anche i suoi nemici non potranno criticarlo, se manda i suoi uomini a controllare ciò che accade in un edificio di proprietà della Chiesa.

L’importante è che nessuno sospetti. Tutto va fatto senza destare sospetti.

Bohémond pensa agli ordini da dare, alle persone da mandare. Sì, tutto si svolgerà come previsto e il duca non avrà spazio per le sue sporche manovre. Arrestati tutti sul fatto.

Comunque la cosa migliore sarebbe che il duca non fosse in città: questo gli lascerebbe una maggiore libertà di movimento. Se fosse lontano e non riuscisse a tornare prima di qualche giorno, non avrebbe modo di intervenire neanche nei giorni successivi all’arresto.

Bohémond scrive immediatamente una lettera al barone Olivier. Una carovana impiega quattro giorni per andare da Rougegarde a San Giacomo d’Afrin, ma andando al galoppo e cambiando il cavallo, un uomo può dimezzare i tempi.

 

Mentre Jules Randonnay riferisce a Bohémond, Morqos è a colloquio con Denis d’Aguilard, duca di Rougegarde. L’argomento è lo stesso.

- Come mi avevate ordinato, ho tenuto sotto controllo Emich, per vedere se usciva.

- E allora?

- È andato con Lucas, la riunione si è tenuta. Ma è bene che vi racconti tutto con ordine, perché c’è un elemento nuovo, che di sicuro cambia completamente la situazione.

- Dimmi.

- Quando ho sentito Emich e Lucas uscire, ho aspettato un attimo prima di muovermi: non volevo che si accorgessero di me. Ho aspettato poco, perché non volevo neanche perderli. Quando sono uscito dalla locanda, ho visto qualcuno che si muoveva strisciando lungo i muri, cercando di rimanere nell’ombra.

- Che non era Emich, da quanto mi dici.

- No, ma stava seguendo Emich.

Denis apre la bocca, ma poi la richiude. Inutile interrompere il racconto per fare domande: Morqos gli dirà tutto quello che sa. Gli fa cenno di continuare.

- Così, lui seguiva Emich e io seguivo lui. Era troppo concentrato nel non perdere Emich per accorgersi che qualcuno lo stava seguendo. Probabilmente non immaginava proprio che potesse succedere. Giunto vicino alla chiesa di Santo Stefano, la vecchia moschea al-Qahira, si è fermato. Emich e Lucas dovevano essere arrivati. Mi sono fermato anch’io, ma avevo bisogno di sapere dov’erano entrati e dove sarebbero entrati gli altri partecipanti. Conosco bene la zona e non mi è stato difficile trovare un buon punto di osservazione, da cui potessi vedere ciò che vedeva lo spione spiato. Sono arrivati in sei e si sono infilati nel cortile della chiesa di Santo Stefano. 

- Non sai chi sono, vero?

- Avevano tutti un cappuccio e in ogni caso con il buio non potevo vederli. Ma sono sicuro che uno di loro fosse Nino, il figlio del mercante Giovanni.

- Non mi stupisce. Ha vent’anni e sicuramente ha molte occasioni di vedere Emich, no?

- Sì, certo. In questi ultimi mesi, dopo l’arrivo di Lucas, a volte si incontra con loro nella camera di Emich.

- Va bene, adesso continua.

- Per un bel po’ non è successo niente e io mi sono avvicinato alla mia spia: a quel punto sapevo dove si ritrovavano e mi interessava scoprire chi altri era interessato a saperlo. Io lo vedevo, ma lui non sospettava la mia presenza. È rimasto lì immobile, per un po’. Poi è entrato nel cortile, ma non è rimasto a lungo: o ha trovato in fretta ciò che cercava o ha temuto di essere scoperto. È uscito nuovamente. È passato un po’ di tempo, poi sono usciti tutti. Lasciandosi, si sono dati appuntamento per il prossimo giovedì.

- E tu?

- Io ho seguito lo spione. A questo punto era quello che mi interessava di più. Di tutti gli altri possiamo sapere il nome da Emich o Lucas. Lui si è diretto verso il palazzo vescovile e ha raggiunto una casa nella piazza, proprio di fianco alla torre.

- Vuoi dire che si tratta di Jules Randonnay?

- Sì, senz’altro. È il posto in cui abita e poco dopo che è entrato è apparsa una luce nella sua camera al secondo piano. E questo è tutto.

- Hai svolto un lavoro prezioso, Morqos. Grazie.

 

Denis riflette.

Bisogna mettere sotto torchio Emich, avvertendolo che il vescovo è informato di queste riunioni, magari farsi dire i nomi dei giovani e avvisarli, sperando che il vescovo non ottenga dal re l’autorizzazione ad arrestare e interrogare Emich e magari anche Lucas. Il rischio è forte: ora il vescovo sa che le riunioni si sono effettivamente tenute e che non sono solo voci che circolano. Di sicuro richiederà l’autorizzazione ad arrestare Emich, certo di potergli estorcere la verità: il vecchio non è in grado di resistere alla tortura. E dopo di loro sarebbe il turno dei giovani.

Emich e Lucas devono andarsene, non c’è altra soluzione. Denis può trovargli un posto sicuro dove nascondersi, magari a Cesarea o ad Ascalona. Di Cesarea Denis è stato reggente  e conserva un ottimo rapporto con il giovane signore, che ha appena compiuto i diciott’anni. Anche il signore di Ascalona, Raimondo, è un alleato fidato. Le due città non rientrano nella diocesi di Rougegarde e i loro vescovi sono ostili all’ambizioso Bohémond.

Se rimanessero in città verrebbero arrestati e sarebbe la fine per loro e per i giovani, oltre a costituire un grosso pericolo per Denis stesso, perché il processo e il rogo che ne seguirebbe sarebbero un’arma potente nelle mani dei suoi nemici.

E se Emich non volesse andarsene? È ostinato e non si rende conto dei pericoli. Bisogna almeno convincerlo a fermare queste riunioni. Ma non basterebbe, perché certamente il vescovo otterrà di farlo arrestare. No, in un modo o nell’altro va fermato. E bisogna avvisare i giovani, metterli in guardia, far loro capire che stanno correndo un rischio mortale.

Denis manda una lettera a Gerusalemme, dove ha diversi uomini che gli sono fedeli e che lo tengono informato di quanto accade. Alcuni agiscono per denaro, molti perché vedono in lui il principale sostegno del Regno.

Pochi giorni dopo riceve la risposta che aspettava e che conferma i suoi timori: il vescovo ha richiesto l’autorizzazione ad arrestare Emich di Freiburg, anche se non colto sul fatto, e il re intende concedergliela: non l’ha ancora fatto, ma lo farà a breve. Per ulteriori arresti Bohémond dovrà fare una nuova richiesta al re stesso, portando altri elementi: Guido da Lusignano non vuole inimicarsi completamente il più potente signore del Regno, per cui non lascia carta bianca al vescovo. Ma una volta che Emich abbia confessato, di certo Bohémond otterrà di poter arrestare anche i giovani coinvolti. Per Lucas non è stata chiesta un’autorizzazione: per il momento non è significativo.

 

Contemporaneamente arriva anche un’altra lettera, da San Giacomo d’Afrin: è il barone Olivier a mandarla. Richiede a Denis e Ferdinando un incontro con la massima urgenza, perché i suoi uomini gli hanno segnalato movimenti di truppe consistenti ai confini orientali: teme un attacco e vuole organizzare la difesa.

Il mattino seguente, dopo la lezione con le armi, mentre sono al bagno, Denis dice:

- Olivier ha invitato me e Ferdinando a San Giacomo, per discutere la situazione ai confini orientali.

- Andrete?

- Credo di sì. Il barone ci pone fretta, ma prima voglio risolvere alcune cose qui.

Denis non spiega di che cosa si tratta e nessuno vuole mostrarsi curioso.

Denis riprende:

- In ogni caso Ferdinando sarà qui domani, con Adham e alcuni dei suoi uomini.

La notizia turba Jacques, che ripensa alle sue fantasie serali. Gli uomini di cui si è servito nei suoi sogni erotici arriveranno e se, come spesso accade, il duca chiederà loro di dare a lui e Pierre lezioni di combattimento, poi si bagneranno e… Jacques si sforza di non pensarci, perché se indugiasse nelle sue fantasie, gli verrebbe duro.

 

Denis incarica Morqos di fare un ultimo tentativo con Emich.

Morqos ritorna alla locanda e raggiunge Emich in camera.

- Ho bisogno di parlarti, Emich.

Gli sembra che il vecchio sia nervoso, forse anche un po’ insofferente: preferirebbe non sentire altri avvertimenti.

- Emich, il vescovo sa che vi riunite il giovedì sera vicino alla chiesa di Santo Stefano.

Emich è impallidito: non pensava che Morqos potesse conoscere il luogo e il giorno dell’incontro e l’idea che anche il vescovo ne sia a conoscenza lo spaventa.

- No… non è possibile. Nessuno può averglielo detto.

- Ti ha fatto spiare da uno dei suoi uomini.

- Come fai a saperlo, tu? Non è vero! Lo dici per spaventarmi.

- Emich, come lo so io, lo sa il vescovo, che ti piaccia o meno. E questo significa che presto sarai arrestato e messo sotto tortura.

Emich si alza di scatto. Gli sembra che gli manchi il fiato.

- No, non è possibile. Vuoi mettermi paura, questa è la verità. Vuoi mettermi paura perché hai paura tu, avete paura tutti.

- No, Emich. È come ti dico. Il vescovo ha scoperto ciò che succede e vi farà arrestare. Vi aspettano la tortura e poi il rogo.

Emich cammina nervosamente per la stanza, torcendosi le mani.

- Che cosa dovrei fare?

- Devi andartene, Emich. Il duca è disponibile a nasconderti per alcuni giorni e poi a farti uscire da Rougegarde .

Emich guarda Morqos. Un sorriso amaro gli è comparso in viso: la diffidenza ha preso il sopravvento sulla paura.

- Vi volete liberare di me, questa è la verità.

- Emich, rimanere significa la morte. Stai conducendo alla rovina dei giovani che credono in te.

Ma Emich segue il corso dei suoi pensieri e accusa:

- Non è un uomo del vescovo che mi ha seguito, sei stato tu. Se non fosse così, non potresti sapere dove ci riuniamo. È tutta una scusa per allontanarmi.

- Emich, stiamo cercando di salvare la tua vita. Lo vuoi capire?

- No, non è vero! Avete paura e mi volete scacciare.

- Emich!

- Vattene, Morqos. Credevo che fossi un amico, ma mi sono sbagliato. Vattene!

Morqos si rende conto che ormai è inutile. Senza dire più nulla, si alza e lascia la stanza. Si sente impotente e triste. Pensa a quando la camera di Emich era il centro di un paradiso in cui muoveva i primi passi. La casa di Giovanni è ancora un’oasi felice e Morqos vive sereno con Mariette, i figli, il fratello Istfan, Tristan e gli altri: una ricchezza di affetti che non aveva mai avuto prima nella sua vita. Ma ora è proprio Emich che rischia di provocare la rovina di tutto ciò che hanno costruito.

Va a palazzo, a riferire.

 

Poco dopo che Morqos ha raccontato il fallimento del suo incontro con Emich, Solomon raggiunge Denis nel suo appartamento. Di rado vi si reca di propria iniziativa: lo fa quando hanno stabilito di incontrarsi.

Denis gli legge in viso che non porta buone notizie e che è preoccupato.

- C’è una cosa che devo dirti, Denis.

- Dalla tua faccia temo che non sia niente di buono.

- In effetti so che aumenterà le tue preoccupazioni.

- Fuori il rospo. Di che cosa si tratta?

- Ho avuto altre informazioni su queste riunioni. Una, che può essere utile, è da chi sono partite le voci: da Nicolas, il figlio del mercante di stoffe Robert.

- Saperlo è una buona cosa: sappiamo su chi intervenire. Ma evidentemente non è questo il problema.

- No. Il problema è un altro:  ha detto che non gli succederà niente, perché tra di loro c’è qualcuno molto in alto, che viene direttamente dal palazzo ducale.

Denis si sente gelare. Pone subito la domanda che gli è venuta in mente:

- Pensi a Pierre, Solomon?

- Pierre è una possibilità. Gli piacciono le donne, ma è giovane e potrebbe aver deciso di provare. Ma, sinceramente, mi sembra troppo intelligente e responsabile per frequentare riunioni di questo tipo.

- E allora?

- Potrebbe essere Jacques. Gli piacciono i maschi e non ha le responsabilità che ha Pierre, in quanto tuo figlio. Può benissimo aver sottovalutato i rischi. È un giovane intelligente, ma ha vent’anni… se penso a com’ero io a vent’anni, non mi sento di criticarlo.

Solomon ride e aggiunge:

- Lo sai, te l’ho detto, ero proprio una testa di cazzo. E posso capire che Jacques non abbia riflettuto abbastanza sulle conseguenze delle sue azioni. Posto che sia lui.

- Bisogna capire se è lui.

- Che cosa pensi di fare?

- Non lo so. Emich ormai è perduto.

Solomon ha seguito tutti gli sviluppi della faccenda: Denis lo tiene regolarmente informato. Chiede:

- Morqos non è riuscito a convincerlo?

- No.

- È incredibile. Ma non è più lucido come un tempo. Allora…

Solomon lascia in sospeso la frase: Denis sa benissimo che cosa vuole dire.

- Allora… lo sai.

- Certo. Meglio che essere torturato dagli uomini del vescovo e poi finire sul rogo.

- Adesso devo capire che fare con Jacques, se è lui che partecipa. Se è così, potrei farmi dire i nomi e avvisare tutti, ma mi chiedo se sia la via migliore.

- Me lo chiedo anch’io.

- Forse è meglio se andiamo avanti con l’altro piano. Presenta alcuni rischi, ma credo che sia un buon modo per far capire a tutti come stanno le cose. Quanto a Jacques… non vorrei che partecipasse, ma non vorrei nemmeno che avvisandolo mandasse a monte il piano.

- Sì, capisco il problema, Denis. Comunque devi avvisare Manrique. Per lui Jacques è un figlio.

- Certo. È bene che lo sappia prima. Però… sarebbe meglio se Jacques non andasse.

- Potresti chiedere a Manrique di metterlo in guardia, senza nessun riferimento preciso. È intelligente ed è in grado di capire.

- Sì, potrei fare così.

Discutono ancora un momento, poi Denis dice:

- Ma…

- Dimmi.

- Come fai a sapere che a Jacques piacciono i maschi?

- Vedo come mi guarda.

- Come ti guarda? Solomon!

Solomon ha un sorriso beffardo.

- Che c’è, Denis?

Denis aggrotta la fronte e dice, scherzoso:

- Se mi dici che ti guarda in un certo modo, lo rimando a San Giacomo domani stesso.

- Non è colpa sua se ha buon gusto. E comunque non può sapere che mi consideri di tua proprietà.

Denis scuote la testa, sorridendo.

- Sul buon gusto non dico niente, perché se negassi, mi darei la zappa sui piedi. Quanto al considerarti di mia proprietà…

Il sorriso scompare:

- Non lo sei, Solomon. E non vorrei che tu lo fossi. Non è uno schiavo quello che voglio. Ma preferisco non sapere chi ti gira intorno.

Denis sa che Solomon lo ama, ma si rende conto di essere a volte geloso e questo lo infastidisce. Gli sembra di essere meschino.

Solomon gli si avvicina e lo bacia: un bacio leggero. Poi lo stringe tra le braccia.

- Denis, sai che ti amo e che gli altri non hanno importanza per me.

Denis annuisce. Sta bene tra le braccia di Solomon e sa che le sue parole sono la verità. Ma il pensiero che possa avere rapporti con altri gli dà fastidio.

Dopo un momento Solomon si stacca, lo saluta con un bacio e se ne va.

 

Denis riflette ancora un momento sul da farsi. Potrebbe farsi dire tutti i nomi da Jacques, posto che sia stato lui a partecipare, e avvisare i giovani uno per uno, ma il vescovo farebbe comunque arrestare Emich e otterrebbe senza difficoltà una piena confessione. È meglio andare avanti con il piano come previsto: sarà un ammonimento per tutti i partecipanti. Emich ormai è perduto.

Chiama Manrique e gli riferisce quanto ha saputo da Solomon. Conclude dicendo:

- Non so se Pierre o Jacques possano aver partecipato a queste riunioni.

Manrique è stupito. Quando il duca gli ha parlato degli incontri, non ha pensato che tra i partecipanti potesse esserci Jacques o Pierre.

- Metterò sotto torchio Jacques e vedrò di scoprire che cosa sa.

- Meglio di no, Manrique: tutto è organizzato con cura e non ci saranno errori. Se davvero Jacques partecipa, gli chiederemo i nomi degli altri dopo. Credo che la lezione non gli farà male, come credo che servirà anche agli altri.

- Non devo avvertirlo, allora?

- No, al massimo potresti metterlo in guardia con un discorso generico.

Manrique è abituato a obbedire a Denis senza discutere. Perciò dopo cena si apparta un momento con Jacques per parlargli:

- Non voglio trattenerti a lungo. So che ogni tanto esci la sera e non vorrei farti mancare un appuntamento.

Manrique sorride, ma Jacques quasi arrossisce.

- No, questa sera non esco.

- Sono stato giovane anch’io, Jacques, e ho bevuto alla coppa fino in fondo. Fai bene a vivere pienamente. Il problema è un altro: la sera tu esci da solo e questo non mi piace. Ti chiedo di evitare di correre rischi inutili. Sai che c’è chi desidera la tua morte.

Jacques annuisce. Manrique gli ha parlato molto francamente della situazione di San Giacomo d’Afrin e dei sospetti che sua madre Jeanne e lo stesso duca nutrono sulla morte di Charles di Soissons: Jacques sa che lo zio Olivier vorrebbe vederlo morto e che probabilmente è stato lui a organizzare l’assassinio dell’uomo che ritiene essere stato suo padre, Charles.

Manrique aggiunge:

- Un’altra cosa: tu e tua madre siete sotto la protezione del duca, che ha molti nemici. Se si scoprisse che il tuo comportamento è criticabile, qualcuno potrebbe servirsi di questo per colpire il migliore di tutti i signori franchi. Non dobbiamo offrire loro armi. Mi hai capito, Jacques?

