I –  Un pugnale per l’emiro

II – I fuochi di San Giacomo d’Afrin

III – Battaglie

IV – I sicari

 

V – La giustizia dello sceicco

 

 

Solomon si inginocchia davanti alla tomba del capo curdo Boran: un tumulo di terra compatta, grigia e pietrosa, su cui cresce un’erba rada. Non è credente e non prega, ma vuole rendere omaggio a un uomo che è stato suo amico, nonostante la differenza di età: Solomon ha la stessa età del figlio maggiore di Boran, Ishan.

Solomon ripensa alla loro breve conoscenza. Boran gli aveva commissionato alcuni gioielli per la figlia che andava in sposa: voleva il meglio, perché la ragazza sposava uno dei principali capitribù della regione. Quando Solomon era giunto, lo aveva accolto con la grande ospitalità dei curdi. E lo aveva invitato partecipare a una battuta di caccia. Solomon non ama la caccia, ma aveva accettato per non apparire scortese.

Durante la caccia Solomon e il secondo figlio di Boran, Sarajil, si trovavano vicini quando una leonessa era improvvisamente comparsa a pochi passi. Il cavallo di Sarajil si era impennato e il giovane era caduto a terra. I fratelli e il padre erano troppo lontani per poterlo soccorrere: la fiera avrebbe sbranato il giovane, se non fosse intervenuto Solomon, che aveva ucciso l’animale, salvando Sarajil.

Da allora per Boran e i figli l’orafo ebreo era entrato a far parte della famiglia: Boran lo chiamava “figlio” e i tre giovani lo chiamavano “fratello”.

Solomon sente lo scalpitio di un cavallo che si avvicina. Si volta e vede Ishan. Si alza.

Ishan scende da cavallo e abbraccia Solomon.

- Solomon, fratello, sono felice di vederti. Mi hanno detto che uno straniero era in preghiera davanti alla tomba di nostro padre, ma non è uno straniero, è mio fratello.

- Sono venuto qui perché ho bisogno del tuo aiuto, Ishan. E arrivando ho deciso di fermarmi a rendere omaggio a nostro padre.

Poiché Boran lo aveva pubblicamente accolto come figlio, Solomon lo ha sempre chiamato “padre”, come Ishan. D’altronde Solomon non ha mai conosciuto il suo vero padre, l’uomo che stuprò sua madre, né quello che avrebbe potuto essere il suo patrigno, il marito della madre.

Ishan si rabbuia e scuote la testa.

- Sono passati tre anni da quando quel porco cristiano lo ha assassinato. Non sono ancora riuscito a vendicarlo, ma Iddio mi è testimone che prima o poi Jorge da Toledo pagherà per questo.

- Jorge da Toledo?

- Sì, sono riuscito a scoprire il suo nome, ma non dove si nasconde, quel cane che ha finto di essere un figlio di Maometto per avvicinarsi a noi e poi ha ucciso nostro padre a tradimento. Ma non parliamo di questo, ora. Vieni a casa, così ritroverai Sarajil e Yilmaz e ti presenterò nostro fratello Mahmud.

Boran aveva solo tre figli maschi e Solomon non sa chi possa essere questo Mahmud: senz’altro qualcuno che è stato “adottato” dai tre fratelli dopo la morte del padre, come Boran aveva fatto con Solomon.

La casa che Ishan divide con i suoi fratelli è la più grande del paese, perché Boran era un capo potente e molto rispettato. È un’abitazione comoda, in cui non manca nulla, ma non c’è nessuna ostentazione di lusso: Boran era un guerriero, non un ricco signore che ama vivere negli agi, e i suoi figli vivono come lui.

L’arrivo di Solomon è accolto con grandi manifestazioni di gioia, come il ritorno di un familiare molto amato, che è stato lontano a lungo: un tempo Solomon veniva abbastanza spesso, ma negli ultimi anni è tornato con minore frequenza.

Sarajil lo abbraccia, chiamandolo, come sempre, “mio fratello il leone”. Anche l’altro fratello, Yilmaz, è felice di ritrovarlo: il loro affetto è sincero e profondo. Solomon sa che se decidesse di fermarsi a vivere qui, nella casa ci sarebbe posto anche per lui e per sua moglie e i suoi figli: per i figli di Boran, ciò che apparteneva al padre è anche suo.

Con l’aiuto delle serve, le mogli di Sarajil, Yilmaz e Mahmud preparano un grande banchetto, per festeggiare il ritorno del fratello lontano. Intanto Ishan presenta Mahmud. È un uomo molto forte, come Ishan e i suoi fratelli, con la pelle nettamente più scura: sicuramente tra i suoi antenati c’è qualche africano.

Solomon ha portato alcuni doni: orecchini per le mogli di Yilmaz e Sarajil, un anello per i fratelli. Non sapeva di Mahmud e della moglie, ma riesce comunque a non fare torto a nessuno: ha portato quattro paia di orecchini, perché le donne possano scegliere, per cui ce ne sono per tutte e tre le mogli; ha con sé anche un bracciale maschile, che dona a Ishan, dando i tre anelli agli altri fratelli.

Dopo il banchetto parlano tutti insieme, felici di ritrovarsi. Solomon racconta il massacro a San Giacomo d’Afrin e il suo trasferimento a Rougegarde. I fratelli si stupiscono che abbia scelto di rimanere nel regno di Gerusalemme, dopo quanto è successo, anche se sanno che il duca di al-Hamra non perseguita ebrei e musulmani. I figli di Boran narrano le novità dell’ultimo anno, tra cui la nascita del secondogenito di Sarajil e soprattutto l’ingresso di Mahmud nella famiglia.

Solomon non accenna al motivo per cui è venuto al villaggio: non è ancora il momento.

Giunta la sera, quando i fratelli si ritirano con le loro mogli, Ishan e Solomon rimangono da soli. Ishan propone di uscire e Solomon accetta. La serata è calda, ma il calore non è più opprimente. L’aria è piena dei profumi della primavera e nel cielo si accendono le stelle. Solomon si sente bene, nel buio della notte che li avvolge. Sa che in Ishan ha davvero un fratello, con cui può parlare molto più liberamente che con Amos.

Ishan dice:

- Fratello, questa mattina mi hai detto che hai bisogno del mio aiuto. Ordinami che cosa devo fare.

Solomon sorride:

- Non darò ordini al mio fratello maggiore.

Hanno la stessa età, ma Ishan è il primogenito della famiglia, quindi Solomon è il fratello minore. Ishan apprezza la correttezza di Solomon e risponde:

- I tuoi desideri sono ordini per me. Dimmi di che cosa hai bisogno.

- Vorrei che tu mi accompagnassi dallo sceicco Sinan, se pensi di poterlo fare.

Ishan non si aspettava una richiesta di questo tipo, ma non si tira indietro:

- Posso farlo, certo. Nostro padre era in contatto con lui e lo conosco anch’io.

Ishan non ha chiesto i motivi della richiesta, ma Solomon ritiene giusto spiegarli.

- C’è un castello degli Ismailiti vicino alla valle dell’Arram. Il capo del castello, Ramzi ibn Qais, prende decisioni che Sinan ignora e che non credo che approverebbe. Voglio avvertire Sinan.

Ishan annuisce. Non chiede: se Solomon vuole spiegargli, è ben contento di scoprire qualche cosa di più, altrimenti non intende interrogare suo fratello. Solomon continua:

- Adesso minaccia la vita di due signori franchi, perché un altro l’ha pagato. Non credo che Sinan approverebbe.

- No, lo penso anch’io. Anche se odio tutti i franchi.

- Una volta non era così.

- No, hai ragione Solomon. Ma nostro padre… Lo sai, lo ha ucciso a tradimento, quel bastardo. E… non solo…

- Che cosa intendi dire?

- Non l’ho mai raccontato a nessuno. Non te ne ho parlato le altre volte che ci siamo visti, ma devo dirlo a qualcuno, altrimenti impazzisco. I nostri fratelli non lo sanno, ma quel Jorge da Toledo lo ha anche stuprato.

Solomon è stupefatto. Non capisce il senso di uno stupro in un omicidio compiuto per motivi politici.

- Cosa?

- Sì, il cadavere presentava i segni dello stupro.

- Non capisco perché l’assassino abbia fatto questo.

Ishan abbassa la testa. C’è una smorfia di dolore sul suo viso, che Solomon può appena vedere nel buio della notte.

- Colpa mia, Solomon.

- Raccontami.

- Questo Jorge era stato abile. Ti ho raccontato che si era presentato come un credente, si faceva chiamare Musa e diceva di venire da Qurtuba. Era circonciso, quel cane.

Dopo una pausa, Ishan riprende:

- Aa Aleppo, ai bagni, aveva contattato un ragazzo, con cui io avevo scopato. In quel modo ha fatto conoscenza con me, è diventato nostro amico. Lo abbiamo invitato alla cittadella, dove risiedevamo. Ci siamo battuti con la spada, senza vincitori. Lui ha proposto di fare un giorno una sfida di lotta. Abbiamo dormito nella stessa stanza e il mattino… avevamo voglia tutti e due di scopare e ci siamo sfidati. Io l’ho sconfitto e gliel’ho messo in culo. Lui non se l’era mai preso in culo. Credo che abbia stuprato nostro padre per quello, per vendicarsi. Ma io l’avevo battuto lealmente.

- Non so nulla di questo Jorge da Toledo, se non che ha fatto una strage nella moschea quando hanno preso Bilbeis, diversi anni fa.

- Un uomo dell’atabeg, che vive tra i franchi, ci informò che questo Jorge era ad Aleppo per uccidere nostro padre: evidentemente quest’uomo ha contatti con chi manda le spie e i sicari. Quando abbiamo avuto la descrizione del sicario, abbiamo capito che Musa era in realtà Jorge da Toledo, ma ormai aveva ucciso nostro padre ed era fuggito. Ora li odio tutti, Solomon. Vorrei sterminare tutti i franchi.

- Mi spiace, Ishan. I franchi non sono tutti così, anche se tra loro ve ne sono molti spietati e senza onore.

- Ucciderò quel cane. In qualche modo lo ucciderò. Ho anche pensato di spingermi nel regno dei franchi per cercarlo, ma so che non rimane mai a lungo in uno stesso luogo. Mi dicono che torna spesso nei nostri territori, a spiare, a uccidere.

C’è rabbia nella voce di Ishan, ma anche molta sofferenza. Sembra che sia sul punto di piangere. Istintivamente Solomon lo abbraccia.

- Vendicherai nostro padre, Ishan. Ci riuscirai.

Ishan nasconde il viso contro la spalla di Solomon.

Tra le braccia del fratello, Ishan recupera la serenità. Si stacca.

- Rientriamo in casa, fratello.

Il mattino dopo si mettono in viaggio per il castello dove vive Sinan.

 

Sinan è stupito che il giovane Ishan gli abbia portato un ebreo. Il capo degli ismailiti non ha contatti con ebrei. Perché quest’uomo vuole parlare con lui?

Sinan fa attendere Solomon un’oretta, poi lo convoca. L’uomo entra e immediatamente si mette in ginocchio davanti a lui: conosce i rituali e li rispetta.

- Chi sei?

- Il mio nome è Chlomo, ma tutti mi chiamano Solomon.

Sinan guarda l’uomo inginocchiato davanti a lui. Non c’è traccia di paura sul suo viso, anche se sa benissimo di rischiare la vita. È chiaramente un uomo coraggioso, dal portamento fiero.

- Dimmi.

- Ho chiesto di parlarti, sceicco, per informarti di un tradimento.

Sinan si aspettava qualche richiesta di aiuto o una lamentela per un’ingiustizia subita, invece sembrerebbe trattarsi di qualche cosa di ben più grave. Questo ebreo non gli sembra tipo da parlare a vanvera.

Solomon prosegue:

- A Qasr al-Hashim non si vive secondo le regole che tu hai dettato, né secondo l’insegnamento del Profeta. Ramzi si fa portare bambini per educarli a diventare fedeli esecutori dei suoi ordini, ma di alcuni di loro approfitta per soddisfare le sue voglie. Ciò succede da anni, con la complicità di alcuni dei suoi uomini e il silenzio degli altri.

