V – La
giustizia dello sceicco Solomon
si inginocchia davanti alla tomba del capo curdo Boran: un tumulo di terra compatta,
grigia e pietrosa, su cui cresce un’erba rada. Non è credente e non prega, ma
vuole rendere omaggio a un uomo che è stato suo amico, nonostante la
differenza di età: Solomon ha la stessa età del figlio maggiore di Boran,
Ishan. Solomon
ripensa alla loro breve conoscenza. Boran gli aveva commissionato alcuni
gioielli per la figlia che andava in sposa: voleva il meglio, perché la
ragazza sposava uno dei principali capitribù della regione. Quando Solomon
era giunto, lo aveva accolto con la grande ospitalità dei curdi. E lo aveva
invitato partecipare a una battuta di caccia. Solomon non ama la caccia, ma
aveva accettato per non apparire scortese. Durante
la caccia Solomon e il secondo figlio di Boran, Sarajil, si trovavano vicini
quando una leonessa era improvvisamente comparsa a pochi passi. Il cavallo di
Sarajil si era impennato e il giovane era caduto a terra. I fratelli e il
padre erano troppo lontani per poterlo soccorrere: la fiera avrebbe sbranato
il giovane, se non fosse intervenuto Solomon, che aveva ucciso l’animale,
salvando Sarajil. Da
allora per Boran e i figli l’orafo ebreo era entrato a far parte della
famiglia: Boran lo chiamava “figlio” e i tre giovani lo chiamavano
“fratello”. Solomon
sente lo scalpitio di un cavallo che si avvicina. Si volta e vede Ishan. Si
alza. Ishan
scende da cavallo e abbraccia Solomon. -
Solomon, fratello, sono felice di vederti. Mi hanno detto che uno straniero
era in preghiera davanti alla tomba di nostro padre, ma non è uno straniero,
è mio fratello. -
Sono venuto qui perché ho bisogno del tuo aiuto, Ishan. E arrivando ho deciso
di fermarmi a rendere omaggio a nostro padre. Poiché
Boran lo aveva pubblicamente accolto come figlio, Solomon lo ha sempre
chiamato “padre”, come Ishan. D’altronde Solomon non ha mai conosciuto il suo
vero padre, l’uomo che stuprò sua madre, né quello che avrebbe potuto essere
il suo patrigno, il marito della madre. Ishan
si rabbuia e scuote la testa. -
Sono passati tre anni da quando quel porco cristiano lo ha assassinato. Non
sono ancora riuscito a vendicarlo, ma Iddio mi è testimone che prima o poi
Jorge da Toledo pagherà per questo. -
Jorge da Toledo? -
Sì, sono riuscito a scoprire il suo nome, ma non dove si nasconde, quel cane
che ha finto di essere un figlio di Maometto per avvicinarsi a noi e poi ha
ucciso nostro padre a tradimento. Ma non parliamo di questo, ora. Vieni a
casa, così ritroverai Sarajil e Yilmaz e ti presenterò nostro fratello
Mahmud. Boran
aveva solo tre figli maschi e Solomon non sa chi possa essere questo Mahmud:
senz’altro qualcuno che è stato “adottato” dai tre fratelli dopo la morte del
padre, come Boran aveva fatto con Solomon. La
casa che Ishan divide con i suoi fratelli è la più grande del paese, perché
Boran era un capo potente e molto rispettato. È un’abitazione comoda, in cui
non manca nulla, ma non c’è nessuna ostentazione di lusso: Boran era un
guerriero, non un ricco signore che ama vivere negli agi, e i suoi figli
vivono come lui. L’arrivo
di Solomon è accolto con grandi manifestazioni di gioia, come il ritorno di
un familiare molto amato, che è stato lontano a lungo: un tempo Solomon
veniva abbastanza spesso, ma negli ultimi anni è tornato con minore
frequenza. Sarajil
lo abbraccia, chiamandolo, come sempre, “mio fratello il leone”. Anche
l’altro fratello, Yilmaz, è felice di ritrovarlo: il loro affetto è sincero e
profondo. Solomon sa che se decidesse di fermarsi a vivere qui, nella casa ci
sarebbe posto anche per lui e per sua moglie e i suoi figli: per i figli di
Boran, ciò che apparteneva al padre è anche suo. Con
l’aiuto delle serve, le mogli di Sarajil, Yilmaz e Mahmud preparano un grande
banchetto, per festeggiare il ritorno del fratello lontano. Intanto Ishan
presenta Mahmud. È un uomo molto forte, come Ishan e i suoi fratelli, con la
pelle nettamente più scura: sicuramente tra i suoi antenati c’è qualche
africano. Solomon
ha portato alcuni doni: orecchini per le mogli di Yilmaz e Sarajil, un anello
per i fratelli. Non sapeva di Mahmud e della moglie, ma riesce comunque a non
fare torto a nessuno: ha portato quattro paia di orecchini, perché le donne
possano scegliere, per cui ce ne sono per tutte e tre le mogli; ha con sé
anche un bracciale maschile, che dona a Ishan, dando i tre anelli agli altri
fratelli. Dopo
il banchetto parlano tutti insieme, felici di ritrovarsi. Solomon racconta il
massacro a San Giacomo d’Afrin e il suo trasferimento a Rougegarde. I
fratelli si stupiscono che abbia scelto di rimanere nel regno di Gerusalemme,
dopo quanto è successo, anche se sanno che il duca di al-Hamra non perseguita
ebrei e musulmani. I figli di Boran narrano le novità dell’ultimo anno, tra
cui la nascita del secondogenito di Sarajil e soprattutto l’ingresso di
Mahmud nella famiglia. Solomon
non accenna al motivo per cui è venuto al villaggio: non è ancora il momento. Giunta
la sera, quando i fratelli si ritirano con le loro mogli, Ishan e Solomon
rimangono da soli. Ishan propone di uscire e Solomon accetta. La serata è
calda, ma il calore non è più opprimente. L’aria è piena dei profumi della
primavera e nel cielo si accendono le stelle. Solomon si sente bene, nel buio
della notte che li avvolge. Sa che in Ishan ha davvero un fratello, con cui
può parlare molto più liberamente che con Amos. Ishan
dice: -
Fratello, questa mattina mi hai detto che hai bisogno del mio aiuto. Ordinami
che cosa devo fare. Solomon
sorride: -
Non darò ordini al mio fratello maggiore. Hanno
la stessa età, ma Ishan è il primogenito della famiglia, quindi Solomon è il
fratello minore. Ishan apprezza la correttezza di Solomon e risponde: - I
tuoi desideri sono ordini per me. Dimmi di che cosa hai bisogno. -
Vorrei che tu mi accompagnassi dallo sceicco Sinan, se pensi di poterlo fare. Ishan
non si aspettava una richiesta di questo tipo, ma non si tira indietro: -
Posso farlo, certo. Nostro padre era in contatto con lui e lo conosco
anch’io. Ishan
non ha chiesto i motivi della richiesta, ma Solomon ritiene giusto spiegarli. -
C’è un castello degli Ismailiti vicino alla valle dell’Arram. Il capo del
castello, Ramzi ibn Qais, prende decisioni che Sinan ignora e che non credo
che approverebbe. Voglio avvertire Sinan. Ishan
annuisce. Non chiede: se Solomon vuole spiegargli, è ben contento di scoprire
qualche cosa di più, altrimenti non intende interrogare suo fratello. Solomon
continua: -
Adesso minaccia la vita di due signori franchi, perché un altro l’ha pagato.
Non credo che Sinan approverebbe. -
No, lo penso anch’io. Anche se odio tutti i franchi. -
Una volta non era così. - No,
hai ragione Solomon. Ma nostro padre… Lo sai, lo ha ucciso a tradimento, quel
bastardo. E… non solo… -
Che cosa intendi dire? -
Non l’ho mai raccontato a nessuno. Non te ne ho parlato le altre volte che ci
siamo visti, ma devo dirlo a qualcuno, altrimenti impazzisco. I nostri
fratelli non lo sanno, ma quel Jorge da Toledo lo ha anche stuprato. Solomon
è stupefatto. Non capisce il senso di uno stupro in un omicidio compiuto per
motivi politici. -
Cosa? -
Sì, il cadavere presentava i segni dello stupro. -
Non capisco perché l’assassino abbia fatto questo. Ishan
abbassa la testa. C’è una smorfia di dolore sul suo viso, che Solomon può
appena vedere nel buio della notte. -
Colpa mia, Solomon. -
Raccontami. -
Questo Jorge era stato abile. Ti ho raccontato che si era presentato come un
credente, si faceva chiamare Musa e diceva di venire da Qurtuba. Era
circonciso, quel cane. Dopo
una pausa, Ishan riprende: - Aa
Aleppo, ai bagni, aveva contattato un ragazzo, con cui io avevo scopato. In
quel modo ha fatto conoscenza con me, è diventato nostro amico. Lo abbiamo
invitato alla cittadella, dove risiedevamo. Ci siamo battuti con la spada,
senza vincitori. Lui ha proposto di fare un giorno una sfida di lotta.
Abbiamo dormito nella stessa stanza e il mattino… avevamo voglia tutti e due
di scopare e ci siamo sfidati. Io l’ho sconfitto e gliel’ho messo in culo.
Lui non se l’era mai preso in culo. Credo che abbia stuprato nostro padre per
quello, per vendicarsi. Ma io l’avevo battuto lealmente. -
Non so nulla di questo Jorge da Toledo, se non che ha fatto una strage nella
moschea quando hanno preso Bilbeis, diversi anni fa. - Un
uomo dell’atabeg, che vive tra i franchi, ci informò che questo Jorge era ad
Aleppo per uccidere nostro padre: evidentemente quest’uomo ha contatti con
chi manda le spie e i sicari. Quando abbiamo avuto la descrizione del
sicario, abbiamo capito che Musa era in realtà Jorge da Toledo, ma ormai
aveva ucciso nostro padre ed era fuggito. Ora li odio tutti, Solomon. Vorrei
sterminare tutti i franchi. - Mi
spiace, Ishan. I franchi non sono tutti così, anche se tra loro ve ne sono
molti spietati e senza onore. -
Ucciderò quel cane. In qualche modo lo ucciderò. Ho anche pensato di
spingermi nel regno dei franchi per cercarlo, ma so che non rimane mai a lungo
in uno stesso luogo. Mi dicono che torna spesso nei nostri territori, a
spiare, a uccidere. C’è
rabbia nella voce di Ishan, ma anche molta sofferenza. Sembra che sia sul
punto di piangere. Istintivamente Solomon lo abbraccia. -
Vendicherai nostro padre, Ishan. Ci riuscirai. Ishan
nasconde il viso contro la spalla di Solomon. Tra
le braccia del fratello, Ishan recupera la serenità. Si stacca. -
Rientriamo in casa, fratello. Il
mattino dopo si mettono in viaggio per il castello dove vive Sinan. Sinan
è stupito che il giovane Ishan gli abbia portato un ebreo. Il capo degli
ismailiti non ha contatti con ebrei. Perché quest’uomo vuole parlare con lui? Sinan
fa attendere Solomon un’oretta, poi lo convoca. L’uomo entra e immediatamente
si mette in ginocchio davanti a lui: conosce i rituali e li rispetta. -
Chi sei? - Il
mio nome è Chlomo, ma tutti mi chiamano Solomon. Sinan
guarda l’uomo inginocchiato davanti a lui. Non c’è traccia di paura sul suo
viso, anche se sa benissimo di rischiare la vita. È chiaramente un uomo
coraggioso, dal portamento fiero. -
Dimmi. - Ho
chiesto di parlarti, sceicco, per informarti di un tradimento. Sinan
si aspettava qualche richiesta di aiuto o una lamentela per un’ingiustizia
subita, invece sembrerebbe trattarsi di qualche cosa di ben più grave. Questo
ebreo non gli sembra tipo da parlare a vanvera. Solomon
prosegue: - A
Qasr al-Hashim non si vive secondo le regole che tu hai dettato, né secondo
l’insegnamento del Profeta. Ramzi si fa portare bambini per educarli a
diventare fedeli esecutori dei suoi ordini, ma di alcuni di loro approfitta
per soddisfare le sue voglie. Ciò succede da anni, con la complicità di
alcuni dei suoi uomini e il silenzio degli altri. Qualche
sospetto sull’interesse di Ramzi per i bambini era già emerso in passato, ma
non aveva ricevuto una conferma. La denuncia di Solomon è molto precisa e non
sembrerebbe riguardare un solo caso. Un’accusa di questo genere comporta la
morte: per l’accusato, se si rivela fondata, per l’accusatore, se risulta
essere falsa. Ciò che Sinan ha sentito in passato non è sufficiente a
confermare le parole di Solomon, che potrebbe proprio servirsi di una diceria
messa in giro in passato dai nemici di Ramzi per cercare di perderlo. Solomon
prosegue: - E
non è solo la sua condotta privata. Ha inviato sicari a uccidere il conte
Ferdinando dell’Arram e il duca Denis di al-Hamra, senza chiederti
autorizzazione. Sinan
non si aspettava la seconda accusa, per certi versi molto più grave: la prima
riguarda una debolezza della carne, non scusabile in un uomo che è al comando
e deve costituire un esempio per i suoi sottoposti, ma la seconda è
un’insubordinazione a tutti gli effetti. -
Perché lo avrebbe fatto? - Lo
ha pagato il signore di Afrin, per impadronirsi dei domini dei due signori. Per
questo ha agito?! Non per un eccesso di zelo, che lo ha spinto a prendere
un’iniziativa autonoma. Non per vendicare un’offesa ricevuta. Per il denaro,
come una puttana che vende il proprio corpo a chi la paga. E chi lo ha pagato
è un infedele! Sinan fa fatica a controllare la sua rabbia. Rimane
in silenzio un buon momento, senza distogliere un attimo il suo sguardo da
Solomon, che non mostra nessun timore. -
Ebreo, se ciò che hai detto non è vero, non sfuggirai alla morte, quand’anche
dovessi rifugiarti all’altro capo del mondo. E non sarà una morte rapida. - Lo
so, sceicco, ma non ho paura, perché non ho mentito. -
Quali prove puoi portare a conferma di ciò che hai detto? -
Per quello che riguarda i due signori franchi, colui che ha cercato di
uccidere il conte Ferdinando era un giovane di Qasr al-Hashim, ma è morto e
sono morti anche i due sicari pagati per assassinare il duca. Ma Ramzi aveva
mandato due uomini a prendere contatto con i credenti di al-Hamra, per
trovare qualcuno disposto a uccidere il duca, e questi due uomini sono
prigionieri del signore della città. Posso farti parlare con loro. - E
com’è che hai questo potere? -
L’ho ricevuto dal duca. È lui che mi ha autorizzato a venire qui. -
Puoi farli portare al castello? -
Non direttamente. Ma puoi mandare un tuo uomo fidato con me e avrà modo di
parlare con loro. E se vuoi, potrà portarli al tuo cospetto: il duca è
disposto a cederteli, in modo che tu possa averli nelle tue mani e
assicurarti che ti rispondano sinceramente.
Sinan
non tradisce le sue emozioni, ma dentro di sé freme. Se davvero è successo
questo, se Ramzi ha osato mandare i suoi uomini a uccidere due signori senza
avvisarlo, per denaro… Ramzi deve morire e con lui tutti i suoi uomini che
sono stati complici. I veri credenti devono sapere che non c’è spazio per il
tradimento e che chi si rende complice, volontariamente o per negligenza, va
incontro alla morte. -
Che cosa puoi dirmi dei bambini? - Posso
darti il nome di uno di loro, che ora ha diciott’anni e vive nei pressi di
Barqah. Non ti sarà difficile trovarlo. Non parla volentieri di ciò che ha
vissuto, ma ha molto da raccontare. E se manderai qualcuno al castello,
scoprirai che il giovane Omar, che ha appena dieci anni, dorme ogni notte nel
letto di Ramzi. Ora
Sinan è sicuro che quest’uomo non mente. Glielo legge in faccia. E di sicuro
non parla solo per sentito dire. Controlla la sua furia e, rimanendo del
tutto impassibile, risponde: -
Manderò con te uno dei miei uomini, che tornerà con i due prigionieri. Il
duca potrà farli scortare fino alla frontiera, suppongo. -
Certamente, sceicco. -
Parlerò con il giovane: devi dirmi esattamente dove posso trovarlo. Tu
tornerai qui tra due mesi. -
Come comandi. Dopo
che ha avuto le informazioni necessarie per ritrovare il ragazzo, Sinan
congeda Solomon. Controllerà le sue parole: non vuole avere dubbi. Ma è
sicuro che l’ebreo non mente. E nei confronti di Ramzi prova una rabbia
feroce. Solomon
vuole tornare a Rougegarde. In altre occasioni, quando deve raggiungere una
meta lontana, ne approfitta per far visita ad alcune delle persone con cui è
in contatto: un buon modo per mantenere i rapporti, raccogliere nuove
informazioni, darne altre. Adesso, dopo che Ishan lo ha aiutato, tornerebbe
volentieri alla loro casa per trascorrere un po’ di tempo con i fratelli. Ma
ha fretta di tornare: è innamorato e la lontananza da Denis gli pesa. Avrà
modo di riprendere i contatti più avanti, ora è impaziente di rivedere il
duca, di parlargli, di stringerlo tra le braccia, di fare l’amore con lui. Ishan
lo accompagna fino ad Aleppo. Si fermano per la notte in un caravanserraglio
alle porte della città. Il mattino si separeranno. Dormono
nella stessa camera. Si spogliano prima di coricarsi. Sono abituati a
confidarsi e ognuno dei due conosce i gusti dell’altro, ma non hanno mai
avuto rapporti, perché il loro è un legame fraterno. Entrambi però non
scopano da diversi giorni e sono maschi vigorosi, di appetiti robusti. Si sono
tolti le tuniche che indossavano e ora sono a petto nudo. La luce fioca della
lanterna li illumina e proietta le loro ombre sulla parete. Solomon guarda la
peluria sul petto di Ishan e vede che il fratello lo sta fissando. I loro
movimenti diventano lenti, le parole sembrano incepparsi, di colpo suonano
vuote. I loro sguardi si inchiodano. Il desiderio si accende e tende i
pantaloni. Nessuno dei due cerca di nasconderlo: sono troppo schietti. Solomon
si cala i pantaloni e rimane nudo, il cazzo proteso in avanti. Ishan lo
imita. È
Solomon a parlare: -
Mio fratello è un gran maschio. Ishan
replica: -
Anche mio fratello lo è. Solomon
si avvicina. Ora i loro corpi si sfiorano. -
Posso abbracciare mio fratello? Ishan
annuisce. È turbato, perché Solomon non è uno dei tanti giovani maschi che ha
posseduto. Non vuole darsi a lui, perché non si è mai dato a nessuno, ma non
desidera neppure che Solomon si dia a lui, perché lo considererebbe umiliante
per il fratello. Però il desiderio lo tormenta. Solomon
si avvicina ancora. I loro corpi si toccano, i loro cazzi ora premono contro
il ventre. Solomon abbraccia Ishan, stringendolo. Le sue mani scivolano lungo
la schiena di Ishan, dal collo al culo, in un movimento continuo. Ishan
esita, poi anche lui incomincia a muovere le mani, accarezzando il corpo di
Solomon. -
Solomon, io… Ishan
non trova le parole, ma Solomon lo conosce e ha capito. - Lo
so, Ishan. Non ti darai a me e io non mi darò a te. Ma i nostri corpi ardono
e forse dovremmo dare loro un po’ di frescura. Ishan
stringe Solomon, ma il desiderio è troppo forte. -
Solomon, potremmo affrontarci, io e te, come feci con quel bastardo che si
faceva chiamare Musa. Solomon
guarda Ishan. -
Così chi si darà potrà farlo senza vergogna? Ishan
annuisce. Solomon chiede ancora: -
Sei sicuro di volerlo, fratello? - Io
lo vorrei. E tu, fratello? Non voglio forzarti. - Se
mio fratello lo desidera, lo desidero anch’io. Si
staccano e si sorridono. Si mettono in posizione di combattimento. Solo i
loro cazzi tesi rivelano che la lotta ha un fine ben preciso. Sono
due uomini molto forti ed entrambi abili nella lotta. Solomon manda Ishan a
terra due volte, ma non riesce a bloccarlo. Ishan prova ad abbattere il
fratello, ma Solomon è ben fermo sulle gambe. Si avvinghiano nuovamente,
stando in piedi, e ognuno cerca di forzare l’altro a cedere. Scivolano a
terra e si rialzano, ma Solomon è dietro a Ishan e lo blocca. Ishan avverte
contro il culo la pressione del cazzo di Solomon. Per un momento sente che
gli mancano le forze. È solo un attimo, ma è sufficiente per il suo
avversario: un braccio stringe il collo di Ishan, una mano gli blocca la
testa e il respiro gli manca. Ishan si dibatte, ma il mondo scompare. Ishan
riprende i sensi subito. È disteso a terra, completamente bloccato, e Solomon
è su di lui. -
Hai vinto, fratello. Ishan
si sente a disagio. Pensa che Solomon lo prenderà e l’idea lo sgomenta. Solomon
ha lasciato la presa. Si siede di fianco a Ishan e lo guarda. Ishan
si solleva. Ha perso e deve mantenere fede alla sua parola. - Come vuoi che mi metta, fratello? Solomon lo fissa senza dire niente. Dopo un
momento risponde: -
Ishan, non è necessario. Non voglio fare nulla che possa separarci. -
Hai vinto, lealmente. -
Sì, ma non occorre che tu faccia ciò che non desideri. -
No, sottrarmi mi sembrerebbe vile. E darmi a te non è vergogna. Ishan
appoggia il petto sul giaciglio. Solomon
annuisce. Si avvicina e gli accarezza la schiena e il culo, con molta
dolcezza. Le sue mani scendono lungo le gambe, fino ai piedi, poi risalgono e
indugiano ancora sul culo, le dita percorrono il solco, due volte, poi si
fermano e stuzzicano l’apertura. Ishan si tende. Solomon si sputa sulle dita
e sparge un po’ di saliva sul solco, vicino all’apertura. Inumidisce ancora
le dita e questa volta le spinge dentro, forzando il buco. Poi Solomon si
sputa sul palmo della mano e inumidisce bene la cappella. Si stende su Ishan
e le sue mani accarezzano il capo, il collo, scendono sui fianchi. Ora
il cazzo di Solomon preme contro l’apertura. Solomon morde la spalla di
Ishan, forte, e in quel momento affonda il cazzo, forzando il buco. Le
sue dita accarezzano il viso di Ishan. Solomon gli lascia il tempo di
assuefarsi alle sensazioni sconosciute che l’ingresso ha provocato. E poi,
lentamente, Solomon incomincia a muovere il culo avanti e indietro, spingendo
a fondo il cazzo dentro Ishan e poi ritraendosi. Ishan
si abitua a questa presenza che non ha mai provato. C’è dolore, ma c’è anche
piacere. Il cazzo è di nuovo duro, teso allo spasimo. Ishan prova vergogna,
vergogna perché viene penetrato, vergogna perché questa penetrazione provoca
in lui piacere. Ma il pensiero che a possederlo è Solomon, suo fratello, che
lo ha vinto lealmente, lo tranquillizza. Solomon
cavalca a lungo e infine viene, con una serie di spinte più intense.