Jacques annuisce.

- Sì, Manrique. Avete ragione.

Manrique non vuole dire altro. Si rende conto che Jacques è molto pensieroso e teme che il sospetto del duca sia fondato: probabilmente Jacques partecipa alle riunioni segrete. A questo punto può darsi che rinunci ad andare, soluzione che Manrique preferirebbe. Oppure potrebbe decidere di andare lo stesso e allora riceverà una lezione necessaria.

 

 

Ferdinando e Adham sono arrivati a Rougegarde con una dozzina di guerrieri.

- Allora, Denis, che ne pensi di questa convocazione? Il caro Olivier che ci vuole da lui…

- Sono alquanto perplesso, ma andremo a vedere di che cosa si tratta.

- Quando conti di partire?

- Non subito. Prima devo sistemare due faccende qui. Spero che non ti spiaccia rimanere qualche giorno da me.

- No, mi fermo volentieri qui da te, lo sai benissimo. Nel mio palazzo sto da dio, ma variare ogni tanto fa bene. E poi qui ci sono un sacco di maschi che non conosco e…

Denis completa:

- …e variare ogni tanto fa bene.

Ridono tutti e due, poi Denis aggiunge, serio:

- Fa’ attenzione, Ferdinando. Il vescovo mi odia e sta cercando di perdermi. Ora che non ho più il favore del re, ha molte carte da giocare in mano.

- Quel figlio di puttana. Porcoddio, come mi piacerebbe fotterlo! In tutti i sensi.

Parlano un po’ della situazione politica, poi Denis chiede:

- Hai voglia di dare lezione a Pierre e Jacques?

Abitualmente Denis approfitta della presenza a palazzo di Ferdinando e Adham per chiedere loro di far fare un po’ di esercizio a Pierre e Jacques: vuole che i due giovani si abituino ad affrontare avversari diversi e sia il conte, sia Adham, sono eccellenti guerrieri.

- Domani mattina? Ben volentieri.

- Sì, ma pensavo anche oggi, nel pomeriggio.

- Porcoddio, Denis, tu mi vuoi fare schiattare. Con questo caldo fottuto?

In effetti sono giornate particolarmente calde, nonostante la stagione invernale: il cielo è sempre sereno e il vento porta l’aria calda dal deserto. Il mattino si sta bene, ma nel pomeriggio la temperatura sale alquanto e un’attività fisica pesante non è certo il massimo.

- Abbiamo spesso combattuto sotto il sole cocente e anche loro devono abituarsi a farlo. Diciamo che negli esercizi del mattino ci concentriamo più sulle tecniche, quelli che facciamo a metà giornata o nel pomeriggio servono soprattutto per sviluppare la resistenza.

Ferdinando annuisce, rassegnato: a Denis non può negare nulla.

- E va bene.

 

A pranzo Denis informa Pierre e Jacques che nel pomeriggio faranno esercizio con Ferdinando e Adham. Pierre è molto contento di misurarsi con loro: sono due guerrieri valorosi e Ferdinando è un fedele amico di suo padre. 

Jacques invece è a disagio, anche se cerca di nasconderlo. Solo ieri sera questi due magnifici maschi che si troverà ad affrontare sono stati protagonisti di una sua fantasia e al pensiero che dopo l’allenamento, come sempre, si bagneranno e li vedrà nudi, il cazzo già gli si tende. Si dice che eviterà di fare il bagno con loro.

Nel pomeriggio si scontrano nel cortile, sotto un sole che sembra volerli incenerire.

- Porcoddio! Pierre, tuo padre ti odia. Che cosa gli hai fatto, perché abbia deciso di farti crepare?

Pierre ride.

- Conte, non mi dite che non avete mai combattuto sotto un sole come questo.

- Più volte, ma non ero io a scegliere il momento per combattere. Quando i saraceni vengono all’attacco, non puoi mica dirgli: “Io preferirei rimandare a domani mattina sul presto, che è più fresco. Siete d’accordo?”

Pierre scherza:

- Magari, se uno glielo dice offrendogli da bere, mi sa che anche loro…

- Può essere, non ho mai provato. Puoi provare tu, la prima volta che ti trovi ad affrontarli. Poi mi dici se accettano la proposta.

Pierre sorride.

- Ve lo dirò, conte.

 

È Ferdinando a dire, dopo un intenso allenamento:

- Così può bastare. Ci siamo guadagnati la cena di questa sera e abbiamo sudato come maiali. Possiamo lavarci.

In effetti grondano sudore e hanno tutti i capelli bagnati, incollati al cranio: combattere con l’armatura è sempre alquanto faticoso, farlo sotto il sole lo è ancora di più.

Ferdinando si dirige al bagno del duca: nel palazzo di Rougegarde è di casa.

Jacques esita. Riesce a dire:

- Io non vengo.

Lo guardano tutti stupiti. Pierre chiede:

- Non ti lavi, Jacques?

- Pensavo… posso farlo da me.

Ogni appartamento del palazzo è attrezzato, ma il bagno del duca, pensato per accogliere ospiti, è più comodo e gli inservienti sono sempre pronti.

- Ma… abbiamo fatto portare i vestiti puliti qui. Vieni con noi. Che senso ha farti preparare un bagno, quando qui è già tutto pronto?

Ferdinando guarda Jacques e sorride.

- Non mi dirai che non intendi lavarti, giovanotto!

A Pierre Ferdinando dà del tu: lo conosce da quando era bambino. Con Jacques passa dal lei al tu, a seconda delle circostanze. A tavola, in presenza di altri ospiti, tende a essere più formale, perché si adegua all’atmosfera; nella sala d’arme o in cortile, durante le lezioni, usa sempre il tu.

Jacques è sempre più confuso.

- No, no… sì, va bene… vengo.

Passano nello spogliatoio, dove lasciano i vestiti.

Si lavano nella prima vasca, poi Ferdinando dice:

- Il bagno di vapore ve lo lascio. Direi che per oggi ho già sudato abbastanza.

Tutti sono d’accordo e passano nella seconda vasca, una piscina, in cui sguazzano tranquilli, rinfrescandosi.

Poi si asciugano e si stendono o si siedono ai bordi. Si fanno portare da bere e congedano i servitori.

Jacques tiene un asciugamano a portata e cerca di non guardare dalla parte del conte e di Adham, temendo le reazioni del proprio corpo.

Ferdinando osserva:

- Porcoddio, così si sta proprio bene. Certo che abbiamo fatto una sudata…

Intanto si gratta un po’ i coglioni. Jacques lancia ogni tanto un’occhiata dalla sua parte, ma si rende conto di non riuscire a controllarsi, per cui dice:

- Io vado.

Anche Pierre si alza.

- Sì, vengo anch’io.

Ferdinando fissa Adham, sogghigna e dice:

- Noi ci fermiamo ancora un momento.

Poi guarda Jacques e sorride. Sembra un sorriso malizioso.

Jacques si riveste, ma il pensiero va ai due uomini. Pensa che magari adesso scoperanno. I suoi movimenti rallentano. Pierre ha finito di rivestirsi.

- Ci vediamo a cena, Jacques.

Pierre esce. Jacques lo guarda, poi si alza e si dirige verso il bagno. La porta è socchiusa.

Jacques guarda attraverso lo spiraglio.

Adham e Ferdinando sono in piedi. Il conte è dietro al nero e lo tiene tra le braccia, mentre lo bacia sul collo. Ora gli morde una spalla, mentre una mano giocherella con il cazzo e i coglioni, in modo piuttosto brutale. Adham ha chiuso gli occhi e appoggia la testa sulla spalla di Ferdinando.

Il conte si inginocchia. Posa le sue mani sul culo di Adham e lo stringe forte, premendo. Passa la lingua sul solco tra le natiche, poi una mano passa davanti e riprende a giocherellare con l’attrezzatura del nero. Il grosso cazzo di Adham si tende verso l’alto. È davvero magnifico, per lunghezza e volume.

A Jacques manca il fiato. Vorrebbe stringerlo nella mano, sentirne la consistenza, il calore.

Ferdinando si alza. Ora Jacques può vedergli bene il cazzo, duro e messo quasi in verticale. Non ha mai visto nulla del genere. Sapeva bene che il conte è eccezionalmente dotato e ha avuto modo molte volte di vedere il suo cazzo a riposo: tanto grande da apparire inquietante. Ma ora che è teso, vederlo è impressionante.

Jacques sa che Ferdinando ha scopato con tantissimi uomini, ma si chiede come sia possibile accogliere dentro di sé un cazzo di quelle dimensioni. Gli sembra più un’arma, in grado di sventrare un nemico, che uno strumento di piacere.

Il conte pone le mani sulle spalle di Adham ed esercita una pressione. Il nero si piega e si mette a quattro zampe.

Ferdinando si inginocchia dietro di lui. Gli lecca ancora il solco, più volte. La bocca di Adham si schiude in un sorriso. Il piacere dev’essere intenso.

Jacques si rende conto di avere il cazzo duro come una pietra. Gli basterebbe accarezzarlo un attimo per venire.

Guarda il conte che avanza il cazzo fino a che la cappella preme sull’apertura e poi lo spinge in avanti. Quando vede l’arma formidabile affondare nel culo del nero, che geme,  a Jacques sfugge un singhiozzo. Ferdinando volta la testa verso la porta. Jacques si stacca e fugge, come se fosse inseguito dal Saladino in persona.

Solo quando è fuori nel cortile riesce a recuperare un po’ di calma. Senza voltarsi indietro, controllando l’impulso di correre, sale nell’appartamento dove vive con sua madre e Manrique. Si chiude nella sua stanza. Non vuole vedere nessuno. Non vuole che nessuno lo veda. Ansima. L’immagine del grande cazzo di Ferdinando che affonda nel culo di Adham ritorna ossessivamente nella sua testa, scacciando ogni altro pensiero.

 

La notte è scesa. La luna si è levata in cielo e la sua luce apre squarci luminosi nel buio che avvolge la città. Nelle strade si muovono ancora alcuni passanti. Qualcuno procede con una torcia o una lanterna, altri si affidano al chiarore lunare. Lentamente le vie si svuotano, ma a molte finestre brilla ancora la luce.

Emich esce dalla locanda, da solo: Lucas uscirà un po’ dopo, per non dare nell’occhio.

Si guarda intorno, ma non sembra esserci nessuno. Percorre un tratto di strada, poi, svoltato un angolo, si nasconde in una rientranza, dove il buio è completo, e attende. Nessuno passa: non lo stanno seguendo. Morqos gli ha raccontato delle storie, perché ha paura. Hanno tutti paura, questa è la verità. Ma lui non ha paura.

Quando sta per riprendere il cammino, sente dei passi e delle voci. Si ferma. Un gruppo di uomini passa davanti a lui, senza vederlo. Ridono e fanno battute. Da quello che dicono è evidente che stanno andando a un bordello. Emich scuote la testa. L’amore è offerta di sé, non si compra.

Quando sono passati, Emich riprende a muoversi. Dirigendosi verso la chiesa attraversa la piazzetta di Santa Maria Maddalena. Non si accorge che un uomo è appostato in un angolo. Quando Emich ha oltrepassato la piazza ed è scomparso nella via che conduce alla chiesa, l’uomo esce dall’ombra e si dirige al palazzo vescovile.

 

Jacques si è ritirato nella sua camera. Non andrà alla riunione neanche questa sera. Non vuole più andarci. Non è bene che ci vada. Manrique ha ragione.

Ha preso alcuni manoscritti arabi, per fare un po’ di esercizio: su suggerimento del duca ha imparato la lingua, ma nella lettura e nella scrittura è ancora molto incerto. Legge alcune righe, poi si alza e si mette a camminare avanti e indietro. È irrequieto.

Non riesce a scacciare l’immagine di Ferdinando e Adham che scopano. Il desiderio lo assale, violento.

Si siede nuovamente, ma non riesce a concentrarsi. Il desiderio lo incalza. Pensa alla riunione. È ancora in tempo, non è così tardi. Senza fermarsi a riflettere, si getta sulle spalle un mantello con il cappuccio ed esce.

Ricordandosi le parole di Manrique, ogni tanto si volta a controllare che nessuno lo stia seguendo. Poi si cala il cappuccio sulla testa, a coprire il viso.

Giunto alla porta che dà sul cortile della chiesa, si guarda ancora intorno, poi apre e  attraversa lo spazio aperto, illuminato dalla luce lunare. Raggiunge una casa all’estremità opposta del cortile ed entra. Varcata la soglia, Jacques si trova immerso nell’oscurità: solo un po’ di luce filtra dall’unica finestra. La stanza in cui è entrato è piccola, ma una scaletta permette di scendere al piano inferiore. Jacques conosce l’ambiente. Non accenda la lanterna che ha con sé e scende i gradini tenendo una mano sul muro. Al fondo della scala può vedere in lontananza un tenue chiarore: proviene da una sala a pianta quadrata, che si trova in fondo a un corridoio.

Ci sono molte sale sotterranee nella città. Rougegarde è molto antica e ha conosciuto anche in passato diversi periodi di splendore. Numerosi palazzi di pietra nascondono vasti locali ricavati nel sottosuolo: alcuni servivano come magazzini, altri offrivano un po’ di frescura nei mesi più caldi. Qualcuno probabilmente serviva anche come nascondiglio.

Jacques sa che esiste un’intera rete di cunicoli e passaggi, a volte tanto grandi da permettere di muoversi a cavallo. Dicono che sia possibile entrare e uscire dalla città anche quando le porte sono chiuse e spostarsi da un punto a qualsiasi altro. Forse sono esagerazioni. L’unico che può saperlo è il duca, che ha fatto esplorare tutta la rete di gallerie, facendo alcuni lavori per la sicurezza del palazzo e della città.

Quando Jacques entra nella sala, ci sono già otto uomini: sette giovani ed Emich, che è l’officiante della cerimonia.

Al centro del locale Emich ha tracciato sul pavimento con la cenere una stella a otto punte. Su ogni punta è accesa una candela, la cui luce rischiara appena l’oscurità che regna nella sala, lasciando la volta nell’ombra.

Jacques si avvicina agli altri. A un cenno del maestro, ognuno degli otto giovani si dispone lungo la parete, in corrispondenza di una delle punte della stella. Il vecchio si mette al centro e fa scivolare il cappuccio sulle spalle. Si guarda intorno, sorride, poi intona il canto:

- Servite Domino in laetitia

La sua voce si leva nella sala sotterranea.

Anche gli altri fanno ricadere il cappuccio del mantello sulle loro spalle, rivelando i loro giovani visi: sono tutti tra i venti e i venticinque anni. Poi essi si avvicinano al centro della sala e si prendono per mano, formando un grande cerchio. Le loro voci si uniscono a quelle dell’anziano.

Quando infine il canto si spegne, tutti abbassano le braccia, separandosi. Emich si muove, a passi lenti. Prende uno dei giovani per la mano e lo guida fino ad un altro, unendo le loro mani. Recita:

- Io sono del mio amato

e il mio amato è mio;

egli pascola tra i gigli…

Poi prende un altro giovane e ripete gli stessi gesti, proseguendo finché tutti sono disposti a coppie, mentre continua a recitare:

- Inebrianti sono i tuoi profumi per la fragranza,

aroma che si spande è il tuo nome:

Trascinami con te, corriamo!

A quelle parole, gli uomini di ogni coppia si stringono l’uno all’altro, poi si dirigono ai quattro angoli della sala, dove regna l’oscurità. Qui si tolgono i mantelli che li coprono e li stendono a terra, poi finiscono di spogliarsi. Alcuni hanno il sesso già eretto.

Il vecchio continua a recitare:

- Mi baci con i baci della tua bocca!

Sì, migliore del vino è il tuo amore.

Gli uomini di ogni coppia si baciano, un bacio ardente. Jacques stringe Lucas e per la prima volta le sue mani percorrono questo corpo armonioso e forte che accende il suo desiderio: fino a ora il maestro non aveva mai unito la mano di Jacques a quella di Lucas.

- Io sono del mio amato

e il suo desiderio è verso di me.

Vieni, amato mio, andiamo nei campi,

passiamo la notte nei villaggi.

Lucas stringe il corpo di Jacques, le sue mani lo accarezzano. Poi lo spinge a sdraiarsi sul mantello e si stende accanto a lui. Le loro labbra si cercano ancora, le loro bocche si uniscono, la lingua di Lucas si spinge tra i denti di Jacques.

- Mettimi come sigillo sul tuo cuore,

come sigillo sul tuo braccio;

perché forte come la morte è l’amore,

tenace come il regno dei morti è la passione:

le sue vampe sono vampe di fuoco,

una fiamma divina!

Jacques si gira, in modo che la sua testa ora si trovi davanti al sesso di Lucas. Guarda il cazzo teso e lo accoglie tra le labbra. Incomincia a succhiarlo, mentre le sue mani accarezzano il corpo del compagno. Sente le labbra di Luca avvolgere il suo cazzo e muoversi. Il desiderio cresce ancora.

La voce, che sembra venire da molto lontano, prosegue:

- Le grandi acque non possono spegnere l’amore

né i fiumi travolgerlo.

Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa

in cambio dell’amore, non ne avrebbe che disprezzo.

Jacques è sul punto di venire. Le labbra di Lucas gli trasmettono sensazioni fortissime. Geme e il seme sgorga. Lucas non si ritrae. Poco dopo sente la scarica. Inghiotte, ogni goccia del seme. Non l’aveva mai fatto.

Si gira nuovamente e ora le sue labbra cercano quelle di Lucas, in un bacio appassionato.

E mentre le sue mani scorrono sul corpo stretto al suo, la porta si apre e un uomo irrompe nella sala. Ha un cappuccio calato sulla fronte e alla fioca luce è appena visibile.

Tutti voltano il capo verso di lui e lo guardano sbigottiti.

L’uomo parla, forte:

- Presto, rivestitevi! Subito! Dovete uscire. Le guardie del vescovo stanno venendo qui.

Jacques trattiene a stento un grido e si sente gelare: non solo per la minaccia incombente, ma perché ha riconosciuto la voce di Manrique.

Esclamazioni e grida soffocate accompagnano le parole del comandante della guardia del duca. Tutti hanno capito il pericolo che corrono.