Qualche sospetto sull’interesse di Ramzi per i bambini era già emerso in passato, ma non aveva ricevuto una conferma. La denuncia di Solomon è molto precisa e non sembrerebbe riguardare un solo caso. Un’accusa di questo genere comporta la morte: per l’accusato, se si rivela fondata, per l’accusatore, se risulta essere falsa. Ciò che Sinan ha sentito in passato non è sufficiente a confermare le parole di Solomon, che potrebbe proprio servirsi di una diceria messa in giro in passato dai nemici di Ramzi per cercare di perderlo.

Solomon prosegue:

- E non è solo la sua condotta privata. Ha inviato sicari a uccidere il conte Ferdinando dell’Arram e il duca Denis di al-Hamra, senza chiederti autorizzazione.

Sinan non si aspettava la seconda accusa, per certi versi molto più grave: la prima riguarda una debolezza della carne, non scusabile in un uomo che è al comando e deve costituire un esempio per i suoi sottoposti, ma la seconda è un’insubordinazione a tutti gli effetti.

- Perché lo avrebbe fatto?

- Lo ha pagato il signore di Afrin, per impadronirsi dei domini dei due signori.

Per questo ha agito?! Non per un eccesso di zelo, che lo ha spinto a prendere un’iniziativa autonoma. Non per vendicare un’offesa ricevuta. Per il denaro, come una puttana che vende il proprio corpo a chi la paga. E chi lo ha pagato è un infedele! Sinan fa fatica a controllare la sua rabbia.

Rimane in silenzio un buon momento, senza distogliere un attimo il suo sguardo da Solomon, che non mostra nessun timore.

- Ebreo, se ciò che hai detto non è vero, non sfuggirai alla morte, quand’anche dovessi rifugiarti all’altro capo del mondo. E non sarà una morte rapida.

- Lo so, sceicco, ma non ho paura, perché non ho mentito.

- Quali prove puoi portare a conferma di ciò che hai detto?

- Per quello che riguarda i due signori franchi, colui che ha cercato di uccidere il conte Ferdinando era un giovane di Qasr al-Hashim, ma è morto e sono morti anche i due sicari pagati per assassinare il duca. Ma Ramzi aveva mandato due uomini a prendere contatto con i credenti di al-Hamra, per trovare qualcuno disposto a uccidere il duca, e questi due uomini sono prigionieri del signore della città. Posso farti parlare con loro.

- E com’è che hai questo potere?

- L’ho ricevuto dal duca. È lui che mi ha autorizzato a venire qui.

- Puoi farli portare al castello?

- Non direttamente. Ma puoi mandare un tuo uomo fidato con me e avrà modo di parlare con loro. E se vuoi, potrà portarli al tuo cospetto: il duca è disposto a cederteli, in modo che tu possa averli nelle tue mani e assicurarti che ti rispondano sinceramente. 

Sinan non tradisce le sue emozioni, ma dentro di sé freme. Se davvero è successo questo, se Ramzi ha osato mandare i suoi uomini a uccidere due signori senza avvisarlo, per denaro… Ramzi deve morire e con lui tutti i suoi uomini che sono stati complici. I veri credenti devono sapere che non c’è spazio per il tradimento e che chi si rende complice, volontariamente o per negligenza, va incontro alla morte.

- Che cosa puoi dirmi dei bambini?

- Posso darti il nome di uno di loro, che ora ha diciott’anni e vive nei pressi di Barqah. Non ti sarà difficile trovarlo. Non parla volentieri di ciò che ha vissuto, ma ha molto da raccontare. E se manderai qualcuno al castello, scoprirai che il giovane Omar, che ha appena dieci anni, dorme ogni notte nel letto di Ramzi.

Ora Sinan è sicuro che quest’uomo non mente. Glielo legge in faccia. E di sicuro non parla solo per sentito dire. Controlla la sua furia e, rimanendo del tutto impassibile, risponde:

- Manderò con te uno dei miei uomini, che tornerà con i due prigionieri. Il duca potrà farli scortare fino alla frontiera, suppongo.

- Certamente, sceicco.

- Parlerò con il giovane: devi dirmi esattamente dove posso trovarlo. Tu tornerai qui tra due mesi.

- Come comandi.

Dopo che ha avuto le informazioni necessarie per ritrovare il ragazzo, Sinan congeda Solomon. Controllerà le sue parole: non vuole avere dubbi. Ma è sicuro che l’ebreo non mente. E nei confronti di Ramzi prova una rabbia feroce.

 

Solomon vuole tornare a Rougegarde. In altre occasioni, quando deve raggiungere una meta lontana, ne approfitta per far visita ad alcune delle persone con cui è in contatto: un buon modo per mantenere i rapporti, raccogliere nuove informazioni, darne altre. Adesso, dopo che Ishan lo ha aiutato, tornerebbe volentieri alla loro casa per trascorrere un po’ di tempo con i fratelli. Ma ha fretta di tornare: è innamorato e la lontananza da Denis gli pesa. Avrà modo di riprendere i contatti più avanti, ora è impaziente di rivedere il duca, di parlargli, di stringerlo tra le braccia, di fare l’amore con lui.

Ishan lo accompagna fino ad Aleppo. Si fermano per la notte in un caravanserraglio alle porte della città. Il mattino si separeranno.

Dormono nella stessa camera. Si spogliano prima di coricarsi. Sono abituati a confidarsi e ognuno dei due conosce i gusti dell’altro, ma non hanno mai avuto rapporti, perché il loro è un legame fraterno. Entrambi però non scopano da diversi giorni e sono maschi vigorosi, di appetiti robusti. Si sono tolti le tuniche che indossavano e ora sono a petto nudo. La luce fioca della lanterna li illumina e proietta le loro ombre sulla parete. Solomon guarda la peluria sul petto di Ishan e vede che il fratello lo sta fissando. I loro movimenti diventano lenti, le parole sembrano incepparsi, di colpo suonano vuote. I loro sguardi si inchiodano. Il desiderio si accende e tende i pantaloni. Nessuno dei due cerca di nasconderlo: sono troppo schietti.

Solomon si cala i pantaloni e rimane nudo, il cazzo proteso in avanti. Ishan lo imita.

È Solomon a parlare:

- Mio fratello è un gran maschio.

Ishan replica:

- Anche mio fratello lo è.

Solomon si avvicina. Ora i loro corpi si sfiorano.

- Posso abbracciare mio fratello?

Ishan annuisce. È turbato, perché Solomon non è uno dei tanti giovani maschi che ha posseduto. Non vuole darsi a lui, perché non si è mai dato a nessuno, ma non desidera neppure che Solomon si dia a lui, perché lo considererebbe umiliante per il fratello. Però il desiderio lo tormenta.

Solomon si avvicina ancora. I loro corpi si toccano, i loro cazzi ora premono contro il ventre. Solomon abbraccia Ishan, stringendolo. Le sue mani scivolano lungo la schiena di Ishan, dal collo al culo, in un movimento continuo. Ishan esita, poi anche lui incomincia a muovere le mani, accarezzando il corpo di Solomon.

- Solomon, io…

Ishan non trova le parole, ma Solomon lo conosce e ha capito.

- Lo so, Ishan. Non ti darai a me e io non mi darò a te. Ma i nostri corpi ardono e forse dovremmo dare loro un po’ di frescura.

Ishan stringe Solomon, ma il desiderio è troppo forte.

- Solomon, potremmo affrontarci, io e te, come feci con quel bastardo che si faceva chiamare Musa.

Solomon guarda Ishan.

- Così chi si darà potrà farlo senza vergogna?

Ishan annuisce. Solomon chiede ancora:

- Sei sicuro di volerlo, fratello?

- Io lo vorrei. E tu, fratello? Non voglio forzarti.

- Se mio fratello lo desidera, lo desidero anch’io.

Si staccano e si sorridono. Si mettono in posizione di combattimento. Solo i loro cazzi tesi rivelano che la lotta ha un fine ben preciso.

Sono due uomini molto forti ed entrambi abili nella lotta. Solomon manda Ishan a terra due volte, ma non riesce a bloccarlo. Ishan prova ad abbattere il fratello, ma Solomon è ben fermo sulle gambe. Si avvinghiano nuovamente, stando in piedi, e ognuno cerca di forzare l’altro a cedere. Scivolano a terra e si rialzano, ma Solomon è dietro a Ishan e lo blocca. Ishan avverte contro il culo la pressione del cazzo di Solomon. Per un momento sente che gli mancano le forze. È solo un attimo, ma è sufficiente per il suo avversario: un braccio stringe il collo di Ishan, una mano gli blocca la testa e il respiro gli manca. Ishan si dibatte, ma il mondo scompare.

Ishan riprende i sensi subito. È disteso a terra, completamente bloccato, e Solomon è su di lui.

- Hai vinto, fratello.

Ishan si sente a disagio. Pensa che Solomon lo prenderà e l’idea lo sgomenta.

Solomon ha lasciato la presa. Si siede di fianco a Ishan e lo guarda.

Ishan si solleva. Ha perso e deve mantenere fede alla sua parola.

- Come vuoi che mi metta, fratello?

 Solomon lo fissa senza dire niente. Dopo un momento risponde:

- Ishan, non è necessario. Non voglio fare nulla che possa separarci.

- Hai vinto, lealmente.

- Sì, ma non occorre che tu faccia ciò che non desideri.

- No, sottrarmi mi sembrerebbe vile. E darmi a te non è vergogna.

Ishan appoggia il petto sul giaciglio.

Solomon annuisce. Si avvicina e gli accarezza la schiena e il culo, con molta dolcezza. Le sue mani scendono lungo le gambe, fino ai piedi, poi risalgono e indugiano ancora sul culo, le dita percorrono il solco, due volte, poi si fermano e stuzzicano l’apertura. Ishan si tende. Solomon si sputa sulle dita e sparge un po’ di saliva sul solco, vicino all’apertura. Inumidisce ancora le dita e questa volta le spinge dentro, forzando il buco. Poi Solomon si sputa sul palmo della mano e inumidisce bene la cappella. Si stende su Ishan e le sue mani accarezzano il capo, il collo, scendono sui fianchi.

Ora il cazzo di Solomon preme contro l’apertura. Solomon morde la spalla di Ishan, forte, e in quel momento affonda il cazzo, forzando il buco.

Le sue dita accarezzano il viso di Ishan. Solomon gli lascia il tempo di assuefarsi alle sensazioni sconosciute che l’ingresso ha provocato. E poi, lentamente, Solomon incomincia a muovere il culo avanti e indietro, spingendo a fondo il cazzo dentro Ishan e poi ritraendosi.

Ishan si abitua a questa presenza che non ha mai provato. C’è dolore, ma c’è anche piacere. Il cazzo è di nuovo duro, teso allo spasimo. Ishan prova vergogna, vergogna perché viene penetrato, vergogna perché questa penetrazione provoca in lui piacere. Ma il pensiero che a possederlo è Solomon, suo fratello, che lo ha vinto lealmente, lo tranquillizza.

Solomon cavalca a lungo e infine viene, con una serie di spinte più intense. Accarezza il capo di Ishan e si abbandona su di lui.

Ishan avrebbe voluto che lo facesse venire, come lui aveva fatto con Musa. Ma Solomon ha altro in testa.

Solomon si stacca e guarda Ishan, che si alza, provando un po’ di vergogna perché ha il cazzo duro come una pietra.

Solomon sorride e si mette al posto di Ishan, nella stessa posizione.

- Ora prendimi, Ishan.

Ishan lo guarda, tentato da questo culo forte che gli si offre, ma perplesso.

- Io non ti ho vinto.

- Prendimi, fratello, perché tra noi non ci devono essere vincitori e vinti.

Ishan vorrebbe rifiutarsi, ma le sue mani si posano sul culo di Solomon, lo stringono, lo accarezzano. Il desiderio incalza. Ishan cede. Sparge un po’ si saliva sull’apertura e sulla cappella, poi con lentezza spinge il cazzo dentro il culo di Solomon. È una sensazione splendida.

Ishan incomincia a fottere. Ondate di piacere lo investono a ogni spinta, finché il desiderio esplode.

Allora Ishan si ritira e si stende sul letto. Solomon si mette di fianco a lui e gli stringe una mano.