Accarezza il capo di Ishan e si abbandona su di lui. Ishan
avrebbe voluto che lo facesse venire, come lui aveva fatto con Musa. Ma
Solomon ha altro in testa. Solomon
si stacca e guarda Ishan, che si alza, provando un po’ di vergogna perché ha il
cazzo duro come una pietra. Solomon
sorride e si mette al posto di Ishan, nella stessa posizione. -
Ora prendimi, Ishan. Ishan
lo guarda, tentato da questo culo forte che gli si offre, ma perplesso. - Io
non ti ho vinto. -
Prendimi, fratello, perché tra noi non ci devono essere vincitori e vinti. Ishan
vorrebbe rifiutarsi, ma le sue mani si posano sul culo di Solomon, lo
stringono, lo accarezzano. Il desiderio incalza. Ishan cede. Sparge un po’ si
saliva sull’apertura e sulla cappella, poi con lentezza spinge il cazzo
dentro il culo di Solomon. È una sensazione splendida. Ishan
incomincia a fottere. Ondate di piacere lo investono a ogni spinta, finché il
desiderio esplode. Allora
Ishan si ritira e si stende sul letto. Solomon si mette di fianco a lui e gli
stringe una mano. -
Fratello. Ishan
risponde con la stessa parola: -
Fratello. Poi
dice: -
Grazie. Rimangono
a lungo così, in silenzio, poi si puliscono e si mettono a dormire. Sanno
entrambi che quanto hanno fatto li ha avvicinati, ma non si ripeterà. Non
appena arriva a Rougegarde, Solomon si presenta a palazzo. Come al solito,
chiede di parlare con Manrique. Manrique
lo viene a prendere e lo accompagna direttamente nell’appartamento di Denis,
che è già stato informato del suo arrivo. Appena
Manrique esce, Denis va incontro a Solomon e lo abbraccia. Ne sente l’odore
di sudore, intenso: ormai le giornate sono calde e Solomon ha viaggiato per
diversi giorni. A Denis piace questo odore forte. Tutto gli piace di Solomon.
E, come gli succede spesso, Denis si sente sgomento di fronte alla potenza di
questo amore inatteso. Solomon
lo stringe tra le braccia. - Mi
sei mancato, Denis. Da morire. È
bello sentirsi dire queste parole, che esprimono il suo stesso sentimento.
Solomon gli prende il viso tra le mani e lo bacia sulla bocca. Quando
Solomon si stacca, Denis risponde: -
Anch’io ho sentito la tua mancanza. E avevo paura. Solomon
appare sorpreso. -
Paura? -
Paura che ti succedesse qualche cosa. So benissimo chi è Sinan. Mettevi la
tua vita nelle sue mani. - Per
sventare una minaccia mortale. -
Che riguardava me, non te. -
Tutto ciò che riguarda te, tocca anche me. Dovresti averlo capito, duca. Denis
sorride a sentirsi ancora chiamare duca da Solomon. Annuisce. -
Ora raccontami tutto. Solomon
riferisce il suo incontro con Sinan, senza omettere nulla. Quando ha
concluso, Denis chiede: -
Che cosa pensi che farà Sinan, adesso? -
Verificherà ciò che gli ho detto. E scoprirà la verità. Questo significa una
condanna a morte per Ramzi e probabilmente non solo per lui. Ma come si
compirà, non posso dirlo. Denis
annuisce. Poi guarda Solomon e il desiderio lo assale, violento. Gli sembra
che gli manchi il fiato. Solomon ha capito. Sorride e dice: -
Andiamo in camera tua, duca? Denis
annuisce. Passano nel suo appartamento. Nella
camera da letto, Denis incomincia a spogliare Solomon. Le sue mani passano
sotto la giacca e la fanno scivolare a terra, poi aprono la camicia. -
Denis, oggi ho cavalcato tutto il mattino. È meglio che mi lavi, prima. Denis
scuote la testa. Si china e avvicina il viso al petto di Solomon. Ne annusa
l’odore di sudore. - Mi
piace il tuo odore, Solomon. Solomon
ride e gli accarezza il capo. Denis
si inginocchia, slaccia i pantaloni di Solomon e con un movimento deciso
glieli abbassa, calando insieme anche le mutande. Ora il suo viso è a una
spanna dal cazzo di Solomon, che già si riempie di sangue. Solomon
muove le gambe, sbarazzandosi degli indumenti attorno alle caviglie. -
Sei sicuro che non vuoi che mi lavi? L’odore non deve essere molto buono. Denis
scuote la testa. Sente l’odore del cazzo di Solomon, ormai teso in avanti.
Non è abituato a questo odore intenso, di piscio e sudore: Solomon è molto
attento alla pulizia e si presenta sempre dopo essersi lavato con cura. Denis
apre la bocca e accoglie la cappella. Solomon ha un leggero sussulto. Denis
sente il cazzo irrigidirsi ancora di più e crescere di volume. Solomon
chiude gli occhi, mentre le sue mani accarezzano la testa di Denis,
scompigliandogli i capelli. -
Denis! Denis
lavora con le labbra e la lingua, mentre le sue mani stringono il culo di
Solomon, scivolano fino al solco, un dito incontra l’apertura e preme.
Solomon geme. Da
troppi giorni Solomon non viene e la bocca di Denis gli trasmette sensazioni
intensissime. Si rende conto che tra poco il piacere esploderà. -
Denis! Sto per venire. Denis
non toglie la bocca. Accoglie il seme di Solomon, dell’uomo che ama, e lo
inghiotte. Continua a succhiare e leccare, fino a che è Solomon stesso ad
allontanarlo. Denis
si alza. Ha il cazzo teso. Nei suoi occhi Solomon legge una domanda.
Annuisce. -
Puoi prendermi, se è questo che desideri, Denis. Io desidero appartenerti. Denis
accenna appena un sorriso. -
Sì, lo desidero. -
Sicuro che non vuoi che mi lavi? Denis
scuote la testa. - Va
bene, come preferisci, Denis. Solomon
fa per stendersi sul letto, a pancia in giù, ma Denis lo ferma. -
No, non così. Voglio vederti in faccia. Stenditi sulla schiena. Solomon
esegue. Lascia che Denis si inginocchi sul letto, gli sollevi le gambe e se
le metta sulle spalle. Solomon
sorride a Denis. Ha avuto molti uomini, ma a pochissimi si è offerto. Denis
si sputa sulla mano e inumidisce la cappella. Poi sparge un po’ di saliva
sull’apertura. - La
prima volta, quando ti dicevo di scaldarti al fuoco, mi chiedevi se volevo
farti cuocere, allo spiedo. Solomon
sorride. -
Sì, ti stavo provocando. Ormai non riuscivo più a controllare il mio
desiderio e sentivo che anche tu mi desideravi. Denis
annuisce. -
Sì, anche se non me ne rendevo pienamente conto. Adesso però ti infilzo
davvero. Ora che sei davvero un porcellino, ti infilzo. -
Fallo, Denis. Denis
avvicina la cappella all’apertura e spinge. - Lo
senti lo spiedo? Solomon
annuisce. L’ingresso è un po’ doloroso, ma la sensazione di appartenere a Denis
è splendida. - È
bello essere infilzato da te, Denis. Denis
sorride. Accarezza il viso di Solomon. Mormora: -
Solomon! Denis
incomincia a muoversi lentamente. Le mani poggiano sul letto, a fianco di
Solomon, e ogni tanto si muovono per accarezzare il corpo che gli si offre. Denis
sente il piacere crescere. Chiude gli occhi. Poi li riapre e guarda il viso
di Solomon, la ruga sulla fronte. - Ti
faccio male, Solomon? -
Questo dolore è piacere, Denis. Voglio appartenerti. Denis
procede a lungo, fino a che il piacere non può più essere contenuto. Il suo
seme si rovescia nelle viscere di Solomon. Allora Denis si ritrae. Solomon
poggia le gambe sul letto e attira a sé il duca. Rimangono stretti l’uno
contro l’altro. Ramzi
è preoccupato. Lo sceicco Sinan lo ha convocato. Il messaggero non ha fornito
nessuna spiegazione, ma questo è normale: lo sceicco non spiega i motivi per
cui chiama uno dei suoi sottoposti, che gli devono tutti ubbidienza cieca. Ramzi
teme che lo sceicco Sinan abbia saputo dei suoi tentativi di far uccidere il
conte dell’Arram e il duca di Rougegarde. In questo caso, gli converrebbe non
andare e fuggire in qualche luogo lontano, ma dove potrebbe essere al sicuro
dai suoi confratelli, una volta che Sinan l’avesse condannato? Non certo in
Siria o in Persia o in Egitto, dove gli ismailiti sono numerosi. Dovrebbe
andare molto più lontano, rinunciando a tutto. E neppure in India o in
al-Andalus potrebbe essere sicuro di non essere raggiunto dagli inviati di
Sinan. Sinan
lo fa attendere cinque ore. Ramzi è un uomo forte e coraggioso, ma l’attesa è
esasperante. Ha le mani sudate, che si asciuga sulla tunica. Il tempo sembra
non passare mai e c’è un momento in cui Ramzi prova perfino l’impulso di
fuggire: un’idea del tutto assurda, lo sa benissimo, ma non regge più. Quando
infine lo sceicco lo riceve, Ramzi cerca di leggere nel suo volto il suo
stato d’animo, ma Sinan appare impassibile, come sempre. Ramzi
si inginocchia, saluta e attende. - Ti
ho chiamato per affidarti un nuovo compito. Ramzi
si sente sollevato. Non è quello che temeva. Un nuovo compito è un’ottima
cosa: gli fornirà l’occasione per riscattarsi dal fallimento con l’emiro di
Jabal al-Jadid. -
Dimmi, sceicco. Sarà eseguito. -
Devi spegnere la vita del barone Renaud, il signore di Afrin. Ramzi
è disorientato. Sinan vuole che faccia uccidere proprio colui che lo ha
pagato per eliminare il duca Denis e il conte Ferdinando. Perché? Ramzi sa di
non poter porre la domanda. -
Ubbidirò, sceicco. Non
ha altra scelta. Della vita di Renaud certo non gli importa nulla. E la sua
morte in qualche modo chiuderà la faccenda dell’incarico ricevuto dal barone.
Morto Renaud, non c’è più motivo per uccidere i signori di al-Hamra e
dell’Arram. In fondo è meglio così. Sinan
annuisce, lentamente. Poi aggiunge: -
Bada, Ramzi, non fallire. C’è
una chiara minaccia nella voce di Sinan. Ramzi è inquieto. -
Non fallirò. Avrò bisogno di un po’ di tempo, perché ad Afrin i credenti sono
pochi. -
Non fallire. Ramzi
è sconcertato dalla ripetizione dell’ammonimento: non è da Sinan. Lo sceicco
gli sta dicendo chiaramente che non accetterà il fallimento dell’impresa e che
se non sarà Renaud a morire, sarà Ramzi stesso. Non c’è spazio per scuse,
giustificazioni. Il compito deve essere eseguito. - Il
barone morirà. Te lo assicuro. Sinan
annuisce. Poi aggiunge: -
Due miei uomini verranno con te a Qasr al-Hashim, per controllare che tutto
vi si svolga secondo le regole della nostra fede. A
Ramzi sembra che una mano gli abbia stretto la gola e gli blocchi il respiro.
Fa fatica a non lasciar trapelare il suo disagio mentre risponde: -
Sono felice di questo, sceicco. Mi aiuteranno a condurre rettamente i miei
uomini, correggeranno i miei errori e mi permetteranno di emendarmi là dove
ho sbagliato. Sinan
annuisce. -
Sarà così. Dirai ai tuoi uomini che devono ubbidire a coloro che io ho
mandato, come obbediscono a te. Ramzi
si inchina. Sinan conclude: -
Partirete domani mattina prima dell’alba. È un
congedo. Ramzi si alza e lascia la sala delle udienze. Un servitore lo
accompagna alla piccola stanza dove trascorrerà la notte. Una notte insonne,
Ramzi lo sa benissimo. Non riuscirebbe comunque a dormire, ma adesso la
priorità è organizzare tutto per ridurre i danni. Appena
rimane da solo, Ramzi incomincia a riflettere. La presenza dei due uomini
limiterà moltissimo la sua libertà d’azione e questo significa che sarà più
difficile intervenire per nascondere ciò che va nascosto. Pochissime
persone sono informate di ciò che accade nella parte più interna del castello
e sicuramente taceranno, perché raccontando rivelerebbero di essere stati
complici. Nessuno parlerà di Omar, che trascorre le notti con lui. Omar!
Merda! Omar
è troppo giovane. È convinto che ciò che fanno sia un modo per avvicinarsi a
Dio. Non saprà tacere. Interrogato abilmente, finirà per parlare. A dieci
anni non può capire, non è possibile metterlo in guardia, è ingenuo, anche
avvisato cadrebbe comunque nella prima trappola che gli venisse tesa… Omar
deve scomparire. Ramzi
riflette. C’è un’unica soluzione: scrivere al suo braccio destro, Muhyi, di
uccidere il ragazzino. Ma deve riuscire a far partire la missiva senza che
gli uomini di Sinan se ne accorgano. E il messaggio deve arrivare prima di
loro. Rapidamente
Ramzi traccia un piano. Dirà di dover passare da Merwan, dove potrà affidare
il messaggio a un uomo fedele, perché lo faccia arrivare il più in fretta
possibile al castello. Ramzi si alza, accende la lucerna e scrive le poche
righe necessarie. L’eliminazione
di Omar sarà sufficiente? Muhyi avviserà gli uomini a lui più fedeli, quelli
che sanno più cose, di tenere la bocca ben chiusa e di guardarsi dai due
inviati di Sinan: rischiano anche loro la vita e sono abbastanza intelligenti
da capirlo. Ma gli altri? Qualche voce circola, Ramzi lo sa bene: per quanto
sia sempre stato molto attento, è impossibile mantenere segreto ciò che si
svolge per anni. Arrivare
al castello e far uccidere i due uomini? Questo gli darebbe al massimo qualche giorno per poter
fuggire, portando con sé il denaro e l’oro. Ma Sinan lo troverebbe anche in
capo al mondo: sarebbe inseguito da centinaia di uomini disposti a morire pur
di ucciderlo. No, sopprimere i due sarà l’ultima risorsa, se non ci sarà
altra via di scampo. Ramzi
passa in rassegna le cose da fare e tutti gli abitanti del castello. Aggiunge
qualche ordine per Muhyi. C’è almeno un altro uomo da eliminare. Forse più
d’uno, in realtà, ma il rischio reale è costituito da Zahir, che è ambizioso
e potrebbe vedere nell’arrivo dei due uomini di Sinan un’occasione per
provocare la perdita di Ramzi e prendere il suo posto. Ramzi
completa la lettera. La guarda. Se cadesse nelle mani dello sceicco, la sua
vita sarebbe finita. Ma saprà farla arrivare a Muhyi senza che i due uomini
di Sinan lo scoprano. Il
mattino dopo partono. I due inviati parlano poco. Non appaiono cordiali, ma
nemmeno ostili. Come lo sceicco, non danno familiarità. Ramzi scambia poche
parole con loro, mostrandosi deferente, ma non umile. A
una certa distanza dal castello di Sinan, Ramzi comunica che intende fermarsi
a Merwan, per alcuni affari. I due non sembrano insospettirsi e non avanzano
obiezioni. A Merwan arrivano nel pomeriggio. Ramzi comunica che ha bisogno di
qualche ora e si allontana. Raggiunge rapidamente una bottega e affida al
mercante la missiva: deve partire immediatamente e viaggiare con la massima
velocità possibile. Il
compito viene eseguito con cura e la sera seguente a Qasr al-Hashim viene
recapitata la lettera per Muhyi, che la legge con attenzione, poi, seguendo
le istruzioni ricevute, la distrugge. Informa
Zahir che ha ricevuto un ordine da Ramzi: dovrà partire in mattinata, molto presto,
in direzione di Jabal al-Jadid, dove Zahir dovrà fermarsi per alcuni giorni.
Muhyi lo accompagnerà fino alla fattoria di un credente, dove riceverà le
istruzioni necessarie. Muhyi
ha scelto con cura la meta da indicare: a Jabal al-Jadid la vita di un
ismailita vale poco e se si scoprisse che Zahir viene da Qasr al-Hashim,
l’attenderebbe una fine atroce. L’attenzione di Zahir si concentra sulla
meta, sui rischi che correrà, su come potrà entrare nella città evitando di
essere individuato da qualcuno che conosce la sua fede. Non sospetta che il
suo viaggio finirà molto prima. Nella
notte Muhyi sveglia Omar. -
Vieni, devo farti vedere una cosa. Omar
è insonnolito e non avrebbe voglia di lasciare il letto, ma è abituato a
obbedire e si alza. -
Non dire nulla. Nessuno deve sentirci. Quello che voglio farti vedere… no,
non voglio dirti niente. Lo vedrai da te. Ora
Omar è curioso. Salgono su una scala che porta direttamente a uno dei
passaggi lungo le mura. Non ci sono sentinelle, che rimangono sulle torri ai
lati: la parte del castello dove risiede Ramzi affaccia direttamente
sull’abisso, da cui nessuno potrebbe salire. Muhyi
sussurra: -
Adesso io ti tengo e tu sali sul parapetto. Non aver paura, ti tengo bene. Omar
ride. Non ha paura. - Ma
che cosa c’è da vedere? È buio, non si vede niente. -
Sali e lo vedrai. Con
l’aiuto di Muhyi, Omar sale. Di colpo si sente spingere nel vuoto. Cadendo,
riesce ad aggrapparsi al parapetto con una mano. Non reggerà a lungo e non ha
la forza per issarsi. -
Aiutami, Muhyi. La
richiesta è assurda, Omar stesso se ne rende conto: è stato Muhyi a spingerlo
nel vuoto. Ma non vuole riconoscere che la sua vita è arrivata alla fine: si
dice che forse Muhyi non l’ha fatto apposta, che è uno scherzo, che adesso lo
salverà di certo. Muhyi
ha preso il coltello e con il manico colpisce le dita con cui Omar si
aggrappa al parapetto e alla vita. Omar
grida, mentre il suo corpo sta già precipitando nell’abisso. Muhyi
ritorna rapidamente nella propria camera. L’indomani
mattina, mentre si sta preparando a partire con Zahir, viene informato della
scomparsa di Omar. Si mostra allibito e lo fa cercare dappertutto. Una delle
guardie dice di aver sentito un grido nella notte, come se qualcuno stesse
precipitando. Che il ragazzino sia salito sugli spalti e che sporgendosi, per
chissà quale motivo, sia precipitato? Muhyi finge di non voler credere a
questa possibilità, ma non sembra esserci nessuna altra spiegazioni: di certo
non può essere uscito dalla porta del castello, chiusa e sempre sorvegliata. In
ogni caso Muhyi ordina a due uomini di raggiungere il fondo del precipizio,
dove scorre il fiume, per vedere se trovano traccia del ragazzino. Scendere
fino al corso d’acqua è lungo e difficoltoso, perché richiede un lungo giro.
Muhyi e Zahir non possono attendere: le ricerche hanno fatto perdere già
abbastanza tempo e infatti partono con un’ora di ritardo sul previsto. Muhyi
si mostra preoccupato. - Il
signore del castello tornerà nel pomeriggio. Quando scoprirà che Omar è
scomparso, sarà furibondo. Zahir
annuisce. -
Chissà che cosa è successo?! -
Non riesco a spiegarmelo. Se davvero è precipitato, perché? Ha deciso di
uccidersi? Ma non capisco le ragioni. Era sereno, benvoluto da tutti. Un
incidente? Ma perché salire la notte sugli spalti? -
Forse ha avuto un incubo, qualche cosa che lo ha spinto a lasciare la camera.