Manrique si è avvicinato a Jacques, che si riveste in fretta. Si assicura che il giovane non dimentichi nessun oggetto personale. Dice di nuovo forte, a tutti:

- Cancellate ogni traccia di quanto è accaduto. Non lasciate nulla.

Con il piede Manrique cancella la stella, disperdendo la cenere. I giovani collaborano a eliminare ogni segno della loro presenza.

Manrique controlla con cura tutta la sala. Poi ordina:

- Prendete le candele e seguitemi.

Escono dalla sala e i primi fanno per dirigersi verso la scala, ma Manrique li richiama:

- Non di lì. Le guardie potrebbero già essere giunte. Da questa parte.

Proseguendo lungo il corridoio nella direzione opposta a quella da cui sono arrivati, vedono al fondo un’apertura che non hanno mai notato: una porta segreta.

Manrique li fa passare tutti, poi richiude il passaggio e lo blocca.

Ora sono in un corridoio basso. Alcune candele si sono spente e la luce è troppo debole per riuscire a vedere in lontananza.

Manrique procede con sicurezza. A un certo punto svolta a sinistra. Sale una scaletta e apre una porta. Si trovano in una stanza, da cui passano in un’altra. Infine Manrique apre una porta, che dà su una strada.

- Uscite uno per volta e disperdetevi subito. Non aspettatevi, non rimanete insieme. E se sarete interrogati, negate tutto. Ne va delle vostre vite.

Manrique li fa uscire uno per volta nella via, immersa nel buio. Aspetta che chi è uscito si sia allontanato e controlla ancora che non arrivi nessuno, prima di lasciare uscire il successivo.

Chi esce si muove in fretta, allontanandosi dal luogo della riunione. Tutti hanno bisogno di un momento per capire dove si trovano, ma dopo aver percorso un tratto di strada, individuano qualche punto di riferimento e si dirigono verso le loro case.

Jacques è l’ultimo dei giovani. Manrique gli dice.

- Vieni con me.

Jacques annuisce. Manrique aggiunge:

- Copriti bene il viso con il cappuccio.

Fuori, vicino alla porta, ci sono altri due uomini. Per un attimo Jacques pensa che siano arrivate le guardie del vescovo e che sia troppo tardi, ma Manrique fa un cenno e i due si avvicinano. Hanno il viso in parte nascosto dal cappuccio del mantello, ma nel più basso Jacques riconosce un altro degli uomini del duca.

- Seguili. Vi raggiungerò subito.

Jacques segue i due uomini che si avviano verso il palazzo ducale.

 

Manrique fa cenno ad Emich di Freiburg, che esce per ultimo e si allontana in direzione opposta a Jacques. Non sa dove si trova, ma lo capirà. Non hanno fatto molta strada nel corridoio, non possono essere lontani dalla chiesa.

Le mani gli tremano. Non è la morte a spaventarlo: ha oltre sessant’anni ed è vissuto più di tanti altri che con lui hanno compiuto il passaggio in Oltremare. Sa che la sua ora non è più lontana. Ma il vescovo lo farà arrestare e lo torturerà. Emich vorrebbe poter resistere alla tortura, non trascinare nella rovina i giovani che hanno creduto in lui. Ma nella lotta mortale che oppone il duca al vescovo, Emich sa di essere un’arma di cui il vescovo si servirà per colpire.

Manrique ha chiuso la porta e lo segue.

Emich sente i passi dietro di sé e riconosce l’uomo che è venuto ad avvisarli. D’improvviso capisce: è venuto a ucciderlo, a impedirgli di rivelare i nomi

Emich ha paura, ma sa che è la soluzione migliore. Eviterà la tortura e la morte sul rogo. Per lui è comunque finita. È davvero meglio così. Eppure sente che le gambe gli cedono. Si appoggia al muro. Guarda l’uomo che ormai è davanti a lui. È buio, Emich non può vedergli gli occhi. Emich sente la paura stringergli le viscere, ma non cerca di sottrarsi: solo la sua morte può salvare gli altri e risparmiargli le torture.

Manrique sfodera la spada e con un movimento rapido gliela infila nel torace, trapassandogli il cuore. Emich sente il dolore violento, che scompare rapidamente. Crolla a terra.

 

Manrique raggiunge Jacques e le guardie quando stanno per arrivare al palazzo. Jacques è in imbarazzo. Quest’uomo, che per lui è un padre, lo ha visto abbracciato a Lucas, nudo.

Manrique ordina alle guardie di rimanere indietro, per controllare che nessuno li segua. Una precauzione probabilmente inutile, ma è meglio essere sempre attenti a tutto e cercare di prevedere anche l’imprevedibile.

Manrique e Jacques raggiungono il palazzo ducale. Prima di entrare, Jacques solleva il cappuccio, ma Manrique glielo abbassa di nuovo sul viso. Jacques si stupisce. È possibile che qualcuno nel palazzo sia disposto a tradirlo? No, Jacques lo esclude. Ma la prudenza di Manrique è un segno di saggezza. Jacques sa di non essere stato altrettanto accorto.

Le guardie aprono la porta a Manrique. Entrano. Senza dire nulla, Manrique guida Jacques fino a una stanza dove il duca li attende. Si inchina davanti a Denis d’Aguilard e gli dice:

- Tutto a posto. Nessuno ci ha sorpreso e le guardie del vescovo troveranno la casa vuota, senza traccia alcuna che permetta di capire chi vi è stato questa notte. Ho fatto tutto quanto era necessario.

- Grazie, Manrique. Ora lasciaci soli.

Manrique s’inchina e se ne va.

Jacques non si aspettava di trovarsi faccia a faccia con il duca.

- Sedetevi, Jacques.

Jacques esita, ma il duca si siede e ripete l’invito con un semplice gesto della mano. Il giovane obbedisce. Tiene gli occhi bassi. Non osa alzare lo sguardo sul duca. Manrique non ha raccontato nulla di ciò che ha visto, ma di sicuro il duca già sa.

Dalla voce di Denis d’Aguilard non traspare irritazione.

- Siete stato imprudente, barone.

Jacques annuisce.

- Perdonatemi. Non avrei dovuto andare. Non avrei… Sono indegno, duca.

Denis sorride.

- Nessuna indegnità, barone. Vi faccio colpa della vostra leggerezza, che avrebbe potuto perdere voi e tanti altri. Sapete benissimo che il vescovo vorrebbe cacciare da questa città almeno metà della popolazione, accendere roghi e innalzare patiboli.

Jacques annuisce. Denis continua:

- Jacques, per voi la vita sarebbe più semplice se foste il figlio di un mercante o di un cavaliere al mio servizio. Ma voi siete un barone che io ho accolto nella mia residenza e dovete essere molto più prudente, perché sono molti a volervi colpire, per rovesciare me.

Jacques fa fatica a parlare, ma cerca le parole:

- Manrique mi aveva avvertito. Io… non riuscivo a…

- Avete vent’anni, Jacques. Il corpo ha le sue esigenze. Ma dovete imparare a essere il padrone del vostro corpo e non il suo servitore. Dovete imparare in fretta, più dei vostri coetanei, perché l’essere barone e mio ospite vi carica di un fardello che non dovreste portare. Mi spiace, Jacques, ma è così.

Jacques china il capo. Denis gli sorride.

- Ho chiesto a Manrique di potervi parlare io, per risparmiargli un compito che gli sarebbe stato gravoso e perché credo che il profondo affetto che nutre per voi lo avrebbe reso troppo rigoroso. Adesso ancora alcune cose, Jacques. In primo luogo vi chiedo di non uscire dal palazzo nei prossimi giorni senza avvisarmi. Lasciate che io vi guidi. 

- Sì, mio signore.

- No, Jacques. Non chiamatemi signore. Siete un barone e non siete mio vassallo.

- Sì, duca. Perdonatemi.

Jacques vorrebbe ancora parlare. Il duca lo ha rimproverato per l’imprudenza commessa. Non ha detto nulla su ciò che stava facendo quando è arrivato Manrique.

- Duca, prometto che cercherò di vincermi…

Denis d’Aguilard lo interrompe.

- Non dovete vincervi, Jacques. Dovete vivere la vostra vita. È ben altro quello che vi chiedo.

Jacques lo guarda, incerto: non è sicuro di aver compreso.

- Jacques, se il vostro corpo desidera quello di un altro maschio, dategli ciò che desidera. Non sarò certo io a biasimarvi per questi gusti.

Denis ha un sorriso ironico, poi prosegue, senza più sorridere:

- Ma non correte rischi per questo.

Poi Denis aggiunge:

- Ora ditemi i nomi degli altri. So che c’era Nicolas, il figlio del mercante di stoffe Robert.

Jacque annuisce.

- Chi altri?

Jacques dice i nomi che conosce.

- Mi avete detto tutti i nomi, Jacques?

- Sì, quelli che c’erano questa sera.

- C’è qualcuno che è venuto altre volte?

- Siamo sempre stati gli stessi. Una sola volta…

Jacques non riesce a continuare. Ha le lacrime agli occhi.

- Ditemi tutto, Jacques.

- Una volta ho portato Pierre. L’ho portato io. Ora capisco che sono stato folle.

Di colpo si rende conto che non regge più. Dalla sedia scivola a terra e si mette in ginocchio davanti al duca.

- Vi chiedo perdono, duca.

- Siete perdonato, ma alzatevi, perché non mi piace vedervi in ginocchio, neanche davanti a me.

Jacques si alza. Denis riflette un attimo e dice:

- Credo che staranno tutti zitti. Spero che anche Nicolas abbia capito e non apra più bocca.

- Nicolas?

- È stato lui a lasciarsi sfuggire qualche accenno. Niente di particolarmente compromettente, ma sufficiente a mettere in allerta il vescovo che aspetta solo un’occasione per perdermi. Le sue spie hanno fatto il resto, Jules Randonnay soprattutto.

Denis sorride di nuovo.

- Ora andate, barone.

- Grazie, duca.

Jacques esce. Manrique è fuori dalla porta. In silenzio si dirigono all’appartamento dove vivono.

- Jacques, il duca ti ha detto quanto c’è da dire e io gli ho promesso che non avrei aggiunto altro. Spero che tu abbia capito.

Jacques annuisce, tenendo la testa bassa. Prova vergogna. Ha le lacrime agli occhi.

Manrique se ne accorge e gli passa una mano tra i capelli, in una carezza leggera. Vuole bene a Jacques come se fosse suo figlio ed è grato al duca di avergli parlato, risparmiandogli un compito che non avrebbe svolto volentieri.

- Tutti sbagliamo, Jacques. L’importante è imparare dagli errori commessi.

Jacques non riesce a parlare. Sa che si metterebbe a piangere.

- Cerca di dormire, Jacques. La faccenda è risolta.

Nella sua camera Jacques si siede su una sedia e guarda la candela che lentamente si consuma. Ripensa alle parole del duca e a quelle di Manrique. Ha una grande confusione in testa.

Si spoglia e si mette a letto. Si dice che non dormirà facilmente, ma scivola in fretta in un sonno ristoratore.

 

Manrique passa nella camera dove dorme con la moglie. Sussulta vedendo che, malgrado l’ora tarda, Jeanne è seduta su una sedia, accanto al letto.

- Ancora sveglia?

Jeanne sorride e annuisce.

- Come vedi. Ti aspettavo, Manrique.

- Ma perché… ti avevo detto che sarei rientrato tardi. Avevo da fare per il duca. Non avresti dovuto…

Jeanne sorride. Ama Manrique e ne conosce i molti pregi e i limiti.

- Proprio perché avevi da fare per il duca ti ho aspettato.

Manrique corruga la fronte.

- Non capisco.

- Pensi davvero che non mi renda conto di quello che succede? Che non mi accorga di quando sei preoccupato? E lo eri per Jacques.

Manrique si rende conto che è inutile cercare di negare. Sorride.

- È vero.

- Tutto è a posto?

- Sì, tutto è a posto.

Jeanne chiede, anche se conosce già la risposta:

- Perché non mi hai detto niente?

- Sai che non posso parlare di ciò che faccio per il duca. E poi non volevo che tu ti preoccupassi.

- Sapevo che c’era un problema ed ero certa che tu e il duca avreste gestito la faccenda nel modo migliore, ma non potevo non essere preoccupata per Jacques. E anche per te.

- Per me?

- Manrique, non sei andato a fare due passi o una serenata a un’amante.

Manrique sorride:

- Se nessuno ha fatto una serenata sotto la tua finestra, significa che non ho fatto serenate alla mia amante. Però adesso sono venuta a trovarla.

Anche Jeanne sorride.

- La tua amante è contenta di ritrovarti, come ogni notte. Sei un amante fedele.

Manrique si china su Jeanne e la bacia.

Manrique sa che dovrà parlarle di Jacques, ma non ora. Adesso è il desiderio che preme, che si è acceso in lui, inatteso.

Jeanne ha capito. Sorride. Non è necessario parlare ora. Lo faranno più tardi o domani.

 

Intanto le guardie del vescovo sono giunte alla porta del cortile. Procedono in silenzio: non vogliono che nessuno si accorga del loro arrivo. Entrano nell’edificio dove si sono ritrovati i giovani, poi scendono la scala e raggiungono la porta che dà accesso alla sala sotterranea. Hanno le lanterne.

L’ufficiale che li guida appoggia l’orecchio alla porta. Bisbiglia:

- Non si sente niente.

Spinge la porta e gli uomini si precipitano dentro. La sala è deserta.

- Merda!

L’ufficiale sa di non essersi sbagliato: ha già visitato la sala e le poche tracce che ha trovato durante la prima visita dimostravano che qualcuno era stato nella stanza. Adesso non si vede nulla. Eppure il vecchio bastardo è uscito dalla locanda e deve essere venuto qui. Non lo hanno seguito per non rischiare di essere scoperti, ma l’uomo appostato lo ha visto entrare nella via che portava qui.

Il vescovo sarà furente. Esaminano con cura la stanza, ma non c’è nessun elemento utile. Gocce di cera sul pavimento fanno pensare che qualcuno abbia usato delle candele. Ma quando? E, soprattutto, chi? Nessun elemento per capirlo.

Quando escono, incontrano le guardie del duca, capitanate da Pierre da Caen: è la ronda notturna. L’ufficiale spiega che qualcuno ha segnalato due ladri nel cortile della chiesa di Santo Stefano e loro sono venuti a vedere.

Pierre non dice nulla: gli uomini del vescovo non hanno violato nessuna regola. Ma quando sono andati via, Pierre dice:

- Facciamo un giro qui intorno. Vorrei capire che cosa stavano facendo davvero. Venti uomini per due ladri? Non mi sembra credibile.

Girano per le vie vicine e poco dopo vedono a terra il cadavere di un uomo.

- Fa’ luce, Mathieu.

Il soldato illumina con la lanterna il viso del morto, che Pierre ha rovesciato sulla schiena.

Pierre esclama:

- Emich di Freiburg! Morto da poco.

Poi aggiunge:

- Un uomo che il vescovo odiava. E tutte quelle guardie del vescovo che giravano proprio qui intorno.

Non dice altro. Non è necessario.

Il giorno dopo Rougegarde scopre che Emich di Freiburg è stato ucciso e che poco dopo la sua morte la ronda notturna ha incrociato le guardie del vescovo in una via vicina. Tutti mormorano che il vescovo ha fatto uccidere Emich. Un assassinio in piena regola.

 

Nella casa del mercante Giovanni la notizia ha turbato molti.

Per quanto negli ultimi anni Emich non avesse più un ruolo centrale nella rete di rapporti esistente nella casa, era comunque benvoluto da tutti e la sua camera era ancora un luogo d’incontro. Mariette vi entra per raccogliere le cose di Emich. Si guarda intorno e le vengono le lacrime agli occhi. Sa bene che ormai Emich costituiva un pericolo per tutti loro, ma nel fissare il letto, la sedia, lo scrittoio, i manoscritti, riemergono le immagini di un’altra epoca, in cui quello spazio era un mondo incantato, di pace e serenità.

Anche Tristan è rimasto molto colpito dalla morte di Emich. Quando era solo un servitore ed è arrivato alla locanda, in un periodo molto buio della sua vita, ha trovato in Emich un punto di riferimento importante. Da alcuni anni gestisce la locanda insieme a Mariette e ha trovato in Istfan un compagno, ma ha sempre continuato a frequentare Emich e gli era molto affezionato.

Anche Nino è sconvolto e per lui al dolore per la morte di Emich si somma la paura. Si pone molte domande: che cosa sa davvero il vescovo? C’è il rischio che venga a conoscere i nomi dei partecipanti? Che cosa li aspetta se li scopriranno?

 

Su incarico di Denis, Morqos parla con Lucas.

- Lucas, come sospettavo il vescovo sapeva degli incontri che si tenevano. Siete stati allontanati appena in tempo: so che le sue guardie sono arrivate poco dopo.

Lucas ha gli occhi arrossati. Ha passato una notte molto agitata, perché non ha visto tornare Emich, e in mattinata ha saputo della sua morte.

- Sono stati loro a uccidere Emich.

Anche se nessuno gliel’ha raccontato, Morqos ha le idee piuttosto chiare su quanto è successo: sceglie però di confermare l’ipotesi di Lucas.

- Senza dubbio. Probabilmente volevano fermarlo e lui ha cercato di scappare. Oppure erano furenti perché vedendolo hanno capito che la riunione era stata interrotta e non avrebbero sorpreso più nessuno. Non lo sapremo mai, non saranno certo le guardie del vescovo a raccontarcelo.

- Ma come hanno saputo?

- Qualcuno ha parlato. E la settimana scorsa una spia del vescovo vi ha visti uscire insieme e raggiungere la chiesa di Santo Stefano. Così hanno deciso di tendervi una trappola. Fortunatamente è stato possibile sventare il piano. Purtroppo le guardie del vescovo hanno trovato Emich.

Lucas annuisce. Si sente in colpa: Morqos lo aveva avvertito, gli aveva detto di convincere Emich a disdire la riunione. Lucas ci ha provato senza convinzione e ha rinunciato subito.

- Lucas, il vescovo non conosce i nomi degli altri, per fortuna. Ma sa che tu eri con Emich e che attraverso di te può risalire anche agli altri. Certamente chiederà al re l’autorizzazione per arrestarti.

Lucas guarda Morqos, sgomento.

- Potrebbero arrestarmi, quindi? Torturarmi?