- Fratello.

Ishan risponde con la stessa parola:

- Fratello.

Poi dice:

- Grazie.

Rimangono a lungo così, in silenzio, poi si puliscono e si mettono a dormire. Sanno entrambi che quanto hanno fatto li ha avvicinati, ma non si ripeterà.

 

Non appena arriva a Rougegarde, Solomon si presenta a palazzo. Come al solito, chiede di parlare con Manrique.

Manrique lo viene a prendere e lo accompagna direttamente nell’appartamento di Denis, che è già stato informato del suo arrivo.

Appena Manrique esce, Denis va incontro a Solomon e lo abbraccia. Ne sente l’odore di sudore, intenso: ormai le giornate sono calde e Solomon ha viaggiato per diversi giorni. A Denis piace questo odore forte. Tutto gli piace di Solomon. E, come gli succede spesso, Denis si sente sgomento di fronte alla potenza di questo amore inatteso.

Solomon lo stringe tra le braccia.

- Mi sei mancato, Denis. Da morire.

È bello sentirsi dire queste parole, che esprimono il suo stesso sentimento. Solomon gli prende il viso tra le mani e lo bacia sulla bocca.

Quando Solomon si stacca, Denis risponde:

- Anch’io ho sentito la tua mancanza. E avevo paura.

Solomon appare sorpreso.

- Paura?

- Paura che ti succedesse qualche cosa. So benissimo chi è Sinan. Mettevi la tua vita nelle sue mani.

- Per sventare una minaccia mortale.

- Che riguardava me, non te.

- Tutto ciò che riguarda te, tocca anche me. Dovresti averlo capito, duca.

Denis sorride a sentirsi ancora chiamare duca da Solomon. Annuisce.

- Ora raccontami tutto.

Solomon riferisce il suo incontro con Sinan, senza omettere nulla. Quando ha concluso, Denis chiede:

- Che cosa pensi che farà Sinan, adesso?

- Verificherà ciò che gli ho detto. E scoprirà la verità. Questo significa una condanna a morte per Ramzi e probabilmente non solo per lui. Ma come si compirà, non posso dirlo.

Denis annuisce. Poi guarda Solomon e il desiderio lo assale, violento. Gli sembra che gli manchi il fiato. Solomon ha capito. Sorride e dice:

- Andiamo in camera tua, duca?

Denis annuisce. Passano nel suo appartamento.

Nella camera da letto, Denis incomincia a spogliare Solomon. Le sue mani passano sotto la giacca e la fanno scivolare a terra, poi aprono la camicia.

- Denis, oggi ho cavalcato tutto il mattino. È meglio che mi lavi, prima.

Denis scuote la testa. Si china e avvicina il viso al petto di Solomon. Ne annusa l’odore di sudore.

- Mi piace il tuo odore, Solomon.

Solomon ride e gli accarezza il capo.

Denis si inginocchia, slaccia i pantaloni di Solomon e con un movimento deciso glieli abbassa, calando insieme anche le mutande. Ora il suo viso è a una spanna dal cazzo di Solomon, che già si riempie di sangue.

Solomon muove le gambe, sbarazzandosi degli indumenti attorno alle caviglie.

- Sei sicuro che non vuoi che mi lavi? L’odore non deve essere molto buono.

Denis scuote la testa. Sente l’odore del cazzo di Solomon, ormai teso in avanti. Non è abituato a questo odore intenso, di piscio e sudore: Solomon è molto attento alla pulizia e si presenta sempre dopo essersi lavato con cura. Denis apre la bocca e accoglie la cappella. Solomon ha un leggero sussulto. Denis sente il cazzo irrigidirsi ancora di più e crescere di volume.

Solomon chiude gli occhi, mentre le sue mani accarezzano la testa di Denis, scompigliandogli i capelli.

- Denis!

Denis lavora con le labbra e la lingua, mentre le sue mani stringono il culo di Solomon, scivolano fino al solco, un dito incontra l’apertura e preme. Solomon geme.

Da troppi giorni Solomon non viene e la bocca di Denis gli trasmette sensazioni intensissime. Si rende conto che tra poco il piacere esploderà.

- Denis! Sto per venire.

Denis non toglie la bocca. Accoglie il seme di Solomon, dell’uomo che ama, e lo inghiotte. Continua a succhiare e leccare, fino a che è Solomon stesso ad allontanarlo.

Denis si alza. Ha il cazzo teso. Nei suoi occhi Solomon legge una domanda. Annuisce.

- Puoi prendermi, se è questo che desideri, Denis. Io desidero appartenerti.

Denis accenna appena un sorriso.

- Sì, lo desidero.

- Sicuro che non vuoi che mi lavi?

Denis scuote la testa.

- Va bene, come preferisci, Denis.

Solomon fa per stendersi sul letto, a pancia in giù, ma Denis lo ferma.

- No, non così. Voglio vederti in faccia. Stenditi sulla schiena.

Solomon esegue. Lascia che Denis si inginocchi sul letto, gli sollevi le gambe e se le metta sulle spalle.

Solomon sorride a Denis. Ha avuto molti uomini, ma a pochissimi si è offerto.

Denis si sputa sulla mano e inumidisce la cappella. Poi sparge un po’ di saliva sull’apertura.

- La prima volta, quando ti dicevo di scaldarti al fuoco, mi chiedevi se volevo farti cuocere, allo spiedo.

Solomon sorride.

- Sì, ti stavo provocando. Ormai non riuscivo più a controllare il mio desiderio e sentivo che anche tu mi desideravi.

Denis annuisce.

- Sì, anche se non me ne rendevo pienamente conto. Adesso però ti infilzo davvero. Ora che sei davvero un porcellino, ti infilzo.

- Fallo, Denis.

Denis avvicina la cappella all’apertura e spinge.

- Lo senti lo spiedo?

Solomon annuisce. L’ingresso è un po’ doloroso, ma la sensazione di appartenere a Denis è splendida.

- È bello essere infilzato da te, Denis.

Denis sorride. Accarezza il viso di Solomon. Mormora:

- Solomon!

Denis incomincia a muoversi lentamente. Le mani poggiano sul letto, a fianco di Solomon, e ogni tanto si muovono per accarezzare il corpo che gli si offre.

Denis sente il piacere crescere. Chiude gli occhi. Poi li riapre e guarda il viso di Solomon, la ruga sulla fronte.

- Ti faccio male, Solomon?

- Questo dolore è piacere, Denis. Voglio appartenerti.

Denis procede a lungo, fino a che il piacere non può più essere contenuto. Il suo seme si rovescia nelle viscere di Solomon. Allora Denis si ritrae. Solomon poggia le gambe sul letto e attira a sé il duca. Rimangono stretti l’uno contro l’altro.

 

 

Ramzi è preoccupato. Lo sceicco Sinan lo ha convocato. Il messaggero non ha fornito nessuna spiegazione, ma questo è normale: lo sceicco non spiega i motivi per cui chiama uno dei suoi sottoposti, che gli devono tutti ubbidienza cieca.

Ramzi teme che lo sceicco Sinan abbia saputo dei suoi tentativi di far uccidere il conte dell’Arram e il duca di Rougegarde. In questo caso, gli converrebbe non andare e fuggire in qualche luogo lontano, ma dove potrebbe essere al sicuro dai suoi confratelli, una volta che Sinan l’avesse condannato? Non certo in Siria o in Persia o in Egitto, dove gli ismailiti sono numerosi. Dovrebbe andare molto più lontano, rinunciando a tutto. E neppure in India o in al-Andalus potrebbe essere sicuro di non essere raggiunto dagli inviati di Sinan.

 

Sinan lo fa attendere cinque ore. Ramzi è un uomo forte e coraggioso, ma l’attesa è esasperante. Ha le mani sudate, che si asciuga sulla tunica. Il tempo sembra non passare mai e c’è un momento in cui Ramzi prova perfino l’impulso di fuggire: un’idea del tutto assurda, lo sa benissimo, ma non regge più.

Quando infine lo sceicco lo riceve, Ramzi cerca di leggere nel suo volto il suo stato d’animo, ma Sinan appare impassibile, come sempre.

Ramzi si inginocchia, saluta e attende.

- Ti ho chiamato per affidarti un nuovo compito.

Ramzi si sente sollevato. Non è quello che temeva. Un nuovo compito è un’ottima cosa: gli fornirà l’occasione per riscattarsi dal fallimento con l’emiro di Jabal al-Jadid.

- Dimmi, sceicco. Sarà eseguito.

- Devi spegnere la vita del barone Renaud, il signore di Afrin.

Ramzi è disorientato. Sinan vuole che faccia uccidere proprio colui che lo ha pagato per eliminare il duca Denis e il conte Ferdinando. Perché? Ramzi sa di non poter porre la domanda.

- Ubbidirò, sceicco.

Non ha altra scelta. Della vita di Renaud certo non gli importa nulla. E la sua morte in qualche modo chiuderà la faccenda dell’incarico ricevuto dal barone. Morto Renaud, non c’è più motivo per uccidere i signori di al-Hamra e dell’Arram. In fondo è meglio così.

Sinan annuisce, lentamente. Poi aggiunge:

- Bada, Ramzi, non fallire.

C’è una chiara minaccia nella voce di Sinan. Ramzi è inquieto.

- Non fallirò. Avrò bisogno di un po’ di tempo, perché ad Afrin i credenti sono pochi.

- Non fallire.

Ramzi è sconcertato dalla ripetizione dell’ammonimento: non è da Sinan. Lo sceicco gli sta dicendo chiaramente che non accetterà il fallimento dell’impresa e che se non sarà Renaud a morire, sarà Ramzi stesso. Non c’è spazio per scuse, giustificazioni. Il compito deve essere eseguito.

- Il barone morirà. Te lo assicuro.

Sinan annuisce. Poi aggiunge:

- Due miei uomini verranno con te a Qasr al-Hashim, per controllare che tutto vi si svolga secondo le regole della nostra fede.

A Ramzi sembra che una mano gli abbia stretto la gola e gli blocchi il respiro. Fa fatica a non lasciar trapelare il suo disagio mentre risponde:

- Sono felice di questo, sceicco. Mi aiuteranno a condurre rettamente i miei uomini, correggeranno i miei errori e mi permetteranno di emendarmi là dove ho sbagliato.

Sinan annuisce.

- Sarà così. Dirai ai tuoi uomini che devono ubbidire a coloro che io ho mandato, come obbediscono a te.

Ramzi si inchina. Sinan conclude:

- Partirete domani mattina prima dell’alba.

È un congedo. Ramzi si alza e lascia la sala delle udienze. Un servitore lo accompagna alla piccola stanza dove trascorrerà la notte. Una notte insonne, Ramzi lo sa benissimo. Non riuscirebbe comunque a dormire, ma adesso la priorità è organizzare tutto per ridurre i danni.

Appena rimane da solo, Ramzi incomincia a riflettere. La presenza dei due uomini limiterà moltissimo la sua libertà d’azione e questo significa che sarà più difficile intervenire per nascondere ciò che va nascosto.

Pochissime persone sono informate di ciò che accade nella parte più interna del castello e sicuramente taceranno, perché raccontando rivelerebbero di essere stati complici. Nessuno parlerà di Omar, che trascorre le notti con lui.

Omar! Merda!

Omar è troppo giovane. È convinto che ciò che fanno sia un modo per avvicinarsi a Dio. Non saprà tacere. Interrogato abilmente, finirà per parlare. A dieci anni non può capire, non è possibile metterlo in guardia, è ingenuo, anche avvisato cadrebbe comunque nella prima trappola che gli venisse tesa… Omar deve scomparire.

Ramzi riflette. C’è un’unica soluzione: scrivere al suo braccio destro, Muhyi, di uccidere il ragazzino. Ma deve riuscire a far partire la missiva senza che gli uomini di Sinan se ne accorgano. E il messaggio deve arrivare prima di loro.

Rapidamente Ramzi traccia un piano. Dirà di dover passare da Merwan, dove potrà affidare il messaggio a un uomo fedele, perché lo faccia arrivare il più in fretta possibile al castello. Ramzi si alza, accende la lucerna e scrive le poche righe necessarie.