Forse era ancora assonnato. -
Può essere, non vedo altra spiegazione. Ma salire sul parapetto… In ogni caso
il signore sarà furente. -
Sì, gli voleva molto bene. Tacciono
per un po’. Dopo due ore, mentre attraversano una zona montana del tutto
deserta, tra precipizi vertiginosi e ripide pareti, Muhyi dice: -
Devo pisciare. Fermiamoci un momento. Muhyi
scende, si accovaccia vicino a un dirupo e svuota la vescica. Zahir lo imita.
Muhyi si alza e passa dietro Zahir. Con un movimento rapido gli afferra la
testa e gli pianta il pugnale nel collo, recidendo la carotide. Zahir porta
le mani alla ferita, cerca di allontanare il coltello, ma le forze gli
mancano e si affloscia, mentre ancora il piscio scende sul terreno. Muhyi
estrae la lama e lascia che il cadavere crolli a terra. Lo trascina fino
all’orlo del dirupo e lo fa precipitare. Muhyi
riparte, conducendo con sé il cavallo di Zahir. Lo lascia in una fattoria,
dove un uomo fedele provvederà a venderlo senza che nessun altro venga a
saperlo. Poi torna al castello. Ramzi
è già arrivato, con i due uomini che lo accompagnano. Ha saputo della morte
di Omar, il cui corpo è stato ritrovato sulla riva del fiume, a valle del
castello. Appare addolorato. Ramzi
ha presentato a tutti i due uomini di Sinan, inviati dallo sceicco per
emendare gli errori che i fedeli possono aver commesso a Qasr al-Hashim e
guidarli a una maggiore purezza. Da alcuni, la cui fede è più forte, il loro
arrivo è visto con favore, perché desiderano essere più graditi a Dio. Molti
invece sono diffidenti, perché la venuta di due uomini potenti interferirà
nella vita quotidiana e potrebbe modificare equilibri e consuetudini. Coloro
che conoscono meglio la vita del castello si preoccupano, essendo consapevoli
di correre dei rischi. I
due inviati di Sinan non pongono domande. Ramzi vorrebbe farli dormire nel
recinto esterno del castello, ma essi richiedono di essere ospitati nella
parte più interna. Ramzi non è contento di questo, ma sa di non potersi
opporre. Fa preparare una camera vicino ai suoi appartamenti. Finché
rimarranno, dovrà fare attenzione a ogni passo e rimanere casto. Per il
momento, a fronte dei rischi che correrebbe se i due scoprissero ciò che
avveniva nel castello, non gli sembra un gran problema. Non è certo di questo
che si preoccupa ora. In
serata Ramzi invita il fratello nella stanza delle udienze, per un colloquio.
Chiede ai due inviati di Sinan se vogliono assistere al momento in cui
trasmetterà l’incarico ricevuto dalla sceicco, ma essi declinano. Usama
è impaziente: gli pesa rimanere inattivo e spera che Ramzi abbia ricevuto da
Sinan l’incarico di svolgere una nuova missione. Le sue speranze ricevono una
conferma. -
Fratello, Iddio ti affida un nuovo compito. Usama
non nasconde la sua soddisfazione. -
Gloria a Dio. Lo sceicco Sinan ha deciso una nuova missione? -
Sì, tu spegnerai la vita del barone Renaud. Sarai venduto come schiavo ad
Afrin, in una famiglia nobile. Di lì faremo in modo di farti passare nella
casa del barone: ci vorrà del tempo, ma ci riusciremo. Quando sarai al suo
servizio, dovrai guadagnarti la sua fiducia, in modo da poterlo sorprendere e
uccidere. Usama
alza le braccia. - Lo
ucciderò, se Dio mi assiste. Ramzi
guarda la destra del fratello, la mano che darà la morte. La immagina
immergere il pugnale nel petto del barone, vede il sangue che sgorga copioso.
Dev’essere così: non ci può essere un altro fallimento. Sinan sarà
soddisfatto. Il
giorno seguente nella sala sotterranea si svolge la cerimonia di
purificazione. A questa i due inviati di Sinan hanno deciso di assistere. Usama
si spoglia ed entra nella vasca. Vi si immerge completamente, rimanendo
sott’acqua a lungo, poi tira fuori la testa per respirare. Quando esce dalla
vasca, Ramzi ne osserva il corpo forte: suo fratello è un guerriero valoroso
e riuscirà nella sua missione. Pone davanti al fratello, su una pezza di seta
che copre un cuscino, un pugnale come quello spegnerà la vita di Renaud di
Soissons, conte della città che i cristiani chiamano San Giacomo d’Afrin: non
sarà lo stesso pugnale, perché uno schiavo non può possedere un’arma. Ma
Usama saprà come procurarsi ciò di cui ha bisogno quando sarà giunto il
momento. Ramzi
prende il pugnale. Fa un cenno a Usama, che si avvicina. Con la punta del
pugnale Ramzi incide appena la pelle del torace sotto il capezzolo destro e
poi sotto il capezzolo sinistro: scendono alcune gocce di sangue. Sangue che
chiama altro sangue. Quello versato da Usama annuncia quello che verserà Renaud.
E poi Usama conoscerà il martirio, oppure fuggirà ancora una volta, per
spegnere altre vite. Ramzi
fa appena un cenno del capo. Usama si immerge nuovamente nell’acqua, poi esce
dalla vasca, si asciuga, si riveste e lascia la stanza. Usama
è felice di partire per la missione e spera di poter uccidere il barone
Renaud come ha ucciso lo sceicco Labeeb. Questo lungo periodo di inattività
gli è sembrato eterno. Uno
dei due uomini di Sinan si rivolge a Ramzi. -
Ramzi ibn Qais, anche in una cerimonia di purificazione, la nudità è da
evitare. Non è bene che un uomo mostri le sue vergogne, neppure a suo
fratello. Ramzi
china il capo: -
Questa cerimonia ci è stata insegnata da un dotto, ma abbiamo fatto male ad ascoltare
le sue parole. Non ho voluto disturbare lo sceicco chiedendogli il suo parere
su dettagli come questo, ma nella sua grazia vi ha inviati qui, in modo che
possiamo correggere i nostri numerosi errori. Gli
errori risultano essere davvero numerosi. Gli uomini di Sinan hanno da ridire
su tutto: l’abbigliamento, l’alimentazione, le bevande, la preghiera. Non si
tratta di gravi mancanze, ma di tanti dettagli che occorre eliminare o
aggiungere o variare. Alcuni degli uomini del forte ne sono infastiditi, ma i
più sono contenti che i due inviati si concentrino su questi aspetti e non
sembrino intenzionati a scoprire altro. L’idea comune è espressa da uno degli
uomini di guardia: -
Sono due rompicoglioni, ma sono inoffensivi. Ramzi
rimane a lungo diffidente, ma con il passare dei giorni si tranquillizza. In
effetti i due sembrano interessati solo alle pratiche quotidiane. Dopo
un mese i due uomini partono. Annunciano che torneranno, quando Usama avrà
compiuto la sua missione, per verificare che le correzioni che hanno
apportato alla vita quotidiana non siano state trascurate dopo la loro
partenza. Ramzi
festeggia la loro partenza facendo venire nella sua camera un altro dei
ragazzini che nel castello vengono educati a diventare martiri. Il ragazzino
imparerà qualche cosa di nuovo. I
due uomini tornano da Sinan. Non gli parlano dei piccoli errori nei rituali,
o nell’alimentazione. Riferiscono ciò che hanno scoperto chiacchierando con i
ragazzini che Ramzi educa al martirio, con alcuni dei soldati, con i cuochi.
Conversazioni amichevoli, che non apparivano come investigazioni, ma da cui
esce chiarissimo un verdetto. Lo stesso che Sinan ha già pronunciato dopo
aver parlato con il ragazzo che gli ha indicato Solomon e con Faaris e
Maazin. I
due prigionieri sono stati consegnati all’inviato di Sinan e portati al
castello. Quando i soldati del duca lo hanno consegnato agli uomini dello
sceicco, Faaris si è illuso di potersi salvare: ha pensato che Ramzi avesse
pagato per riscattarlo o che ci fosse uno scambio, ad esempio la loro libertà
in cambio di una rinuncia definitiva al progetto di uccidere il duca. Si è
accorto subito che continuava a essere un prigioniero, ma ha continuato a
sperare. Maazin, diffidente fin dall’inizio, non si è fatto troppe illusioni. Al
castello di Sinan sono stati interrogati a lungo. Faaris ha spiegato di aver
ricevuto l’incarico da Ramzi in persona, di aver cercato di eseguirlo e di
essere stato tradito da qualche spia. Non gli sembra di avere niente da
rimproverarsi di fronte al capo supremo degli ismailiti di Siria, se non il
fallimento dell’impresa. Ha peccato di ingenuità, fidandosi di un uomo
incontrato ai bagni, ma era l’unico che sembrava disponibile a collaborare. Maazin
sospetta che si stia giocando un’altra partita e sa di essere una pedina
irrilevante. Chi lo interroga già sa del suo passato e Maazin non può negare.
Dichiara la sua fede e la sua lealtà incondizionata a Sinan, ma intuisce che
questo non gli salverà la vita. Al
ritorno degli inviati, Sinan dà l’ordine di decapitare i due prigionieri:
hanno agito in buona fede, ma sono stati complici di Ramzi. Allah deciderà se
accoglierli tra i giusti o destinarli all’inferno. Quando
viene portato in cortile e vede il boia con la scimitarra, Faaris si dibatte
e grida. Lo trascinano davanti al carnefice e lo costringono a
inginocchiarsi. Faaris chiede pietà, grida la sua innocenza, dichiara la sua
lealtà a Sinan. La lama mette fine alle sue urla. Maazin affronta la morte
con dignità. Si limita a sputare a terra e a maledire Sinan. Dieci
giorni dopo, un messaggero consegna agli uomini del duca di Rougegarde un
involto, da parte dello sceicco Sinan: contiene due teste, conservate sotto
sale. L’estate
è giunta, ardente e secca. Sono
trascorsi i due mesi previsti e Solomon ritorna da Sinan. Sa che lo sceicco
ha inviato a Denis le teste dei suppliziati: questo significa che ha scoperto
la verità. Solomon è sicuro che ora Sinan interverrà e che la minaccia
costituita da Ramzi verrà spazzata via: lo sceicco di certo non può accettare
che uno dei suoi uomini decida interventi senza la sua autorizzazione. Sinan
lo fa attendere molto poco e anche questo è un segno positivo. Solomon
entra e saluta. A un cenno dello sceicco, si siede sui cuscini. -
Sei di parola, ebreo, e non hai mentito. Le tue erano parole di verità. Ti
ringrazio per aver squarciato il velo che nascondeva l’iniquità e la
menzogna. Sinan ti è debitore. Adesso però bisogna che ognuno riceva il
giusto compenso per le sue azioni. Solomon
fa un cenno con la testa per esprimere il suo accordo. Poi dice: -
Dimmi qual è il giusto compenso. - Lo
sai, ebreo. Tu vedi con chiarezza. Attraverso di te la giustizia divina
colpirà chi ha trasgredito. - Il
giusto compenso è la morte, sceicco? Sinan
annuisce. - La
pena per coloro che combattono contro Allah e il Suo Messaggero e che si
macchiano di corruzione nella vita terrena, è venire uccisi o crocifissi, che
le loro mani e i loro piedi vengano tagliati o che siano esiliati. -
Dimmi che cosa devo fare. Sinan
parla a lungo. Solomon ascolta con attenzione. Pone poche domande, relative
ad alcuni aspetti secondari. Poi lo sceicco lo congeda. Renaud
deve partire per Rougegarde, per incontrare il duca Denis d’Aguilard e il
conte Ferdinando. È stato lui a chiedere questo incontro, perché Denis è un
alleato prezioso: solo la presenza di quello che i saraceni chiamano il Cane
dagli occhi azzurri ha dissuaso i signori dei territori vicini dall’attaccare
San Giacomo d’Afrin. E prima di recarsi a Gerusalemme, dove è stato convocato
da re Baldovino insieme ad alcuni altri signori del regno, vuole concordare
alcune misure difensive. Anche
se è stato lui a chiederla, Renaud non si reca volentieri a questa riunione
con due uomini che detesta e che gli ricordano il fallimento di tutti i piani
che ha ideato per impadronirsi di Rougegarde. Quello che gli pesa di più è
l’ultimo, perché ha pagato una somma enorme e i suoi nemici sono ancora vivi.
Un
tentativo di uccidere Ferdinando c’è stato: se n’è parlato nella valle
dell’Arram e anche a Rougegarde e Renaud ha i suoi informatori. Quel figlio
di puttana del siciliano però è riuscito a cavarsela. A Renaud non risulta
che qualcuno abbia cercato di uccidere Denis. Più volte si è chiesto se Ramzi
abbia almeno provato o se si sia limitato a lasciar perdere dopo il primo
tentativo fallito con Ferdinando. Tanto quel bastardo sa benissimo che Renaud
non è nelle condizioni per chiedergli indietro il denaro o sputtanarlo
raccontando in giro che non mantiene i patti. Gli era sembrato di aver trovato
una buona via per ottenere ciò che voleva, ma sono passati parecchi mesi e
non è successo niente. Renaud
affida la città a Charles, come fa sempre in questi casi. Non si fida di lui,
ma dell’altro fratello, Olivier, si fida ancora meno: ne conosce l’ambizione
e la mancanza di scrupoli. Va benissimo quando si tratta di organizzare
qualche azione che deve rimanere segreta, ma è consigliabile non dargli
troppo potere: non è tipo da arretrare davanti a niente e ha chiaramente
delle mire sulla città. Alcuni
giorni dopo la partenza di Renaud, Marcel, un servitore di Olivier, raggiunge
il suo padrone mentre questi sta parlando con l’amministratore di una sua
tenuta. Si inchina e dice: -
Scusate se disturbo. Avrei bisogno di parlarvi un momento da solo, padrone. È
importante. Olivier
guarda stupito Marcel. Che cosa potrà volergli dire di così pressante questo
servo che non ha nessun incarico importante? Come si permette di interrompere
il suo padrone durante un colloquio? Olivier
risponde, senza celare la sua irritazione: - Un
momento. Dà
le ultime istruzioni all’amministratore e lo congeda. Poi si rivolge al
servitore, con un tono brusco: -
Dimmi. -
Scusate se mi sono permesso di disturbare, ma uno dei servitori del barone
Renaud, Usama, fa parte di quella setta che chiamano Hashishiyya, quelli del
castello di Jibrin. È riuscito a farsi assumere a palazzo e probabilmente
vuole uccidere il barone o qualcun altro. Olivier
fissa Marcel incredulo. -
Chi ti ha raccontato questo? -
Uno dei servitori di vostro fratello lo ha riconosciuto. Era al servizio di
Labeeb, lo sceicco di Barqah che venne assassinato e dice che è stato proprio
Usama a ucciderlo. Lo ha pugnalato mentre lo assisteva nel bagno. Hanno
trovato lo sceicco nudo, ancora avvolto nel telo per asciugarsi, con le tre
ferite inferte da Usama. Olivier
ascolta con interesse. Nella sua mente fluttuano alcune idee. È strano che
Ramzi voglia far uccidere Renaud, che lo ha pagato per eliminare Denis e
Ferdinando: quale motivo può avere? Che Denis lo abbia pagato di più?
Difficile, il duca di Rougegarde non è tipo da inviare sicari. E allora? In
ogni caso Renaud è minacciato: non c’è un’altra spiegazione per la presenza
di un assassino a corte. Difficile che vogliano uccidere Charles o lo stesso
Olivier, che non hanno nessun potere effettivo. Olivier
accarezza un’idea. Ma deve essere sicuro che le parole del servitore
corrispondano a verità. -
Questa storia non mi convince. Perché questo servitore non si è presentato
direttamente da me o da mio fratello? - Ha
visto Usama solo oggi. Si è spaventato molto, gli Hashishiyya non risparmiano
nessuno. Sapete che vostro fratello non c’è. Da voi non ha osato venire.
Temeva di non essere creduto. E poi… lui ha paura a parlare, perché teme che
gli Hashishiyya possano vendicarsi, se scoprono che è stato lui a denunciare
Usama. -
Chi è costui? - È
Smufeed, che è stato catturato qualche mese fa. - Un
prigioniero, uno schiavo. Perché dovrei fidarmi di lui? Perché si è rivolto
proprio a te? - Lo
conosco, barone. Lavoriamo insieme nei magazzini. Olivier
di Soissons rimane un buon momento in silenzio, poi osserva: -
Per il momento non c’è problema. Mio fratello è via e in ogni caso Usama non
ha molte occasioni di trovarsi con lui, che sa essere prudente. Mi occuperò
della faccenda. Dobbiamo prendere di sorpresa quel figlio di puttana,
tendergli una trappola. Tu non dire una parola di quanto hai sentito. A
nessuno. Hai capito? Marcel
non capisce perché occorra prendere di sorpresa Usama: è a palazzo, basta
mandare quattro soldati ad arrestarlo. Ma si guarda bene dal dire che cosa
pensa, tanto più che ha avvertito una chiara minaccia nella voce del barone. -
Sì, mio signore. Non dirò nulla. - Va
bene, puoi andare. Ne parlerò con mio fratello appena torna. E farò tenere
sott’occhio questo Usama, prima di arrestarlo. Voglio scoprire con chi è in
contatto. Ma nessuno ne deve sapere nulla. Altrimenti non individueremo i
suoi complici. Marcel
annuisce e se ne va. Non aveva pensato ai possibili complici. Pare che questi
fanatici non abbiano paura di niente: magari Usama non confesserebbe neanche
sotto tortura. Il barone ha ragione: meglio tenerlo d’occhio per un po’,
prima di arrestarlo. Olivier
ha già elaborato un piano. Ma quanto può fidarsi di questo servitore? Se si
lasciasse sfuggire qualche cosa, anche solo per vantarsi di aver salvato la
vita del barone? Se suo fratello venisse a sapere che Olivier gli ha nascosto
un’informazione così importante, sarebbe un problema serio. Olivier
perderebbe definitivamente la fiducia di Renaud. E in ogni caso, se tutto si
svolgerà come Olivier si augura, una volta morto Renaud, Marcel non starebbe
zitto. No, c’è un unico modo per assicurarsi che davvero un uomo non parli. Olivier
fa chiamare Joscelin. -
Joscelin, ci sono due uomini che devono morire, molto in fretta. Quello che
ucciderai per secondo non deve sapere della morte del primo, perché potrebbe
sospettare e fuggire. Joscelin
non è nuovo a incarichi di questo genere. Chiede solo chi sono i due uomini e
dove si trovano. Poche
ore dopo Marcel, un servitore del barone Olivier di Soissons, viene trovato
sgozzato in un angolo del magazzino di granaglie, il corpo nascosto malamente
dietro alcuni sacchi. Non si sa chi possa averlo ucciso. In serata si scopre
che Smufeed, uno schiavo arabo del barone, è scomparso. Sicuramente ha ucciso
lui Marcel: i due si conoscevano. Smufeed deve averlo ammazzato dopo un
litigio e poi dev’essere scappato. Olivier
dà ordine di cercare il fuggiasco, ma nessuno lo ha più visto dalla tarda mattinata,
quando si è allontanato dicendo che un servitore del barone era venuto a
chiamarlo. Olivier
sa che non deve lasciare nulla al caso. Renaud sarà di ritorno entro un
giorno o due. Usama potrebbe trovare un’occasione per avvicinarsi a Renaud e
in questo caso cercherebbe certamente di ucciderlo. Renaud non deve morire
mentre Charles è a San Giacomo: diventerebbe lui il reggente della città.
Olivier, in quanto fratello minore, potrebbe al massimo ottenere
l’istituzione di un consiglio di reggenza, di cui farebbe parte insieme a
Charles e al vescovo Bohémond. Ma anche in questo caso il suo margine di
manovra rimarrebbe molto ridotto. Il problema è come allontanare Charles
quando si presenterà il momento favorevole. Renaud
rientra con un giorno di ritardo: è zoppicante, a causa di una brutta caduta
da cavallo. Il medico gli ordina di rimanere a riposo per almeno una
settimana. Renaud dovrebbe partire per Gerusalemme, ma non è nelle condizioni
di affrontare un viaggio lungo e disagevole. Per
Olivier è un’ottima notizia: se riuscirà a giocare bene le sue carte, potrà
ottenere il risultato desiderato. In
serata Olivier, Renaud e Charles discutono sul da farsi. Renaud
vorrebbe partire ugualmente. - È
un incontro importante. Domani mattina partirò per Gerusalemme. Olivier
osserva: - Il
dottore ti ha raccomandato di stare a riposo e non cavalcare per un po’ di
tempo. Sarebbe meglio che tu restassi qui, fratello, finché non sarai
guarito. A Gerusalemme posso andare io. Olivier
ha studiato bene le parole. Conta sulla diffidenza di Charles nei suoi
confronti: il fratello conosce la sua ambizione e non vuole che approfitti
dell’occasione per stabilire contatti personali che potrebbero rafforzare la
sua posizione. Un tempo Charles pensava solo a scopare, ma ora che ha
superato i quaranta, è diventato molto più interessato al potere. Charles
non ha motivi per sospettare che Olivier voglia allontanarlo da San Giacomo
d’Afrin, adesso che Renaud è tornato. Pensa invece che Olivier voglia
presentarsi a Gerusalemme come inviato da Renaud e tessere legami che
potranno servirgli in futuro. Perciò interviene subito, come Olivier
auspicava: -
No, se Renaud non se la sente, andrò io. Spetta a me. Renaud
risponde subito: - Va
bene, come vuoi. Anche
Renaud preferisce non lasciare troppa libertà d’azione a Olivier: è
diffidente nei suoi confronti. Olivier
si finge infastidito, perché i suoi fratelli non capiscano che è esattamente
quanto desiderava. Non dice più nulla, come se fosse stato offeso dall’intervento
di Charles e dall’assenso di Renaud. Ma dietro la maschera di sdegno, esulta:
riuscirà a liberarsi di questi due coglioni una volta per tutte. Charles
è soddisfatto e non lo nasconde. Renaud sembra quasi divertito della tensione
che si è creata tra i due fratelli. Il
mattino dopo Charles parte presto per Gerusalemme, con una piccola scorta.