Morqos non può saperlo. Il rischio è comunque reale e per il bene di Lucas e degli altri, è necessario che il vescovo non possa mettere le mani su di lui.

- Se otterrà l’autorizzazione ad arrestarti, ti farà senz’altro torturare e confessare. Confessare tutto: ciò che è vero e ciò che non lo è. La tortura è terribile e pur di mettere fine al dolore tutti confessano. Lui vuole infangare la memoria di Emich per colpire il duca che lo proteggeva e affermare il suo potere in questa città.

Lucas rabbrividisce. Ha sentito parlare delle torture dei tribunali religiosi, sa che ci sono stati roghi di uomini sorpresi mentre avevano un rapporto carnale.

Morqos dice:

- È necessario che tu te ne vada.

Lucas annuisce. Aveva intenzione di stabilirsi a Rougegarde, ma adesso che Emich è stato ucciso, nulla lo trattiene in questa città, anzi: preferisce lasciarsi alle spalle il ricordo doloroso della sua morte.

- Sì, partirò domani. O pensi che sia meglio che me ne vada oggi stesso?

- Puoi partire domani. Il vescovo dovrà chiedere l’autorizzazione al re per farti arrestare. Ci vorrà qualche giorno.

- Allora me ne andrò domani.

Lucas si chiede che cosa fare. Voleva visitare i territori saraceni, ma non desidera rimanere ancora oltremare. Raggiungerà la costa e si imbarcherà per Venezia o per Genova. E poi vedrà.

 

 

Ferdinando e Adham stanno dando lezione a Pierre e Jacques nella sala d’armi. Denis ha chiesto loro di prendere il posto suo e di Manrique: dopo quanto è successo nella notte, preferisce essere pronto a intervenire se ci fosse qualche sviluppo inatteso.

Pierre è contento di affrontare di nuovo questi due guerrieri, che hanno modi di combattere molto diversi. Ferdinando conta molto sulla forza e i colpi che vibra sono micidiali: quando colpisce in pieno la sua spada, Pierre fa fatica a tenerla in mano, per quanto sappia bene come dovrebbe fare. Adham è un avversario altrettanto temibile, meno forte, ma più agile e molto abile nel maneggiare le armi.

Pierre si dà da fare: non vuole fare brutta figura con questi due vigorosi guerrieri, perché tiene molto alla loro stima. In effetti Ferdinando e Adham sono spesso stupiti dell’abilità di questo giovane guerriero, ma sanno che il duca combatteva già quando era un ragazzino e il figlio di Denis d’Aguilard, duca di Rougegarde, non può non essere un avversario temibile. Il padre è il terrore dei saraceni, che lo chiamano il Cane dagli occhi azzurri, e la sua presenza in battaglia è sufficiente a gettarli nel panico. Quando il Saladino attaccò il regno dall’Egitto e assediò Ascalona, Denis guidò un piccolo numero di cavalieri e fanti contro l’esercito saraceno, dieci volte più grande, e riuscì a volgerlo in fuga.

Anche Jacques tiene a fare bella figura con il conte e il bel nero, ma oggi fa fatica a concentrarsi. Il ricordo della serata appena trascorsa lo turba: ripensa al rapporto con Lucas, all’arrivo di Manrique, al dialogo con il duca. E ogni tanto ritorna l’immagine di Ferdinando che fotte Adham. Dentro di lui si agitano mille pensieri diversi.

Pierre si accorge in fretta che Jacques ha la testa altrove. In una pausa gli dice:

- Che ti succede, Jacques? Oggi mi sembri distratto.

Jacques annuisce. Si rivolge a Pierre e ai due guerrieri, accampando una scusa:

- Sì, scusate. Ho dormito male.

La lezione procede. Jacques cerca di concentrarsi nell’azione. Dopo Pierre si trova ad affrontare Ferdinando, che gli fa cadere tre volte la spada, e poi Adham, che lo incalza senza dargli tregua: se fossero stati veri scontri, sarebbe morto da un bel pezzo. Si rende conto di aver fatto una brutta figura, ma nessuno degli altri sembra badarci. 

Infine Ferdinando dice:

- Direi che per oggi abbiamo lavorato abbastanza e ci siamo guadagnati l’ospitalità del duca, anche se Jacques ha battuto la fiacca. Adesso ci laviamo e ce ne stiamo un po’ tranquilli in acqua.

Passano nel bagno, dove gli inservienti hanno già preparato tutto.

Si lavano e chiacchierano. Jacques si sente a disagio. Evita di guardare Adham e Ferdinando, ma in mente gli ritorna continuamente ciò che ha visto la sera prima. Si rende conto che il cazzo gli si sta irrigidendo. Lo copre con un telo, ma si vergogna.

Un servitore arriva per avvisare Pierre che il padre desidera parlargli, quando avrà finito con il bagno. Pierre non ha motivo per fermarsi oltre, per cui saluta ed esce.

Jacques esita un attimo, poi, tenendo il telo davanti a sé, si alza e saluta.

Ferdinando lo guarda ridacchiando e dice:

- Devi proprio andare?

Jacques non sa che cosa rispondere.

- Perché non ti fermi? Lo spettacolo di ieri ti è piaciuto, no? Se ti fermi, lo vedi meglio. Spiare da dietro la porta non è il massimo.

Jacques si sente arrossire.

Il conte scoppia a ridere, la sua fragorosa risata.

- Non devi vergognarti, Jacques. Due che scopano sono sempre un bello spettacolo e credo che noi due lo siamo proprio, non è vero, Adham?

Adham scuote la testa e ride, senza dire nulla.

Ferdinando prosegue:

- E poi, se ti fermi, magari puoi partecipare anche tu.

Jacques è spaventato. Pensa ai due formidabili cazzi che ha visto all’opera. Non se la sentirebbe proprio di farsi penetrare.

- No, io…

Jacques non sa come continuare. Ferdinando ghigna e dice:

- Vedi, ad esempio, se ti fermi, puoi farti accarezzare un po’ con le mani… e con la lingua.

Ferdinando si inginocchia dietro a Jacques e la sua lingua scorre sul solco.

Poi il conte si stacca un attimo e dice:

- Magari Adham ha voglia di succhiarti un po’ il cazzo.

Adham sorride, scuote la testa e si mette davanti a Jacques, che ha lasciato cadere a terra il telo. Gli prende la cappella in bocca e incomincia a lavorarla con la lingua e le labbra.

Jacques è paralizzato. Le mani di Ferdinando e quelle di Adham scorrono lungo il suo corpo. Grandi mani, forti, scurite dal sole quelle del conte, scure di pelle quelle del guerriero. Mani che gli stringono il culo, accarezzano le cosce, stuzzicano i capezzoli, giocano con i coglioni. E le due bocche che lavorano, una davanti, che avvolge e succhia, e l’altra dietro, con la lingua che scorre lungo al solco, in una carezza umida che gli trasmette un brivido. Jacques sente il piacere crescere. Gli sembra di non riuscire a reggersi e forse sono davvero queste quattro mani a sostenerlo.

Jacques geme, mentre il piacere lo avvolge e infine lo squassa. Viene nella bocca di Adham, che beve il seme.

Jacques non riesce più a stare in piedi e Ferdinando lo depone dolcemente a terra. Adham è rimasto in ginocchio e Ferdinando si mette davanti a lui. Adham avvolge con le labbra il cazzo del conte e incomincia a succhiare. Ferdinando gli accarezza la testa e gli scompiglia i capelli.

Appagato, Jacques guarda questi due splendidi maschi che scopano. Ogni tanto Adham lascia il cazzo del conte, che appare in tutta la sua grandiosa forza, una grossa vena che corre su un lato, la cappella di colore più scuro, un luccicore dovuta alla patina di saliva che lo ricopre. Nuovamente Jacques si chiede che cosa si prova accogliere in culo un cazzo come quello del conte. Per quanto forte sia la voglia di provare, non se la sentirebbe.

Ferdinando emette un suono sordo, una specie di grugnito, e riempie la bocca di Adham del suo seme. Poi guida Adham a stendersi supino e si inginocchia accanto a lui. Le sue mani giocherellano un momento con il cazzo del nero, poi è la sua bocca a inghiottirlo. La lingua, le labbra e i denti lavorano. Ferdinando lecca, succhia, morde e Adham si tende, fino a che viene.

Allora Ferdinando si stende tra lui e Jacques. Prende una mano di Jacques e la posa sul proprio cazzo. Poi con le mani afferra i cazzi dei suoi due compagni.

Jacques esita un momento, poi stringe con forza il cazzo del conte. È magnifico tenere in mano questa bestia calda, ancora turgida e umida. Ed è bello anche sentire la mano forte del conte che lo accarezza. Jacques si rende conto che il cazzo gli si sta irrigidendo nuovamente. E con stupore si accorge che la stessa cosa succede al conte, anche se questi è venuto da pochi minuti: il cazzo si riempie di sangue e si irrigidisce. Jacques stringe con più forza.

La mano del conte lavora decisa e nuovamente Jacques sente la tensione crescere. Ma il conte si limita ad accarezzare ancora un po’, poi toglie la mano e si alza, imitato da Adham. Ce l’hanno tutti e tre duro. Che cosa intende fare il conte? Intende metterglielo in culo? Jacques non se la sentirebbe, avrebbe paura. Non dice nulla, un po’ imbarazzato.

Ferdinando si china e gli accarezza ancora l’uccello. Jacques sente la tensione crescere e infine il piacere esplode nuovamente.

Ferdinando lascia la presa, gli sorride e si riveste, imitato da Adham. Hanno tutti e due il cazzo duro, che con dispiacere Jacques vede sparire nelle braghe. Scoperanno in camera? Jacques si riveste, sollevato e appagato. Ma avverte anche una punta di delusione: qualche cosa gli è mancato.

Quando sono nella loro camera, Adham dice a Ferdinando:

- Pensavo che gliel’avresti messo in culo.

Ferdinando scuote la testa.

- No, è troppo giovane, non deve esserselo mai preso in culo ed è sotto la protezione di Denis.

Adham ghigna.

- Di solito non hai tutto questo autocontrollo.

Ferdinando ride.

- No, di solito no, ma lo sai benissimo: non ho un debole per i ragazzi. Se avesse dieci anni in più, sarebbe stata un’altra faccenda. Ma così… non vale proprio la pena. No, preferisco un bel culo nero.

Adham ride.

- Devo spogliarmi di nuovo?

- Non occorre.

Ferdinando lo afferra e gli cala le braghe, gli solleva la tunica e lo spinge ad appoggiarsi sul letto. Gli passa due volte la lingua sul solco, inumidendo bene il buco, poi si abbassa le brache e lentamente infilza il bel culo del nero. Muove il culo avanti e indietro, in un movimento interminabile, fino a che il piacere deborda. La sua mano passa davanti e stringe con forza il cazzo di Adham, che viene con un gemito.

Nei primi tempi del loro rapporto per Adham era difficile accettare che Ferdinando lo prendesse, anche se gli piaceva: gli sembrava che non fosse degno di un maschio. Perciò si scambiavano spesso i ruoli e ognuno dei due offriva il suo culo e infilzava quello dell’altro. Progressivamente Adham si è abituato ad essere posseduto e ormai solo di rado gusta il culo del conte: preferisce sentire dentro di sé il cazzo poderoso che accende il suo corpo e non è raro che venga mentre Ferdinando lo fotte.

In passato Ferdinando si è talvolta offerto ad alcuni maschi e non gli dispiace sentire un bel cazzo che forza l’apertura e penetra dentro di lui, ma preferisce essere lui a inculare e gli capita sempre più di rado di farsi penetrare.

 

Mentre Jacques è nella sala d’arme per la lezione, Manrique racconta a Jeanne la serata precedente. È stata lei a chiederlo e Manrique ritiene che, in quanto madre di Jacques, abbia il diritto di sapere. Teme l’effetto che le sue parole potrebbero avere su Jeanne, ma la donna appare serena. Ascolta attenta, senza mostrare sorpresa.

Manrique racconta l’essenziale, a parte la morte di Emich, e poi osserva.

- Non mi sembri stupita.

- Della riunione? Non ne sapevo nulla, ma avevo capito che c’era qualche cosa di grosso. E, conoscendo di fama Emich, non mi sorprende che abbia organizzato una cosa del genere. Un'azione sconsiderata, che creerà non pochi problemi al duca, temo.

- Per fortuna gli uomini del vescovo sono arrivati tardi.

- Il vescovo era informato delle riunioni. Non pensi che chiederà al re di poter arrestare Emich, per estorcergli la verità?

Manrique esita un attimo, poi dice:

- Emich è morto, è stato ucciso nella notte.

Jeanne aggrotta la fronte. Si chiede come Manrique lo possa sapere, visto che in mattinata non è ancora uscito dalla camera, ma preferisce non chiedere. Non è importante e tutto sommato preferisce non avere una conferma di ciò che ha intuito.

- Forse è meglio così, anche per lui.

- Esatto.

Manrique preferisce sviare il discorso, tornando a ciò che tocca più da vicino Jeanne.

- Comunque, quando dicevo che non mi sembri stupita, pensavo a Jacques.

Jeanne annuisce.

- Non sono stupita, è vero. Da tempo ho notato che Jacques sembra poco interessato alle donne. E a volte nel modo in cui guarda gli uomini mi pare di leggere desiderio.

Jeanne è vedova di un uomo che era interessato esclusivamente ai maschi e non le è stato difficile intuire i desideri del figlio.

Aggiunge:

- Può darsi che abbia partecipato a questi incontri solo per curiosità, ma credo piuttosto che gli piacciano gli uomini. In questo caso dovrà imparare a muoversi con prudenza.

- Come ti ho detto, il duca gli ha parlato quando siamo tornati e credo che abbia capito. Io non gli ho detto nulla, su richiesta del duca stesso.

- Il duca è stato saggio, ma questo lo sapevamo già.

Jeanne tace un momento, poi alza lo sguardo e dice:

- Sinceramente, Manrique, ti dà fastidio che Jacques sia attratto dagli uomini?

Manrique alza le spalle. È un po’ a disagio. Fa fatica ad accettarlo, è vero.

- Avrei preferito che fosse come gli altri.

- Quello anch’io, perché avrà più problemi e correrà più rischi. Ma non dipende da noi. È mio figlio e lo amo com’è. Spero che non si senta troppo in colpa per quanto è successo.

- Ieri sera era alquanto scombussolato, ma è inevitabile che lo fosse.

- Sì, certo. Essere stato sorpreso da te in intimità con un altro uomo, in quella situazione… è stato di certo molto imbarazzante per lui. Non solo imbarazzante.  In te vede un padre e forse teme di aver perso il tuo affetto e la tua stima.

- No, io… di certo non gli voglio meno bene. Ma capisco che lui possa aver paura anche di questo. Che cosa dovrei fare, secondo te?

- Fargli capire che il tuo affetto per lui non cambia certo per questo.

- Mi consigli di affrontare l’argomento direttamente con lui?

- O gliene parli o glielo fai capire con il tuo comportamento. Ma deve sapere di poter contare sempre su di te. Non ha mai avuto un padre e per lui tu sei importantissimo. Sei il suo modello maschile.

- Ma in questo sta seguendo un’altra strada.

- In questo sì, ma non è un scelta. Ed è la sua strada.

- Sì, capisco quello che dici. Ma per me è difficile essergli a fianco, in questo almeno.

- Credo che tu possa riuscirci, Manrique, anche se questo significherà per te uno sforzo maggiore.

Manrique annuisce. Ha molti dubbi, ma si dice che probabilmente Jeanne ha ragione.

 

Intanto Denis scrive una lettera al re, raccontando della morte di Emich di Freiburg. Di per sé non c’è motivo per informare il sovrano di un omicidio avvenuto in città, ma alla fine della missiva Denis spiega i motivi per cui ha ritenuto importante dare questa notizia:

Poco prima che si trovasse il corpo, nella zona vi erano numerose guardie del vescovo. Poiché l’omicidio era avvenuto da poco e il cadavere era ancora caldo, si è diffusa la voce che sia stato ucciso dagli uomini del vescovo: una diceria infame, che è mia intenzione contrastare in ogni modo, ma che purtroppo ha preso piede, tanto che ormai tutti paiono essere sicuri che le cose siano andate in questo modo. Ciò ha provocato un aumento dell’ostilità nei confronti della nostra guida spirituale, con mio grande rammarico.

Guido è sufficientemente intelligente per capire il senso della missiva. Prima di concedere l’autorizzazione all’arresto di qualcun altro, forse valuterà con più attenzione l’opportunità di farlo.

Denis affida la missiva a un messaggero e poco dopo arriva Pierre.

- Ho bisogno di parlarti, Pierre.

- Ditemi, padre

- Ieri sera sono successe alcune cose. C’è stata una riunione segreta vicino alla chiesa di Santo Stefano.

Pierre si sente gelare. Prima che Denis continui, dice:

- Sono andato anch’io una volta a una di quelle riunioni, padre. Non vi sono ritornato, perché non volevo espormi, ma mi sono reso conto che non avrei dovuto andarci nemmeno quella prima volta.

- Sei stato saggio in questo. Devo però farti due rimproveri: il primo è di non aver cercato di convincere Jacques a rinunciare. Il secondo è di non avermene parlato.

Pierre china la testa. Ha invitato Jacques a essere prudente, ma certamente non ha insistito come avrebbe dovuto. Anzi: gli ha detto che non faceva niente di male. E non aver avvisato suo padre è stato senza dubbio un errore ancora più grave.

- Avete ragione, padre. In questo ho gravemente sbagliato. Ho sottovalutato il pericolo.

- La riunione è stata interrotta prima dell’arrivo degli uomini del vescovo.

- Gli uomini del vescovo? Il vescovo sapeva?

- Sì, faceva spiare Emich. Ma i suoi uomini non hanno trovato nulla. È invece è successa un’altra cosa, che devi sapere, Pierre.

Pierre guarda suo padre, attendendo.

- Emich di Freiburg è stato ucciso ieri notte.

- Ucciso? Da chi?

- Non si sa niente di preciso sulla morte di Emich. Tutti pensano che lo abbiano ucciso le guardie del vescovo perché ha cercato di sfuggire alla cattura, ma non è detto che sia così.

Di solito Denis informa Pierre di tutto quello che accade, perché il figlio deve imparare che cosa significa governare una città. Ma in questo caso preferisce non dirgli la verità, che per Pierre sarebbe sgradevole.