L’eliminazione di Omar sarà sufficiente? Muhyi avviserà gli uomini a lui più fedeli, quelli che sanno più cose, di tenere la bocca ben chiusa e di guardarsi dai due inviati di Sinan: rischiano anche loro la vita e sono abbastanza intelligenti da capirlo. Ma gli altri? Qualche voce circola, Ramzi lo sa bene: per quanto sia sempre stato molto attento, è impossibile mantenere segreto ciò che si svolge per anni.

Arrivare al castello e far uccidere i due uomini? Questo gli darebbe  al massimo qualche giorno per poter fuggire, portando con sé il denaro e l’oro. Ma Sinan lo troverebbe anche in capo al mondo: sarebbe inseguito da centinaia di uomini disposti a morire pur di ucciderlo. No, sopprimere i due sarà l’ultima risorsa, se non ci sarà altra via di scampo.  

Ramzi passa in rassegna le cose da fare e tutti gli abitanti del castello. Aggiunge qualche ordine per Muhyi. C’è almeno un altro uomo da eliminare. Forse più d’uno, in realtà, ma il rischio reale è costituito da Zahir, che è ambizioso e potrebbe vedere nell’arrivo dei due uomini di Sinan un’occasione per provocare la perdita di Ramzi e prendere il suo posto.

Ramzi completa la lettera. La guarda. Se cadesse nelle mani dello sceicco, la sua vita sarebbe finita. Ma saprà farla arrivare a Muhyi senza che i due uomini di Sinan lo scoprano.

 

Il mattino dopo partono. I due inviati parlano poco. Non appaiono cordiali, ma nemmeno ostili. Come lo sceicco, non danno familiarità. Ramzi scambia poche parole con loro, mostrandosi deferente, ma non umile.

A una certa distanza dal castello di Sinan, Ramzi comunica che intende fermarsi a Merwan, per alcuni affari. I due non sembrano insospettirsi e non avanzano obiezioni. A Merwan arrivano nel pomeriggio. Ramzi comunica che ha bisogno di qualche ora e si allontana. Raggiunge rapidamente una bottega e affida al mercante la missiva: deve partire immediatamente e viaggiare con la massima velocità possibile.

Il compito viene eseguito con cura e la sera seguente a Qasr al-Hashim viene recapitata la lettera per Muhyi, che la legge con attenzione, poi, seguendo le istruzioni ricevute, la distrugge.

Informa Zahir che ha ricevuto un ordine da Ramzi: dovrà partire in mattinata, molto presto, in direzione di Jabal al-Jadid, dove Zahir dovrà fermarsi per alcuni giorni. Muhyi lo accompagnerà fino alla fattoria di un credente, dove riceverà le istruzioni necessarie.

Muhyi ha scelto con cura la meta da indicare: a Jabal al-Jadid la vita di un ismailita vale poco e se si scoprisse che Zahir viene da Qasr al-Hashim, l’attenderebbe una fine atroce. L’attenzione di Zahir si concentra sulla meta, sui rischi che correrà, su come potrà entrare nella città evitando di essere individuato da qualcuno che conosce la sua fede. Non sospetta che il suo viaggio finirà molto prima. 

Nella notte Muhyi sveglia Omar.

- Vieni, devo farti vedere una cosa.

Omar è insonnolito e non avrebbe voglia di lasciare il letto, ma è abituato a obbedire e si alza.

- Non dire nulla. Nessuno deve sentirci. Quello che voglio farti vedere… no, non voglio dirti niente. Lo vedrai da te.

Ora Omar è curioso. Salgono su una scala che porta direttamente a uno dei passaggi lungo le mura. Non ci sono sentinelle, che rimangono sulle torri ai lati: la parte del castello dove risiede Ramzi affaccia direttamente sull’abisso, da cui nessuno potrebbe salire.

Muhyi sussurra:

- Adesso io ti tengo e tu sali sul parapetto. Non aver paura, ti tengo bene.

Omar ride. Non ha paura.

- Ma che cosa c’è da vedere? È buio, non si vede niente.

- Sali e lo vedrai.

Con l’aiuto di Muhyi, Omar sale. Di colpo si sente spingere nel vuoto. Cadendo, riesce ad aggrapparsi al parapetto con una mano. Non reggerà a lungo e non ha la forza per issarsi.

- Aiutami, Muhyi.

La richiesta è assurda, Omar stesso se ne rende conto: è stato Muhyi a spingerlo nel vuoto. Ma non vuole riconoscere che la sua vita è arrivata alla fine: si dice che forse Muhyi non l’ha fatto apposta, che è uno scherzo, che adesso lo salverà di certo.

Muhyi ha preso il coltello e con il manico colpisce le dita con cui Omar si aggrappa al parapetto e alla vita.

Omar grida, mentre il suo corpo sta già precipitando nell’abisso.

Muhyi ritorna rapidamente nella propria camera.

L’indomani mattina, mentre si sta preparando a partire con Zahir, viene informato della scomparsa di Omar. Si mostra allibito e lo fa cercare dappertutto. Una delle guardie dice di aver sentito un grido nella notte, come se qualcuno stesse precipitando. Che il ragazzino sia salito sugli spalti e che sporgendosi, per chissà quale motivo, sia precipitato? Muhyi finge di non voler credere a questa possibilità, ma non sembra esserci nessuna altra spiegazioni: di certo non può essere uscito dalla porta del castello, chiusa e sempre sorvegliata.

In ogni caso Muhyi ordina a due uomini di raggiungere il fondo del precipizio, dove scorre il fiume, per vedere se trovano traccia del ragazzino. Scendere fino al corso d’acqua è lungo e difficoltoso, perché richiede un lungo giro. Muhyi e Zahir non possono attendere: le ricerche hanno fatto perdere già abbastanza tempo e infatti partono con un’ora di ritardo sul previsto.

Muhyi si mostra preoccupato.

- Il signore del castello tornerà nel pomeriggio. Quando scoprirà che Omar è scomparso, sarà furibondo.

Zahir annuisce.

- Chissà che cosa è successo?!

- Non riesco a spiegarmelo. Se davvero è precipitato, perché? Ha deciso di uccidersi? Ma non capisco le ragioni. Era sereno, benvoluto da tutti. Un incidente? Ma perché salire la notte sugli spalti?

- Forse ha avuto un incubo, qualche cosa che lo ha spinto a lasciare la camera. Forse era ancora assonnato.

- Può essere, non vedo altra spiegazione. Ma salire sul parapetto… In ogni caso il signore sarà furente.

- Sì, gli voleva molto bene.

Tacciono per un po’. Dopo due ore, mentre attraversano una zona montana del tutto deserta, tra precipizi vertiginosi e ripide pareti, Muhyi dice:

- Devo pisciare. Fermiamoci un momento.

Muhyi scende, si accovaccia vicino a un dirupo e svuota la vescica. Zahir lo imita. Muhyi si alza e passa dietro Zahir. Con un movimento rapido gli afferra la testa e gli pianta il pugnale nel collo, recidendo la carotide. Zahir porta le mani alla ferita, cerca di allontanare il coltello, ma le forze gli mancano e si affloscia, mentre ancora il piscio scende sul terreno. Muhyi estrae la lama e lascia che il cadavere crolli a terra. Lo trascina fino all’orlo del dirupo e lo fa precipitare.

Muhyi riparte, conducendo con sé il cavallo di Zahir. Lo lascia in una fattoria, dove un uomo fedele provvederà a venderlo senza che nessun altro venga a saperlo. Poi torna al castello.

Ramzi è già arrivato, con i due uomini che lo accompagnano. Ha saputo della morte di Omar, il cui corpo è stato ritrovato sulla riva del fiume, a valle del castello. Appare addolorato.

Ramzi ha presentato a tutti i due uomini di Sinan, inviati dallo sceicco per emendare gli errori che i fedeli possono aver commesso a Qasr al-Hashim e guidarli a una maggiore purezza. Da alcuni, la cui fede è più forte, il loro arrivo è visto con favore, perché desiderano essere più graditi a Dio. Molti invece sono diffidenti, perché la venuta di due uomini potenti interferirà nella vita quotidiana e potrebbe modificare equilibri e consuetudini. Coloro che conoscono meglio la vita del castello si preoccupano, essendo consapevoli di correre dei rischi.

I due inviati di Sinan non pongono domande. Ramzi vorrebbe farli dormire nel recinto esterno del castello, ma essi richiedono di essere ospitati nella parte più interna. Ramzi non è contento di questo, ma sa di non potersi opporre. Fa preparare una camera vicino ai suoi appartamenti. Finché rimarranno, dovrà fare attenzione a ogni passo e rimanere casto. Per il momento, a fronte dei rischi che correrebbe se i due scoprissero ciò che avveniva nel castello, non gli sembra un gran problema. Non è certo di questo che si preoccupa ora.

In serata Ramzi invita il fratello nella stanza delle udienze, per un colloquio. Chiede ai due inviati di Sinan se vogliono assistere al momento in cui trasmetterà l’incarico ricevuto dalla sceicco, ma essi declinano.

Usama è impaziente: gli pesa rimanere inattivo e spera che Ramzi abbia ricevuto da Sinan l’incarico di svolgere una nuova missione. Le sue speranze ricevono una conferma.

- Fratello, Iddio ti affida un nuovo compito.

Usama non nasconde la sua soddisfazione.

- Gloria a Dio. Lo sceicco Sinan ha deciso una nuova missione?

- Sì, tu spegnerai la vita del barone Renaud. Sarai venduto come schiavo ad Afrin, in una famiglia nobile. Di lì faremo in modo di farti passare nella casa del barone: ci vorrà del tempo, ma ci riusciremo. Quando sarai al suo servizio, dovrai guadagnarti la sua fiducia, in modo da poterlo sorprendere e uccidere.

Usama alza le braccia.

- Lo ucciderò, se Dio mi assiste.

Ramzi guarda la destra del fratello, la mano che darà la morte. La immagina immergere il pugnale nel petto del barone, vede il sangue che sgorga copioso. Dev’essere così: non ci può essere un altro fallimento. Sinan sarà soddisfatto.

 

Il giorno seguente nella sala sotterranea si svolge la cerimonia di purificazione. A questa i due inviati di Sinan hanno deciso di assistere.

Usama si spoglia ed entra nella vasca. Vi si immerge completamente, rimanendo sott’acqua a lungo, poi tira fuori la testa per respirare. Quando esce dalla vasca, Ramzi ne osserva il corpo forte: suo fratello è un guerriero valoroso e riuscirà nella sua missione. Pone davanti al fratello, su una pezza di seta che copre un cuscino, un pugnale come quello spegnerà la vita di Renaud di Soissons, conte della città che i cristiani chiamano San Giacomo d’Afrin: non sarà lo stesso pugnale, perché uno schiavo non può possedere un’arma. Ma Usama saprà come procurarsi ciò di cui ha bisogno quando sarà giunto il momento.

Ramzi prende il pugnale. Fa un cenno a Usama, che si avvicina. Con la punta del pugnale Ramzi incide appena la pelle del torace sotto il capezzolo destro e poi sotto il capezzolo sinistro: scendono alcune gocce di sangue. Sangue che chiama altro sangue. Quello versato da Usama annuncia quello che verserà Renaud. E poi Usama conoscerà il martirio, oppure fuggirà ancora una volta, per spegnere altre vite.

Ramzi fa appena un cenno del capo. Usama si immerge nuovamente nell’acqua, poi esce dalla vasca, si asciuga, si riveste e lascia la stanza.

Usama è felice di partire per la missione e spera di poter uccidere il barone Renaud come ha ucciso lo sceicco Labeeb. Questo lungo periodo di inattività gli è sembrato eterno.

Uno dei due uomini di Sinan si rivolge a Ramzi.

- Ramzi ibn Qais, anche in una cerimonia di purificazione, la nudità è da evitare. Non è bene che un uomo mostri le sue vergogne, neppure a suo fratello.

Ramzi china il capo:

- Questa cerimonia ci è stata insegnata da un dotto, ma abbiamo fatto male ad ascoltare le sue parole. Non ho voluto disturbare lo sceicco chiedendogli il suo parere su dettagli come questo, ma nella sua grazia vi ha inviati qui, in modo che possiamo correggere i nostri numerosi errori.