Conta davvero di approfittare dell’occasione per stringere qualche legame
personale con alcuni signori del regno con cui ha già avuto contatti. In un
lontano passato è stato l’amante di Denis di Rougegarde, il più stimato dei
nobili, quello che il re ascolta sempre. È stato un errore non coltivare quel
rapporto: oggi Charles avrebbe una posizione ben diversa, se potesse contare
sull’appoggio incondizionato del duca. Ma ormai sono due estranei. Charles sa
bene di essere stato lui a staccarsi da Denis e non dà al duca di Rougegarde
delle colpe che non ha. Rimpiange di non aver saputo prevedere il futuro. Nel
pomeriggio Olivier fa chiamare Hussein, lo schiavo che assiste suo fratello
Renaud nella pulizia mattutina. -
Mio fratello mi ha incaricato di dirti che devi recarti subito alla bottega
del fabbro Rouge. Hussein
si stupisce che l’ordine del barone Renaud gli venga trasmesso dal fratello,
ma non ha motivo di dubitare della parola di Olivier di Soissons. Si inchina
ed esce immediatamente. Raggiunge quello che era il quartiere degli ebrei, in
parte ancora abbandonato, e bussa alla porta della bottega, che viene subito
aperta. Dentro è buio e Hussein si sente un po’ inquieto. -
Vieni avanti. Ti manda il barone Renaud, vero? Hussein
si tranquillizza. -
Sì. Nella
penombra vede appena l’uomo che gli volta le spalle, dicendo: -
Vado subito a prendere quello che gli devi portare. Tu siediti lì. Ho chiuso
tutto perché devo andare via. Aspettavo solo che arrivassi tu per poter
partire. Hussein
si siede sulla panca. L’uomo ritorna con un involto pesante. -
Va’, ora, ché io devo chiudere la bottega. Hussein
fa due passi verso la porta, reggendo il peso, ma prima che l’abbia
raggiunta, l’uomo gli tappa la bocca e gli taglia la gola. Hussein non riesce
neppure a gridare. Il pacco cade a terra. Quando l’uomo lascia andare
Hussein, anche il servitore si accascia al suolo. Joscelin
guarda il corpo e sorride. Quando il fabbro tornerà dal lavoro che lo hanno
chiamato a svolgere, domani sera, si troverà un cadavere nell’ingresso. La
colpa sarà data a Usama: il servitore sarà accusato di aver ucciso Hussein per
prendere il suo posto. Quando
Joscelin gli conferma che il compito è stato eseguito, Olivier fa chiamare
Usama. -
Hussein è dovuto partire. Domani mattina assisterai tu il barone Renaud nella
pulizia mattutina: è martedì, per cui farà il bagno. Usama
si inchina, senza dire nulla. Olivier sa che certamente l’uomo gioisce per
l’opportunità insperata che gli viene offerta, ma non lascia trapelare nulla
della sua esultanza. Usama
si dirige agli appartamenti del barone Renaud. Questo incarico è un segno che
Iddio potentissimo approva la sua impresa. Un uomo che si bagna è indifeso:
il barone Renaud verrà ucciso esattamente come lo sceicco Labeeb. Il
mattino seguente Renaud è stupito di non vedere Hussein sulla porta, come
ogni giorno. -
Non c’è Hussein? -
No, vi aiuto io. Renaud
aggrotta la fronte. Gli dà fastidio che un suo servitore si sia assentato
senza che lui ne venisse informato. -
Come mai non c’è? -
Non lo so, signore. So solo che è uscito. Mi hanno detto di prendere il suo
posto. Renaud
si dice che si occuperà dopo di questa faccenda. Questo servitore non sembra
sapere niente. - Va
bene. Il
barone si spoglia ed entra nella vasca. Come qualche altro signore franco,
oltremare ha preso alcune abitudini dei saraceni, tra cui quella del bagno.
In estate lo fa anche una volta la settimana, in inverno molto più di rado. Renaud
lascia che Usama gli sfreghi la schiena. Quando ha finito, Usama gli versa il
secchio d'acqua calda in testa. Allora il barone si alza e sale sul bordo
della vasca. L'acqua gli scorre a rivoli lungo il corpo, formando piccole
pozze tutt'attorno. Usama prende il grande telo e lo apre, passa dietro il
barone e glielo appoggia sulle spalle. Poi, afferrando il corpo del suo
padrone con la sinistra, come se volesse asciugarlo, prende con la destra il
pugnale e con un movimento rapido lo immerge sopra l'ombelico. Il barone
spalanca la bocca, ma non grida. Si sente solo il rumore del suo respiro
affannoso e poi un gemito. Usama
tiene il pugnale ben fermo, sostenendo il corpo che cede. Il telo comincia a
scivolare e Usama si ritrae leggermente per lasciarlo cadere del tutto,
perché non lo ingombri nei movimenti. Poi, continuando a sostenere il corpo
con il braccio sinistro, estrae il pugnale e colpisce nuovamente, al cuore. Vede
che il barone reclina la testa e sente che il corpo si affloscia. Lo sostiene
con il braccio, tenendo ancora il pugnale nella ferita. Poi estrae il pugnale
e lascia andare il cadavere, che cade nella vasca. Il corpo scivola
sott’acqua, il viso rivolto verso l'alto, le due ferite ben visibili. Usama
guarda il cadavere. Mormora: -
Tutto è semplice, quando è l’Onnipotente ad assisterci. Usama
si lava le mani e le braccia, poi esce dalla stanza e lascia il palazzo. Sa
bene che la sua vita è appesa a un filo, ma il martirio non lo spaventa. Ha
portato a termine la sua missione: anche questa volta Iddio lo ha assistito. Olivier
lascia passare un po’ di tempo, per essere sicuro che Usama possa fare quanto
deve. Poi esce dalla sua stanza, fingendosi agitatissimo, e si rivolge ad
alcuni soldati presenti nel cortile. -
Presto, rechiamoci negli appartamenti del barone Renaud. Mi hanno appena
riferito che uno degli schiavi di mio fratello fa parte della setta degli
Assassini. Temo che Renaud sia in pericolo. Salgono
di corsa le scale che portano all’appartamento del barone. Incontrano alcuni
servitori, che li guardano, stupiti. Olivier continua a ripetere: -
Presto, presto! La
stanza del barone Renaud è vuota. Nel bagno adiacente il cadavere del barone
giace nella vasca, dove si mescolano acqua e sangue. -
Merda! Olivier
si china sul corpo di Renaud, nascondendo la sua soddisfazione sotto una
maschera di rabbia e disperazione. - Lo
ha ammazzato! Quel bastardo lo ha ammazzato! Non siamo arrivati in tempo!
Bisogna trovarlo. Mio fratello deve essere vendicato! Usama
è scomparso. Olivier ha atteso troppo e l’assassino è fuggito. Non gli
sarebbe spiaciuto poterlo catturare, ma la sua fuga non è un gran problema per
Olivier, anche se ora smania che bisogna ritrovare l’assassino e giura che
vendicherà il fratello infliggendo le torture più atroci a colui che l’ha
ucciso. La
notizia fa presto il giro della città: il barone è morto, pugnalato nel bagno
da un servitore, di certo un infedele. Olivier
non perde tempo: ha avuto modo di pensare a tutto e sa benissimo che cosa
deve fare. Convoca
i maggiorenti della città. Di fronte a loro, dopo aver annunciato la morte
del fratello, di cui tutti ormai sono a conoscenza, dice: -
Prima di morire, mio fratello Renaud, barone di San Giacomo d’Afrin, mi ha
nominato tutore di suo figlio. In suo nome assumo la reggenza di San Giacomo
d’Afrin. La
tutela del figlio di Renaud spetterebbe a suo fratello Charles, il secondo
dei tre fratelli, e non a Olivier, che è il minore: al massimo si potrebbe
istituire un consiglio di reggenza. Il preteso affidamento a Olivier lascia
molti perplessi: pare che il barone Renaud fosse già morto, quando il
fratello è entrato nel bagno. Anche se sospettano che Olivier stia mentendo,
i notabili non hanno motivo per appoggiare uno dei fratelli invece
dell’altro. E in questo momento è Olivier a essere presente e a poter dare
ordini, mentre Charles è lontano. È più saggio non opporsi. Se al suo ritorno
Charles avanzerà qualche pretesa, si vedrà il da farsi. Per il momento,
nessuno ha obiezioni. Olivier
fa chiamare Philippe, il figlio di Renaud. Il bambino è pallido e deve aver
pianto parecchio. È ancora giovanissimo ed è troppo sensibile: è del tutto
inadatto a governare una città come San Giacomo d’Afrin, esposta agli
attacchi dei saraceni. Ma non la governerà. Olivier lo guarda e gli dice: -
Nipote, voi siete il nuovo signore di San Giacomo d’Afrin. In base alla
volontà di vostro padre, vi guiderò fino a che non sarete diventato
maggiorenne. Poi
Olivier si rivolge ai notabili radunati: -
Inchinatevi di fronte al vostro nuovo signore e giurategli fedeltà. Il
responsabile del cerimoniale pronuncia la formula del giuramento. Tutti gli
uomini la ripetono. Poi, uno dopo l’altro, si avvicinano a Philippe e si
inchinano davanti all’erede. Poiché
Olivier è al fianco di Philippe, di fatto essi porgono omaggio a entrambi. Qualcuno
che conosce meglio il barone si pone una domanda precisa: per quanto
tempo Olivier di San Giacomo d’Afrin
lascerà in vita Philippe? Almeno finché non avrà eliminato l'altro fratello,
Charles, che nel caso morisse Philippe diventerebbe l’erede legittimo e non
avrebbe bisogno di un reggente. E finché Philippe non cercherà di ostacolare
i piani dello zio: per il momento non ha certo l’età per decidere alcunché. Nel
pomeriggio ci sono disordini in città: alcuni gruppi attaccano i saraceni.
Non sono molti gli arabi in città: le dure condizioni di vita e la chiusura
delle moschee li hanno spinti a partire. Ne sono rimasti pochi, a parte gli
schiavi che servono nelle case dei cristiani: diversi sono anch’essi
servitori, altri sono mercanti o artigiani, alcuni svolgono lavori umili. Otto
o nove musulmani vengono linciati dalla folla e i loro cadaveri vengono
castrati e trascinati per le vie della città. Alcune donne vengono stuprate.
Olivier lascia che la folla si sfoghi per qualche ora, poi fa riportare
l’ordine in città. Nel
tardo pomeriggio Olivier si presenta dal vescovo Bohémond di Tours, che si
trova in città. Considera il vescovo un ambizioso senza scrupoli, ma sa di
aver bisogno dell’appoggio del prelato. Bohémond
di Tours è sempre stato un fedele alleato di Renaud e la morte del barone lo
priva di un uomo su cui poteva contare, ma sa che gli conviene non destare
l’ostilità di Olivier: per il momento è lui a comandare a San Giacomo
d’Afrin. Il
loro dialogo è breve: Olivier esprime il suo dolore per la morte del
fratello, il suo grande rispetto per il vescovo e il desiderio di poter
contare sulla guida e l’appoggio di quello che considera un vero fratello
maggiore. Sanno entrambi benissimo che sono solo parole, ma a tutti e due
conviene avere l’altro come alleato e non come nemico. Dopo
che Olivier se n’è andato, Bohémond si siede alla scrivania e riflette.
Olivier è ambizioso come Renaud e certamente anche lui vorrebbe impadronirsi
di Rougegarde. Non può aspirare a diventare il signore di San Giacomo, finché
saranno vivi il fratello e i due nipoti: il figlio di Renaud e quello di
Charles. Olivier è un alleato più debole di Renaud, ma questo rende Bohémond
più forte. Bohémond
vuole uscire dal vicolo cieco in cui si trova. Dopo tutti questi anni,
Bohémond è ancora solo il vescovo di San Giacomo d’Afrin, un piccolo centro,
che si è impoverito nel tempo, e di Rougegarde, la perla della Terrasanta,
ricca e fiorente, ma piena di musulmani, ebrei, eretici che circolano
liberamente e dove l’autorità di Bohémond è debole. Quando, quattro anni fa,
re Amalrico è morto, Bohémond ha sperato che la posizione di Denis d’Aguilard
si indebolisse, ma non è stato così. Il duca rimane il campione dei franchi
in Terrasanta e il giovane re Baldovino IV ha in lui la stessa cieca fiducia
che aveva il padre: d’altronde è stato Denis a guidare alla vittoria contro
il Saladino le truppe cristiane. La posizione del duca è saldissima. Solo la
morte potrebbe cambiare la situazione. Ci
sono molte incombenze da sbrigare e Olivier è occupatissimo. Non perde di
vista il nipote, con la scusa di guidarlo in questo momento difficile. Solo
nella serata del secondo giorno si rende conto di non aver più visto la
cognata, Jeanne, e i suoi due figli. La fa chiamare da un servitore, ma
l’uomo ritorna e gli dice: - La
baronessa non c’è. Ieri pomeriggio si è recata nella villa di campagna di Vieilleseaux. Sul
viso di Olivier compare una smorfia. Non gli piace che Jeanne si sia
allontanata, vorrebbe saperla a palazzo, per tenerla sotto controllo. Non
teme niente da parte sua: la considera troppo stupida per tentare qualche
cosa, ma il figlio Jacques è al terzo posto nella successione, dopo il
piccolo Philippe e Charles. Davanti a Olivier. Olivier
non può certo impedire alla cognata di muoversi liberamente, ma il giorno
seguente le manda un messaggio, chiedendole di ritornare perché il giovane
Philippe sente la sua mancanza: in effetti il giovane è affezionato alla zia,
l’unica figura femminile che si è presa cura di lui, al di fuori della
servitù. Il
servitore ritorna in serata dicendo che la baronessa non è alla villa: i servitori
non la vedono da diverse settimane. Olivier
non capisce. Anche se non considera Jeanne un problema di per sé, la faccenda
gli dà molto fastidio. Non sa dove possa essere andata e perché. Ha deciso di
raggiungere Charles a Gerusalemme? Olivier ne dubita. I rapporti tra Charles
e sua moglie non sono buoni. Sarebbe più esatto dire che non ci sono
rapporti, di nessun genere. Conducono vite del tutto separate. Solo qualche
giorno dopo Olivier scopre che Jeanne ha raggiunto Rougegarde ed è ospite del
duca. È una pessima notizia, perché Olivier non può certo forzare Denis a
rimandare indietro Jeanne. Ma in ogni caso la baronessa dovrà tornare a San
Giacomo per il funerale che dovrebbe svolgersi al ritorno di Charles da
Gerusalemme. Georges,
il messaggero inviato da Olivier, raggiunge Charles nella capitale del regno.
Nella lettera Olivier gli comunica che Renaud è stato ucciso da uno schiavo
musulmano e lo invita a tornare al più presto a San Giacomo d’Afrin per
concordare il da farsi e per la cerimonia funebre in onore del fratello. Charles
è furibondo: si trova ad alcuni giorni di viaggio da San Giacomo d’Afrin
proprio ora che la sua presenza sarebbe necessaria in città. Olivier ha di
certo approfittato della situazione per prendere di fatto il potere in nome
del nipote. Charles
interroga Georges. -
Mio fratello mi comunica che il barone Renaud è stato ucciso. Si sa qualche
cosa sul suo assassino? -
Uno schiavo musulmano. Ma è riuscito a fuggire. Non si sa chi l’abbia
mandato, ma dicono che siano stati gli ismailiti, quelli del castello di
Jibrin. - Ci
sono altre novità? - Ci
sono stati disordini in città. Ma il barone Olivier li ha fatti reprimere. Il
giorno dopo tutto era tranquillo. -
Quando è stato ucciso mio fratello? -
Martedì mattina. - E
quando sei partito tu? Georges
non ha motivo per mentire: a parte il fatto che Charles è in grado di
calcolare i tempi necessari per andare da San Giacomo a Gerusalemme, se le
cose andranno come previsto, qualsiasi cosa Georges possa dire, non cambierà
nulla; se invece Charles dovesse arrivare a San Giacomo, scoprirà la verità. -
Quando il barone Olivier mi ha dato l’incarico, mercoledì pomeriggio. Charles
non dice niente: Olivier ha lasciato passare un giorno e mezzo prima di
avvertirlo, quel bastardo! -
Come sta mio nipote? - È
molto provato. Mi dicono che quando i notabili gli hanno giurato fedeltà
piangeva. -
C’è stata una cerimonia di giuramento? -
Sì, quando il barone Olivier ha assunto la reggenza. Charles
digrigna i denti: suo fratello reggente, un titolo che sarebbe spettato a
lui! Merda! -
Cosa? Chi l’ha nominato reggente? Georges
coglie la rabbia che Charles controlla a fatica. Se l’aspettava. Dà la
versione ufficiale degli avvenimenti: - Il
barone Renaud prima di morire ha nominato il barone Olivier reggente per il
figlio. Charles
annuisce. Esclude che le cose siano andate così, ma indagherà a San Giacomo
d’Afrin. Ora è necessario che rientri. - Va
bene. Rientrerai con me. Intendo partire oggi stesso. -
Certo. Charles
prende congedo dal re e dalla corte. Nessuno si stupisce della sua rapida
partenza: la morte del fratello rende necessaria la sua presenza a San
Giacomo d’Afrin. D’altronde la sua assenza non ha nessun rilievo: i signori
di San Giacomo, per quanto possano tessere intrighi e cercare alleanze,
contano davvero poco nei giochi di potere che occupano la corte. Un sorriso
del duca di Rougegarde vale mille inchini dei baroni di San Giacomo. Charles
è impaziente di raggiungere la città. Sceglie la via più breve, che passa
attraverso il Jabal al-Qisfah, un massiccio montuoso segnato da valli
profonde e pareti scoscese. È un’area molto vicina ai domini saraceni e
talvolta vi fanno incursioni briganti, ma Charles viaggia con sei uomini, a
cui si aggiunge Georges, per cui non teme di essere attaccato. I briganti a
volta assalgono le carovane, ma Charles e i suoi uomini sono guerrieri, non
mercanti, e non hanno con sé merci: non sono una preda ambita. Percorrono
un orrido che permette di attraversare rapidamente l’area. Il passaggio è
disagevole, per cui gli uomini procedono lentamente. Per sicurezza,
controllano che non ci siano banditi in agguato in cima alle pareti, ma non
sembrano esserci problemi. A sera raggiungono il punto in cui la gola si apre
sulla valle principale. La notte ormai si avvicina, per cui decidono di
fermarsi lungo il fianco della montagna, tra alcune rocce. Montano
un accampamento di fortuna, per non perdere tempo: Charles ha fretta di
arrivare a destinazione. Un uomo rimane di sentinella. Gli altri si coricano. La
luna è già sorta: una luna quasi piena, che illumina gli uomini addormentati.
Tutto sembra tranquillo. La sentinella veglia. Non vede l’uomo che si
appresta a balzare su di lui da una roccia che lo sovrasta. Si sente spingere
a terra, mentre una mano gli tappa la bocca. Poi un dolore violento al collo
gli dice che la sua vita è finita. Una
dozzina di ombre si avvicinano ai corpi stesi a terra. Uno dei soldati si
sveglia e fa in tempo a gridare, prima che una spada lo trafigga. Il grido
sveglia Charles, che si tira a sedere di scatto. Alla luce della luna vede
alcuni uomini armati che stanno facendo strage dei soldati. Charles
si alza, afferra la spada e scatta di corsa in direzione opposta: ha capito
che i suoi uomini sono morti o stanno morendo e non vuole subire la stessa
sorte. Davanti a lui appare Georges. È armato. Coprirà la sua fuga. -
Cerca di fermarli. Ci vogliono amma... Charles
non termina la frase: Georges gli ha infilato la spada nel ventre, con tanta
forza che è uscita dalla schiena. Charles lascia cadere la sua arma, che è
divenuta troppo pesante. Quando
Georges ritira la spada, Charles cade in ginocchio. Georges lo afferra per i
capelli. -
No, no. Non uccidermi. No… Georges
gli taglia la gola, poi lascia la presa e Charles crolla a terra, in un lago
di sangue. Georges
torna indietro. Controlla che gli uomini che accompagnavano Charles siano
tutti morti. Gli altri sicari prendono tutto ciò che ha qualche valore,
compresi gli abiti. Georges dà loro il compenso pattuito. In
mattinata Georges raggiunge il villaggio più vicino. Racconta che il barone
Charles e i suoi uomini sono stati assaliti da briganti saraceni nella notte.
Georges dice di essersi salvato solo perché dormiva un po’ discosto e quei
bastardi non si sono accorti di lui: ha sentito le grida, ma ormai era troppo
tardi per intervenire. Non ha potuto fare niente per proteggere il barone.