Pierre china la testa, poi la rialza.

- È anche colpa mia. Se vi avessi avvisato subito, prima che il vescovo scoprisse…

Denis d’Aguilard scuote il capo.

- No, Pierre. Non sarebbe cambiato nulla. Sapevo. Ho fatto parlare a Emich, ma non mi ha ascoltato. Gli ho fatto spiegare che anche il vescovo era a conoscenza delle riunioni, ma non ci ha creduto. È morto per colpa sua. Ha messo a rischio la vita di otto giovani, che avrebbero potuto finire sul rogo. Ha messo in pericolo la pace in questa città.

- Se io non avessi partecipato, il vescovo non avrebbe avuto motivo...

Denis lo interrompe:

- No, Pierre. Anche in questo caso non sarebbe cambiato nulla. Il vescovo odiava Emich, come odia me che lo proteggevo. E abbattere lui era un modo per mostrare ai cittadini che io sbagliavo a proteggerlo e che il mio potere non è più quello di un tempo. Emich era comunque un uomo morto. Il vescovo sapeva chi era e l’avrebbe arrestato: avrebbe ottenuto dal re l’autorizzazione. Emich avrebbe parlato, sotto tortura. E in ogni caso sarebbe finito sul rogo come eretico. L’essere ucciso gli ha risparmiato le torture che avrebbe subito e la sofferenza di aver provocato la morte di altri.

Pierre è angosciato. Denis gli sorride:

- Pierre, devi capire che cosa significa governare una città.

Pierre lo guarda e dice:

- Padre, mi rendo conto che invece di alleggerire il fardello che portate, contribuisco a renderlo ancora più pesante.

Di nuovo Denis scuote la testa.

- Pierre, averti qui è un fonte di gioia per me. È vero che a volte è anche una fonte di preoccupazione, ma ti assicuro che la gioia pesa molto di più.

Denis abbraccia il figlio, poi gli dice:

- Forse è meglio che lo dica tu a Jacques. Era alla riunione ieri sera. Sarà un brutto colpo per lui.

Pierre annuisce.

- Sì, senz’altro. In questo periodo lo vedo irrequieto. E questa notizia… di certo peserà come un macigno.

 

Dopo essersi congedato, Pierre cerca Jacques, che è rientrato nella sua camera ed è seduto allo scrittoio, lo sguardo perso nel vuoto. Sentendo bussare si volta e vede sulla soglia l’amico.

- Pierre! Sono contento di vederti.

Jacques ha voglia di raccontare e sa che a Pierre può dire tutto, tanto più che l’amico ha partecipato a uno degli incontri della setta. Si accorge però subito che il viso di Pierre è pallido e l’espressione preoccupata.

- Che c’è, Pierre? Qualche problema?

- Ho una brutta notizia da darti.

- Che cosa è successo?

- Ieri notte… Emich è stato ucciso.

Jacques ha la sensazione di aver ricevuto un colpo, violento. Gli manca il fiato. A fatica riesce a dire:

- Emich? Ma… come è possibile?

- Pare siano state le guardie del vescovo, ma non si sa niente di sicuro.

- No… no… non…

Jacques scoppia a piangere. La morte di Emich gli spiace, ma non è di per sé un grande dolore: gli era affezionato e lo ammirava, ma lo conosceva troppo poco perché il legame con lui fosse davvero forte. La notizia però lo turba profondamente e si aggiunge alle troppe esperienze forti di questi ultimi giorni: il rapporto con Lucas, l’irruzione di Manrique con tutto ciò che comporta, il rapporto con Ferdinando e Adham. Gli sembra di non riuscire a reggere tutto questo.

Pierre lo abbraccia, in un gesto istintivo di affetto.

- Mi spiace, Jacques, so che gli volevi bene.

- Sì, ma… non è questo. Non ce la faccio più, Pierre. Mi sembra che tutto…

Jacques non dice altro. L’abbraccio lenisce il suo dolore e lentamente lo calma.

- Scusa, Pierre, è che in questo periodo… sono scombussolato. Credo di aver fatto tanti errori e…

- Di errori ne abbiamo fatti tutti.

C’è un momento di silenzio, poi Jacques dice:

- Sediamoci. Vorrei parlarti un momento. Hai tempo?

- Certo, tutto quello che vuoi.

Si siedono. Jacques chiede:

- Sai già quello che è successo ieri sera?

- Sì, mio padre mi ha raccontato.

- Io… ero con Lucas. È stato molto bello. Ma poi… quando è arrivato Manrique

- Manrique? È stato lui ad avvisarvi?

- Certo. Non lo sapevi?

- No. Ma avrei dovuto pensarci. Di certo mio padre non poteva mandare un ufficiale qualunque.

- Sì, ma quando l’ho visto… Pierre, mi sono sentito morire. Io e Lucas eravamo abbracciati, nudi. Ci stavamo baciando. Avrei voluto sprofondare.

- Manrique ti ha detto qualche cosa?

- No, mi ha parlato tuo padre. È stato molto comprensivo. Ma io mi sono vergognato da morire.

- Capisco. Sei stato imprudente, ma io ho più responsabilità di te, perché avrei dovuto dirti di non andare…

- Mi hai detto di essere prudente.

- Una stupidaggine, me ne rendo conto. Essere prudente significava non andare, avrei dovuto dirtelo. Mi sembrava che non faceste niente di male. È vero, ma non ho tenuto conto della situazione. E non ne ho parlato a mio padre. No, sono stato davvero un idiota.

- E io, allora?

- Tu eri troppo coinvolto per valutare correttamente. Io avrei potuto farlo. Io avrei dovuto farlo. Sono il figlio del duca.

Jacques scuote la testa. I suoi problemi adesso sono altri. Pensa a Ferdinando e Adham, a quanto è successo in mattinata. C’è un momento di silenzio. Pierre ha intuito che c’è altro, per cui chiede:

- Non è solo questo che ti turba, vero, Jacques?

- No, Pierre. Io…

- Dimmi, Jacques.

- Pierre, io…

Pierre gli sorride per incoraggiarlo.

- È un gran casino, Pierre.

- Che cos’è che ti preoccupa?

- Oggi… con il conte… e Adham

Pierre è alquanto sorpreso.

- L’hai fatto con loro?

- Io… sì, più o meno…

Jacques si vergogna. Pierre capisce e gli sorride.

- Non devi raccontarmi niente che non hai voglia di dirmi.

- Mi hanno fatto venire… due volte…

- E che cos’è che ti turba, in questo? Non ti è piaciuto?

- Sì, certo, mi è piaciuto, molto. È stato bello.

- E allora?

- Non lo so, Pierre. Non dovrei…

Pierre alza le spalle. Grazie a suo padre ha imparato ad accettare gli altri, senza pretendere che si uniformino tutti alle sue opinioni, ai suoi gusti, alle sue credenze.

- Jacques, devi fare quello che ti senti. Se è quello che desideri, fai bene a farlo. Non fai male a nessuno. Devi solo essere prudente.

Jacques annuisce. In testa ha sempre una grande confusione, ma aver parlato un po’ con Pierre lo ha rasserenato.

 

In giornata la morte di Emich è l’argomento di tutte le conversazioni in città. Molti non conoscevano neppure la sua esistenza, alcuni ne avevano appena sentito parlare e solo pochi sapevano chi era, ma il fatto che sia stato assassinato dalle guardie del vescovo suscita l’indignazione di tutti i cittadini. Anche i cristiani più zelanti sono stupiti nel sentire una notizia che ormai viene data per certa.

Come al solito c’è chi sa tutto e racconta che l’ufficiale al comando degli uomini del vescovo ha detto a Emich che meritava di morire sul rogo, ma che nella sua bontà il vescovo gli risparmiava una fine così orribile. La diceria circola molto, anche perché il riferimento alla bontà del vescovo suscita immancabilmente una serie di battute sarcastiche, che vengono ripetute all’infinito.

Ormai in città tutti sono convinti che all’omicidio abbiano assistito alcuni testimoni e si chiedono se il duca non farà arrestare l’ufficiale che guidava le guardie vescovili.

 

Bohémond di Tours è furibondo. Il piano, organizzato con la massima cura, è fallito miseramente e ora tutta Rougegarde mormora che il vescovo ha fatto assassinare un povero vecchio, dopo aver messo in giro voci su una presunta setta eretica. Bohémond sa di non aver mai goduto dell’affetto dei cittadini. I musulmani e gli ebrei lo odiano quanto lui odia loro, ma anche i cristiani lo detestano: non sopportano la sua intransigenza, che vedono come una minaccia per la vita serena che conducono, e non accettano che sia ostile al duca, il massimo baluardo della Cristianità in Terrasanta e la loro difesa contro i Saraceni. Sanno tutti che vorrebbe far cadere in disgrazia Denis d’Aguilard e mettere al suo posto qualcun altro, magari Olivier di Soissons. Nessuno può desiderare che Rougegarde si riduca nelle condizioni di San Giacomo d’Afrin.

Il malcontento nei confronti del vescovo si manifesta in modo ogni giorno più evidente. Già nel pomeriggio del giorno successivo alla morte di Emich, quando Bohémond esce per la città si accorge degli sguardi ostili della gente. Più volte qualcuno lo fissa, poi si volta e sputa a terra. Il vescovo freme, ma non può certo far arrestare un uomo per aver sputato a terra

Il mattino seguente, mentre Bohémond si reca a cavallo in chiesa, qualcuno gli lancia uno stronzo, che lo colpisce in faccia. L’uomo si dilegua in un attimo.

Bohémond si pulisce alla bell’e meglio. La rabbia è tale che trema tutto. È furibondo e in un gesto impulsivo, si dirige verso il palazzo ducale.

È giorno di udienza pubblica e ci sono molte persone nella sala. Bohémond potrebbe chiedere un’udienza privata, che gli sarebbe concessa immediatamente, ma gli sembra che presentandosi nella sala, davanti a tutti, avrà la possibilità di mostrarsi come vittima dell’odio del duca e di chiedere giustizia. Sono pensieri confusi, che ricaccerebbe se fosse pienamente lucido, ma è troppo furioso per analizzare freddamente la situazione. È un abile stratega, ma nei momenti di grande agitazione a volte commette errori.

Le guardie lo lasciano passare. Arriva fino alla sala dove il duca riceve. Tutti vedono il vescovo entrare, il viso ancora sporco. C’è un accavallarsi di voci, domande, risatine, che di colpo si spengono quando il vescovo parla.

- Duca, sono il vicario di Cristo in questa città e mentre mi reco in chiesa per pregare, vengo oltraggiato.

- Che cosa vi è successo, eccellenza?

- Sono stato colpito al volto.

Qualcuno che non aveva notato le tracce di merda sul viso del vescovo se ne accorge ora. Più d’uno dà una gomitata al vicino e sghignazza.

Denis guarda il suo nemico mortale.

- Quanto è successo è grave. È un atto che condanno fermamente. Le vostre guardie hanno fermato l’uomo? Sapete chi sia?

- È fuggito. Non so chi fosse. Bisogna che troviate il colpevole.

- Non sarà facile, eccellenza. Se le vostre guardie che erano presenti non sono riuscite a fermarlo e se non sapete chi sia, come trovarlo?

Bohémond freme. Sa benissimo che il duca ha ragione e percepisce la forte ostilità della gente riunita nella sala, ma non può accettare l’umiliazione subita.

- Un offesa del genere non può rimanere impunita.

- Avete ragione, eccellenza. Nessun crimine deve rimanere impunito. Ma non sempre è possibile trovare il colpevole, per quanti sforzi si facciano. Da due giorni stiamo cercando l’assassino di un povero vecchio

Nella sala scende il silenzio: anche le risatine si spengono. Tutti fissano il vescovo, con sguardi in cui è facile leggere disprezzo e odio. Le parole del duca vengono interpretate come un’accusa precisa, che conferma ciò che ormai tutti sanno: quest’uomo di chiesa, che si lamenta di un’offesa, è il mandante di un omicidio.

Poi Denis dice, con voce più bassa:

- Pulitevi meglio, vescovo.

Molti ridono, senza curarsi nemmeno troppo di nasconderlo. Per Bohémond è un ultimo schiaffo. Si volta ed esce, furente.

 

Prima di mettersi a tavola per la cena Denis dice a Ferdinando:

- La situazione è sotto controllo. Domani mattina possiamo partire, Ferdinando.

- Va bene, andiamo a trovare Olivier. Che piacere! È simpatico come un calcio nei coglioni.

Denis annuisce. Condivide l’opinione dell’amico.

- Vedremo che cosa succede, quali sono questi preoccupanti movimenti di truppe ai confini orientali.

- Da come lo dici non sembri molto convinto.

Denis sorride e alza le spalle.

- No, non lo sono per nulla, ma vedremo.

Si siedono a tavola. Oltre a Denis e Ferdinando, ci sono Pierre, Adham, Solomon, Manrique, Jeanne e Jacques. Jeanne è spesso l’unica donna, quando il duca cena solo con poche persone, ma si trova bene in compagnia di questi uomini leali e quando c’è lei Ferdinando modera un po’ i toni.

 

Al termine della cena Solomon si congeda. Tornerà più tardi, per trascorrere la notte con Denis, ma questo nessun altro lo sa. Dopo che l’orafo se n’è andato, in un momento in cui sono soli, Ferdinando dice all’amico:

- Solomon è un gran bel maschio.

Denis aggrotta la fronte.

- Intenderai mica combinare qualche cosa anche con lui?

Ferdinando ride.

- No, ho capito che è meglio se non mi avvicino.

Denis è sorpreso: non si aspettava che l’amico avesse colto il legame che lo unisce a Solomon. Quando ci sono altre persone non si scambiano mai gesti di tenerezza o parole che potrebbero rivelare il loro amore.

- Come hai fatto a capirlo?

- Da come lo guardi, Denis. Non quando c’è altra gente intorno, ma quando siamo solo noi. Hai un sorriso che non ti avevo visto mai. E sono contento di questo.

Denis annuisce. Gli fa piacere che l’amico abbia capito e sa che davvero Ferdinando è contento di vederlo innamorato.

- Ho trovato qualcuno che cercavo, senza sapere che lo stavo cercando.

Ferdinando sembra riflettere un momento, poi risponde:

- Sì, anche per me è stato così. Non ne sentivo il bisogno, ma quando Adham è arrivato, ho capito che non potevo farne a meno.

Sorride e aggiunge:

- Però tu mi hai fatto penare con Adham.

- Non sono stato io a farti penare. Era lui che faceva fatica ad accettare. Aveva bisogno dei suoi tempi.

- È vero. È un po’ lento…

Denis ride.

- Nel mio caso invece, credo di essere stato io un po’ lento. Solomon sa bene quello che vuole.

- Sì, è uno dei tanti motivi per cui lo apprezzo. Mi piace davvero molto.

Denis sorride.

- Bada a quello che fai, Ferdinando…

- Te l’ho detto, non intendo avvicinarmi.

 

Il mattino successivo il duca e il conte partono per San Giacomo d’Afrin, con una scorta consistente: Denis non ha nessuna fiducia in Olivier e preferisce essere pronto per ogni eventualità. Non si stupirebbe che il barone cercasse di farlo assassinare, anche se non gli sembra probabile.

Intanto nella sua camera Jacques pensa a Lucas. Sa che aveva un legame profondo con Emich e vorrebbe parlare con lui del morto. Intuisce che nel desiderio di vederlo c’è anche altro, ma in questo momento, due giorni dopo la morte di Emich, preferisce scacciare il pensiero: gli sembra di essere sporco. Il duca gli ha consigliato di non uscire e Jacques è intenzionato a seguire rigorosamente le sue indicazioni: è già stato alquanto imprudente.

Decide di rivolgersi a Solomon. L’orafo è nel suo laboratorio a palazzo. Jacques bussa e quando gli viene aperto chiede:

- Solomon, posso parlarvi?

- Certo, barone. Accomodatevi.

Solomon lo fa entrare e gli fa cenno di sedersi, ma Jacques rimane in piedi: non vuole far perdere tempo all’orafo e ciò che vuole dire richiede solo un attimo.

- Grazie, ma non è il caso, è questione di un momento. Mi scuso se ve lo chiedo, spero di non apparire indiscreto. So che di solito quando il duca non è qui a Rougegarde, voi tornate al vostro appartamento, nella casa del mercante Giovanni. Lo farete anche questa volta?

- Sì. Concludo un lavoro che sto facendo qui e in tarda mattinata conto di trasferirmi.

- Posso chiedervi di farmi sapere se Lucas è ancora alla locanda? Avrei piacere di parlargli, ma preferisco non uscire dal palazzo in questi giorni.

- Senz’altro barone. Credo che le circostanze lo abbiano indotto ad allontanarsi, ma ripasserò prima di sera per dirvi se è così. Se fosse ancora alla locanda, gli dirò che avete piacere di parlargli. Lodo la vostra prudenza. In questi giorni più che mai.

Jacques è contento della disponibilità di Solomon, ma allo stesso tempo è stupito dell’osservazione sulla prudenza. L’orafo sembra quasi sapere che nella morte di Emich è in qualche modo coinvolto anche Jacques.

- Vi ringrazio.

Jacques esce. Riflettendo, si dice che in realtà Solomon sembra sempre molto informato su tutto. Nelle discussioni a tavola non mostra mai di stupirsi di nulla e quando interviene è chiaro che sa esattamente di che cosa si tratta.

 

Solomon è sicuro che Lucas sia già partito, ma in effetti potrebbe essersi attardato per qualche motivo. Quando ha ultimato il lavoro avviato, ritorna al suo appartamento. Conta di chiedere a Tristan o a Mariette, ma prima di entrare nella locanda passa nel suo appartamento. Poco dopo sente bussare: è Morqos.

- Ti ho sentito arrivare. Sei tornato per fermarti, Solomon?

Solomon lo fa entrare e chiude la porta dietro di lui. Risponde:

- Sì, il duca è partito e fino al suo ritorno rimango qui, come al solito.

Poi guarda l’amico e dice:

- Tutto bene, Morqos?

- Sì, tutto bene. Siamo ancora tutti un po’ scossi per la morte di Emich, ma ci rendiamo conto che ormai la sua presenza costituiva una minaccia. È triste pensarlo, però è così.