Gli errori risultano essere davvero numerosi. Gli uomini di Sinan hanno da ridire su tutto: l’abbigliamento, l’alimentazione, le bevande, la preghiera. Non si tratta di gravi mancanze, ma di tanti dettagli che occorre eliminare o aggiungere o variare. Alcuni degli uomini del forte ne sono infastiditi, ma i più sono contenti che i due inviati si concentrino su questi aspetti e non sembrino intenzionati a scoprire altro. L’idea comune è espressa da uno degli uomini di guardia:

- Sono due rompicoglioni, ma sono inoffensivi.

Ramzi rimane a lungo diffidente, ma con il passare dei giorni si tranquillizza. In effetti i due sembrano interessati solo alle pratiche quotidiane.

Dopo un mese i due uomini partono. Annunciano che torneranno, quando Usama avrà compiuto la sua missione, per verificare che le correzioni che hanno apportato alla vita quotidiana non siano state trascurate dopo la loro partenza.

Ramzi festeggia la loro partenza facendo venire nella sua camera un altro dei ragazzini che nel castello vengono educati a diventare martiri. Il ragazzino imparerà qualche cosa di nuovo.

I due uomini tornano da Sinan. Non gli parlano dei piccoli errori nei rituali, o nell’alimentazione. Riferiscono ciò che hanno scoperto chiacchierando con i ragazzini che Ramzi educa al martirio, con alcuni dei soldati, con i cuochi. Conversazioni amichevoli, che non apparivano come investigazioni, ma da cui esce chiarissimo un verdetto. Lo stesso che Sinan ha già pronunciato dopo aver parlato con il ragazzo che gli ha indicato Solomon e con Faaris e Maazin.

I due prigionieri sono stati consegnati all’inviato di Sinan e portati al castello. Quando i soldati del duca lo hanno consegnato agli uomini dello sceicco, Faaris si è illuso di potersi salvare: ha pensato che Ramzi avesse pagato per riscattarlo o che ci fosse uno scambio, ad esempio la loro libertà in cambio di una rinuncia definitiva al progetto di uccidere il duca. Si è accorto subito che continuava a essere un prigioniero, ma ha continuato a sperare. Maazin, diffidente fin dall’inizio, non si è fatto troppe illusioni.

Al castello di Sinan sono stati interrogati a lungo. Faaris ha spiegato di aver ricevuto l’incarico da Ramzi in persona, di aver cercato di eseguirlo e di essere stato tradito da qualche spia. Non gli sembra di avere niente da rimproverarsi di fronte al capo supremo degli ismailiti di Siria, se non il fallimento dell’impresa. Ha peccato di ingenuità, fidandosi di un uomo incontrato ai bagni, ma era l’unico che sembrava disponibile a collaborare.

Maazin sospetta che si stia giocando un’altra partita e sa di essere una pedina irrilevante. Chi lo interroga già sa del suo passato e Maazin non può negare. Dichiara la sua fede e la sua lealtà incondizionata a Sinan, ma intuisce che questo non gli salverà la vita.

Al ritorno degli inviati, Sinan dà l’ordine di decapitare i due prigionieri: hanno agito in buona fede, ma sono stati complici di Ramzi. Allah deciderà se accoglierli tra i giusti o destinarli all’inferno.

Quando viene portato in cortile e vede il boia con la scimitarra, Faaris si dibatte e grida. Lo trascinano davanti al carnefice e lo costringono a inginocchiarsi. Faaris chiede pietà, grida la sua innocenza, dichiara la sua lealtà a Sinan. La lama mette fine alle sue urla. Maazin affronta la morte con dignità. Si limita a sputare a terra e a maledire Sinan.

Dieci giorni dopo, un messaggero consegna agli uomini del duca di Rougegarde un involto, da parte dello sceicco Sinan: contiene due teste, conservate sotto sale.

 

L’estate è giunta, ardente e secca.

Sono trascorsi i due mesi previsti e Solomon ritorna da Sinan. Sa che lo sceicco ha inviato a Denis le teste dei suppliziati: questo significa che ha scoperto la verità. Solomon è sicuro che ora Sinan interverrà e che la minaccia costituita da Ramzi verrà spazzata via: lo sceicco di certo non può accettare che uno dei suoi uomini decida interventi senza la sua autorizzazione.

Sinan lo fa attendere molto poco e anche questo è un segno positivo.

Solomon entra e saluta. A un cenno dello sceicco, si siede sui cuscini.

- Sei di parola, ebreo, e non hai mentito. Le tue erano parole di verità. Ti ringrazio per aver squarciato il velo che nascondeva l’iniquità e la menzogna. Sinan ti è debitore. Adesso però bisogna che ognuno riceva il giusto compenso per le sue azioni.

Solomon fa un cenno con la testa per esprimere il suo accordo. Poi dice:

- Dimmi qual è il giusto compenso.

- Lo sai, ebreo. Tu vedi con chiarezza. Attraverso di te la giustizia divina colpirà chi ha trasgredito.

- Il giusto compenso è la morte, sceicco?

Sinan annuisce.

- La pena per coloro che combattono contro Allah e il Suo Messaggero e che si macchiano di corruzione nella vita terrena, è venire uccisi o crocifissi, che le loro mani e i loro piedi vengano tagliati o che siano esiliati.

- Dimmi che cosa devo fare.

Sinan parla a lungo. Solomon ascolta con attenzione. Pone poche domande, relative ad alcuni aspetti secondari. Poi lo sceicco lo congeda.

 

Renaud deve partire per Rougegarde, per incontrare il duca Denis d’Aguilard e il conte Ferdinando. È stato lui a chiedere questo incontro, perché Denis è un alleato prezioso: solo la presenza di quello che i saraceni chiamano il Cane dagli occhi azzurri ha dissuaso i signori dei territori vicini dall’attaccare San Giacomo d’Afrin. E prima di recarsi a Gerusalemme, dove è stato convocato da re Baldovino insieme ad alcuni altri signori del regno, vuole concordare alcune misure difensive.

Anche se è stato lui a chiederla, Renaud non si reca volentieri a questa riunione con due uomini che detesta e che gli ricordano il fallimento di tutti i piani che ha ideato per impadronirsi di Rougegarde. Quello che gli pesa di più è l’ultimo, perché ha pagato una somma enorme e i suoi nemici sono ancora vivi.

Un tentativo di uccidere Ferdinando c’è stato: se n’è parlato nella valle dell’Arram e anche a Rougegarde e Renaud ha i suoi informatori. Quel figlio di puttana del siciliano però è riuscito a cavarsela. A Renaud non risulta che qualcuno abbia cercato di uccidere Denis. Più volte si è chiesto se Ramzi abbia almeno provato o se si sia limitato a lasciar perdere dopo il primo tentativo fallito con Ferdinando. Tanto quel bastardo sa benissimo che Renaud non è nelle condizioni per chiedergli indietro il denaro o sputtanarlo raccontando in giro che non mantiene i patti. Gli era sembrato di aver trovato una buona via per ottenere ciò che voleva, ma sono passati parecchi mesi e non è successo niente.

Renaud affida la città a Charles, come fa sempre in questi casi. Non si fida di lui, ma dell’altro fratello, Olivier, si fida ancora meno: ne conosce l’ambizione e la mancanza di scrupoli. Va benissimo quando si tratta di organizzare qualche azione che deve rimanere segreta, ma è consigliabile non dargli troppo potere: non è tipo da arretrare davanti a niente e ha chiaramente delle mire sulla città.

 

Alcuni giorni dopo la partenza di Renaud, Marcel, un servitore di Olivier, raggiunge il suo padrone mentre questi sta parlando con l’amministratore di una sua tenuta. Si inchina e dice:

- Scusate se disturbo. Avrei bisogno di parlarvi un momento da solo, padrone. È importante.

Olivier guarda stupito Marcel. Che cosa potrà volergli dire di così pressante questo servo che non ha nessun incarico importante? Come si permette di interrompere il suo padrone durante un colloquio?

Olivier risponde, senza celare la sua irritazione:

- Un momento.

Dà le ultime istruzioni all’amministratore e lo congeda. Poi si rivolge al servitore, con un tono brusco:

- Dimmi.

- Scusate se mi sono permesso di disturbare, ma uno dei servitori del barone Renaud, Usama, fa parte di quella setta che chiamano Hashishiyya, quelli del castello di Jibrin. È riuscito a farsi assumere a palazzo e probabilmente vuole uccidere il barone o qualcun altro.

Olivier fissa Marcel incredulo.

- Chi ti ha raccontato questo?

- Uno dei servitori di vostro fratello lo ha riconosciuto. Era al servizio di Labeeb, lo sceicco di Barqah che venne assassinato e dice che è stato proprio Usama a ucciderlo. Lo ha pugnalato mentre lo assisteva nel bagno. Hanno trovato lo sceicco nudo, ancora avvolto nel telo per asciugarsi, con le tre ferite inferte da Usama.

Olivier ascolta con interesse. Nella sua mente fluttuano alcune idee. È strano che Ramzi voglia far uccidere Renaud, che lo ha pagato per eliminare Denis e Ferdinando: quale motivo può avere? Che Denis lo abbia pagato di più? Difficile, il duca di Rougegarde non è tipo da inviare sicari. E allora? In ogni caso Renaud è minacciato: non c’è un’altra spiegazione per la presenza di un assassino a corte. Difficile che vogliano uccidere Charles o lo stesso Olivier, che non hanno nessun potere effettivo.

Olivier accarezza un’idea. Ma deve essere sicuro che le parole del servitore corrispondano a verità.

- Questa storia non mi convince. Perché questo servitore non si è presentato direttamente da me o da mio fratello?

- Ha visto Usama solo oggi. Si è spaventato molto, gli Hashishiyya non risparmiano nessuno. Sapete che vostro fratello non c’è. Da voi non ha osato venire. Temeva di non essere creduto. E poi… lui ha paura a parlare, perché teme che gli Hashishiyya possano vendicarsi, se scoprono che è stato lui a denunciare Usama.

- Chi è costui?

- È Smufeed, che è stato catturato qualche mese fa.

- Un prigioniero, uno schiavo. Perché dovrei fidarmi di lui? Perché si è rivolto proprio a te?

- Lo conosco, barone. Lavoriamo insieme nei magazzini.

Olivier di Soissons rimane un buon momento in silenzio, poi osserva:

- Per il momento non c’è problema. Mio fratello è via e in ogni caso Usama non ha molte occasioni di trovarsi con lui, che sa essere prudente. Mi occuperò della faccenda. Dobbiamo prendere di sorpresa quel figlio di puttana, tendergli una trappola. Tu non dire una parola di quanto hai sentito. A nessuno. Hai capito?

Marcel non capisce perché occorra prendere di sorpresa Usama: è a palazzo, basta mandare quattro soldati ad arrestarlo. Ma si guarda bene dal dire che cosa pensa, tanto più che ha avvertito una chiara minaccia nella voce del barone.

- Sì, mio signore. Non dirò nulla.

- Va bene, puoi andare. Ne parlerò con mio fratello appena torna. E farò tenere sott’occhio questo Usama, prima di arrestarlo. Voglio scoprire con chi è in contatto. Ma nessuno ne deve sapere nulla. Altrimenti non individueremo i suoi complici.

Marcel annuisce e se ne va. Non aveva pensato ai possibili complici. Pare che questi fanatici non abbiano paura di niente: magari Usama non confesserebbe neanche sotto tortura. Il barone ha ragione: meglio tenerlo d’occhio per un po’, prima di arrestarlo.

Olivier ha già elaborato un piano. Ma quanto può fidarsi di questo servitore? Se si lasciasse sfuggire qualche cosa, anche solo per vantarsi di aver salvato la vita del barone? Se suo fratello venisse a sapere che Olivier gli ha nascosto un’informazione così importante, sarebbe un problema serio. Olivier perderebbe definitivamente la fiducia di Renaud. E in ogni caso, se tutto si svolgerà come Olivier si augura, una volta morto Renaud, Marcel non starebbe zitto. No, c’è un unico modo per assicurarsi che davvero un uomo non parli.

Olivier fa chiamare Joscelin.