Georges li ha sentiti parlare e può dire con sicurezza che erano saraceni;
avanza il dubbio che questi briganti possano essere stati mandati dagli
stessi che hanno fatto uccidere il barone Renaud. Georges
conduce gli uomini del villaggio, armati di bastoni e tridenti, al luogo
dell’agguato. Ci sono i cadaveri di Charles e dei soldati che lo
accompagnavano, spogliati dei loro abiti. I bagagli sono scomparsi. I
cadaveri vengono portati al villaggio. I soldati sono sepolti nelle
vicinanze, mentre la salma del barone, avvolta in un telo, viene trasportata
a San Giacomo per la sepoltura. La
notizia dell’agguato arriva a San Giacomo la sera stessa, portata da Georges.
Olivier
manda immediatamente un messaggio a Jeanne e al duca di Rougegarde. Organizza
i funerali in modo che Jeanne abbia il tempo di arrivare: lei e i figli
dovranno tornare per la cerimonia funebre. E di sicuro non ripartiranno:
Olivier dirà che per la loro sicurezza è necessario che rimangano a San
Giacomo d’Afrin, per essere al sicuro dalle insidie dei saraceni. Vuole
averli sotto controllo. La
carovana che trasporta il corpo del barone Charles arriva il giorno seguente.
In città gli uomini di Olivier hanno diffuso la voce che sono stati banditi
saraceni a uccidere Charles, probabilmente per ordine del signore del
castello di Jibrin: quegli infami che hanno ucciso il barone Renaud, hanno
teso un agguato anche al fratello. I signori di San Giacomo d’Afrin,
avamposto della vera fede, sono sotto attacco. I saraceni vogliono
riprendersi la città. I
funerali solenni di Renaud e di Charles si svolgono nella cattedrale di San
Giacomo d’Afrin. Teli neri a lutto coprono le pareti. Jeanne
è tornata: di certo non poteva esimersi. L’ha accompagnata il duca Denis e
con lui è giunto anche Ferdinando dell’Arram, entrambi con una scorta
numerosa, per rendere omaggio al signore di San Giacomo e al fratello. Nella
scorta di Ferdinando c’è anche un nero, che suscita la curiosità della gente. Olivier
scopre che Jacques e la sorella Christine non sono venuti. È sbalordito e
furente. Si rivolge alla cognata: -
Non vedo Christine e Jacques. Non capisco. Non sono venuti con voi, a rendere
l’ultimo omaggio al loro padre? Denis
risponde al posto di Jeanne: - Ho
sconsigliato io a vostra cognata di portarli: gli ismailiti hanno ucciso già
il barone Renaud e poi il loro padre. Se la loro intenzione è sterminare i
signori di San Giacomo d’Afrin, è meglio che per il momento rimangano a
Rougegarde, dove sono al sicuro. Olivier
cerca di nascondere la sua rabbia. Risponde: -
Pensate che qui a San Giacomo non sarebbero al sicuro? Vi garantisco che
intendo prendere tutte le misure per proteggerli. - Sono
certo che fareste tutto il possibile per proteggerli, ma il barone Renaud è
stato ucciso proprio a palazzo, nel suo appartamento. A Rougegarde nessuno è
mai entrato nel palazzo ducale senza la mia autorizzazione. Olivier
risponde, questa volta lasciando trapelare la sua irritazione per quella che
appare una mancanza di fiducia: -
Come preferite. Olivier
non si aspettava questo colpo. Era certo che Jeanne sarebbe tornata con i
figli e a quel punto, con la scusa della sicurezza, Olivier le avrebbe impedito
di ripartire. Adesso non può certo costringerla a rimanere, visto che i figli
sono a Rougegarde. Il duca non glielo permetterebbe e in ogni caso non
servirebbe a niente: l’erede, se Philippe dovesse morire, è Jacques, non
Jeanne. E se la cognata dovesse morire, Denis si farebbe assegnare la tutela
di Jacques: il re sicuramente gliela concederebbe. Sarebbe ancora peggio.
Merda! Tutti
i notabili della città sono riuniti nella cattedrale. Al centro della navata
troneggiano le due bare. Il
vescovo Bohémond fa un lungo discorso, esaltando l’amore fraterno che univa
Renaud, Charles e Olivier. Quest’ultimo come un buon padre guiderà i passi
del giovane Philippe fino a che questi sarà in grado di governare da solo.
Maledice i saraceni, che non hanno osato affrontare in battaglia i valenti
guerrieri, baluardi della Cristianità,
ma li hanno uccisi a tradimento. Invita la cittadinanza a stringersi intorno
al barone Olivier e ai figli dei due baroni morti. Sono
in molti a sapere che le parole di Bohémond sono solo fumo negli occhi, a
partire dal vescovo stesso. Bohémond non sa chi abbia ucciso Charles, ma
sospetta che Olivier non sia estraneo a questo agguato. Lo pensano anche
altri e interpretano correttamente l’assenza dei due figli di Charles come
una conferma dei loro sospetti: la vedova di Charles ha preferito non correre
rischi e lasciarli a Rougegarde, dove sono sotto la protezione del duca, lui
sì davvero baluardo della cristianità, non certo come il barone Renaud, che
non è neanche andato a combattere contro il Saladino, o quel finocchio del
fratello. Ma tutti si guardano dall’esprimere il loro pensiero, mostrando un
dolore che non provano. Né Renaud, né Charles, né Olivier hanno mai saputo
conquistare l’affetto dei loro sudditi. Al
termine della cerimonia, Denis chiede a Olivier di parlargli. È un invito a
cui il barone non può certo sottrarsi. La
conversazione è molto lunga. Denis fa il punto della situazione e si informa
sulle intenzioni di Olivier nei confronti dei saraceni. Olivier non capisce
il senso di questo colloquio, che poco aggiunge a ciò che entrambi sanno
benissimo. Al
termine del dialogo Denis dice: - So
che veglierete su vostro nipote Philippe con la massima cura, accompagnandolo
nella sua crescita. Io farò lo stesso con il giovane Jacques, che, nel caso
malaugurato in cui dovesse morire Philippe, diventerà l’erede. Ma io spero
che Philippe viva a lungo e possa governare questa città come suo padre prima
di lui. Il
discorso di Denis è chiaro: Jacques rimarrà a Rougegarde, sotto la tutela del
duca, e nel caso Philippe dovesse morire, Jacques otterrà la signoria di San
Giacomo e Olivier perderà ogni potere. Se quel giorno Jacques avesse ancora
bisogno di un tutore, sarebbe sicuramente Denis di Rougegarde. Non era
necessario tenerlo tutto questo tempo per dirgli qualche cosa che Olivier
aveva già intuito. Il tono del duca sembra cordiale, ma l’avviso è chiaro:
Olivier deve fare attenzione a ciò che fa: Philippe non deve morire. Solo
più tardi, quando scopre che Jeanne è rimasta a lungo con Philippe, a Olivier
viene il sospetto che il colloquio con il duca mirasse soprattutto ad
allontanarlo dal nipote, per permettere alla cognata di parlargli senza che
lui fosse presente. Il
giorno dopo Denis, Ferdinando e Jeanne lasciano la città, di cui ormai Olivier
è il padrone. Finché Philippe si lascerà dirigere, nessuno metterà in
discussione il suo potere. Olivier
non è soddisfatto, per niente. Per il momento può comandare in nome del
nipote, ma la protezione accordata da Denis a Jacques rende molto difficile passare
da reggente a signore della città. L’eliminazione di Charles è stata
un’ottima cosa, perché nessuno mette in discussione il suo ruolo di reggente,
ma a questo punto diventa essenziale che Philippe viva. Altrimenti Denis
metterà le mani anche su San Giacomo, attraverso il giovane Jacques. Olivier
scuote la testa. Jacques è in realtà suo figlio, anche se Jeanne non lo sa,
ma per Olivier è un perfetto estraneo e un ostacolo sulla strada per il
potere. A
Rougegarde la baronessa Jeanne vive con i figli nel palazzo ducale. C’è un
gruppo di soldati che si occupa esclusivamente di proteggere lei, Jacques e
Christine. Li comanda Manrique, un ufficiale che è solo da alcuni mesi al
servizio del duca, ma che è molto esperto. Il duca sembra avere grande fiducia
in lui. Manrique
dà lezioni a Jacques nell’uso delle armi e tra i due si crea un buon
rapporto. Jacques ha tredici anni e ha avuto poche occasioni di confrontarsi
con uomini che non fossero servitori: Charles, l’uomo che considerava suo
padre, si è sempre completamente disinteressato di lui e lo stesso vale per i
due zii, Renaud e Olivier. Jacques è affascinato da questo guerriero,
coraggioso e fiero, che gli dedica tempo e lo ascolta. In lui Jacques ha
piena fiducia e più volte pensa che gli sarebbe piaciuto avere Manrique come
padre. Con il trascorrere del tempo, riesce ad aprirsi sempre di più con lui
e gli pone domande su quegli argomenti di cui preferisce non parlare con la
madre. Jeanne
ha modo di parlare tutti i giorni con questo ufficiale, che è un uomo forte e
cortese: discutono di Jacques, del suo addestramento militare e dei problemi
che a volte sorgono. Tra di loro si crea un buon rapporto e Jeanne si trova a
esprimere le sue preoccupazioni per il futuro. - Il
duca dice che queste terre torneranno presto nelle mani dei saraceni. -
Difficilmente il duca si sbaglia. Conosce bene la situazione. Credo che solo
la sua presenza abbia impedito fino a ora che Rougegarde venisse
riconquistata. Per entrambi
ciò che dice Denis di Rougegarde è una verità che non ha senso mettere in
discussione. -
Non mi preoccupo che Jacques non possa diventare barone di San Giacomo. Spero
che mio nipote viva a lungo. Mi spaventa che l’idea che la vita di mio figlio
sia minacciata. E anche quella di mio nipote. Sono molto affezionata a lui e
mi spiace non vederlo più. - Ma
avete ritenuto più prudente trasferirvi a Rougegarde. Jeanne
ha fiducia in Manrique e gli dice sinceramente ciò che finora non ha
raccontato a nessuno: -
Non mi fido di mio cognato Olivier: è un uomo molto ambizioso e Jacques, in
quanto erede di San Giacomo, nel caso Philippe dovesse morire, è un ostacolo
alle sue aspirazioni. - Lo
è anche vostro nipote Philippe. Il principale ostacolo, perché una volta
divenuto maggiorenne sarà il signore della città. -
Sì, certo… Jeanne
esita un momento, ma è contenta di confidarsi e ha fiducia in Manrique, per
cui prosegue: -
…non credo che Olivier farà nulla contro Philippe, perché Jacques è qui a
Rougegarde. Ma se fossimo rimasti a San Giacomo, non so quanto sarebbero
vissuti Jacques e Philippe. - A
questo punto? Pensate che vostro cognato… Un
dubbio attraversa la mente di Manrique. Chiede: - E…
la morte di vostro marito e del fratello? Anche loro…? -
Mio cognato Renaud è stato ucciso dagli ismailiti. Non credo che Olivier
abbia svolto qualche ruolo. Di mio marito… non so… ma Olivier mandò un messo
a chiamarlo e durante la strada del ritorno venne ucciso. L’unico a salvarsi
fu proprio il messo. Forse sono solo fantasie, ma… Scusatemi, non avrei
dovuto parlare. Vi prego di non riferire a nessuno quanto vi ho detto. So che
il duca condivide i miei dubbi, ma altri non devono sapere. Manrique
si inchina leggermente. - Di
certo non tradirò la fiducia che avete riposto in me. Manrique
è affascinato da questa donna, ancora giovane, di cui apprezza l’intelligenza
e la sensibilità. E Jeanne non è insensibile al fascino di questo guerriero
coraggioso e leale. Il
successo di Usama ha rinfrancato Ramzi: può presentarsi a Sinan senza timore.
Prima di partire dà comunque istruzioni precise, in modo da non correre
rischi nel caso lo sceicco mandi nuovamente i suoi uomini: in effetti al momento
di partire i due hanno accennato a questa possibilità. Sinan
non fa attendere a lungo Ramzi: questo gli sembra un buon segno. Ramzi
riferisce sullo svolgimento della missione. Racconta che Usama è stato
chiamato ad assistere il barone durante il bagno e ha così potuto ucciderlo:
l’occasione si è presentata assai prima del previsto. Di certo è stata la
volontà divina. Sinan
annuisce, poi chiede: -
Che mi dici della morte del fratello del barone? Ramzi
allarga le braccia. - Non
ne so nulla, sceicco. Tu mi avevi ordinato di uccidere Renaud e ho obbedito:
Usama ha spento la sua vita, poi è riuscito a tornare al castello, Iddio lo
ha protetto. Non so chi possa aver teso un agguato al fratello del barone.
Dicono che fossero arabi, ma non c’è nessuna certezza. - Va
bene. Hai svolto la missione che ti è stata affidata. -
Iddio lo ha permesso. Sinan
annuisce. -
Manderò nuovamente da te due uomini, per verificare che tutti gli errori
siano stati emendati. Ramzi
si finge contento. - È
davvero un grande onore. Ti ringrazio di questo, sceicco. La tua
sollecitudine nel guidarci nella retta via è un segno della tua bontà.
Grazie. - I
tuoi uomini dovranno obbedire ciecamente ai loro ordini. -
Sarà così, sceicco. Ramzi
torna con i due uomini al castello: non sono però quelli che sono già venuti
in precedenza. Questa volta Ramzi non si ferma per strada, se non al
sopraggiungere della notte: sa che tutto è sotto controllo a Qasr al-Hashim. Nei
primi giorni i due inviati controllano i diversi momenti della vita
quotidiana e fanno alcune osservazioni, ma nell’insieme la vita nel castello
sembra svolgersi secondo le regole comuni a tutti gli ismailiti: d’altronde
ciò che è stato criticato dai primi inviati è stato corretto. I
due però hanno maggiori pretese di controllo. Richiedono che tutte le porte
interne non vengano sbarrate, nemmeno quella che divide la parte più interna
del castello dalla parte esterna. Entrano a qualsiasi ora del giorno e della
notte nelle stanze, controllando ciò che avviene. E richiedono obbedienza
assoluta. Molte loro richieste sembrano non avere altro motivo che verificare
la disponibilità degli uomini a obbedire ciecamente. Così un giorno, quando
ormai il pranzo è stato preparato, impongono come penitenza il digiuno a tutti,
esclusi i bambini e i malati. Un altro giorno, mentre un gruppo di guerrieri
si prepara a partire, chiamano tutti a una preghiera straordinaria, che
rimanda la partenza di un’ora. Una notte pretendono che la porta del castello
venga aperta: poiché i soldati di guardia sono restii a farlo, Ramzi viene
chiamato. I due uomini appaiono molto irritati: non accettano che qualcuno
metta in discussione i loro ordini. Esigono che Ramzi faccia fustigare i
soldati di guardia. Ramzi
obbedisce. Altre volte i due si fanno aprire la porta di notte. Di solito uno
dei due esce, l’altro rimane dentro. Quello che esce ritorna dopo poco tempo.
Ramzi pensa che sia solo un modo per controllare l’obbedienza dei soldati. Se
non vengono contrariati, non pongono problemi, ma è fastidioso vederli
spuntare a qualsiasi ora del giorno o della notte. Ramzi ha dovuto rinunciare
a scopare con uno dei ragazzini: il rischio è troppo forte. Se li è visti più
volte piombare in camera nel cuore della notte. Sembrano non dormire mai.
Probabilmente riposano soprattutto durante il giorno, a turno. Tutti
aspettano impazienti il momento in cui i due se ne andranno. Tre
uomini sono arrivati a Jabal al-Jadid: dal loro abbigliamento li si direbbe
mercanti. Uno di loro si presenta a palazzo e chiede di parlare con Qais o
Mahdi. Si rifiuta di spiegare il motivo della sua richiesta, ma dice di
conoscere entrambi da tempo e che basterà riferire il suo nome: Morqos. Un
soldato va ad avvisare i due ufficiali. Qais
e Mahdi si ricordano benissimo di Morqos, che ha insegnato loro i primi
rudimenti della lingua dei franchi quando erano a Rougegarde. Qais esce per
accoglierlo. -
Morqos! Sono contento di vederti. -
Anch’io sono contento di vederti, Qais. Ho bisogno di parlarti, da solo. Qais
non riesce a immaginare il motivo per cui Morqos è venuto a Jabal al-Jadid. -
Vieni dentro, che parliamo con calma. Morqos
entra con Qais. Non appena sono in una stanzetta senza testimoni, spiega: -
Qais, non sono solo. Con me ci sono due persone. Uno di questi è il duca di Rougegarde…
o di al-Hamra, se preferisci. Qais
è sbalordito. - Il
duca di Rougegarde, qui, in incognito? Ma… -
Deve parlare con l’emiro. È una faccenda maledettamente importante, per lui
come per l’emiro. E nessuno deve saperlo. Assolutamente nessuno. Qais
scuote la testa. -
Quell’uomo è incredibile. Avviso immediatamente l’emiro. -
Che nessun altro sappia, Qais. -
Sta’ tranquillo. Qais
raggiunge ‘Izz: è uno dei pochi che possono accedere all’emiro senza
particolari controlli. -
Emiro, scusami, ma ho bisogno di parlarti da solo. ‘Izz
è stupito della richiesta, ma in Qais ha piena fiducia, per cui congeda i
servitori presenti. -
Dimmi, Qais. - Il
duca di al-Hamra è qui. -
Cosa? Il duca Denis? - È
giunto con Morqos, che tu certo ricordi, e con un altro uomo. Ha bisogno di
parlarti, ma nessuno deve saperlo. -
Che cosa vuole? Lo sai? -
No, ho parlato solo con Morqos. - Me
lo dirà lui. Digli che può venire quando vuole. Lo aspetto. Qais
raggiunge Morqos e gli dice di andare a prendere il duca. Morqos ritorna con
i suoi compagni di viaggio e Qais li accoglie. -
Duca, sono felice di rivederti. Ti dobbiamo la vita e non ce lo siamo
dimenticati. Denis
sorride. -
Sono venuto per sventare un’altra minaccia che grava sull’emiro e su di me. -
L’emiro mi ha dato ordine di accompagnarti subito da lui. Verranno anche i
tuoi compagni a parlargli? -
No, per il momento soltanto io. -
Seguimi, duca. -
L’emiro è solo? -
Sì. Ha allontanato tutti. Qais
accompagna Denis dall’emiro. ‘Izz lo saluta nella lingua dei franchi e poi
gli si rivolge in arabo: -
Sei un uomo imprudente, duca. Vieni senza scorta in territorio nemico. -
Sono venuto in amicizia e so che posso fidarmi di te, emiro. - Di
me certamente: guai, se non fossi leale nei tuoi confronti. Non dimentico che
mi hai accolto e protetto quando ero solo un ragazzo perseguitato, in fuga
dai suoi assassini. Ma, dimmi, perché ti sei spinto fin tra i tuoi nemici? -
Perché abbiamo un nemico comune, di cui è ora che ci sbarazziamo, emiro. - Un
nemico comune? Ma… aspetta… la sorpresa del tuo arrivo mi ha fatto
dimenticare i più elementari doveri di ospitalità. Che vergogna! Prima che
proseguiamo, accetterai che io ti offra da bere e da mangiare: non sia mai
detto che l’emiro di Jabal al-Jadid non è ospitale nei confronti del più
valoroso dei signori franchi, a cui lo lega un profondo debito di
riconoscenza. Denis
non rifiuta: sa che non accettando, offenderebbe ‘Izz. -
Grazie. Ma che nessuno dei servitori mi veda. ‘Izz
fa preparare bevande e dolci in una stanza, poi congeda i servitori e invita
Denis ad accomodarsi sui tappeti, davanti ai vassoi. Dopo
aver mangiato alcuni pasticcini e aver bevuto, Denis chiede: -
Posso parlarti, ora, emiro? -
Certamente. - So
che gli Hashishiyya di Qasr al-Hashim hanno tentato di ucciderti più volte. -
Sì, è così. I miei uomini devono esercitare una sorveglianza continua per
sventare la minaccia. -
Hanno provato a uccidere anche me, ma hanno fallito. ‘Izz
è stupito. -
Anche te? Di solito non colpiscono i cristiani. Sono grato ad Allah per aver
preservato un uomo giusto e generoso. -
Credo che sia ora di mettere fine a questa minaccia. - E
come? -
Ora ti spiegherò. Mentre
il duca e l’emiro sono a colloquio, Qais ha fatto portare un rinfresco per
Morqos e l’uomo che lo accompagna. Si è alquanto stupito quando ha
riconosciuto nel secondo ospite l’orafo a cui l’emiro commissiona i gioielli
più pregiati. Non associava certo questo eccellente artigiano a questioni
politiche importanti, ma non dice nulla. Si
siede con loro. -
Morqos, non ti chiedo nulla della presenza del duca qui, anche se devo dire
che sono curioso. -
Non posso dirti nulla, non per cattiva volontà, ma perché io stesso non ne so
nulla. Credo che invece Solomon sappia benissimo i motivi di questa visita,
ma dubito che sia disposto a soddisfare la nostra curiosità. Solomon
sorride. -
Posso dirvi che, se tutto va come previsto, la vostra curiosità sarà
soddisfatta tra qualche giorno. Fino ad allora, devo tenere la bocca chiusa.