- Sì. Se il vescovo lo avesse arrestato e torturato, credo che saremmo stati tutti in pericolo.

- Anche noi, vero? Non solo i giovani.

- Certamente. Il vescovo non avrebbe perso l’occasione per colpire il duca attraverso di noi.

- L’avevo pensato anch’io.

Morqos si è seduto su una sedia.

Solomon gli si avvicina. Gli accarezza i capelli. Tra loro esiste un legame di amicizia molto forte, che è anche fisico.

- Gli eri molto affezionato, vero?

Morqos annuisce.

- Lo sai, Solomon. Per un lungo periodo è stato per me un punto di riferimento. Grazie a lui la mia vita è cambiata completamente. Certo, in questi ultimi anni non era più come prima, non eravamo più così vicini, però… se penso al passato…

Morqos scuote la testa. Si rialza.

- È inutile, ormai è finita.

- Ci siamo ancora tutti noi, Morqos.

Morqos annuisce.

- Sì, per fortuna. Quel fottuto bastardo del vescovo non è riuscito a distruggerci.

Guarda l’amico. Gli passa una mano sul viso, in una carezza.

- Avevo bisogno di averti vicino, Solomon.

Solomon lo bacia sulla bocca, poi incomincia a spogliarlo. Ogni tanto scopano: non lo fanno spesso e quando lo fanno sono guidati dal desiderio di essere più vicini. E Solomon sa che in questo momento Morqos ha bisogno di sentirlo vicino. Quando Morqos è nudo, Solomon lo abbraccia, stretto. Morqos sta bene così, tra le braccia forti dell’orafo, che gli trasmettono un senso di benessere e di pace. Gli sembra di non volere altro.

Dopo un buon momento Solomon si stacca. La sua destra accarezza il torace dell’amico, stuzzicandogli i capezzoli, mentre la sinistra scende al ventre e poi al cazzo, che si tende. Morqos emette un piccolo gemito. Solomon gli bacia la nuca e il collo, gli mordicchia ora un orecchio, ora la spalla, lo accarezza dal ventre al viso. Morqos chiude gli occhi e si abbandona completamente alle sensazioni che gli trasmettono le mani di Solomon.

Ora Solomon lo bacia, un bacio appassionato: le loro lingue si cercano, si trovano, si accarezzano, si lasciano. Le mani di Solomon scorrono lungo la schiena di Morqos, poi l’ebreo si inginocchia davanti all’amico e gli bacia il cazzo, una, due, tre volte. Lo bacia ancora, lo mordicchia, gli passa la lingua sopra, dalla cappella alla base, più volte, poi lo avvolge con le labbra e incomincia a succhiarlo, con energia. Morqos gli accarezza la testa, poi china il capo fino a sfiorare quello dell’amico. Ha voglia di baciarlo.

Solomon lavora un buon momento, poi con le mani guida Morqos a girarsi e incomincia a mordicchiargli il culo. Tanti morsi, ora leggeri, ora più decisi. Poi passa la sua lingua tra le natiche dell’amico, lungo il solco, fino al buco, che stuzzica e accarezza. Infine è il turno delle dita che incominciano a giocare con l’apertura, spingendosi dentro, uscendo, ritornando ad avanzare, mentre l’altra mano stringe le palle di Morqos, le accarezza, percorre il cazzo e risale lungo il ventre. Morqos geme, mentre il piacere sale, sempre più forte.

Solomon si alza e passa davanti all’amico. Si baciano e ora le mani di Morqos passano a spogliare l’orafo, con lentezza. Quando gli ha tolto la tunica, Morqos gli passa le dita sul torace, coperto da una leggera peluria chiara. Gli piace moltissimo questo maschio vigoroso che gli sorride, che lo bacia di nuovo, che lo accarezza. Solomon si sfila le calzature e finisce di spogliarsi. Morqos guarda affascinato il suo cazzo, che svetta contro la peluria più scura del ventre. Gli sembra magnifico.

Solomon appoggia la testa sul petto di Morqos, la sfrega un po’, poi le sue labbra incominciano a succhiargli un capezzolo, la sua lingua lo avvolge, i denti mordono con decisione, strappando a Morqos un gemito più forte.

Si china ancora e, con un movimento improvviso, solleva da terra l’amico, caricandolo sulla sua spalla destra. Morqos ride, mentre Solomon si muove verso il letto, portandolo con sé. Poi lo posa sulle lenzuola, con dolcezza, e si stende su di lui. È pesante e a Morqos piace sentire su di sé il suo peso, gli piace la sensazione di essere prigioniero di questo corpo forte. Si baciano ancora a lungo e poi, con dolcezza, Solomon volta Morqos. Gli allarga le gambe e nuovamente la sua lingua scorre lungo il solco.

Giocherella un po’ con le dita, stuzzicando ancora l’apertura, e infine Morqos sente la pressione della cappella che entra dentro di lui. Solomon avanza con lentezza, dando a Morqos il tempo di abituarsi. Poi si ritrae e spinge di nuovo a fondo. Procede a lungo, affondando il cazzo ben dentro il culo e poi arretrando, mentre le sue mani ancora accarezzano il viso e le spalle dell’amico, gli stringono il culo e i pettorali. A lungo Solomon procede e Morqos sente il piacere che sale dal culo, sempre più forte, facendolo gemere senza ritegno.

E infine Solomon geme e viene, con una rapida successione di spinte violente che fanno un po’ male a Morqos. L’orafo si abbandona sull’amico, mentre con la mano gli accarezza pigramente i capelli. Poi, senza uscire da lui, si gira su un lato e la sua mano lo porta al piacere. 

Morqos si sente sereno, ora. È stato bello, molto bello. Solomon lo abbraccia e rimangono così.

Più tardi Solomon chiede:

- Dimmi una cosa, Morqos. Lucas è ancora qui?

- No, è partito ieri.

- Bene.

 

 

Più tardi Solomon ritorna al palazzo ducale e raggiunge l’appartamento dove vive Jacques: all’interno del palazzo può muoversi in assoluta libertà. Chiede del giovane barone e viene subito fatto entrare.

Jacques lo attende in piedi. Solomon trasmette subito l’informazione richiesta:

- Come avevo previsto, Lucas ha preferito partire. Ha lasciato la città ieri mattina molto presto, all’apertura delle porte. Ha detto che conta di imbarcarsi per Venezia o per Genova. Non vuole rimanere più oltremare.

Jacques aggrotta la fronte. Se lo aspettava, ma gli dispiace molto che Lucas se ne sia andato. Avrebbe voluto rivederlo, parlare con lui di quanto è successo.

- Grazie, Solomon. Siete stato molto gentile a venirmelo a raccontare.

- Mi sembrate molto preoccupato. Avevate qualche cosa di importante da comunicargli?

- No, nulla di particolare, ma mi avrebbe fatto piacere parlare con lui di…

Jacques si ferma.

- Di tutto quanto è successo, barone?

Jacques guarda Solomon. Sente il bisogno di confidarsi, ma ciò che è successo deve rimanere segreto. Con Solomon forse potrebbe parlare: l’orafo gode della piena fiducia del duca, come Jacques ha avuto modo di notare più volte.

- Non so che cosa voi sappiate.

- Delle riunioni segrete nella sala sotterranea di fianco alla chiesa di Santo Stefano? Assolutamente nulla.

Solomon sorride, il suo sorriso sornione. La frase è ovviamente ironica e strappa un sorriso anche a Jacques, per quanto non sia certo di umore allegro. Cerca di rispondere sullo stesso tono:

- Voi sembrate non sapere nulla di tante cose. Non è facile trovare qualcuno che non sappia nulla come voi.

Solomon alza le spalle.

- Sono molto poco informato, in effetti.

Jacques vorrebbe parlare, ma, per quanto si fidi di Solomon, sa che non deve farlo.

- Vi ringrazio, Solomon. Per aver cercato Lucas, per avermi avvisato che è partito, per la vostra disponibilità. Mi piacerebbe confrontarmi con qualcuno, sì, ma ho già fatto molti errori e ci sono cose di cui è meglio non parlare.

- Non posso darvi torto. Ma vi vedo alquanto scosso. Capisco che ciò che è successo giovedì notte vi abbia profondamente turbato. E forse ci sono altre cose che vi preoccupano.

Nuovamente Jacques sorride mentre dice:

- Altre cose che voi non sapete.

Solomon annuisce.

- Cose che non ho letto nei vostri sguardi, che non ho colto nelle mezze parole e negli sguardi di altri. È incredibile come a volte non ci si renda conto di quello che accade intorno a noi.

- Di cos’altro non sapete nulla, Solomon?

- Non so nulla di ciò che suscita i vostri desideri.

Jacques non si aspettava questa risposta, così diretta, che va al cuore di uno dei suoi problemi. Esita. Solomon prosegue:

- Non so nulla, ma se avete piacere di parlarne, sono ben contento di ascoltarvi.

Jacques esita ancora, ma quest’uomo sembra davvero essere informato di tutto.

- So che posso contare sulla vostra discrezione.

- Assolutamente, questo ve lo posso garantire.

Nonostante la disponibilità di Solomon, per Jacques non è facile affrontare il discorso.

- Sedetevi, Solomon.

- Grazie.

Anche Jacques si siede. Non sa da che parte incominciare. Solomon attende un momento, poi, prima che il silenzio diventi imbarazzante, parla:

- Ognuno di noi è fatto a modo suo e ha i propri gusti. Io ho scoperto molto presto di essere attratto dagli uomini, ad esempio. Ero ancora un ragazzo e lavoravo con mio zio, quello che mi ha insegnato il mestiere. Un giorno lui mi mandò dal fabbro. I garzoni mi conoscevano e mi fecero passare nel laboratorio. Lo vidi intento a battere sull’incudine. Era un uomo sui quarant’anni, più o meno la mia età di oggi, ma allora mi sembrava quasi vecchio. Era molto robusto e per lavorare si era spogliato: aveva solo un pezzo di stoffa intorno ai fianchi. Era tutto sudato. Goccioline di sudore sulla fronte, rivoli di sudore sul petto, che scendevano a bagnare il tessuto. Fissavo il sudore che luccicava, il pelame bagnato, la protuberanza del sesso che premeva sulla stoffa. Scoprii in quel momento il desiderio. O almeno: scoprii ciò che desideravo io.

Jacques ha ascoltato con attenzione.

- E voi… non…

Vorrebbe chiedere a Solomon cosa fece, se scopò con il fabbro, ma gli sembra una domanda indiscreta. Osserva:

- È peccato. È un grave peccato.

Si rende conto di aver detto qualche cosa che potrebbe suonare offensivo e aggiunge:

- Così dicono, almeno.

Solomon sorride:

- Così dicono, ma io non ho mai avuto davvero fede. Ho avuto modo di parlare più volte con Yaacov, un rabbino che vive vicino a Santa Maria in Aqsa. Lui dice che Dio non ci ha creati per perderci. Quando accende in noi un desiderio, ci indica la nostra strada.

Solomon dice ciò che Jacques desidera sentirsi dire. Il giovane vuole un’ulteriore conferma e la cerca muovendo un’obiezione.

- Possiamo desiderare cose sbagliate. Volere la morte di qualcuno, volerlo prendere con la forza.

- Quei desideri sono sbagliati perché provocano sofferenza negli altri, ma desiderare un uomo non provoca dolore, a meno che tu non lo costringa a fare ciò che non vuole. Emich diceva le stesse cose, lo sapete, barone.

Jacques annuisce. Poi osserva:

- Il vescovo non sarebbe d’accordo.

Jacques ha per il vescovo lo stesso profondo disprezzo del duca, ma cerca ancora conferme.

- Il vescovo non segue l’insegnamento di Gesù di Nazareth, che è un insegnamento d’amore. Il suo Dio è quello che castiga e punisce, non quello che ama. O forse dovrei dire che il suo Dio è il potere che desidera. L’ambizione lo guida, non l’amore cristiano.

- Molti criticano un uomo che ha rapporti carnali con altri uomini.

- Sì, molti criticano. Tutto quello che facciamo è oggetto di critiche, soprattutto se non è quello che fanno tutti. Non lo dite a me, che vengo odiato da gente come il vescovo perché i miei antenati hanno fatto crocifiggere Gesù, perché non rinnego la mia religione per abbracciarne un’altra, esattamente come quelli che mi criticano non rinnegano la propria.

Jacques annuisce. Ripensa a ciò che Solomon gli ha raccontato. Vorrebbe sapere di più, ma si vergogna della sua curiosità. Ritorna all’argomento che gli sta a cuore:

- Accettaste i vostri desideri, senza resistere?

- Perché avrei dovuto resistere? Non facevo male a nessuno.

- E…

Nuovamente Jacques è sul punto di chiedere, ma la vergogna lo blocca.

- Ditemi, barone.

- Il fabbro capì il vostro desiderio?

- Forse lo sospettò, ma non disse nulla. Non quella volta, almeno.

- Ci furono altre volte?

Jacques sa che sta ponendo domande molto personali e che non ha nessun diritto di chiedere. Ma è stato Solomon a raccontare l’episodio e comunque quest’uomo che gli sorride non ha pudori nel raccontare.

- Sì, ci furono. Lo spettacolo a cui avevo assistito mi era piaciuto troppo e avevo tutte le intenzioni di godermelo di nuovo. Non fu difficile. Mio zio era in buoni rapporti con il fabbro e aveva spesso bisogno di comunicare con lui. E il fabbro mi conosceva, per cui potevo passare da lui con qualche scusa banale e fermarmi un momento a chiacchierare. Si rese conto, da come lo guardavo, che mi piaceva. Aveva una moglie e tre figli, ma allora io ero un bel ragazzo, scusate la mancanza di modestia.

Jacques vorrebbe rispondergli che ora è un gran bell’uomo, ma si limita a dire:

- Non ne dubito. E…

Nuovamente si blocca, conscio di quanto indiscreta sia la propria curiosità.

- E una sera d’autunno i miei sogni divennero realtà... più o meno, devo dire: in realtà non fu proprio come me l’ero immaginato, l’uomo fu… un po’ brutale, anche se non voleva farmi male. Tra ciò che ci immaginiamo e la realtà c’è sempre uno scarto, credo che abbiate già avuto modo di scoprirlo.

C’è un momento di silenzio. Jacques è molto turbato. Si immagina un giovane Solomon che si offre a un uomo forte e si vede al posto dell’ebreo, posseduto non dal fabbro, ma da quest’uomo bello e vigoroso che ha davanti. Vorrebbe che l’orafo si facesse avanti, gli tendesse le braccia, lo stringesse, lo prendesse: il suo corpo lo desidera, con violenza. Eppure si sentirebbe deluso se Solomon si comportasse così.

Solomon sorride e si alza.

- Per me è ora di andare. Vi ringrazio per la fiducia che mi avete dimostrato, raccontandomi di voi.

Jacques scuote la testa e sorride. Non ha raccontato niente, è stato Solomon a parlare, ma ha saputo venire incontro al suo desiderio di rassicurazione. Si è sentito compreso senza doversi scoprire.

Al momento in cui Solomon si congeda, ormai sulla porta, Jacques gli dice:

- Non siete un uomo comune, Solomon.

- Lo prendo come un complimento.

- Lo è.

- Grazie, allora.

Solomon saluta e se ne va. Jacques cerca di comprendere le proprie sensazioni. Avrebbe voluto avere un rapporto con Solomon, è vero: l’orafo lo affascina; non è solo un desiderio del corpo, è proprio un’attrazione profonda. Ma se avessero scopato, adesso penserebbe che le confidenze servivano solo per arrivare a scopare con lui e le parole scambiate avrebbero perso il loro valore. Meglio così, anche se al pensiero del bell’ebreo il suo corpo arde.

 

*

 

Denis d’Aguilard guarda San Giacomo d’Afrin. La città è cinta da solide mura: i baroni hanno rafforzato le fortificazioni in più occasioni, perché la posizione, ai confini orientali del regno, la rende molto esposta agli attacchi nemici. Ma oltre le porte sono visibili i segni della decadenza: diverse case sono  abbandonate e molte altre in cattive condizioni; le strade sono spesso dissestate e sporche, perché manca una rete di fognature e sono numerosi i maiali; dai canali di scolo che scorrono in mezzo alle vie sale un odore nauseabondo, soprattutto nei mesi caldi; molti poveri si aggirano per le vie, chiedendo l’elemosina. San Giacomo, nonostante il palazzo dei baroni e la cattedrale, sembra più un grosso paese povero che una città.

Vent’anni fa San Giacomo d’Afrin, per quanto meno importante di Rougegarde, era un centro fiorente. Ma sotto i baroni di Soissons, San Giacomo ha visto diminuire la sua popolazione: gli ebrei e i musulmani liberi sono stati allontanati e persino alcuni franchi hanno preferito trasferirsi, perché i loro affari languivano. Così la città si è impoverita, anche se il sequestro dei beni di ebrei e pagani ha permesso al barone Olivier di Soissons di accumulare grandi ricchezze.

Rougegarde ha invece seguito una traiettoria opposta da quando Denis d’Aguilard è divenuto signore della città: numerosi mercanti ed artigiani vi si sono stabiliti, attratti dalla ricchezza di questo centro e dalla libertà che vi si gode, e hanno contribuito alla sua prosperità. Il duca ha fatto eseguire diversi lavori, che l’hanno resa ancora più bella e salubre.

Denis non si reca volentieri a San Giacomo. Di Olivier, signore della città, ha poca stima: lo considera poco più che un brigante, sempre pronto a fare razzia, ed è sicuro che sia stato lui a organizzare l’assassinio del fratello Charles, per poter governare come tutore del nipote Philippe.

Sa che l’antipatia è reciproca, ma entrambi la nascondono. I loro territori sono sotto la costante minaccia dei saraceni e i due signori possono aver bisogno uno dell’altro in qualsiasi momento.

 

Olivier ha convocato Denis e Ferdinando perché gliel’ha chiesto il vescovo. Sa già che la manovra, destinata ad assestare un colpo mortale al duca, è fallita: Bohémond gli ha inviato un messaggero per informarlo. Non vuole in nessun modo che i due sospettino la verità, perché capirebbero che è complice del vescovo.

Di Ferdinando non si preoccupa troppo: il siciliano è un guerriero valoroso, ma non un abile politico, e non è sospettoso di natura. Denis di Rougegarde è di un’altra tempra e sicuramente già ha un’idea di che cosa si cela dietro l’invito a recarsi subito a San Giacomo.