- Joscelin, ci sono due uomini che devono morire, molto in fretta. Quello che ucciderai per secondo non deve sapere della morte del primo, perché potrebbe sospettare e fuggire.

Joscelin non è nuovo a incarichi di questo genere. Chiede solo chi sono i due uomini e dove si trovano.

 

Poche ore dopo Marcel, un servitore del barone Olivier di Soissons, viene trovato sgozzato in un angolo del magazzino di granaglie, il corpo nascosto malamente dietro alcuni sacchi. Non si sa chi possa averlo ucciso. In serata si scopre che Smufeed, uno schiavo arabo del barone, è scomparso. Sicuramente ha ucciso lui Marcel: i due si conoscevano. Smufeed deve averlo ammazzato dopo un litigio e poi dev’essere scappato.

Olivier dà ordine di cercare il fuggiasco, ma nessuno lo ha più visto dalla tarda mattinata, quando si è allontanato dicendo che un servitore del barone era venuto a chiamarlo.

 

Olivier sa che non deve lasciare nulla al caso. Renaud sarà di ritorno entro un giorno o due. Usama potrebbe trovare un’occasione per avvicinarsi a Renaud e in questo caso cercherebbe certamente di ucciderlo. Renaud non deve morire mentre Charles è a San Giacomo: diventerebbe lui il reggente della città. Olivier, in quanto fratello minore, potrebbe al massimo ottenere l’istituzione di un consiglio di reggenza, di cui farebbe parte insieme a Charles e al vescovo Bohémond. Ma anche in questo caso il suo margine di manovra rimarrebbe molto ridotto. Il problema è come allontanare Charles quando si presenterà il momento favorevole.

Renaud rientra con un giorno di ritardo: è zoppicante, a causa di una brutta caduta da cavallo. Il medico gli ordina di rimanere a riposo per almeno una settimana. Renaud dovrebbe partire per Gerusalemme, ma non è nelle condizioni di affrontare un viaggio lungo e disagevole.

Per Olivier è un’ottima notizia: se riuscirà a giocare bene le sue carte, potrà ottenere il risultato desiderato.

In serata Olivier, Renaud e Charles discutono sul da farsi.

Renaud vorrebbe partire ugualmente.

- È un incontro importante. Domani mattina partirò per Gerusalemme.

Olivier osserva:

- Il dottore ti ha raccomandato di stare a riposo e non cavalcare per un po’ di tempo. Sarebbe meglio che tu restassi qui, fratello, finché non sarai guarito. A Gerusalemme posso andare io.

Olivier ha studiato bene le parole. Conta sulla diffidenza di Charles nei suoi confronti: il fratello conosce la sua ambizione e non vuole che approfitti dell’occasione per stabilire contatti personali che potrebbero rafforzare la sua posizione. Un tempo Charles pensava solo a scopare, ma ora che ha superato i quaranta, è diventato molto più interessato al potere.

Charles non ha motivi per sospettare che Olivier voglia allontanarlo da San Giacomo d’Afrin, adesso che Renaud è tornato. Pensa invece che Olivier voglia presentarsi a Gerusalemme come inviato da Renaud e tessere legami che potranno servirgli in futuro. Perciò interviene subito, come Olivier auspicava:

- No, se Renaud non se la sente, andrò io. Spetta a me.

Renaud risponde subito:

- Va bene, come vuoi.

Anche Renaud preferisce non lasciare troppa libertà d’azione a Olivier: è diffidente nei suoi confronti.

Olivier si finge infastidito, perché i suoi fratelli non capiscano che è esattamente quanto desiderava. Non dice più nulla, come se fosse stato offeso dall’intervento di Charles e dall’assenso di Renaud. Ma dietro la maschera di sdegno, esulta: riuscirà a liberarsi di questi due coglioni una volta per tutte.

Charles è soddisfatto e non lo nasconde. Renaud sembra quasi divertito della tensione che si è creata tra i due fratelli.

 

Il mattino dopo Charles parte presto per Gerusalemme, con una piccola scorta. Conta davvero di approfittare dell’occasione per stringere qualche legame personale con alcuni signori del regno con cui ha già avuto contatti. In un lontano passato è stato l’amante di Denis di Rougegarde, il più stimato dei nobili, quello che il re ascolta sempre. È stato un errore non coltivare quel rapporto: oggi Charles avrebbe una posizione ben diversa, se potesse contare sull’appoggio incondizionato del duca. Ma ormai sono due estranei. Charles sa bene di essere stato lui a staccarsi da Denis e non dà al duca di Rougegarde delle colpe che non ha. Rimpiange di non aver saputo prevedere il futuro.

 

 

Nel pomeriggio Olivier fa chiamare Hussein, lo schiavo che assiste suo fratello Renaud nella pulizia mattutina.

- Mio fratello mi ha incaricato di dirti che devi recarti subito alla bottega del fabbro Rouge.

Hussein si stupisce che l’ordine del barone Renaud gli venga trasmesso dal fratello, ma non ha motivo di dubitare della parola di Olivier di Soissons. Si inchina ed esce immediatamente. Raggiunge quello che era il quartiere degli ebrei, in parte ancora abbandonato, e bussa alla porta della bottega, che viene subito aperta. Dentro è buio e Hussein si sente un po’ inquieto.

- Vieni avanti. Ti manda il barone Renaud, vero?

Hussein si tranquillizza.

- Sì.

Nella penombra vede appena l’uomo che gli volta le spalle, dicendo:

- Vado subito a prendere quello che gli devi portare. Tu siediti lì. Ho chiuso tutto perché devo andare via. Aspettavo solo che arrivassi tu per poter partire.

Hussein si siede sulla panca. L’uomo ritorna con un involto pesante.

- Va’, ora, ché io devo chiudere la bottega.

Hussein fa due passi verso la porta, reggendo il peso, ma prima che l’abbia raggiunta, l’uomo gli tappa la bocca e gli taglia la gola. Hussein non riesce neppure a gridare. Il pacco cade a terra. Quando l’uomo lascia andare Hussein, anche il servitore si accascia al suolo.

Joscelin guarda il corpo e sorride. Quando il fabbro tornerà dal lavoro che lo hanno chiamato a svolgere, domani sera, si troverà un cadavere nell’ingresso. La colpa sarà data a Usama: il servitore sarà accusato di aver ucciso Hussein per prendere il suo posto.

 

Quando Joscelin gli conferma che il compito è stato eseguito, Olivier fa chiamare Usama.

- Hussein è dovuto partire. Domani mattina assisterai tu il barone Renaud nella pulizia mattutina: è martedì, per cui farà il bagno.

Usama si inchina, senza dire nulla. Olivier sa che certamente l’uomo gioisce per l’opportunità insperata che gli viene offerta, ma non lascia trapelare nulla della sua esultanza.

Usama si dirige agli appartamenti del barone Renaud. Questo incarico è un segno che Iddio potentissimo approva la sua impresa. Un uomo che si bagna è indifeso: il barone Renaud verrà ucciso esattamente come lo sceicco Labeeb.

 

Il mattino seguente Renaud è stupito di non vedere Hussein sulla porta, come ogni giorno.

- Non c’è Hussein?

- No, vi aiuto io.

Renaud aggrotta la fronte. Gli dà fastidio che un suo servitore si sia assentato senza che lui ne venisse informato.

- Come mai non c’è?

- Non lo so, signore. So solo che è uscito. Mi hanno detto di prendere il suo posto.

Renaud si dice che si occuperà dopo di questa faccenda. Questo servitore non sembra sapere niente.

- Va bene.

Il barone si spoglia ed entra nella vasca. Come qualche altro signore franco, oltremare ha preso alcune abitudini dei saraceni, tra cui quella del bagno. In estate lo fa anche una volta la settimana, in inverno molto più di rado.

Renaud lascia che Usama gli sfreghi la schiena. Quando ha finito, Usama gli versa il secchio d'acqua calda in testa. Allora il barone si alza e sale sul bordo della vasca. L'acqua gli scorre a rivoli lungo il corpo, formando piccole pozze tutt'attorno. Usama prende il grande telo e lo apre, passa dietro il barone e glielo appoggia sulle spalle. Poi, afferrando il corpo del suo padrone con la sinistra, come se volesse asciugarlo, prende con la destra il pugnale e con un movimento rapido lo immerge sopra l'ombelico. Il barone spalanca la bocca, ma non grida. Si sente solo il rumore del suo respiro affannoso e poi un gemito.

Usama tiene il pugnale ben fermo, sostenendo il corpo che cede. Il telo comincia a scivolare e Usama si ritrae leggermente per lasciarlo cadere del tutto, perché non lo ingombri nei movimenti. Poi, continuando a sostenere il corpo con il braccio sinistro, estrae il pugnale e colpisce nuovamente, al cuore.

Vede che il barone reclina la testa e sente che il corpo si affloscia. Lo sostiene con il braccio, tenendo ancora il pugnale nella ferita. Poi estrae il pugnale e lascia andare il cadavere, che cade nella vasca. Il corpo scivola sott’acqua, il viso rivolto verso l'alto, le due ferite ben visibili. Usama guarda il cadavere. Mormora:

- Tutto è semplice, quando è l’Onnipotente ad assisterci.

Usama si lava le mani e le braccia, poi esce dalla stanza e lascia il palazzo. Sa bene che la sua vita è appesa a un filo, ma il martirio non lo spaventa. Ha portato a termine la sua missione: anche questa volta Iddio lo ha assistito.

 

Olivier lascia passare un po’ di tempo, per essere sicuro che Usama possa fare quanto deve. Poi esce dalla sua stanza, fingendosi agitatissimo, e si rivolge ad alcuni soldati presenti nel cortile.

- Presto, rechiamoci negli appartamenti del barone Renaud. Mi hanno appena riferito che uno degli schiavi di mio fratello fa parte della setta degli Assassini. Temo che Renaud sia in pericolo.

Salgono di corsa le scale che portano all’appartamento del barone. Incontrano alcuni servitori, che li guardano, stupiti. Olivier continua a ripetere:

- Presto, presto!

La stanza del barone Renaud è vuota. Nel bagno adiacente il cadavere del barone giace nella vasca, dove si mescolano acqua e sangue.

- Merda!

Olivier si china sul corpo di Renaud, nascondendo la sua soddisfazione sotto una maschera di rabbia e disperazione.

- Lo ha ammazzato! Quel bastardo lo ha ammazzato! Non siamo arrivati in tempo! Bisogna trovarlo. Mio fratello deve essere vendicato!

Usama è scomparso. Olivier ha atteso troppo e l’assassino è fuggito. Non gli sarebbe spiaciuto poterlo catturare, ma la sua fuga non è un gran problema per Olivier, anche se ora smania che bisogna ritrovare l’assassino e giura che vendicherà il fratello infliggendo le torture più atroci a colui che l’ha ucciso.

La notizia fa presto il giro della città: il barone è morto, pugnalato nel bagno da un servitore, di certo un infedele.

Olivier non perde tempo: ha avuto modo di pensare a tutto e sa benissimo che cosa deve fare.

Convoca i maggiorenti della città. Di fronte a loro, dopo aver annunciato la morte del fratello, di cui tutti ormai sono a conoscenza, dice:

- Prima di morire, mio fratello Renaud, barone di San Giacomo d’Afrin, mi ha nominato tutore di suo figlio. In suo nome assumo la reggenza di San Giacomo d’Afrin.

La tutela del figlio di Renaud spetterebbe a suo fratello Charles, il secondo dei tre fratelli, e non a Olivier, che è il minore: al massimo si potrebbe istituire un consiglio di reggenza. Il preteso affidamento a Olivier lascia molti perplessi: pare che il barone Renaud fosse già morto, quando il fratello è entrato nel bagno. Anche se sospettano che Olivier stia mentendo, i notabili non hanno motivo per appoggiare uno dei fratelli invece dell’altro. E in questo momento è Olivier a essere presente e a poter dare ordini, mentre Charles è lontano. È più saggio non opporsi. Se al suo ritorno Charles avanzerà qualche pretesa, si vedrà il da farsi. Per il momento, nessuno ha obiezioni.