È una faccenda troppo delicata. Non possiamo permetterci il minimo errore. Qais
chiede notizie delle persone che conosce a Rougegarde. Morqos le chiede di
Feisal e Mahdi. -
Stanno bene. Posso chiamarli entrambi. Saranno contenti di vederti. Morqos
risponde subito: - No,
è meglio di no. Deciderà l’emiro a chi parlare della nostra visita. Stanno
chiacchierando quando uno degli uomini di guardia viene a chiamare Solomon:
l’emiro vuole parlargli. Solomon segue la guardia. Morqos
si rivolge a Qais: -
Come vedi, Solomon è molto ben informato. - E
noi due ci teniamo la nostra curiosità. Ridono.
Sono
passati diversi giorni. Le truppe del duca d'Aguilard hanno raggiunto la
valle dell’Arram e ora risalgono lungo il Nahr. La spedizione si dirige verso
i territori dell'emiro di Jabal al-Jadid, per fronteggiarne l’avanzata:
alcuni giorni fa l’esercito di ‘Izz ibn Ashraf si è mosso dalla capitale e si
è diretto verso i domini del conte Ferdinando. Per
motivi sconosciuti, i rapporti tra l'emiro e i nobili franchi paiono essere
improvvisamente peggiorati e, dopo alcuni anni di convivenza pacifica, i
signori vicini sembrano intenzionati ad affrontarsi. Tra
gli uomini di ‘Izz, nessuno sa bene che cosa abbia spinto l’emiro a muoversi
con l’esercito. Molti pensano che voglia attaccare Qasr Basir, che i franchi
chiamano castello San Michele: un forte che il duca di Rougegarde conquistò
in passato e che venne dato ai templari. Qasr Basir è nei domini del conte
Ferdinando, ma se l’emiro ha pensato che il duca Denis non sarebbe
intervenuto a difesa del suo alleato, ha davvero commesso un errore
colossale: era ovvio che il duca non potesse tollerare un attacco ai confini
settentrionali del suo dominio, in un’area di importanza strategica. E
infatti il duca è subito giunto in soccorso del conte Ferdinando e insieme
marciano verso Qasr Basir. Qualcuno
insinua che l'emiro voglia impossessarsi della stessa Rougegarde, ma questa
sarebbe pura follia: il duca ha di recente sconfitto un grande esercito
guidato dal Saladino in persona e l’emiro di Jabal al-Jadid non ha certo le
forze per affrontare il più potente dei signori cristiani. Ma ‘Izz ibn Ashraf
è giovane e forse sottovaluta il suo avversario. Ora
i due eserciti si muovono nella valle del Nahr, che in parte rientra nei
territori dell’emiro, in parte è sotto il controllo del conte Ferdinando. Lo
scontro appare vicino. Tra
i soldati nessuno conosce le intenzioni dei comandanti. Gli uomini del duca
non sono preoccupati: il loro signore non ha mai commesso errori e li ha
sempre portati alla vittoria, anche contro truppe numericamente molto
superiori. Gli uomini dell’emiro sono inquieti. Molti ripetono le voci
terribili che circolano sul duca, che dicono alleato delle potenze infernali.
Proprio tra i monti che ora percorrono, il duca ha annientato l’immenso
esercito del Circasso, quasi senza combattere. Li conforta la presenza del
comandante Barbath, in cui hanno tutti una fiducia totale. I
due eserciti sono giunti in vista uno dell’altro e sistemano i loro
accampamenti su due colline che si fronteggiano. Il
giorno successivo non succede nulla. C’è molta tensione nei due campi,
soprattutto in quello dell’emiro. In serata il comandante Barbath seleziona
un centinaio di uomini e tiene loro un discorso. Anche Denis e Ferdinando
hanno selezionato cento uomini e parlano loro. Appena
scende la notte, dai due accampamenti si muovono numerosi cavalieri e fanti.
Le due schiere risalgono lungo la valle del fiume, poi, dopo due ore di
avanzata silenziosa, raggiungono la confluenza con un affluente e procedono
affiancate. Avanzano senza parlare: ora tutti sanno qual è la loro meta e
sono ansiosi di raggiungerla. A
Qasr al-Hashim tutti dormono, a parte le sentinelle. I due inviati di Sinan
scendono dalla loro stanza, nella parte più interna del forte, e ingiungono di
aprire il portone del castello. È già la quinta volta che succede. Le guardie
sanno che devono obbedire, se non vogliono assaggiare la frusta. Eseguono
l’ordine, nascondendo appena il loro fastidio per questi due coglioni che si
fanno aprire la porta solo per verificare l’obbedienza dei soldati. Ramzi
si è addormentato da tempo, quando è svegliato da voci concitate. C’è
agitazione nel castello. Eppure dev’essere notte fonda: dalla finestra non
entra nessuna luce. Qualcuno sta urlando. Ramzi non capisce. Si infila i
pantaloni e la tunica, per uscire e andare a vedere che cosa succede. In quel
momento però la porta della camera si spalanca e fanno irruzione alcuni
soldati. Ramzi non si è nemmeno armato: ha pensato a qualche litigio nel
forte, magari a un principio di incendio, non certo a un attacco e men che
mai che il nemico potesse essere già giunto nella parte più interna del
forte. I
soldati hanno rapidamente ragione di lui. Gli legano le mani dietro la
schiena e lo forzano ad uscire, a scendere le scale e a passare nel cortile
esterno. Qui Ramzi stupefatto vede molti soldati franchi, che insieme a
guerrieri arabi sorvegliano i suoi uomini, inginocchiati a terra con le mani
legate dietro la schiena. Vi sono anche alcuni cadaveri: quelli di coloro che
hanno cercato di resistere. Ramzi è costretto a inginocchiarsi. Nel
cortile vengono man mano radunati tutti gli uomini del forte. Dagli spalti
vengono gettati i cadaveri degli ultimi difensori. Anche Usama compare,
legato. È nudo, come molti degli uomini di Ramzi, sorpresi nel sonno. Ramzi
non capisce. Come è stato possibile? Sapeva che i soldati dell’emiro e quelli
del duca erano nella valle del Nahr, ma tutti pensavano che volessero affrontarsi.
E invece hanno attaccato il castello! Insieme! E le sentinelle non hanno dato
l’allarme. Come è possibile? Sono stati sorpresi nel sonno?! La
risposta gli viene osservando vicino alla porta i due inviati dello sceicco
Sinan. Non sono legati, loro, non sono in ginocchio. Guardano soddisfatti i
prigionieri che vengono portati nel cortile. Sinan li ha mandati per questo,
per spalancare le porte del castello agli uomini dell’emiro ‘Izz e del duca
Denis! Per questo si sono fatti aprire altre volte le porte, non per
verificare l’obbedienza di Ramzi e dei suoi uomini: volevano farle aprire
anche la notte dell’attacco, per far entrare gli assalitori. Sinan ha
scoperto la verità: le vite degli ismailiti di Qasr al-Hashim sono giunte
alla fine. Ora
tutti gli uomini di Ramzi sono nel cortile, i vivi in ginocchio, i morti
stesi a terra. In un angolo ci sono le donne e i pochi bambini che vivevano
nel castello. I ragazzi sono stati messi insieme agli uomini e ne subiranno
la sorte. Ramzi sa benissimo che li attende la morte. Qasr al-Hashim è nei
territori dell'emiro, per cui spetta a lui decidere il destino dei
prigionieri. Lo sceicco Sinan ha di
certo decretato la morte per tutti loro. E ‘Izz eseguirà, vendicandosi dei
tentativi di ucciderlo e dando soddisfazione al capo assoluto degli ismailiti
di Siria, da cui non avrà più niente da temere. Ma come è possibile che il
duca Denis sia stato coinvolto in tutto questo? Di certo è intervenuto perché
Ramzi ha cercato di farlo uccidere, ma un accordo tra lui e l’emiro gli
sembra impossibile. Gli
uomini del castello vengono condotti fuori, a quattro per volta. Alcuni
soldati dell’emiro rientrano ogni volta per prendere altri quattro maschi e
portarli nello spiazzo antistante al castello. Ramzi sa bene che cosa succede
e quando, dopo che il cortile è stato svuotato, viene condotto anche lui
fuori, insieme a Usama, a Muhyi e ad altri tre ufficiali, non si stupisce di
vedere la spianata trasformata in un lago di sangue. I corpi decapitati di
tutti gli uomini e i ragazzi del castello giacciono a terra. I soldati stanno
montando dei pali, in cima ai quali vengono infilzate le teste. Ramzi
vorrebbe subire la stessa sorte, ma sa che la fine che lo attende non sarà
così rapida. Intanto
le donne e i bambini del castello sono stati raggruppati e vengono condotti
via. Sanno che verranno venduti come schiavi. Molti piangono e gridano vedono
i corpi dei soldati, tra cui ci sono i loro padri o mariti o fratelli. Come
stabilito, Ramzi e i quattro ufficiali verranno portati a Jabal al-Jadid, per
essere giustiziati; Usama invece, in quanto assassino del barone di San
Giacomo d'Afrin, sarà condotto a Rougegarde, per subire la stessa sorte. I
due inviati di Sinan si avvicinano a ‘Izz. -
Emiro, sappiamo che provvederai tu a giustiziare Ramzi. -
Sì, è così. - Ti
ricordiamo quanto ha ordinato lo sceicco. Quest’uomo ha peccato gravemente. A
‘Izz il tono di comando dà fastidio, ma non lo lascia vedere, per non
irritare gli uomini di Sinan. Annuisce e risponde: -
Sarà fatto. Potete assicurare allo sceicco che Ramzi verrà punito come
merita. I
due uomini annuiscono, poi salgono a cavallo e si allontanano. Il
castello viene saccheggiato: i cavalli e gli asini presenti nelle scuderie
vengono portati fuori e tutti gli oggetti che hanno qualche valore vengono
ammucchiati, per essere poi caricati sui cavalli. Vesti e suppellettili
saranno distribuite tra gli uomini come bottino. Il
saccheggio si è concluso e il carico è stato messo sui cavalli. ‘Izz sta
parlando con Denis del bottino, che andrà diviso. Si prepara a far
distruggere il castello, quando un soldato lo avvisa che Jaffar, uno dei
quattro ufficiali presi prigionieri, chiede di parlargli. L’emiro dà ordine
di portare da lui questo Jaffar. L’uomo
si inginocchia e dice: -
Emiro, il mio nome è Jaffar. So che siamo stati risparmiati solo perché ci
attende un supplizio peggiore. ‘Izz
lo guarda: -
Morirete sulla croce, questa è la sorte che vi aspetta, Jaffar. - Lo
sospettavo. Emiro, io posso svelarti qualche cosa di molto prezioso. Non ti
chiedo in cambio di avere salva la vita, perché so che non me lo
concederesti, ma di darmi una morte rapida. -
Che cosa puoi svelarmi? - Se
ciò che ti dirò è davvero di valore, mi darai la morte che hanno avuto gli
altri guerrieri? - Va
bene, Jaffar, ma deciderò io se la tua rivelazione vale quello che chiedi. - Lo
vale. Posso dirti dove Ramzi ha nascosto il suo tesoro. -
C’è un tesoro? - Un
tesoro immenso. ‘Izz
è diffidente e guarda Denis. Questi dice: - So
che Ramzi si faceva pagare molto per gli omicidi che compiva. Credo anch’io
che debba avere un tesoro, ma non so se quest’uomo dica la verità. Jaffar
guarda Denis: -
Non mento, duca. L’emiro
dice: - Va
bene, se davvero ci mostrerai dove si trova il tesoro, ti sarà risparmiato il
supplizio sulla croce, ma non avrai salva la vita. Jaffar
guida ‘Izz, Denis e quattro soldati alla camera di Ramzi. Qui spiega come
aprire un passaggio segreto, facendo pressione su una pietra e tirando
contemporaneamente una sbarra di ferro. Quando un soldato esegue, nel muro si
apre un passaggio: è un breve corridoio, che termina con una porta chiusa a
chiave. -
Non so dove Ramzi tenesse la chiave, ma oltre questa porta, c’è il tesoro. La
camera di Ramzi è stata spogliata di tutti gli oggetti che vi erano. Due
soldati frugano tra ciò che è stato preso e in una cassetta trovano una
chiave: dev’essere quella della porta. Quando
la chiave scatta nella serratura e la luce delle lanterne illumina la stanza,
agli occhi di Denis, ‘Izz e dei soldati appare una grande quantità di casse
di ogni forma e dimensione. Al loro interno c’è un vero e proprio tesoro, che
Ramzi ha accumulato nel corso degli anni: oro, gioielli, pietre preziose,
monete. Denis e ‘Izz sono stupiti di trovare tanta ricchezza. Tutto
viene portato fuori e caricato sui cavalli. Alcuni degli oggetti che già
erano stati messi in groppa agli asini e ai cavalli devono essere scaricati,
per far posto al tesoro. ‘Izz
si rivolge a Jaffar: -
Hai mantenuto la tua parola, Jaffar: avrai la morte che chiedi. -
Grazie, emiro. L’emiro
chiama due soldati. Jaffar si inginocchia. Un colpo di spada gli tronca la
testa. Poi
‘Izz si rivolge a Denis, riprendendo il discorso che stavano facendo quando
Jaffar li ha interrotti: -
Abbiamo conquistato questo castello insieme e il bottino andrà diviso. Ciò
che dice ‘Izz rientra negli usi di guerra. Denis preferisce lasciare a ‘Izz
la libertà di effettuare la divisione come crede, per cui risponde: - Il
castello è nel territorio dell’emiro, spetta a lui decidere. ‘Izz
sorride. -
L’emiro ringrazia il duca che gli lascia piena libertà e ne approfitta per
fare ciò che ritiene giusto. La sua decisione è questa: il duca Denis di
al-Hamra avrà un terzo del bottino: utilizzandone solo una piccola parte, il
duca potrà dare una ricompensa molto generosa ai suoi uomini e farà del resto
l’uso che crede. Io prenderò un altro terzo e anche i miei soldati saranno
contenti di quanto riceveranno senza quasi aver combattuto. Denis
è un po’ stupito. Che intende fare ‘Izz dell’altro terzo? Pensa di destinarlo
a Sinan, per garantirsi di non essere più minacciato dagli ismailiti? ‘Izz
risponde alla domanda inespressa: -
Duca, mi hai detto che l’oro con cui venne pagato Ramzi proveniva dagli ebrei
di Afrin e so che è stato Solomon a parlare con Sinan e a permetterci di
sconfiggere i nostri nemici comuni. -
Sì, esatto. -
Da’ a lui il terzo del bottino. Saprà farne l’uso giusto. - È
una grande quantità di oro e denaro. - È
quanto si è meritato, forse più di noi. Denis
annuisce. È contento che ‘Izz abbia destinato un terzo del bottino a Solomon.
Sa bene che Solomon ne distribuirà una parte agli ebrei scampati al massacro
di San Giacomo. I
soldati hanno finito di issare i pali e di infilzare le teste. Il castello è
stato svuotato di tutto ciò che conteneva di valore e ora ‘Izz dà ordine di
incendiarlo. Poiché è in pietra, le fiamme
non lo distruggeranno, provocando solo il crollo di alcune parti. -
Non intendi tenere una guarnigione qui? -
No. Sai che è un posto maledetto: tutte le guarnigioni sono state sterminate,
credenti e infedeli allo stesso modo. Nessuno ci verrebbe volentieri. Rimarrà
un terreno abbandonato. L’incendio
fa crollare una parte del recinto esterno e distrugge le scuderie e qualche
edificio interno del primo cortile. L’ingresso però rimane bloccato dalle
pietre cadute: nessuno potrà entrare negli edifici ancora intatti. Le
truppe si mettono in marcia. I soldati percorrono tutti la stessa strada, ma
non si mescolano: gli uomini di ‘Izz precedono quelli del duca di Rougegarde,
poiché sono nel territorio dell’emiro. Gli
uomini dell’emiro sono euforici: hanno conquistato il castello senza perdere
neanche un uomo; hanno trovato un bottino enorme, di cui certamente
beneficeranno anche loro; hanno eliminato una minaccia che gravava sull’emiro
e sul comandante Barbath. Quando
passano in una gola dove nella notte si erano mossi silenziosamente, uno dei
soldati lancia un grido: sa che c’è un’eco molto particolare. E infatti le
pareti rimandano il suono più volte, come se a gridare non fosse stato un
solo uomo, ma tanti. Allora anche atri soldati lanciano grida e per un
momento sembra che ci siano migliaia di uomini che gridano nella gola. Quando
escono dallo stretto passaggio, Ferdinando si avvicina a Denis. -
Denis, ho visto che Usama è nostro prigioniero. Che vuoi fare di lui? - Lo
consegnerò a Olivier, perché provveda a farlo giustiziare. -
Porcoddio! A quello stronzo? - Ha
ucciso Renaud, va giustiziato a San Giacomo. -
Dallo a me. Faccio una bella caccia. Credo che vada meglio anche per lui. Denis
è perplesso. Sa bene che Olivier farà torturare a lungo Usama e che la fine
dell’ismailita sarà terribile, mentre Ferdinando gli darà una morte più
rapida, ma Usama ha ucciso il barone di San Giacomo e sarebbe sensato che
venisse giustiziato nella città. Ferdinando
insiste: -
Dai. A Olivier mandiamo la testa, come lo sceicco ha fatto con i due che
volevano ucciderti. - Si
potrebbe fare. Ma… Ferdinando
non lo lascia finire: -
Grazie, Denis, sei un amico. Denis
si dice che non c’è davvero motivo per dire di no a Ferdinando. Ferdinando
si stacca dal contingente cristiano e sprona il cavallo fino a raggiungere
Barbath. Il conte non ha più avuto modo di parlare con il comandante
dell’esercito di Jabal al-Jadid dal giorno in cui venne organizzata la finta
caccia all’uomo in cui Barbath era la preda. Sono passati circa dieci anni. I
soldati arabi guardano con stupore il conte che si avvicina al loro
comandante, ma non dicono nulla. -
Sono contento di rivederti, Barbath. Barbath
guarda Ferdinando. Non dice nulla. Ferdinando desta in lui ricordi che
preferirebbe cancellare: la schiavitù sotto Kazbech il Circasso, gli infiniti
stupri subiti e poi, non meno disturbante, il momento in cui quest’uomo che
ora gli parla lo ha preso, facendolo godere. La prima volta che ha goduto
mentre un maschio, un nemico, lo inculava. Barbath si è poi offerto a Feisal
alcune volte, ma da tempo ha smesso, perché si è accorto che quando sentiva
il cazzo del suo uomo entrargli in culo, il pensiero andava a Ferdinando. Il
conte prosegue: -
L’ultima volta che ci vedemmo, mi promettesti che se mi avessi ucciso in
battaglia mi avresti castrato. E se mi avessi catturato, mi avresti castrato
prima di uccidermi. Ferdinando
ride. Barbath
ricorda benissimo la promessa che fece. In questi anni non si sono mai
affrontati direttamente e non hanno avuto modo di mantenere – o violare – le
loro promesse. Barbath
dice: - La
mia promessa è ancora valida. Lo
è, davvero. Barbath vorrebbe cancellare quest’uomo e l’attrazione, puramente
fisica, che prova per lui. Di
nuovo Ferdinando ride. - Va
bene. Anche la mia, se te la ricordi. Barbath
annuisce. Ferdinando non l’aveva esplicitata, ma il senso era chiaro: se lo
avesse catturato, lo avrebbe nuovamente preso. Barbath
tace. Che cosa vuole questo infedele? Come
rispondendo alla domanda inespressa, Ferdinando dice: -
Con Usama conto di organizzare una bella caccia all’uomo, in cui lui farà da
preda. Vuoi partecipare? Barbath
è spiazzato: non si aspettava questo invito. Arabi e franchi non
fraternizzano, soprattutto non è pensabile che il comandante dell’esercito
dell’emiro partecipi a una caccia con un conte cristiano, anche se in questo
caso cristiani e musulmani hanno collaborato per catturare la preda. -
L’emiro non lo permetterebbe mai. - Tu
dici? Vediamo. Ferdinando
sprona il cavallo e raggiunge l’emiro, che cavalca poco oltre. I soldati
vicino a lui lo guardano perplessi, ma non hanno motivo per sbarrargli il
passo. -
Emiro, ti chiedo l’autorizzazione di invitare il comandante Barbath alla
caccia all’uomo in cui troverà la morte Usama. ‘Izz
è alquanto stupito della richiesta. Ma non ha nulla da obiettare. - Se
il comandante lo desidera, può farlo. -
Grazie, emiro. Ferdinando
ferma il cavallo e attende che Barbath sia di nuovo al suo fianco. -
L’emiro ha detto che va bene. Barbath
è perplesso. Ferdinando prosegue: -
Puoi venire con noi. Dal confine in un giorno arriviamo al castello, il
giorno dopo facciamo la caccia e poi puoi tornare a Jabal al-Jadid. Barbath
annuisce. Avrebbe dovuto dire di no subito, ormai non ha più senso. L’emiro
ha dato il suo assenso. Non gli spiace partecipare alla caccia a Usama. Nei
confronti degli Hashishiyya prova un odio profondo: da anni cercano di