L’accoglienza è calorosa e la cortesia cela la reciproca antipatia.

Olivier fa accomodare i suoi due ospiti nell’appartamento che ha riservato loro a palazzo, poi si intrattiene con loro.

- Vi ho chiesto di venire con urgenza, perché le guardie alla frontiera hanno segnalato consistenti movimenti di truppe. Temo che il Leone abbia delle ambizioni su San Giacomo e su Rougegarde.

Come tutti i signori del regno, anche Denis ha sentito parlare di Ubayd al-Asad, il Leone, questo grande guerriero arabo, di origine oscura, che ha dimostrato un eccezionale valore in battaglia. È al servizio del Saladino e, dopo aver svolto un ruolo importante nella conquista di Mosul, ha sottomesso al suo signore alcune città ribelli. Denis è perfettamente informato sui movimenti delle sue truppe, perché ha spie in tutta la Siria. Sa che in questo momento il Leone deve trovarsi piuttosto lontano, ma finge di essere all’oscuro di tutto e chiede:

- È stato avvistato il Leone? O si tratta solo di movimenti di truppe?

- Lui in persona no, ma i soldati in assetto di guerra erano molti. Questa mattina mi hanno comunicato che sembrano essersi allontanati. Forse si trattava di un’operazione contro i briganti.

Denis annuisce. Ha chiaro che sono menzogne per nascondere il vero motivo della chiamata, ma finge di crederci.

- Se è così, tanto meglio. In ogni caso il Leone costituisce una minaccia molto grave: per quanto giovane, è abile e capace e non è mai stato sconfitto.

Ferdinando interviene:

- Un po’ come te, Denis,… come voi, duca.

Denis sorride sentendo Ferdinando che passa al voi.

Anche Olivier sorride:

- Siete il baluardo del regno, duca.

Denis nasconde il fastidio che prova di fronte a questa adulazione, chiaramente insincera. Sa bene che Olivier lo detesta e che lo eliminerebbe volentieri, nella speranza di diventare il signore di Rougegarde.

Discutono un momento della situazione, poi Denis dice:

- Se la minaccia si è allontanata, tanto meglio. Ma dovremo rimanere vigili.

- Sì, senz’altro.

- Adesso avrei piacere di parlare con vostro nipote. Gli porto i saluti della zia e del cugino.

- Certamente, duca.

Denis sa bene che Olivier preferirebbe evitare un colloquio tra il duca e Philippe, figlio di Renaud e perciò erede di San Giacomo d’Afrin. Il giovane ha ormai l’età in cui può affrancarsi dalla tutela dello zio e Olivier rischia di perdere il suo potere. Olivier avrebbe già provveduto a eliminarlo, se non sapesse che nel caso Philippe morisse, l’erede naturale sarebbe Jacques, figlio di Charles, già maggiorenne. Olivier si troverebbe del tutto escluso dal governo della città.

Il barone accompagna Denis dal nipote.

Dopo i saluti, Ferdinando si rivolge a Olivier.

- Mentre il duca parla con vostro nipote, mi fate vedere i vostri cani da caccia? Mi dicono che ne avete di ottimi.

È una scusa, combinata con Denis, perché il duca possa rimanere solo con Philippe. Olivier lo intuisce, ma non può fare molto: fermarsi sarebbe stato comunque poco cortese e rifiutare la richiesta del conte è impossibile, senza offenderlo.

Passano nel canile. Olivier ama la caccia, come Ferdinando, che si avvale di questo per intrattenerlo. Osserva i cani, ne chiede i pregi e i limiti, si informa su quali usa per la caccia al cinghiale, quali per la caccia alla gazzella.

Poi passano a parlare della selvaggina nell’area. La regione in cui sorge San Giacomo è arida e i boschi più rari e meno fitti rispetto all’Arram, dove la cacciagione è più abbondante, ma anche qui ci sono diverse prede.

- Ma mi dicono che le prede che voi preferite siano altre, conte.

- Ah sì? E quali?

- Maschi vigorosi, da cacciare e uccidere.

Ferdinando ride. Sa che nel regno di Gerusalemme tutti sono a conoscenza delle cacce all’uomo in cui nell’Arram trovano la morte coloro che vengono condannati alla pena capitale. Il conte ama la caccia all’uomo, perciò i condannati vengono liberati, viene loro dato un coltello e poi Ferdinando si mette sulle loro tracce. Se si tratta di maschi molto forti e virili, questo tipo di caccia gli trasmette sensazioni intensissime.

- Sì, le esecuzioni dei condannati a morte si svolgono con una bella caccia. In questo modo gli diamo un’ultima possibilità.

- Mi dicono che gli date anche un’arma.

- Sì, un pugnale. In fondo anche un cinghiale ha le zanne, no? È più divertente cacciarli così.

Olivier è perplesso: di certo non rischierebbe la pelle in questo modo. Ma considera Ferdinando una bestia, per cui non si stupisce.

- Preferisco cacciare le antilopi. O gli aironi. Avete mai cacciato con il falcone, conte?

Ferdinando scuote la testa. La falconeria non lo interessa: preferisce la caccia ad animali di grossa taglia, come i cinghiali o al massimo i cervi, ama uccidere direttamente le prede, anche rischiando di ferirsi. Gli piace spargere il sangue e non teme di versare anche il proprio, come è più volte successo. Una caccia in cui è il falcone a raggiungere e uccidere la preda non presenta nessuna attrattiva per lui.

- No, barone. È un tipo di caccia che non ho mai praticato.

Olivier non se ne stupisce: questo zotico non può certo apprezzare le raffinatezze della caccia con il falcone. Ma questo zotico è conte e Olivier solo barone, come le parole di Ferdinando gli hanno ricordato. Olivier spera vivamente di vedere il giorno in cui Ferdinando sarà bruciato come sodomita o magari squartato in piazza come traditore.

 

Mentre Ferdinando intrattiene Olivier, Denis ha modo di parlare a lungo con il nipote del barone, egli stesso barone perché per volontà di re Amalrico i tre fratelli di Soissons ricevettero tutti il titolo, anche se il feudo spettò al maggiore, Renaud. Philippe è l’unico figlio maschio di Renaud e l’anno prossimo compirà diciotto anni. Fino a ora è stato sotto la tutela dello zio, che è alquanto restio a cedere il potere.

Denis consegna a Philippe una lettera di Jeanne. Non è la prima volta che Denis fa da messaggero: ha modo di recarsi periodicamente a San Giacomo d’Afrin e Jeanne gli affida sempre un messaggio per il nipote.

Philippe sa che può fidarsi del duca e discute con lui della situazione di San Giacomo e dei problemi che si presenteranno quando lo zio dovrà lasciarlo governare. Sanno entrambi che Olivier non intende rinunciare al potere.

Denis consiglia a Philippe di muoversi con cautela e di evitare uno scontro diretto con lo zio, che ha messo nelle posizioni più importanti uomini di sua fiducia: se si arrivasse a un contrasto aperto tra zio e nipote, Olivier avrebbe l’appoggio di tutti coloro che ricoprono le principali cariche e Philippe rischierebbe di avere la peggio, nonostante i suoi diritti.

 

Più tardi, quando si sono nuovamente riuniti, il barone Olivier si rivolge ai suoi due ospiti:

- Venite, vi farò assistere a uno spettacolo piacevole.

Denis d’Aguilard non dice nulla: sa bene quali spettacoli il barone trova piacevoli e offre volentieri ai suoi ospiti, nella convinzione che anch’essi li apprezzino. Il conte Ferdinando chiede:

- Ah sì? Di che cosa si tratta questa volta?

- Tra poco farò castrare uno schiavo.

Denis d’Aguilard è abituato alle esecuzioni capitali e alle torture: ha visto giustiziare molti uomini. Ha anche dovuto assistere all’esecuzione del proprio padre, costretto a mettersi in ginocchio, con le mani legate dietro la schiena, e decapitato da un saraceno, perché la sua testa potesse poi essere inviata a Nur ad-Din, signore di Aleppo. Denis sa che il barone Olivier ama questi spettacoli, ma personalmente non li apprezza. Se occorre far squartare un uomo, non esita a farlo, ma non ne ricava divertimento.

Al conte Ferdinando invece gli spettacoli del barone non dispiacciono: ama la violenza e se il condannato è un uomo vigoroso, prova un piacere intenso a vederlo uccidere. In questo caso si tratta solo di castrazione, ma è comunque interessante.

- E come mai?

- Quel porco pagano si è rifiutato di bere il mio piscio.

Olivier ride. Anche Ferdinando ride: l’idea gli sembra divertente. Prosegue:

- Non sapevo che chiedeste questi servizi ai vostri schiavi.

- Non li chiedo abitualmente. Ma quest’uomo è troppo orgoglioso e ho deciso di dargli una lezione. Non l’ha voluta ascoltare, per cui ne riceverà un’altra, che non si dimenticherà.

Olivier ride di nuovo. Pregusta lo spettacolo e l’umiliazione del prigioniero.

- Cioè lo castrerete.

- Prima gli ho fatto dare cinquanta frustate.

- Cinquanta? È ancora vivo?

- Sì. È un uomo tanto forte quanto testardo. Ma senza i coglioni abbasserà la cresta.

- Non ne dubito.

Denis non ha detto nulla.

I tre signori raggiungono il cortile del palazzo. C’è un uomo legato a un palo, a cui si appoggia. Il prigioniero ha la pelle piuttosto scura: di sicuro ha sangue africano nelle vene. È madido di sudore, che scorre a rivoli sul viso e sul petto, fino a perdersi tra la peluria del ventre. È stremato e se il palo e le corde non lo sostenessero, di certo crollerebbe a terra. A tratti il suo corpo è percorso da un brivido. Il barone Olivier si avvicina al prigioniero, sghignazzando.

- Il tuo profeta non ti ha ancora liberato, pagano?

L’uomo lo fissa e, a fatica, dice:

- Cane!

Olivier di Soissons colpisce il viso dell’uomo con la mano aperta. Gli anelli lacerano la pelle e il sangue si mescola al sudore.

Il barone si fa dare un pezzo di stoffa e si asciuga la mano.

Ferdinando intanto dice, piano:

- Porcoddio, che maschio! Quello mi piacerebbe fotterlo. E cacciarlo.

Denis scuote la testa. Conosce il gusto di Ferdinando per la caccia all’uomo, ma non lo condivide. Guarda il prigioniero, nei cui occhi legge un odio profondo. Quando Olivier si avvicina nuovamente, gli dice:

- Un uomo così forte… è un peccato castrarlo. È un seguace di Maometto, vero?

- Sì.

- Un uomo come questo può servire. Vivo.

- Servirà come eunuco. Se sopravvive.

Il duca scuote la testa.

- No, barone. Sarebbe uno spreco. Vendetemelo. Me ne servirò io.

Non è un ordine: il duca non ha nessun potere sul barone. Ma c’è una certa autorità nella sua voce, come sempre: l’autorità di un uomo che è abituato a essere obbedito, le cui parole sono sempre un comando.

Olivier esita. Gli spiace rinunciare allo spettacolo che pregustava, ma il duca è potente e non è bene contrariare questo alleato di cui può avere bisogno. Prima o poi il vescovo riuscirà nei suoi intenti e il duca crollerà, ora che il re gli è ostile, ma fino ad allora è meglio assecondarlo.

Fa ancora un tentativo, cercando un appoggio nel conte Ferdinando:

- Non vi spiace perdere lo spettacolo?

Ferdinando alza le spalle. Per lui il volere di Denis d’Aguilard è molto più importante del divertimento di qualche minuto: è un amico, oltre a essere un alleato prezioso, e soprattutto è un uomo che sa quello che fa. Ferdinando è conscio del fatto che Denis è molto più saggio di lui.

- Se al duca quest’uomo serve vivo e con le palle, sarebbe stupido castrarlo.

Olivier di Soissons cede, nascondendo la propria irritazione nei confronti del duca, che lo priva della vendetta e del divertimento, e del conte Ferdinando, che senza nemmeno rendersene conto gli ha dato dello stupido. Si rivolge al duca:

- Se lo desiderate, ve lo posso vendere.

- Quanto chiedete?

- Fate voi un’offerta.

La cifra proposta dal duca è alta, più di quanto possa valere un uomo che la fustigazione ha quasi ucciso.

- Va bene, duca, visto che siete voi a chiedermelo.

Denis d’Aguilard si rivolge a Pierre, l’ufficiale che lo accompagna:

- Va’ a chiamare due soldati. Slegate quest’uomo e portatelo nei miei appartamenti. Affidalo a Nabih.

Nabih è il medico personale del duca, un arabo che viaggia sempre con il duca.

 

Mahmud stringe i denti per non urlare, mentre Nabih gli pulisce le ferite e le cosparge di un unguento. Non ha detto una parola, sopportando in silenzio il dolore.

- Ancora un momento e ho finito.

Mahmud parla, per la prima volta:

- Tu sai perché il duca mi ha comprato?

Nabih sorride.

- Chiedilo a lui, se vuoi saperlo.

- Non parlo la lingua dei cristiani. Sono schiavo da poco tempo e non ho imparato quasi niente.

- Ma il duca parla l’arabo. E lo parla meglio di te.

Mahmud è curdo, ma si esprime bene in arabo. L’idea che un signore franco conosca l’arabo lo stupisce.

- Tu segui la vera religione?

- Sono sottomesso a Dio e riconosco in Maometto il suo profeta.

- Quindi sei anche tu uno schiavo.

- No, sono al servizio del duca, ma non sono schiavo.

- Perché servi un cane cristiano, se puoi andartene?

Il medico sorride di nuovo.

- Perché dai giudizi sulle persone senza conoscerle? È da stolti.

- Se fossi libero non servirei certo un cane cristiano.

Nabih scuote la testa.

- È grazie al duca se a Rougegarde non ci sono mai stati massacri e persecuzioni ai nostri danni, come invece è avvenuto qui ad Afrin e in tante altre città. La sua vita è preziosa e faccio tutto il possibile per conservarla.

Mahmud non sembra convinto, ma non risponde.

Dopo un momento di silenzio osserva:

- Ti fa curare anche i suoi schiavi, a quanto vedo.

- Mi fa curare chi lavora per lui, ma non gli schiavi: il duca non ha schiavi.

- Cosa?

- I servitori del duca sono tutti uomini liberi.

Mahmud è ancora più perplesso. Riflette un momento, poi chiede:

- Che ne farà di me, allora?

- Anche a questa domanda, solo il duca può rispondere.

Mahmud pensa alla moglie, ai figli e ai fratelli. Aveva perso ogni speranza di rivederli, ma forse il duca gli permetterà di riscattarsi e di tornare a casa.

 

Il duca arriva un’ora dopo.

Mahmud vorrebbe alzarsi, ma fa fatica anche solo a sollevarsi sulle braccia. Il duca gli dice, in arabo:

- Rimani disteso.

Allora Mahmud parla, nella stessa lingua:

- Duca, perché mi avete comprato?

Il duca fissa Mahmud negli occhi.

- Perché non mi va che un uomo venga castrato per aver difeso la sua dignità.

Mahmud ricambia lo sguardo, ma non sa che cosa dire. Allora china la testa. Poi la solleva di nuovo e dice:

- I miei fratelli vi rimborseranno quanto avete pagato. E se vorrete permettere loro di riscattarmi, vi pagheranno anche per questo.

- Ciò che ho fatto, l’ho fatto per mia scelta e di certo non chiederò un rimborso per le tue palle. Se vuoi la libertà, te la darò. Ma te la devi guadagnare.

Mahmud aggrotta la fronte.

- Come?

- Questo lo vedremo. Io non tengo schiavi, Mahmud…

Mahmud si stupisce che il duca conosca il suo nome. Denis d’Aguilard procede:

- …ma tu sarai mio schiavo fino a che non deciderò che cosa fare di te.

Il duca saluta e se ne va.

Nabih si avvicina a Mahmud.

- Allora, Mahmud, sei soddisfatto delle risposte che il cane cristiano ti ha dato?

C’è una forte ironia nel modo in cui Nabih ha sottolineato le parole “cane cristiano”.

Mahmud scuote la testa.

- Avevi ragione, medico. È da stolti dare giudizi su chi non si conosce. 

 

Il giorno dopo Denis e Ferdinando tornano a Rougegarde. Procedono lentamente, perché Mahmud non può certo cavalcare e deve essere trasportato su una lettiga.

Quando hanno lasciato San Giacomo, Ferdinando osserva:

- Non capisco tutta questa urgenza. Dalla lettera che ci ha mandato, sembrava che non dovessimo perdere nemmeno un minuto e precipitarci da lui. E poi… movimenti di truppe… il Leone… fumo, tanto fumo. E niente arrosto. Tra l’altro, anche quello che ci ha servito ieri a pranzo era davvero pessimo. Dovrebbe trovarsi un altro cuoco.

Denis sorride, poi annuisce.

- Hai ragione. Mi voleva lontano da Rougegarde quando è successa la faccenda di Emich: deve averglielo chiesto il vescovo. Per quello non sono partito subito.

- Tu sapevi che Emich sarebbe stato ucciso, vero?

A Ferdinando Denis non ha raccontato nulla della setta e di Emich. Nell’amico ha piena fiducia, ma ritiene, come principio generale, che sia preferibile condividere il meno possibile ciò che deve rimanere segreto.

- Sapevo che ci sarebbero stati problemi seri con il vescovo.

- Porcoddio! Quel lurido bastardo! Il tizio che gli ha tirato uno stronzo in faccia ha fatto bene. È quello che si merita. Lo affogherei in una fogna. Sarebbe la fine adatta per uno come lui. È il suo posto: una merda nella merda.

Denis sorride.

- Vuole la mia rovina e ha pensato di servirsi di Emich per ottenerla. Ma qualche cosa non ha funzionato come aveva previsto.

- Non è ora che ti occupi di questa faccenda? Intendo dire: neutralizzarlo una volta per tutte?

Denis volta la testa verso Ferdinando. Sorride e dice:

- Che cosa proporresti? Tendergli un agguato e sgozzarlo?