Olivier fa chiamare Philippe, il figlio di Renaud. Il bambino è pallido e deve aver pianto parecchio. È ancora giovanissimo ed è troppo sensibile: è del tutto inadatto a governare una città come San Giacomo d’Afrin, esposta agli attacchi dei saraceni. Ma non la governerà. Olivier lo guarda e gli dice:

- Nipote, voi siete il nuovo signore di San Giacomo d’Afrin. In base alla volontà di vostro padre, vi guiderò fino a che non sarete diventato maggiorenne.

Poi Olivier si rivolge ai notabili radunati:

- Inchinatevi di fronte al vostro nuovo signore e giurategli fedeltà.

Il responsabile del cerimoniale pronuncia la formula del giuramento. Tutti gli uomini la ripetono. Poi, uno dopo l’altro, si avvicinano a Philippe e si inchinano davanti all’erede.

Poiché Olivier è al fianco di Philippe, di fatto essi porgono omaggio a entrambi.

Qualcuno che conosce meglio il barone si pone una domanda precisa: per quanto tempo  Olivier di San Giacomo d’Afrin lascerà in vita Philippe? Almeno finché non avrà eliminato l'altro fratello, Charles, che nel caso morisse Philippe diventerebbe l’erede legittimo e non avrebbe bisogno di un reggente. E finché Philippe non cercherà di ostacolare i piani dello zio: per il momento non ha certo l’età per decidere alcunché.

Nel pomeriggio ci sono disordini in città: alcuni gruppi attaccano i saraceni. Non sono molti gli arabi in città: le dure condizioni di vita e la chiusura delle moschee li hanno spinti a partire. Ne sono rimasti pochi, a parte gli schiavi che servono nelle case dei cristiani: diversi sono anch’essi servitori, altri sono mercanti o artigiani, alcuni svolgono lavori umili.

Otto o nove musulmani vengono linciati dalla folla e i loro cadaveri vengono castrati e trascinati per le vie della città. Alcune donne vengono stuprate. Olivier lascia che la folla si sfoghi per qualche ora, poi fa riportare l’ordine in città.

 

Nel tardo pomeriggio Olivier si presenta dal vescovo Bohémond di Tours, che si trova in città. Considera il vescovo un ambizioso senza scrupoli, ma sa di aver bisogno dell’appoggio del prelato.

Bohémond di Tours è sempre stato un fedele alleato di Renaud e la morte del barone lo priva di un uomo su cui poteva contare, ma sa che gli conviene non destare l’ostilità di Olivier: per il momento è lui a comandare a San Giacomo d’Afrin.

Il loro dialogo è breve: Olivier esprime il suo dolore per la morte del fratello, il suo grande rispetto per il vescovo e il desiderio di poter contare sulla guida e l’appoggio di quello che considera un vero fratello maggiore. Sanno entrambi benissimo che sono solo parole, ma a tutti e due conviene avere l’altro come alleato e non come nemico.

Dopo che Olivier se n’è andato, Bohémond si siede alla scrivania e riflette. Olivier è ambizioso come Renaud e certamente anche lui vorrebbe impadronirsi di Rougegarde. Non può aspirare a diventare il signore di San Giacomo, finché saranno vivi il fratello e i due nipoti: il figlio di Renaud e quello di Charles. Olivier è un alleato più debole di Renaud, ma questo rende Bohémond più forte.

Bohémond vuole uscire dal vicolo cieco in cui si trova. Dopo tutti questi anni, Bohémond è ancora solo il vescovo di San Giacomo d’Afrin, un piccolo centro, che si è impoverito nel tempo, e di Rougegarde, la perla della Terrasanta, ricca e fiorente, ma piena di musulmani, ebrei, eretici che circolano liberamente e dove l’autorità di Bohémond è debole. Quando, quattro anni fa, re Amalrico è morto, Bohémond ha sperato che la posizione di Denis d’Aguilard si indebolisse, ma non è stato così. Il duca rimane il campione dei franchi in Terrasanta e il giovane re Baldovino IV ha in lui la stessa cieca fiducia che aveva il padre: d’altronde è stato Denis a guidare alla vittoria contro il Saladino le truppe cristiane. La posizione del duca è saldissima. Solo la morte potrebbe cambiare la situazione.

 

Ci sono molte incombenze da sbrigare e Olivier è occupatissimo. Non perde di vista il nipote, con la scusa di guidarlo in questo momento difficile. Solo nella serata del secondo giorno si rende conto di non aver più visto la cognata, Jeanne, e i suoi due figli. La fa chiamare da un servitore, ma l’uomo ritorna e gli dice:

- La baronessa non c’è. Ieri pomeriggio si è recata nella villa di campagna di Vieilleseaux.

Sul viso di Olivier compare una smorfia. Non gli piace che Jeanne si sia allontanata, vorrebbe saperla a palazzo, per tenerla sotto controllo. Non teme niente da parte sua: la considera troppo stupida per tentare qualche cosa, ma il figlio Jacques è al terzo posto nella successione, dopo il piccolo Philippe e Charles. Davanti a Olivier.

Olivier non può certo impedire alla cognata di muoversi liberamente, ma il giorno seguente le manda un messaggio, chiedendole di ritornare perché il giovane Philippe sente la sua mancanza: in effetti il giovane è affezionato alla zia, l’unica figura femminile che si è presa cura di lui, al di fuori della servitù.

Il servitore ritorna in serata dicendo che la baronessa non è alla villa: i servitori non la vedono da diverse settimane.

Olivier non capisce. Anche se non considera Jeanne un problema di per sé, la faccenda gli dà molto fastidio. Non sa dove possa essere andata e perché. Ha deciso di raggiungere Charles a Gerusalemme? Olivier ne dubita. I rapporti tra Charles e sua moglie non sono buoni. Sarebbe più esatto dire che non ci sono rapporti, di nessun genere. Conducono vite del tutto separate. Solo qualche giorno dopo Olivier scopre che Jeanne ha raggiunto Rougegarde ed è ospite del duca. È una pessima notizia, perché Olivier non può certo forzare Denis a rimandare indietro Jeanne. Ma in ogni caso la baronessa dovrà tornare a San Giacomo per il funerale che dovrebbe svolgersi al ritorno di Charles da Gerusalemme.

 

Georges, il messaggero inviato da Olivier, raggiunge Charles nella capitale del regno. Nella lettera Olivier gli comunica che Renaud è stato ucciso da uno schiavo musulmano e lo invita a tornare al più presto a San Giacomo d’Afrin per concordare il da farsi e per la cerimonia funebre in onore del fratello.

Charles è furibondo: si trova ad alcuni giorni di viaggio da San Giacomo d’Afrin proprio ora che la sua presenza sarebbe necessaria in città. Olivier ha di certo approfittato della situazione per prendere di fatto il potere in nome del nipote.

Charles interroga Georges.

- Mio fratello mi comunica che il barone Renaud è stato ucciso. Si sa qualche cosa sul suo assassino?

- Uno schiavo musulmano. Ma è riuscito a fuggire. Non si sa chi l’abbia mandato, ma dicono che siano stati gli ismailiti, quelli del castello di Jibrin.

- Ci sono altre novità?

- Ci sono stati disordini in città. Ma il barone Olivier li ha fatti reprimere. Il giorno dopo tutto era tranquillo.

- Quando è stato ucciso mio fratello?

- Martedì mattina.

- E quando sei partito tu?

Georges non ha motivo per mentire: a parte il fatto che Charles è in grado di calcolare i tempi necessari per andare da San Giacomo a Gerusalemme, se le cose andranno come previsto, qualsiasi cosa Georges possa dire, non cambierà nulla; se invece Charles dovesse arrivare a San Giacomo, scoprirà la verità.

- Quando il barone Olivier mi ha dato l’incarico, mercoledì pomeriggio.

Charles non dice niente: Olivier ha lasciato passare un giorno e mezzo prima di avvertirlo, quel bastardo!

- Come sta mio nipote?

- È molto provato. Mi dicono che quando i notabili gli hanno giurato fedeltà piangeva.

- C’è stata una cerimonia di giuramento?

- Sì, quando il barone Olivier ha assunto la reggenza.

Charles digrigna i denti: suo fratello reggente, un titolo che sarebbe spettato a lui! Merda!

- Cosa? Chi l’ha nominato reggente?

Georges coglie la rabbia che Charles controlla a fatica. Se l’aspettava. Dà la versione ufficiale degli avvenimenti:

- Il barone Renaud prima di morire ha nominato il barone Olivier reggente per il figlio.

Charles annuisce. Esclude che le cose siano andate così, ma indagherà a San Giacomo d’Afrin. Ora è necessario che rientri.

- Va bene. Rientrerai con me. Intendo partire oggi stesso.

- Certo.

Charles prende congedo dal re e dalla corte. Nessuno si stupisce della sua rapida partenza: la morte del fratello rende necessaria la sua presenza a San Giacomo d’Afrin. D’altronde la sua assenza non ha nessun rilievo: i signori di San Giacomo, per quanto possano tessere intrighi e cercare alleanze, contano davvero poco nei giochi di potere che occupano la corte. Un sorriso del duca di Rougegarde vale mille inchini dei baroni di San Giacomo.

 

Charles è impaziente di raggiungere la città. Sceglie la via più breve, che passa attraverso il Jabal al-Qisfah, un massiccio montuoso segnato da valli profonde e pareti scoscese. È un’area molto vicina ai domini saraceni e talvolta vi fanno incursioni briganti, ma Charles viaggia con sei uomini, a cui si aggiunge Georges, per cui non teme di essere attaccato. I briganti a volta assalgono le carovane, ma Charles e i suoi uomini sono guerrieri, non mercanti, e non hanno con sé merci: non sono una preda ambita.

Percorrono un orrido che permette di attraversare rapidamente l’area. Il passaggio è disagevole, per cui gli uomini procedono lentamente. Per sicurezza, controllano che non ci siano banditi in agguato in cima alle pareti, ma non sembrano esserci problemi. A sera raggiungono il punto in cui la gola si apre sulla valle principale. La notte ormai si avvicina, per cui decidono di fermarsi lungo il fianco della montagna, tra alcune rocce.

Montano un accampamento di fortuna, per non perdere tempo: Charles ha fretta di arrivare a destinazione. Un uomo rimane di sentinella. Gli altri si coricano.

La luna è già sorta: una luna quasi piena, che illumina gli uomini addormentati. Tutto sembra tranquillo. La sentinella veglia. Non vede l’uomo che si appresta a balzare su di lui da una roccia che lo sovrasta. Si sente spingere a terra, mentre una mano gli tappa la bocca. Poi un dolore violento al collo gli dice che la sua vita è finita.

Una dozzina di ombre si avvicinano ai corpi stesi a terra. Uno dei soldati si sveglia e fa in tempo a gridare, prima che una spada lo trafigga. Il grido sveglia Charles, che si tira a sedere di scatto. Alla luce della luna vede alcuni uomini armati che stanno facendo strage dei soldati.

Charles si alza, afferra la spada e scatta di corsa in direzione opposta: ha capito che i suoi uomini sono morti o stanno morendo e non vuole subire la stessa sorte. Davanti a lui appare Georges. È armato. Coprirà la sua fuga.

- Cerca di fermarli. Ci vogliono amma...

Charles non termina la frase: Georges gli ha infilato la spada nel ventre, con tanta forza che è uscita dalla schiena. Charles lascia cadere la sua arma, che è divenuta troppo pesante.

Quando Georges ritira la spada, Charles cade in ginocchio. Georges lo afferra per i capelli.

- No, no. Non uccidermi. No…

Georges gli taglia la gola, poi lascia la presa e Charles crolla a terra, in un lago di sangue.

Georges torna indietro. Controlla che gli uomini che accompagnavano Charles siano tutti morti. Gli altri sicari prendono tutto ciò che ha qualche valore, compresi gli abiti. Georges dà loro il compenso pattuito.

 

In mattinata Georges raggiunge il villaggio più vicino. Racconta che il barone Charles e i suoi uomini sono stati assaliti da briganti saraceni nella notte. Georges dice di essersi salvato solo perché dormiva un po’ discosto e quei bastardi non si sono accorti di lui: ha sentito le grida, ma ormai era troppo tardi per intervenire. Non ha potuto fare niente per proteggere il barone. Georges li ha sentiti parlare e può dire con sicurezza che erano saraceni; avanza il dubbio che questi briganti possano essere stati mandati dagli stessi che hanno fatto uccidere il barone Renaud.