uccidere ‘Izz, da quando l’emiro era ancora un ragazzino e non poteva certo
avere nessuna colpa. Per tutto questo tempo i suoi uomini hanno dovuto
esercitare una sorveglianza continua, per evitare che ‘Izz venisse
assassinato. Sì, uccidere quel bastardo sarà un piacere. E di certo quel porco
di Ferdinando fotterà Usama prima di ucciderlo. Anche assistere sarà un
piacere: l’idea di vedere Usama stuprato gli piace. E magari stuprarlo lui
stesso. Tutto sommato è una buona idea. L’unico pensiero che lo disturba è la
presenza di Ferdinando, ma ormai è fatta. - Va
bene, faremo così. Ferdinando
ritorna accanto a Adham, che gli chiede: -
Come mai sei andato tra gli uomini dell’emiro? - Ho
invitato il comandante Barbath a partecipare alla caccia che faremo domani
con Usama. Adham
sa di queste cacce, anche se non vi ha mai assistito, perché negli ultimi
mesi non è stato condannato a morte nessun uomo nella valle dell’Arram. -
Quindi Usama farà da preda. -
Sì, Denis me lo ha concesso. E noi faremo da cacciatori, con Barbath. - Ma
perché lo hai invitato? - Ci
conosciamo, è stato nostro prigioniero. Sarebbe dovuto morire anche lui in
una caccia, ma… riuscì a fuggire e a salvarsi. Ferdinando
è stato sul punto di raccontare la verità, ma è meglio che nessun altro la
conosca: facendo fuggire Barbath, Ferdinando e Denis disobbedirono a un
ordine del re. Adham
lo guarda un po’ dubbioso: deve sospettare qualche cosa. -
Aveva combinato qualche cosa? O non era in grado di pagare il riscatto? -
No, niente di tutto questo. -
Allora perché uccidere un prigioniero di guerra? - È
un guerriero valoroso, lo chiamano il Flagello. Il re aveva ordinato di
ucciderlo perché non venisse liberato e non ce lo trovassimo di nuovo di
fronte. - Il
Flagello? Dev’essere davvero valoroso. Ma escludo che il duca sia disposto a
uccidere un prigioniero solo perché è valoroso. Ferdinando
ride. Non replica alle parole di Adham, ma devia il discorso: - Lo
chiamano anche in un altro modo. - E
cioè? -
Tre coglioni. -
Davvero? Per indicare che è molto forte? Ferdinando
scuote la testa. -
No, ne ha proprio tre. Adham
non sembra convinto: -
Non mi pigli per il culo? - No
te lo garantisco. - E
come lo sai? -
Prima della caccia, gusto sempre il culo del condannato. Barbath è un vero
maschio ed è stata una delle migliori scopate della mia vita. - Con
tre coglioni… Sono curioso di vedere questa meraviglia. Fotterà anche lui il
prigioniero? -
Credo proprio di sì. Odia tutti questi maledetti assassini. -
Ottimo. Così avrò occasione di vederlo anch’io. Al
momento di separarsi, il bottino viene diviso. Per l’oro e i gioielli non
viene fatto un inventario di tutto, che richiederebbe molto tempo. Le casse
vengono aperte per verificarne rapidamente il contenuto, poi ‘Izz ne assegna
alcune a Denis, altre a Solomon e altre le tiene per sé. Le parti di Denis e
Solomon sono probabilmente più generose: ‘Izz non vuole certo apparire avido
di fronte al duca. La quantità di ricchezze è comunque tale che tutti possono
dirsi pienamente soddisfatti del bottino. Poi
le truppe di ‘Izz si dirigono verso Jabal al-Jadid, mentre quelle di Denis
prendono la strada della residenza del conte Ferdinando. Barbath si è unito a
loro, insieme a quattro soldati. Gli uomini del duca e del conte non sono
stupiti: hanno compiuto un’azione comune e non è strano che il comandante
delle truppe dell’emiro venga con loro. Pensano che voglia assistere
all’esecuzione di Usama, per verificare che quel bastardo muoia una volta per
tutte. Barbath
chiede a Ferdinando qualche dettaglio su come si è giunti all’accordo tra
l’emiro e il duca, ma Ferdinando ne sa poco: -
Non so come sia andata la faccenda. Denis ha scoperto che il barone di San
Giacomo d’Afrin aveva pagato Ramzi perché ci ammazzasse, me e lui. -
Pagato? Il barone di Afrin? E perché mai? -
Credo che volesse impadronirsi di Rougegarde. - Ma
hanno cercato di uccidervi perché li hanno pagati? -
Sì, sono sicari. Si fanno pagare per uccidere. - Ma
allora, anche con l’emiro… hanno cercato di ucciderlo perché qualcuno li aveva
pagati? Figli di puttana! -
Penso proprio di sì. E in ogni caso sono davvero dei figli di puttana. In
realtà solo il primo tentativo di uccidere ‘Izz era nato da una richiesta del
Circasso, che aveva effettivamente pagato. Le ultime due volte l’ordine di
sopprimere ‘Izz era partito da Sinan stesso e dipendeva dal gioco di alleanze
in Siria. Ma Ferdinando pensa davvero che, come nel caso di Denis e nel suo,
la decisione sia stata presa perché qualcuno aveva pagato. Barbath
è furente. -
Sono contento che tu mi abbia invitato alla caccia. Fotterai questo bastardo,
prima della caccia, vero? -
Certo, come sempre. - Lo
voglio fottere anch’io, questo pezzo di merda. - Ma
certo, ti ho invitato per questo. Anche soldati del conte Ferdinando sanno che l’esecuzione
avverrà sotto forma di una caccia, in cui Usama farà da preda. Tra gli uomini
del duca, molti hanno sentito parlare di queste cacce in cui si compie il
destino dei condannati a morte. Un rito selvaggio, ma in fondo non più
sanguinoso di altre forme di esecuzione capitale e meno doloroso e umiliante
per il condannato rispetto allo squartamento o alla crocifissione praticata
dai saraceni. Denis
decide di fermarsi per un giorno: vuole essere sicuro che la caccia a Usama
si concluda con la morte dell’ismailita. Manda una parte dei soldati a
Rougegarde, con il bottino, e ne trattiene solo una quarantina. La
caccia viene organizzata per il giorno dopo. Barbath deve tornare a Jabal
al-Jadid e comunque non è il caso di rimandare l’esecuzione. La
sera nella cella Usama prega in ginocchio. Ha le mani legate dietro la
schiena e non ha potuto compiere le abluzioni rituali, ma non dipende dalla
sua volontà. La
porta della cella si apre. Entrano Ferdinando, Barbath e un nero che Usama
non conosce, ma che ha visto durante il viaggio da Qasr al-Hashim ad Arram. Il
conte dice, sorridendo: -
Bene, Usama, domani sarai la preda di una caccia in cui noi saremo i
cacciatori: invece di andare in giro ad assassinare gente disarmata, ti
troverai ad affrontare uomini armati che ti danno la caccia. Usama
non dice nulla. Questa è la morte che lo aspetta? Non lo spaventa di certo.
L’Onnipotente lo accoglierà tra i giusti, perché ha svolto il suo dovere di
buon musulmano. Il martirio è il premio della sua fedeltà. Ferdinando
però prosegue: -
Adesso però, prima della caccia, i cacciatori si divertono un po’ con la
preda. Usama
si chiede se intendano torturarlo. La risposta alla domanda inespressa gli
viene dallo spogliarsi dei tre uomini e dalle parole del conte: -
Non so se te lo sei mai preso in culo, ma adesso avrai modo di provare. Ferdinando
ride. Usama arretra e dice, quasi grida: -
No, no! Usama
non è mai stato posseduto. È vissuto in castità, consacrandosi a Dio, dal
tempo in cui ha abbracciato l’insegnamento di Sinan. Prima della conversione
aveva talvolta peccato con donne, come tanti altri maschi. Ma mai con un
uomo. Ciò che questi infedeli vogliono fargli è abominio. Usama
cerca di opporsi, ma ha le mani legate dietro la schiena e i tre guerrieri
sono uomini vigorosi, che hanno facilmente ragione di lui. Usama si ritrova
con il torace appoggiato sul giaciglio. Barbath e Adham lo tengono fermo,
schiacciandogli il capo e le spalle contro il pagliericcio, mentre dietro di
lui Ferdinando gli ha poggiato le mani sul culo e gli divarica le
natiche. Usama
si dibatte, maledice Ferdinando e i suoi complici. - E
piantala, stronzo, ché tanto non serve a niente! Ferdinando
sputa sull’apertura, si inumidisce il cazzo, appoggia la cappella contro il
buco e lo forza, spingendo con decisione. Usama
ha la sensazione che sia la lama di una spada quella che gli dilania le
viscere. Per un attimo il dolore lo acceca ed è più forte di tutto. Ferdinando
fotte con forza, godendosi questo culo caldo e sodo. Gli piace l’idea di
essere il primo a fotterlo ed è contento di umiliare questo assassino.
Procede a lungo, stringendo con le dita il culo di Usama. Quando
ha finito, si ritira. - A
te, Barbath. Spero che non ti dispiaccia, Adham, ma adesso che ho aperto la
strada, il secondo è giusto che sia il nostro ospite. Adham
ride. -
Non mi dispiace e sono curioso di vederlo all’opera. Sai, Barbath, Ferdinando
mi ha detto che sei un magnifico stallone. Ferdinando
prende il posto di Barbath, per tenere fermo Usama, ma l’ismailita non reagisce
più. Barbath è eccitato: vedere Ferdinando fottere il prigioniero gli ha
trasmesso sensazioni fortissime. Penetra Usama con violenza, contento di
fargli male: prova un odio profondo per quest’uomo, un assassino che non
affronta gli altri lealmente, ma li uccide quando sono indifesi. Questo
bastardo è uno di quelli che hanno minacciato la sua vita e quella
dell’emiro, per anni. Hanno agito per denaro. Non meritano nessuna pietà. Barbath
non può sapere che Usama ha sempre colpito per ubbidienza al fratello,
credendo di eseguire la volontà di Sinan, il capo degli ismailiti. Forse, se
lo sapesse, il suo odio non sarebbe così forte. A
Barbath non basta fottere e umiliare questo assassino. Afferra i coglioni di
Usama e incomincia a stringere. Sente tendersi l’uomo che sta fottendo. -
Hai quello che ti meriti, bastardo. Il
coglione destro cede. Usama lancia un urlo. Ferdinando
e Adham si guardano. Ferdinando si chiede se intervenire, ma tutto sommato
non c’è motivo per farlo. Capisce la furia di Barbath nei confronti di
quest’uomo, che in fondo ha solo quello che si merita. Alza le spalle. Al
nero non piace l’idea che a un prigioniero vengano spaccati i coglioni, ma è
un assassino, che uccideva a tradimento le vittime: non è il caso di
preoccuparsi della sua sorte. Quando
cede anche il coglione sinistro, Usama perde i sensi. Lo sveglia il piscio di
Barbath, che gli scende in faccia: il comandante ha finito e ora che tocca al
nero, vuole che Usama sia cosciente dell’ulteriore umiliazione. Anche
quando Adham lo prende, Usama non oppone più resistenza. Sprofonda in un
abisso di dolore e vergogna, che lo inghiotte. Adham
non è meno dotato di Barbath e l’ingresso moltiplica il dolore al culo, ma la
sofferenza dei coglioni spaccati sovrasta ogni altra sensazione. Adham
fotte a lungo, con energia. Guarda Ferdinando e vede che al conte sta
tornando duro. Ride. Continua a spingere, finché non viene. Adham
si stacca. Usama rimane a terra. Dal culo colano sborro e sangue: la
penetrazione violenta ha provocato diverse lacerazioni. Usama ha sempre
desiderato versare il suo sangue: il martirio lo attrae, le torture non lo
spaventano. Ma non aveva mai immaginato di dover subire uno stupro. Quando
i tre escono, Usama singhiozza. L’umiliazione non è meno forte del dolore che
sale dal culo e dai coglioni stritolati. Usama si sente indegno. Ferdinando
è allegro. Gli è piaciuto fottere questo assassino, che era vergine. E
certamente non è sazio, tutt’altro: vedere Adham e Barbath fottere il
bastardo lo ha nuovamente eccitato. Quando ha invitato Barbath, lo ha fatto
nella speranza di rinnovare la conoscenza. I
tre si rivestono, poi Ferdinando guida Barbath e Adham nella sua camera. - Ti
è piaciuto fottere quel bastardo, Barbath? -
Puoi dirlo. Mi è piaciuto fotterlo e ancora di più sono contento di avergli
spaccato i coglioni. Ferdinando
ride e osserva: -
Per spaccarli a te, uno dovrebbe avere tre mani. Barbath
scuote la testa, senza rispondere. Ferdinando riprende: -
Bene, ci siamo divertiti, ma io non sono sazio. Barbath, ci tieni compagnia
mentre ci divertiamo tra di noi? Barbath
vorrebbe dire di no. Non vuole lasciarsi possedere ancora, non da quest’uomo,
da questo fottuto porco. Sa che una parte di lui lo desidera, ma proprio per
questo non lo vuole. Pensa
che Ferdinando gli si è anche offerto, quando lo ha preso. Barbath lo
fotterebbe volentieri. Gli piacerebbe anche inculare il nero, che è un gran
bel maschio. Si dice che li fotterà senza offrirsi loro. In fondo sa di
ingannarsi, ma sceglie di ignorare i suoi dubbi. -
Perché no? Ma la mia promessa rimane sempre valida. - Va
bene, va bene. Questa però non è una battaglia. E tu non ci spaccare i
coglioni, per favore. Ferdinando
si spoglia. Adham e Barbath lo imitano. Ferdinando sale sul grande letto, dove
dorme con Adham ogni notte. Adham si mette al suo fianco. Il conte tende la
mano a Barbath, che li raggiunge. C’è
un gioco di carezze, mani che afferrano, dita che si infilano, bocche che
avvolgono, denti che mordono, lingue che leccano. Il desiderio si accende e i
corpi si stringono. Dopo che hanno lavorato un po’ con la lingua, Ferdinando
scende dal letto e si appoggia sul lenzuolo con il petto, divaricando un po’
le gambe. È quanto Barbath desiderava. Si mette dietro di lui, gli stringe il
culo con forza, avvicina la cappella al buco e spinge, forzando l’apertura.
Ferdinando sussulta. Barbath sa di essere stato un po’ brutale, anche se ha
cercato di controllarsi. È
bello fottere questo porco, spingere il cazzo bene in fondo a questo grosso
culo coperto da una peluria scura, come se fosse una spada che entra in culo
a Ferdinando. Adham
passa dietro di lui e ora Barbath sente sul culo la pressione delle mani del
nero, che gli divaricano le natiche. Cazzo! Che cosa intende fare? La
risposta arriva subito, quando qualche cosa di caldo e rigido si infila tra
le natiche di Barbath e poi fin dentro il culo. Barbath è stato posseduto
moltissime volte dal Circasso e poi si è offerto a Feisal: per quanto da
tempo non si faccia più inculare, sente che l’apertura cede facilmente e il
cazzo vigoroso del nero gli trasmette sensazioni piacevoli, anche se non
scevre da dolore. Non si aspettava di essere preso, non lo voleva, ma non gli
dispiace, soprattutto perché a farlo è Adham e non Ferdinando. Soprattutto
perché è lui a fottere Ferdinando. Adham
ha spinto fino in fondo, poi arretra leggermente e si ferma. Barbath inizia a
muovere il culo: in avanti, spingendo il cazzo fino in fondo nel culo di
Ferdinando e sfuggendo quasi completamente all’arma di Adham; all’indietro,
quasi lasciando il calore del culo di Ferdinando e impalandosi sul cazzo del
nero. Non
ha mai fatto niente del genere e gli piace, molto. Le sensazioni che salgono
dal suo cazzo e dal suo culo sono forti. Barbath si muove a un ritmo
regolare, assaporando questa doppia scopata. Sta fottendo e viene fottuto. Quando
il piacere ormai sta per esplodere, Barbath accelera il ritmo e viene nel
culo di Ferdinando, poi si abbandona su di lui. È Adham ora ad accelerare il
ritmo e infine a versargli il seme in culo. Rimangono
un buon momento così, poi Adham si stacca e anche Barbath si alza. I due sono
sazi: sono venuti due volte in un’ora. Ma Ferdinando ha il cazzo duro e non è
ancora venuto. Il
conte guarda Barbath, sorridendo. Barbath scuote la testa. Non vuole, non
vuole. Non Ferdinando, non questo porco infedele. Non vuole farsi prendere da
lui. -
Eddai, Barbath, che ti costa? Adham ha aperto la strada. Porcoddio! Vuoi
lasciarmi così, col cazzo duro? Se mi catturi in battaglia, mi castri, allora
tanto vale, no? Barbath
scuote ancora la testa, ma il suo corpo cede a un desiderio che lo travolge.
Non dovrebbe farlo, è una follia, ma mentre lo pensa già scivola al posto di
Ferdinando. -
Sei un amico, Barbath. Ferdinando
entra con cautela e poi incomincia la sua cavalcata. Le sensazioni di Barbath
sono un misto di piacere e dolore. Desidera quanto sta avvenendo, con tutto
il suo corpo, e nello stesso tempo la sua mente vorrebbe che non avvenisse.
La cavalcata è lunga e infine vengono entrambi. Per Barbath è un piacere
violentissimo, come forse non ha mai provato nella sua vita. Un piacere che
ha a lungo atteso: gli sembra di aver aspettato per anni questo momento. Ora
però che ha goduto è esausto e vorrebbe solo cancellarsi. Non avrebbe dovuto
farlo. Ma ha goduto. Questo porco lo ha fatto godere. I
tre si stendono sul letto e si abbandonano al sonno. Il
giorno seguente si svolge la caccia. Si è alzato un vento forte, a raffiche,
e le nuvole temporalesche che coprono il cielo, soprattutto a occidente, si
avvicinano. All’orizzonte si vedono lampi e sui monti di certo già piove. Denis
ha richiesto che venissero prese delle misure speciali, per avere la
sicurezza che Usama non riesca a sfuggire. Perciò in alcuni punti strategici
sono stati dislocati soldati a cavallo, in modo che al fuggiasco sia di fatto
impossibile lasciare il bosco in cui si svolgerà la caccia. In
realtà appare subito chiaro che la caccia sarà molto breve e che il
prigioniero non riuscirà ad andare molto lontano: Usama si muove a fatica,
perché nella notte la sacca dello scroto si è gonfiata e ha assunto una tinta
bluastra. Non è in grado di correre e neppure di camminare velocemente.
D’altronde Usama stesso desidera solo finire. Ucciderebbe volentieri coloro
che lo cacciano, per vendicarsi dell’’umiliazione che gli è stata inflitta,
ma sa che non riuscirà a farlo, nelle condizioni in cui si trova. Quando
lo liberano, inizia a camminare, ma si ferma ben presto: muoversi è troppo
doloroso. Mentre è fermo, la pioggia incomincia a scendere. Prima poche
gocce, che presto diventano un diluvio. Usama si siede sul tronco di un
albero abbattuto, senza curarsi dell’acqua che scroscia. Guarda il coltello
che gli hanno dato. Digrigna i denti. Se potesse davvero lottare, ucciderebbe
almeno il conte Ferdinando, che per primo lo ha stuprato! Il boato di un
tuono lo fa sussultare. Altri fulmini si susseguono. Le nuvole hanno coperto
il cielo, compatte, e sembra che sia notte, una notte che solo i lampi
squarciano. La pioggia scende violenta, obliqua, a raffiche, Sente
il latrato dei cani e li vede arrivare. Si alza. I cani gli sono intorno e
ringhiano. Ecco arrivare i cavalieri, i suoi tre stupratori. Hanno lance,
spade e pugnali, questi maledetti. Ferdinando
scende per primo da cavallo. Non prende la lancia, ma si avvicina a Usama con
la spada. Barbath e Adham lo seguono. Ora
sono intorno a Usama, che li minaccia con il coltello. Si muove a fatica, ma,
ignorando il dolore violento, si lancia contro Ferdinando. Adham lo
intercetta e lo colpisce, immergendogli la spada nel ventre. La spinge con
forza e la punta emerge dalla schiena. Usama barcolla. Lascia cadere il
pugnale. Adham estrae la spada. Usama cade in ginocchio, le mani sulla
ferita. Adham
alza la spada per decapitarlo, ma Barbath gli dice: -
Aspetta. Barbath
molla un violento calcio in faccia a Usama, che cade all’indietro: il sangue
schizza dal naso e dalla bocca, ma la pioggia violenta lo lava via. Poi il
comandante si china e afferra il cazzo e lo scroto dell’ismailita in una
mano. Usama grida: il solo contatto è intollerabile, la stretta quasi lo fa
svenire. Con il coltello Barbath recide i genitali e li getta ai cani che
latrano vicini. Usama
emette un lamento prolungato, interrotto da singhiozzi. Barbath
si rivolge a Ferdinando: -
Permettimi di finirlo. Ferdinando
annuisce: - Va
bene, Barbath. Barbath
prende la spada, volta Usama sulla pancia e gli infila la spada in culo.