- Mi piacerebbe, porcoddio! Mi piacerebbe davvero. Fotterlo e poi sgozzarlo. Se vuoi lo faccio. Dico che intendo espiare i miei peccati e lo faccio venire al mio palazzo. Lungo la strada mi travesto da brigante, lo assalgo e lo faccio fuori.

Ferdinando ride: anche se lo farebbe davvero volentieri, sa che non è possibile. Denis scuote la testa, sorridendo.

- No, Ferdinando. Non è il modo giusto. Troppo pericoloso. Per il momento provvedo a parare i colpi, cercando di rendergli la vita più difficile. Con Emich mi è andata bene: contava di servirsene contro di me e si è messo contro gran parte della popolazione.

- Non vorrei mai che prima o poi riuscisse nel suo intento.

- Vedrò di impedirglielo. Di certo adesso tramerà qualche cos’altro. Vuole approfittare del momento favorevole. Si muoverà con cautela, ma conto di scoprire le sue intenzioni.

- Come fai a sapere le sue mosse?

- Ho i miei informatori, Ferdinando.

Denis non fornisce dettagli. Preferisce non dire che nel palazzo ducale c’è un uomo che occupa una posizione importante, ma è al suo servizio. Il vescovo non sospetta nulla.

- Se poi c’è da ammazzarlo, mi fai un favore: mi avvisi e lo fai fare a me. Una bella caccia al vescovo.

Il vescovo non è un maschio vigoroso come quelli che piacciono al conte, ma ucciderlo sarebbe davvero un piacere. Magari non lo fotterebbe prima della caccia, ma di certo gli piscerebbe addosso, prima di ammazzarlo e dopo. Ci sono diverse altre cose che gli farebbe volentieri, nessuna delle quali sarebbe apprezzata dal vescovo.

 

Lungo la via del ritorno si fermano al castello San Marco, una fortezza araba che adesso ospita una guarnigione dei templari, comandata da Guillaume di Hautlieu. Guillaume è il migliore amico di Denis, ma non hanno molte occasioni di vedersi al di fuori della campagne militari a cui partecipano entrambi. Anche tra Ferdinando e Guillaume esiste un legame, per quanto meno forte di quello che unisce il duca ai due uomini: si conoscono da oltre venticinque anni e sono affezionati l’uno all’altro.

La sera mangiano insieme a tutti i monaci templari e dopo cena i tre amici e Adham chiacchierano un momento, poi Adham e Ferdinando raggiungono le tende che sono state montate ai piedi del castello. Denis rimane per parlare ancora un po’ con Guillaume.

Il templare osserva:

- Direi che Ferdinando è sempre felice con il suo nero.

- Sì, è sempre innamorato di Adham e Adham di lui.

- Ma non credo che abbia rinunciato a scopare anche con altri.

Denis ride.

- No, di certo. Per quanto innamorato, non rinuncia a cogliere le occasioni che si presentano.

- E a crearne, quando non si presentano da sole.

- Esatto.

- E tu, Denis? Il tuo bell’ebreo?

Guillaume ha visto Solomon soltanto due volte. Lo ha colpito molto, non per la bellezza, che non è così appariscente, ma perché ha colto in lui una notevole ricchezza umana.

- Sono felice con lui. Come ti ho detto, non credevo che mi sarebbe successo, non mi sarei mai immaginato di innamorarmi ancora.

- Sono felice per te, Denis. Te lo meritavi.

- Grazie.

Denis lascia passare un attimo, poi chiede:

- E tu, Guillaume? Come stai?

Guillaume tace, poi dice:

- Non è facile darti una risposta, Denis. Sono abbastanza tranquillo. Il tempo è un ottimo medico. Ma mi sento stanco.

- In che senso?

- Ci sono giorni in cui mi chiedo che cosa faccio qui. Che cosa facciamo tutti noi in questa terra. Ciò che ho visto fare in nome del Cristo… Quanti orrori, Denis!

- Lo so, Guillaume, se penso a ciò che successe a Bilbeis… Ho anch’io i tuoi stessi dubbi.

- Denis, tu governi una città, dove grazie a te regna la pace. Svolgi egregiamente un compito importante. Il giorno in cui ti presenterai al cospetto di Dio, potrai dirgli di aver governato una città con giustizia, nell’interesse di tutti i cittadini e non solo di alcuni. Se un Dio esiste… non userei con nessun altro questa espressione, ma tu conosci i miei dubbi, non potrà che accoglierti tra i giusti.

- Sono un peccatore…

Guillaume lo interrompe:

- Chi di noi non lo è? Ma se l’angelo peserà sul piatto della bilancia i tuoi peccati e i tuoi meriti, non saranno certo le tue colpe a prevalere.

- E tu? Che colpe hai commesso?

Guillaume non risponde subito. Ha bisogno di un momento per riuscire a trovare le parole.

- Ho servito fedelmente, cercando di svolgere i miei compiti come meglio potevo. Ma qual è il mio merito? Massacrare i saraceni è un merito? Non mi sembrava che Gesù dicesse niente del genere, o mi sbaglio, Denis?

C’è un’ironia amara nelle parole di Guillaume.

- Anch’io ho combattuto. Siamo in guerra.

- L’abbiamo portata noi questa guerra.

- Sì, è vero. E prima l’hanno portata loro. Erano terre cristiane, queste.

- E andremo avanti così all’infinito? Uccidendo in nome di chi ha detto: “Ama il prossimo tuo come te stesso”?

Denis fissa Guillaume, poi dice:

- Sì, Guillaume. Anch’io ho molti dubbi. Governo Rougegarde che ho conquistato un tempo, ma mi chiedo che cosa farei il giorno in cui i saraceni dovessero togliermela. Mio padre mi insegnò a combattere e io ho continuato a farlo, faccio quello che ritengo il mio dovere, ma se non avessi la responsabilità del governo di Rougegarde, non so che cosa farei, forse tornerei a Bellerivière

Denis scuote la testa, poi osserva:

- Mi chiedo che cosa direbbero i signori del regno se mi sentissero.

- Non ti capirebbero. Per loro combattere per il potere è normale. Uccidere in nome di Dio è normale, odiare il prossimo è normale…

- Forse il tuo posto non è tra i cavalieri del Tempio. Per te sarebbe stato più adatto un monastero benedettino.

Guillaume ha un mezzo sorriso amaro.

- Un monaco che ha perso la fede. Non so che cosa avrei dovuto fare della mia vita, Denis. Ma… non lo so…

- Ti senti molto solo, vero?

Guillaume annuisce.

- Sì, solo. Sei l’unico al mondo con cui posso veramente parlare. E abbiamo pochissime occasioni di vederci. Forse… se altre cose fossero state diverse… non lo so.

- Pensi a Jean, vero?

Jean è il ragazzo di cui Guillaume si era innamorato al tempo in cui era comandante di castello San Michele. Quando era partito per andare in guerra, lo aveva lasciato alla fortezza. Immaginava di ritrovarlo, ma Jean era scomparso. Denis è l’unica persona a cui Guillaume ha raccontato questa vicenda.

C’è un lungo momento di silenzio, prima che Guillaume risponda:

- Sì. L’amavo. Credo di amarlo ancora, anche se mi rendo conto che non ha senso.

- Non hai più saputo nulla di lui, vero? Dopo la morte del mercante e la fuga, intendo.

Guillaume ha scoperto che Jean è stato schiavo di un mercante, Roland di Chartres, e che l’ha ucciso, fuggendo poi nei territori saraceni.

- No. Scomparso nel nulla. Ormai sono quasi dieci anni. Mi chiedo che cosa sia successo, che cosa ha fatto Jorge, per allontanarlo, anche se… in realtà lo so, ma faccio fatica ad accettarlo. E mi rendo conto di odiare Jorge…

Guillaume di nuovo sorride amaramente, poi aggiunge:

- Non odio i saraceni, ma odio un confratello.

- Che se lo merita, Guillaume. E non solo per quello che ha fatto a Jean.

Guillaume annuisce.

- Sì, credo di sì. Ma… non so… mi sento fuori posto, mi sembra che ciò che faccio non abbia senso. No, non è così. Quello che faccio non ha senso per me.

Denis fissa l’amico. È preoccupato per lui.

- Che cosa conti di fare?

Guillaume alza le spalle.

- Che cosa vuoi che faccia? Ho pronunciato i voti. Che cosa potrei fare? Ritirarmi in qualche convento in Francia? No, non… non vedo che cosa potrei fare. Sono stanco, Denis.

Denis annuisce. Coglie nelle parole di Guillaume un desiderio di morte che lo spaventa, ma non ha una soluzione da offrire. Che cosa potrebbe fare Guillaume, dopo una vita passata a combattere oltremare? Se non fosse un monaco templare, Denis potrebbe proporgli di venire a Rougegarde: un uomo come Guillaume sarebbe utile nel governo della città. Ma i voti pronunciati non possono essere sciolti.

- Guillaume, non so che cosa ci riserva il futuro. Ho la sensazione che i nostri giorni qui siano contati. Vedremo che cosa succederà. Ma non cercare la morte.

- Non la cerco, Denis. Vedremo…

Rimangono un momento in silenzio, poi Denis abbraccia l’amico e si congeda, un peso sul cuore.

 

Il giorno dopo Denis riprende la strada per Rougegarde, dove Ferdinando e Adham si fermano per una notte, con l’intenzione di partire il pomeriggio del giorno seguente. Nel palazzo ducale Ferdinando si sente a proprio agio. È benvoluto da tutti, per la sua amicizia di lunga durata con Denis.

Nuovamente il conte e Adham danno lezioni a Jacques e Pierre. Dopo la lezione, si bagnano. Pierre si lava rapidamente e se ne va: sa che l’amico desidera rimanere da solo con i due guerrieri. Jacques indugia, nella speranza di riprendere l’attività dell’ultima volta che si sono bagnati. Non vuole però farsi avanti, perché prova vergogna.

Jacques chiede:

- Conte, so che siete amico da tantissimi anni con il duca. Come lo conosceste?

- Ero appena sbarcato oltremare. Avevo vent’anni… porcoddio! Quasi ventisette anni fa! E sulla nave c’era anche quel bastardo del vescovo.

- Il vescovo? Bohémond di Tours?

- Sì. Non era vescovo, allora, ma rompeva già i coglioni.

- In che senso?

- Voleva controllare tutto quello che accadeva a bordo. Un vero fanatico. Ci teneva a crearsi la fama di sacerdote tanto puro quanto rigoroso. L’avrei buttato a mare volentieri e mi pento di non averlo fatto.

Jacques ride.

- Una volta sbarcato, cercai un ingaggio. Non possedevo niente, a parte le mie armi. Trovai senza difficoltà. C’era un cavaliere, Chrétien da Bayonne, che voleva attaccare l’emiro di Afrin.

- Voleva conquistare Afrin?

- Forse ci contava. In ogni caso voleva riprendere dei territori che erano stati sotto dominio dei franchi per un certo periodo. Sperava che il re gli desse un feudo. C’era anche Denis, il duca. Era giovanissimo. Un ragazzo. E io mi chiedevo che cosa sapesse fare, uno così. Meno male che c’era lui, se no saremmo tutti morti.

- Tutti morti? Perché?

Jacques non ha mai sentito parlare di questa spedizione. Pierre invece la conosce, perché suo padre gliel’ha raccontata. Ferdinando risponde alla domanda di Jacques:

- Finimmo in una trappola, quei bastardi sapevano del nostro arrivo. Scoprimmo solo anni dopo che doveva essere stato Tancrède d’Espinel a tradirci.

- Il conte che squartarono in piazza?

- Sì, castrato e poi squartato in piazza a San Giacomo d’Afrin.

Ferdinando ride. Poi torna serio e aggiunge:

- Ebbe quello che si meritava quel bastardo. E dire che fui anche al suo servizio.

I ricordi emergono e Ferdinando si rende conto che invece di raccontare come conobbe Denis sta divagando. Riprende il filo del discorso:

- Allora, ci trovammo circondati in una gola, nessuna via d’uscita. Massacrarono gran parte di noi. Ci salvammo in pochi, perché scese la notte, ma al mattino saremmo stati uccisi o catturati tutti. Per fortuna c’era Denis. Trovò una via di fuga e ci guidò in salvo. Riuscimmo a fuggire. Altrimenti… magari sarei diventato schiavo. Chissà, magari qualche signore arabo mi prendeva come stallone.

- Secondo me ti castravano.

Ferdinando ride alla battuta di Adham e gli fa un gestaccio. Il nero prosegue:

- Oppure finivi nelle miniere di sale. 

Un altro gestaccio è l’unica risposta. Il conte prosegue:

- Comunque Denis ci salvò tutti, tutti quelli che non erano stati ammazzati prima, intendo. Da allora abbiamo sempre combattuto insieme. E devo dire che non ho mai incontrato un guerriero che potesse stargli alla pari.

Jacques annuisce.

- È quello che dicono tutti.

Ferdinando ghigna e dice:

- Adesso però potremmo passare ad altro, no? Nel pomeriggio ce ne andiamo. Devi approfittare dell’occasione.

Jacques abbassa gli occhi. Si vergogna, ma è ben contento di riprendere quest’altro tipo di lezione, certamente più piacevole di quella che si svolge nella sala d’arme.

Il conte prosegue:

- La volta scorsa ti abbiamo mostrato come di può usare la bocca. Perché non ci fai vedere se hai imparato?

Jacques guarda Ferdinando, senza rispondere. Ha la gola secca. Il conte si alza e si mette davanti a lui. Jacques si mette in ginocchio. Davanti alla bocca ha ora il più bel cazzo d’Oltremare. Esita un attimo, poi schiude le labbra e passa la lingua dalla cappella alla base. Lo fa due volte. Quando ha preso coraggio, apre la bocca e accoglie la cappella. L’assapora un po’, poi incomincia a succhiare. Sente il cazzo crescere di volume e irrigidirsi. Prova a mordicchiare, leggermente, mentre l’arma si riempie ancora di sangue.

Ferdinando dice, ridendo:

- Ehi! Non me lo mangiare! Mi serve!

Anche Adham ride.

Jacques poggia le mani sul culo di Ferdinando. È bello farle scorrere su questa pelliccia folta, sentire il calore della carne, la forza dei muscoli. Questo magnifico animale gli piace, come gli piace il grosso cazzo di cui la bocca avvolge ancora a fatica la cappella. Jacques vorrebbe spostare le mani e percorrere con un dito il solco tra le natiche, fino all’apertura, ma non osa, bloccato da una vergogna che comprende essere assurda.

È invece Adham, che fino a ora è rimasto a guardare, a mettersi dietro Ferdinando, a prendere le mani di Jacques e a farle scivolare sul culo fino a che le dita non premono contro il solco. Poi le guida a premere contro l’apertura, a forzarla.

Ferdinando emette una specie di grugnito e in quel momento il suo seme sgorga, abbondante, riempiendo la bocca di Jacques, che esita, ma poi beve, succhiando ancora, per suggere le ultime gocce.

Ferdinando lo fa alzare e lo bacia sulla bocca, mentre lo stringe tra le braccia. È una sensazione strana, che non ha niente a che fare con la tenerezza di Lucas. Jacques si sente prigioniero in una stretta da cui non saprebbe liberarsi, mentre la lingua del conte si infila prepotente nella sua bocca.

Le mani di Ferdinando scivolano sul suo culo e Adham, dietro Ferdinando, fa lo stesso. Jacques sente queste mani che pizzicano, accarezzano, stuzzicano, un dito – di Ferdinando? Di Adham? – che preme. E di colpo il piacere esplode e Jacques viene, spargendo il suo seme sul ventre del conte.

Adham passa dietro di lui. Ora Jacques può sentire il cazzo del nero, grande, caldo e duro, premere contro il suo culo. Le mani di Adham sono sul culo di Ferdinando, quelle del conte sul culo del nero. Jacques è in mezzo, prigioniero, timoroso.

Adham muove un po’ il culo. Jacques ha paura, ora. Dice, quasi grida:

- No!

Adham lo lascia e fa un passo indietro. Ferdinando abbassa le braccia.

Jacques balbetta:

- Scusate, io… io devo andare…

Jacques si pulisce frettolosamente e si riveste.

Quando è uscito, Ferdinando scuote la testa. Adham sorride e osserva:

- Non è ancora pronto.

- Magari lo sarà la prossima volta che veniamo. Un po’ di astinenza lo renderà più disponibile.

- Non so. Non se l’è mai preso in culo, questo è certo.

- Dovrà pur decidersi a farlo.

- Per la prima volta il tuo cazzo non è il più adatto, temo…

Ferdinando ride.

- Neppure il tuo.

- Forse.

- Ma adesso non puoi rimanere così, con il cazzo duro.

Mentre dice queste parole Ferdinando si inginocchia e prende in bocca il cazzo del nero. Incomincia a succhiarlo, poi lo lascia e con la lingua scende dalla cappella ai coglioni. Ne prende uno in bocca, delicatamente, poi l’altro. La lingua risale, mentre la destra passa dietro e le dita scivolano sul solco tra le natiche, l’indice indugia sull’apertura, la forza e si introduce deciso. La sinistra afferra i coglioni e stringe con una certa forza. La bocca si apre nuovamente per accogliere il cazzo e il movimento delle labbra riprende.

Adham chiude gli occhi, assaporando le sensazioni trasmesse dalla bocca di Ferdinando che avvolge il suo cazzo, dal dito che preme dentro di lui, dalla mano che stringe i coglioni. La stretta è un po’ dolorosa, Adham vorrebbe allontanare la mano, ma il mondo intorno a lui vacilla e il piacere cresce, fino a esplodere.

Ferdinando beve con gusto il seme del bel nero, poi si alza, bacia Adham sulla bocca, gli prende una mano e la guida a stringergli il cazzo, mentre tiene ancora l’indice nel culo del compagno.

Dopo che si sono baciati, Adham scivola a terra e si mette a quattro zampe.

Ferdinando passa la lingua sul solco, poi la preme contro l’apertura, più volte. Si inumidisce ancora la cappella e infine si stende su Adham e lo infilza, facendolo sussultare.

- Cazzo!

Il conte ride, poi lo accarezza, gli pizzica i capezzoli, gli stringe il cazzo, mentre dà inizio a una lunga cavalcata.

 

Nel primo pomeriggio Ferdinando e Adham partono. Jacques si sente sollevato e nello stesso tempo è dispiaciuto.

 

 

III – Manovre

IV – La disfatta

V – Addii

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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