Usama grida. Barbath spinge la lama dentro, fino all’elsa, poi l’estrae. Usama
geme, poi il sangue gli esce dalla bocca e il corpo rimane immobile, sotto il
muro d’acqua che cala dal cielo, tra il fragore dei tuoni e la luce accecante
dei lampi. -
Possano crepare così tutti gli Hashishiyya. -
Porcoddio, Barbath! Certo che ce l’avevi proprio con lui. -
Era un infame assassino. - Va
bene così, ha avuto quello che si meritava, questo pezzo di merda. La testa
ci serve. Ferdinando
si china e con il coltello taglia la testa di Usama. Poi fischia ai cani, che
si lanciano sul corpo del morto e incominciano a divorarlo. Adham
chiede: -
Perché la testa serve? - La
manderemo a Olivier, il fratello del barone Renaud, che Usama ha ucciso. Sono
sporchi di sangue, ma la pioggia li sta pulendo rapidamente. Si spogliano e
si lavano con l’acqua che scende dal cielo. Ora sono tutti e tre nudi, sotto
il diluvio. Si guardano. Ferdinando e Adham ridono, Barbath no. Presto hanno
il cazzo duro. Sul tronco d’albero dov’era seduto Usama Ferdinando prende
Adham e Barbath incula il conte: lo fa con violenza, per cancellare il
ricordo del giorno prima, di quando ha ceduto al desiderio. Poi lasciano che
la pioggia li pulisca nuovamente e si rivestono. Ferdinando
è un po’ deluso dalla caccia, ma soddisfatto di aver di nuovo scopato con
Barbath. Adham è perplesso: la ferocia del comandante dell’emiro lo ha
sorpreso. Mentre risalgono a cavallo, si rivolge a lui: - Lo
odiavi davvero. -
Sì, li odio tutti. Per anni abbiamo dovuto difenderci da questi bastardi.
Hanno cercato di uccidere l’emiro tre volte. E una volta anche me. E quando
ho saputo che agivano per soldi… Barbath
riparte in tarda mattinata. Saluta il conte dicendo: -
Ferdinando, ricordati che la mia promessa è sempre valida. Prima o poi ci
troveremo davanti in battaglia e allora… finirai come Usama. Ferdinando
ride, anche se Barbath non sta scherzando. -
Cercherò di non farmi catturare vivo. - È
meglio per te. Anche
Denis parte subito dopo la caccia e ritorna a Rougegarde. È impaziente di
ritrovare Solomon. Ha ritenuto preferibile che non partecipasse alla
spedizione, ma la separazione gli è pesata moltissimo. Ci sono momenti in cui
l’intensità di ciò che prova lo sgomenta: nessuno ha mai avuto su di lui il
potere di Solomon. A trentacinque anni l’amore è arrivato inatteso e forse
per questo con una forza che Denis non si aspettava. Quando
ormai sono in vista della città, Denis ferma il cavallo e la guarda. È
splendida, Rougegarde, di una bellezza che nessun’altra città della
Terrasanta ha. E adesso, al pensiero che tra quelle case in pietra rossiccia
lo attende Solomon, Denis prova un senso di benessere. Mai come ora
Rougegarde è davvero la sua casa, il suo mondo. Appena
arrivato a palazzo, Denis manda Pierre ad avvisare Solomon. Vorrebbe
chiedergli di venire immediatamente, ma frena la sua impazienza di rivederlo
e a Pierre dice soltanto: -
Digli che venga da me quando può. Scoprire
che poco dopo Solomon è già alla porta, è una gioia intensa. Solomon
aspettava di essere chiamato, perché in città ieri sono arrivati i soldati e
si attendeva il ritorno del duca. Anche lui è impaziente di rivedere Denis,
che avrebbe voluto accompagnare. Denis
lo guarda entrare e per un momento gli sembra incredibile che Solomon lo ami,
lo desideri. Denis
muove verso di lui e si abbracciano. Rimangono avvinghiati, felici di
stringere l’uno il corpo dell’altro, di essersi ritrovati. La spedizione è
durata pochi giorni, ma ad entrambi è sembrato un tempo lunghissimo. Solomon
prende la testa di Denis tra le mani e lo bacia, un bacio che diventa
ardente. Sa già che l’impresa ha avuto successo: in città non si parla d’altro.
Vorrebbe chiedere dettagli, ma non ora. Adesso desidera solo questa stretta.
Tutto il resto passa in secondo piano. Per il resto c’è tempo dopo. Non è il
desiderio fisico, non solo quello. Ma
l’abbraccio accende i loro corpi ed è Solomon a proporre: -
Andiamo in camera. Denis
annuisce. Non ha avuto il tempo di lavarsi, deve ancora occuparsi di mille
cose, ma tutto il resto può aspettare. Avvisa i servitori di non disturbare e
raggiunge la camera da letto. Appena
sono dentro, Solomon lo abbraccia da dietro, gli poggia la testa sulla
spalla, gli bacia il collo, poi si stacca, lo volta e incomincia a
spogliarlo. Denis
ride davanti all’impazienza di Solomon. -
Sei così affamato? -
Puoi dirlo. Solomon
si stacca e guarda Denis, un sorriso sulle labbra. - Tu
non sei impaziente? Denis
torna serio. Annuisce e risponde: -
Non vedevo l’ora di tornare. Non per scopare. Per vederti. Avevo bisogno di
averti vicino. -
Anche tu mi sei mancato molto, Denis. Dopo
essersi amati, distesi sul letto, Solomon e Denis parlano. - So
che gli Hashishiyya sono stati quasi tutti decapitati. -
Sì, tutti, a parte Ramzi, tre dei suoi collaboratori e Usama. Usama è stato
portato nella valle dell’Arram e ieri Ferdinando lo ha ucciso in una delle sue
cacce, con Barbath e Adham. - Ne
ho sentito parlare. Il conte ama il sangue. -
Sì, ama la caccia. E ama uccidere, è vero. - So
che siete amici, ma siete talmente diversi… - Ci
conosciamo da molto tempo e abbiamo sempre combattuto insieme. È un uomo coraggioso
e leale. Su di lui posso sempre contare, incondizionatamente. E non è poco,
Solomon. -
Sì, lo so. Mi sembra… posso dire che è un magnifico animale? Un leone, mi
verrebbe da dire. Fiero, forte e feroce. Denis
ride. -
Non glielo riferirò. -
Credo che lo prenderebbe per quello che è: un complimento. - Un
complimento… Denis
scuote la testa, poi ride e dice: -
Bada, che se gli fai i complimenti potrei diventare geloso. -
No, è un magnifico maschio, ma non lo desidero. Solomon
cambia discorso: -
Che ne sarà di Ramzi? Lo ha preso l’emiro, mi hanno detto. -
Sì. Ramzi è a Jabal al-Jadid. Sarà giustiziato là, con i suoi collaboratori. - E
questa è la fine degli Hashishiyya di Qasr al-Hashim. Denis
bacia Solomon sulla bocca, poi dice. -
Adesso devo dirti qualche cosa di importante. L’emiro ‘Izz ha deciso di
dividere il bottino in tre parti: una per lui, una per me e una… per te. Solomon
è stupefatto: per una volta Denis ha la soddisfazione di sorprenderlo. Fino a
ora, è sempre stato Solomon a sorprendere lui. -
Per me? -
Sì, se gli ismailiti di Ramzi sono stati definitivamente debellati, è
esclusivamente merito tuo. -
Esclusivamente, direi proprio di no. I soldati erano i vostri. In ogni caso…
davvero generoso da parte sua. - Ha
preso lui la decisione, io ho lasciato che facesse quello che voleva. Adesso
hai un po’ di oro e di pietre preziose di cui potrai disporre. Solomon
annuisce. -
Non mi dispiace. Serve sempre. Non so di quanto si tratti… - Te
lo dico subito: è molto di più di quanto tu possa pensare. Ci sono intere
casse di oro, pietre preziose e gioielli. Solo quando ho conquistato
Rougegarde ho trovato tante ricchezze. Ramzi doveva essere molto avido. Te lo
faccio vedere. Andiamo. Si
rivestono e Denis accompagna Solomon nella stanza dove ha fatto mettere la
parte del tesoro che gli spetta. -
Tutto questo? È incredibile! -
Neanch’io mi immaginavo che Ramzi possedesse un simile tesoro. Deve aver
accumulato per anni, facendosi pagare caro. - Sì,
si faceva pagare per uccidere. O per non uccidere. O per entrambi: so che in
alcuni casi si è fatto pagare per risparmiare qualcuno e poi lo ha ugualmente
fatto ammazzare, perché altri lo hanno pagato di più. -
Non credo che tu voglia tenere tutto questo oro a casa tua. Mi dirai dove
posso portarlo. -
Distribuirò una parte di questo denaro agli ebrei di San Giacomo d’Afrin: è
davvero loro. Denis
ride: -
Anche quello che loro hanno versato a Renaud per lasciare la città era in
parte tuo. Solomon
lo guarda, stupito: per la seconda volta Denis è riuscito a sorprenderlo. -
Come lo sai, Denis? Denis
ride. -
Non sei l’unico che ha informatori e spie. E non è difficile far parlare tuo
fratello, almeno su queste cose. Solomon
scuote la testa. -
Non pensavo che indagassi su di me. Denis
sorride. - Ho
fatto davvero indagare su di te, dopo che siete venuti, tu e Amos, no… dopo
che Pierre mi ha riferito che tu avevi organizzato i ragazzi per difendervi
nella notte dell’attacco. Mi avevi colpito quando eri venuto e in ogni caso
avevo bisogno di sapere di più sugli ebrei di San Giacomo. Sono saltate fuori
alcune cose interessanti. Quando hai avvisato Morqos che qualcuno voleva
uccidermi, non mi sono stupito che tu sapessi cose che io non sospettavo.
Avevo capito che avresti potuto sorprendermi. Ero sicuro che avrei sentito
ancora parlare di te. Solomon
sorride. -
Spero che ne sentirai parlare ancora a lungo. Denis
scuote la testa. -
Non voglio sentire parlare di te. Voglio averti al mio fianco. Denis
vuole davvero avere Solomon accanto a sé e non solo qualche ora al
pomeriggio. Vorrebbe poterlo vedere tutti i giorni e dormire accanto a lui. -
Solomon, dobbiamo trovare un modo per poterci vedere liberamente, senza che
ogni volta tu debba chiamare Manrique e io mandare Pierre. -
Puoi darmi qualche incarico ufficiale, in modo che possa passare più tempo a
palazzo e fermarmi qualche volta a dormire. Vorrei dormire con te, Denis. Non
l’abbiamo mai fatto. È
bello sentire Solomon esprimere lo stesso desiderio. - Lo
faremo questa notte. A
Jabal al-Jadid tutto è pronto per l’esecuzione di Ramzi e dei tre uomini
portati dal castello. C’è una grande folla, perché molti sono giunti anche
dalla campagna per assistere. Come è avvenuto prima dell’esecuzione di
Azzaam, Nashat e i loro complici, i quattro devono sfilare tra due ali di
folla che li insulta e cerca di colpirli. Quando arrivano nella piazza
davanti alla fortezza, i loro corpi sono coperti di piccole ferite e sporchi
di fango ed escrementi. Uno ha una larga ustione a una spalla, provocata dal
lancio di acqua bollente. Qasim,
il carnefice, lega uno dopo l’altro alle croci i tre ufficiali. Poi le croci
vengono issate, tra le urla di giubilo e le maledizioni della folla. Ramzi
guarda i suoi uomini, la cui agonia è appena iniziata, e poi la quarta croce,
ancora stesa sul palco, che lo attende. Mormora: -
Testimonio che non vi è dio se non Iddio e che Muhammad è inviato di Dio. Il
boia gli si avvicina e gli cala i pantaloni: un’ulteriore umiliazione per il signore
di Qasr al-Hashim. Verrà crocifisso nudo, sotto gli occhi della folla che si
bea dello spettacolo, che si godrà le sue contorsioni, la sua sofferenza. Ramzi
alza lo sguardo verso gli spalti. Vede l’emiro, che osserva la scena, e
accanto a lui Ridwan. Se quel maledetto avesse svolto il suo compito, tutto
sarebbe andato diversamente. Ridwan
assiste impassibile alla scena: è convinto che Ramzi lo abbia mandato a
uccidere ‘Izz per denaro e nei confronti di colui che un tempo considerava un
maestro prova soltanto disprezzo. Porta le dita della destra al ciondolo che
ha al collo: un piccolo capolavoro con il ritratto dell’uomo che ama. ‘Izz
vede il gesto, sorride e gli stringe la sinistra. Ramzi
viene legato e quando la croce viene issata, nuovamente la folla lancia un
grido di soddisfazione. Chi è più lontano si alza sulla punta dei piedi e
allunga il collo per vedere. Molti ridono e si scambiano battute: è ben raro
che un condannato venga crocifisso nudo e lo spettacolo suscita ilarità e
commenti feroci. L’agonia
è lunga per tutti e quattro: sono uomini robusti, che conducono una strenua
battaglia contro la morte. La
giornata è calda: non una nuvola vela il cielo. I corpi si coprono di una
patina di sudore, che presto scorre a rivoli sul viso, sul petto e sul ventre
dei suppliziati. I
soldati sudano anch’essi, immobili sotto il sole cocente, e maledicono i
quattro uomini crocefissi. La folla è spossata dal gran calore, ma non vuole
rinunciare allo spettacolo e si ripara dal sole come può, coprendosi la testa
con strisce di tela bianca intrise d’acqua. Ogni tanto qualcuno si allontana,
ma poi torna. Tra la gente si aggirano venditori di cibo e bevande e altri
con secchi d’acqua tirata su dai pozzi, in cui gli uomini immergono la tela
da mettere in testa. Molti rumoreggiano, alzando la voce, ebbri di caldo e
rabbia, felici di vedere il dolore dei condannati. Man
mano che il tempo passa, la sofferenza cresce. Ormai l’aria entra a fatica,
perché la posizione innaturale delle braccia rende difficile respirare. Ramzi
si solleva sulla croce, facendo forza sulle gambe, per immettere ossigeno nei
polmoni. La fatica aumenta, lo sforzo diviene ogni volta maggiore. Ramzi
vorrebbe abbandonarsi alla morte, null’altro desidera, ma il suo corpo si
attacca tenacemente alla vita e allora Ramzi, ogni qual volta sente l’aria
mancargli, cerca di sollevarsi sulle gambe e riesce ad immettere un po’ di
ossigeno. Il sole lo brucia e gli insetti si posano sul cazzo e sui coglioni,
sul viso sudato, sulle labbra e sugli occhi, sul piscio che gli è colato
sulle gambe quando non è più riuscito a trattenerlo. Presto perde il
controllo degli sfinteri e la merda gli cola tra le gambe, attirando altri
insetti. Ramzi è coperto di insetti brulicanti, che si nutrono del suo
sudore, che attendono la sua morte. Altre
ore passano. Solo nel tardo pomeriggio muore il primo dei suppliziati, poi il
secondo e il terzo. L’emiro non è più sugli spalti, ma ora ritorna, per
osservare l’interminabile agonia di Ramzi, l’ultimo degli ismailiti di Qasr
al-Hashim ancora vivo. Il sole declina, ma la morte ancora non viene.
Respirare è sempre più difficile, le forze mancano. Ramzi comprende che la
fine è vicina. Il fuoco che gli divora i polmoni e l’agonia di ogni fibra del
suo corpo lo spingono a desiderare il grande vuoto che lo attende. Vede
l’emiro fare un gesto al carnefice. Pensa che l’uomo ora gli spaccherà le
gambe, impedendogli di sollevarsi ancora, e che infine la morte lo ghermirà. Qasim
però non afferra la mazza ferrata, ma un coltello. Si avvicina a Ramzi,
sorridendo, e gli afferra il cazzo e i coglioni in una morsa. Avvicina la
lama. Ramzi
sgrana gli occhi. Non si aspettava quest’ultima umiliazione, che di certo è
stata decisa da Sinan. Vorrebbe gridare, ma non riesce: dalla sua bocca esce
solo un lamento. La
folla urla la sua gioia e maledice nuovamente l’uomo crocifisso. Qasim recide
e il dolore di Ramzi cresce ancora. Il
carnefice lascia cadere a terra i genitali di Ramzi. Poi prende la grande
mazza con la punta di ferro. Ramzi si solleva ancora una volta, con uno
sforzo immane, per cercare di introdurre un po’ d’aria nei suoi polmoni, poi
ricade. Guarda l’emiro sulla terrazza del palazzo. Il
carnefice vibra il colpo, spezzando la gamba destra. Il dolore è intenso, un
lampo accecante. Il mondo si dissolve in pura sofferenza, che martella nella
testa di Ramzi Il
secondo colpo arriva subito dopo. Ramzi sprofonda in un oceano di dolore e
l’incendio che arde nei suoi polmoni lo trascina nel nulla. Il
cadavere viene lasciato marcire sulla croce per due giorni, poi viene portato
nel deserto e abbandonato agli animali selvatici: per nessuno degli
Hashishiyya di Qasr al-Hashim c’è una sepoltura. Solomon
distribuisce agli ebrei di Afrin parte dell’oro che ha ricevuto come sua
quota del bottino da Qasr al-Hashim: tutte le famiglie fuggite da San Giacomo
ricevono più di quello che hanno dovuto pagare per lasciare la città,
ottenendo di fatto un indennizzo per la perdita delle loro case. Solo
Immanuel, che ha pagato per molti, rifiuta di ricevere più di quanto ha
versato. A Solomon dice: -
Non ne ho bisogno, Solomon, e so che nessuno userà mai quest’oro meglio di
come lo farai tu. Con
una parte dell’oro ricevuto Solomon realizza un gioiello per ognuna delle
donne della casa. Ogni monile è diverso dagli altri e tiene conto della donna
a cui è destinato. Mariette riceve così un bracciale con quattro ciondoli che
rappresentano le fasi della luna, perché gestisce la locanda della Luna
piena. A Louison, la moglie di Giovanni, che lavora con Mariette, Solomon
dona un paio di orecchini, di cui uno rappresenta il sole, l’altro la luna:
anche se il soggetto è diverso, i due orecchini costituiscono un unico paio.
Per Sara c’è una splendida collana e un ciondolo con la stella di Davide.
Mara riceve un bracciale lungo la superficie del quale si sviluppa un
paesaggio montuoso e sullo sfondo delle cime vola un’aquila ad ali
dispiegate. Nessuna
di loro ha mai visto un gioiello così bello, neppure Mara, che era una
principessa e ha ancora con sé alcuni dei gioielli della sua famiglia: ma
Halel era una cittadini tra i monti, priva di una grande tradizione di
oreficeria. Guardando
con attenzione il bracciale che Solomon ha prodotto per lei, Mara nota
l’aquila in volo: è il simbolo dei signori di Halel. Solleva la testa e il
suo sguardo incrocia quello di Solomon. Gli legge negli occhi che l’orafo ha
capito ciò che nessuno degli altri abitanti della casa sa, ciò che nessuno al
mondo sa, se non il duca di Rougegarde. Per un attimo prova sgomento, ma
subito si rassicura: quest’uomo non la tradirà. Di lui può fidarsi. E non le
spiace avere qualcuno che conosce il suo segreto, qualcuno a cui potersi
rivolgere se mai ne sentirà il bisogno. Solomon
si divide tra la casa e il palazzo, dove gli sono state assegnate due stanze nella
parte più interna: è stato nominato orafo personale del duca. Dorme a palazzo
e trascorre la notte a casa solo quando Denis ha impegni la sera. Se però
Denis deve assentarsi da Rougegarde, Solomon preferisce ritornare nel suo
appartamento della casa di Giovanni: l’amicizia che lo lega a Morqos, a Emich
e agli altri fa della casa un piccolo mondo accogliente, in cui Solomon sta
bene. Ha
ridotto i suoi viaggi, anche se gli capita ancora di dover partire. Cerca di
far coincidere i suoi spostamenti con i periodi in cui Denis si assenta per
recarsi a Cesarea o Gerusalemme o per qualche altro motivo. Ritrovarsi
dopo un’assenza è una gioia per entrambi. Un
giorno, al ritorno da una settimana trascorsa a Gerusalemme, Denis dice a
Solomon: -
Solomon, è una giornata molto calda. Che ne diresti di fare un bagno nella
cisterna? Non
sono mai scesi insieme nella grande cisterna sotterranea, da quando Maazin e
i suoi complici cercarono di uccidere Denis. -
Volentieri. Prendono
un telo per asciugarsi e scendono. Quando sono nel locale, infilano le torce
negli anelli alla parete. - Mi
avevi detto che hai fatto mettere una grata per bloccare l’accesso. -
Sì. È molto solida e nessuno entrerà più di lì. Ora la grande cisterna è un
posto sicuro. Si
spogliano. Si guardano, sorridenti e felici di essere uno con l’altro. Denis
osserva: - In
fondo devo essere grato agli Hashishiyya. Solomon
ride. Scuote la testa e risponde: -
Questa poi! E perché mai? - Se
non fosse stato per loro non avrei avuto modo di conoscerti. Ti avevo visto
una volta, ma sarebbe finita lì. -
Non pensarlo. Avrei cercato di sedurti comunque. Mi piacevi troppo. Denis
sorride. È bello sentirsi dire queste parole. -
Non ti sarebbe stato facile, Solomon. Non ti avrei lasciato avvicinare, mi
sarei tenuto a distanza. - Mi
sottovaluti, Denis. Sono una testa dura e, modestamente, sono abbastanza
abile a intrufolarmi dove voglio. Denis
scuote la testa. -
Modestamente... ti riconosco molte qualità, ma quanto alla modestia, non mi
sembra proprio che sia una tua dote. Denis
ride. Solomon si finge irritato. -
Ah, sì!? Adesso vedi! Di
colpo Solomon afferra Denis, lo solleva e lo getta in acqua. Poi si tuffa
anche lui. Denis si allontana nuotando veloce, ma Solomon lo insegue. Si
spingono fino alla parte più buia, dove la luce delle torce è appena un
bagliore lontano. Denis si aggrappa a una colonna. Solomon si mette dietro di
lui. Lo abbraccia, lo bacia sul collo, lo accarezza. Denis sente il cazzo
premere contro il solco e poi forzare l’apertura. Geme, mentre Solomon lo
penetra e nuovamente lo stringe tra le braccia. |