Georges conduce gli uomini del villaggio, armati di bastoni e tridenti, al luogo dell’agguato. Ci sono i cadaveri di Charles e dei soldati che lo accompagnavano, spogliati dei loro abiti. I bagagli sono scomparsi.

I cadaveri vengono portati al villaggio. I soldati sono sepolti nelle vicinanze, mentre la salma del barone, avvolta in un telo, viene trasportata a San Giacomo per la sepoltura.

La notizia dell’agguato arriva a San Giacomo la sera stessa, portata da Georges.

Olivier manda immediatamente un messaggio a Jeanne e al duca di Rougegarde. Organizza i funerali in modo che Jeanne abbia il tempo di arrivare: lei e i figli dovranno tornare per la cerimonia funebre. E di sicuro non ripartiranno: Olivier dirà che per la loro sicurezza è necessario che rimangano a San Giacomo d’Afrin, per essere al sicuro dalle insidie dei saraceni. Vuole averli sotto controllo.

La carovana che trasporta il corpo del barone Charles arriva il giorno seguente. In città gli uomini di Olivier hanno diffuso la voce che sono stati banditi saraceni a uccidere Charles, probabilmente per ordine del signore del castello di Jibrin: quegli infami che hanno ucciso il barone Renaud, hanno teso un agguato anche al fratello. I signori di San Giacomo d’Afrin, avamposto della vera fede, sono sotto attacco. I saraceni vogliono riprendersi la città.

 

I funerali solenni di Renaud e di Charles si svolgono nella cattedrale di San Giacomo d’Afrin. Teli neri a lutto coprono le pareti.

Jeanne è tornata: di certo non poteva esimersi. L’ha accompagnata il duca Denis e con lui è giunto anche Ferdinando dell’Arram, entrambi con una scorta numerosa, per rendere omaggio al signore di San Giacomo e al fratello. Nella scorta di Ferdinando c’è anche un nero, che suscita la curiosità della gente.

Olivier scopre che Jacques e la sorella Christine non sono venuti. È sbalordito e furente. Si rivolge alla cognata:

- Non vedo Christine e Jacques. Non capisco. Non sono venuti con voi, a rendere l’ultimo omaggio al loro padre?

Denis risponde al posto di Jeanne:

- Ho sconsigliato io a vostra cognata di portarli: gli ismailiti hanno ucciso già il barone Renaud e poi il loro padre. Se la loro intenzione è sterminare i signori di San Giacomo d’Afrin, è meglio che per il momento rimangano a Rougegarde, dove sono al sicuro.

Olivier cerca di nascondere la sua rabbia. Risponde:

- Pensate che qui a San Giacomo non sarebbero al sicuro? Vi garantisco che intendo prendere tutte le misure per proteggerli.

- Sono certo che fareste tutto il possibile per proteggerli, ma il barone Renaud è stato ucciso proprio a palazzo, nel suo appartamento. A Rougegarde nessuno è mai entrato nel palazzo ducale senza la mia autorizzazione.

Olivier risponde, questa volta lasciando trapelare la sua irritazione per quella che appare una mancanza di fiducia:

- Come preferite. 

Olivier non si aspettava questo colpo. Era certo che Jeanne sarebbe tornata con i figli e a quel punto, con la scusa della sicurezza, Olivier le avrebbe impedito di ripartire. Adesso non può certo costringerla a rimanere, visto che i figli sono a Rougegarde. Il duca non glielo permetterebbe e in ogni caso non servirebbe a niente: l’erede, se Philippe dovesse morire, è Jacques, non Jeanne. E se la cognata dovesse morire, Denis si farebbe assegnare la tutela di Jacques: il re sicuramente gliela concederebbe. Sarebbe ancora peggio. Merda!

Tutti i notabili della città sono riuniti nella cattedrale. Al centro della navata troneggiano le due bare.

Il vescovo Bohémond fa un lungo discorso, esaltando l’amore fraterno che univa Renaud, Charles e Olivier. Quest’ultimo come un buon padre guiderà i passi del giovane Philippe fino a che questi sarà in grado di governare da solo. Maledice i saraceni, che non hanno osato affrontare in battaglia i valenti guerrieri,  baluardi della Cristianità, ma li hanno uccisi a tradimento. Invita la cittadinanza a stringersi intorno al barone Olivier e ai figli dei due baroni morti.

Sono in molti a sapere che le parole di Bohémond sono solo fumo negli occhi, a partire dal vescovo stesso. Bohémond non sa chi abbia ucciso Charles, ma sospetta che Olivier non sia estraneo a questo agguato. Lo pensano anche altri e interpretano correttamente l’assenza dei due figli di Charles come una conferma dei loro sospetti: la vedova di Charles ha preferito non correre rischi e lasciarli a Rougegarde, dove sono sotto la protezione del duca, lui sì davvero baluardo della cristianità, non certo come il barone Renaud, che non è neanche andato a combattere contro il Saladino, o quel finocchio del fratello. Ma tutti si guardano dall’esprimere il loro pensiero, mostrando un dolore che non provano. Né Renaud, né Charles, né Olivier hanno mai saputo conquistare l’affetto dei loro sudditi.

 

Al termine della cerimonia, Denis chiede a Olivier di parlargli. È un invito a cui il barone non può certo sottrarsi.

La conversazione è molto lunga. Denis fa il punto della situazione e si informa sulle intenzioni di Olivier nei confronti dei saraceni. Olivier non capisce il senso di questo colloquio, che poco aggiunge a ciò che entrambi sanno benissimo.

Al termine del dialogo Denis dice:

- So che veglierete su vostro nipote Philippe con la massima cura, accompagnandolo nella sua crescita. Io farò lo stesso con il giovane Jacques, che, nel caso malaugurato in cui dovesse morire Philippe, diventerà l’erede. Ma io spero che Philippe viva a lungo e possa governare questa città come suo padre prima di lui.

Il discorso di Denis è chiaro: Jacques rimarrà a Rougegarde, sotto la tutela del duca, e nel caso Philippe dovesse morire, Jacques otterrà la signoria di San Giacomo e Olivier perderà ogni potere. Se quel giorno Jacques avesse ancora bisogno di un tutore, sarebbe sicuramente Denis di Rougegarde. Non era necessario tenerlo tutto questo tempo per dirgli qualche cosa che Olivier aveva già intuito. Il tono del duca sembra cordiale, ma l’avviso è chiaro: Olivier deve fare attenzione a ciò che fa: Philippe non deve morire.

Solo più tardi, quando scopre che Jeanne è rimasta a lungo con Philippe, a Olivier viene il sospetto che il colloquio con il duca mirasse soprattutto ad allontanarlo dal nipote, per permettere alla cognata di parlargli senza che lui fosse presente.

Il giorno dopo Denis, Ferdinando e Jeanne lasciano la città, di cui ormai Olivier è il padrone. Finché Philippe si lascerà dirigere, nessuno metterà in discussione il suo potere.

Olivier non è soddisfatto, per niente. Per il momento può comandare in nome del nipote, ma la protezione accordata da Denis a Jacques rende molto difficile passare da reggente a signore della città. L’eliminazione di Charles è stata un’ottima cosa, perché nessuno mette in discussione il suo ruolo di reggente, ma a questo punto diventa essenziale che Philippe viva. Altrimenti Denis metterà le mani anche su San Giacomo, attraverso il giovane Jacques. Olivier scuote la testa. Jacques è in realtà suo figlio, anche se Jeanne non lo sa, ma per Olivier è un perfetto estraneo e un ostacolo sulla strada per il potere.

 

A Rougegarde la baronessa Jeanne vive con i figli nel palazzo ducale. C’è un gruppo di soldati che si occupa esclusivamente di proteggere lei, Jacques e Christine. Li comanda Manrique, un ufficiale che è solo da alcuni mesi al servizio del duca, ma che è molto esperto. Il duca sembra avere grande fiducia in lui.

Manrique dà lezioni a Jacques nell’uso delle armi e tra i due si crea un buon rapporto. Jacques ha tredici anni e ha avuto poche occasioni di confrontarsi con uomini che non fossero servitori: Charles, l’uomo che considerava suo padre, si è sempre completamente disinteressato di lui e lo stesso vale per i due zii, Renaud e Olivier. Jacques è affascinato da questo guerriero, coraggioso e fiero, che gli dedica tempo e lo ascolta. In lui Jacques ha piena fiducia e più volte pensa che gli sarebbe piaciuto avere Manrique come padre. Con il trascorrere del tempo, riesce ad aprirsi sempre di più con lui e gli pone domande su quegli argomenti di cui preferisce non parlare con la madre.

Jeanne ha modo di parlare tutti i giorni con questo ufficiale, che è un uomo forte e cortese: discutono di Jacques, del suo addestramento militare e dei problemi che a volte sorgono. Tra di loro si crea un buon rapporto e Jeanne si trova a esprimere le sue preoccupazioni per il futuro.

- Il duca dice che queste terre torneranno presto nelle mani dei saraceni.

- Difficilmente il duca si sbaglia. Conosce bene la situazione. Credo che solo la sua presenza abbia impedito fino a ora che Rougegarde venisse riconquistata.

Per entrambi ciò che dice Denis di Rougegarde è una verità che non ha senso mettere in discussione.

- Non mi preoccupo che Jacques non possa diventare barone di San Giacomo. Spero che mio nipote viva a lungo. Mi spaventa che l’idea che la vita di mio figlio sia minacciata. E anche quella di mio nipote. Sono molto affezionata a lui e mi spiace non vederlo più.

- Ma avete ritenuto più prudente trasferirvi a Rougegarde.

Jeanne ha fiducia in Manrique e gli dice sinceramente ciò che finora non ha raccontato a nessuno:

- Non mi fido di mio cognato Olivier: è un uomo molto ambizioso e Jacques, in quanto erede di San Giacomo, nel caso Philippe dovesse morire, è un ostacolo alle sue aspirazioni.

- Lo è anche vostro nipote Philippe. Il principale ostacolo, perché una volta divenuto maggiorenne sarà il signore della città.

- Sì, certo…

Jeanne esita un momento, ma è contenta di confidarsi e ha fiducia in Manrique, per cui prosegue:

- …non credo che Olivier farà nulla contro Philippe, perché Jacques è qui a Rougegarde. Ma se fossimo rimasti a San Giacomo, non so quanto sarebbero vissuti Jacques e Philippe.

- A questo punto? Pensate che vostro cognato…

Un dubbio attraversa la mente di Manrique. Chiede:

- E… la morte di vostro marito e del fratello? Anche loro…?

- Mio cognato Renaud è stato ucciso dagli ismailiti. Non credo che Olivier abbia svolto qualche ruolo. Di mio marito… non so… ma Olivier mandò un messo a chiamarlo e durante la strada del ritorno venne ucciso. L’unico a salvarsi fu proprio il messo. Forse sono solo fantasie, ma… Scusatemi, non avrei dovuto parlare. Vi prego di non riferire a nessuno quanto vi ho detto. So che il duca condivide i miei dubbi, ma altri non devono sapere.

Manrique si inchina leggermente.

- Di certo non tradirò la fiducia che avete riposto in me.

Manrique è affascinato da questa donna, ancora giovane, di cui apprezza l’intelligenza e la sensibilità. E Jeanne non è insensibile al fascino di questo guerriero coraggioso e leale.

 

 

Il successo di Usama ha rinfrancato Ramzi: può presentarsi a Sinan senza timore. Prima di partire dà comunque istruzioni precise, in modo da non correre rischi nel caso lo sceicco mandi nuovamente i suoi uomini: in effetti al momento di partire i due hanno accennato a questa possibilità.

Sinan non fa attendere a lungo Ramzi: questo gli sembra un buon segno.

Ramzi riferisce sullo svolgimento della missione. Racconta che Usama è stato chiamato ad assistere il barone durante il bagno e ha così potuto ucciderlo: l’occasione si è presentata assai prima del previsto. Di certo è stata la volontà divina.

Sinan annuisce, poi chiede:

- Che mi dici della morte del fratello del barone?

Ramzi allarga le braccia.

- Non ne so nulla, sceicco. Tu mi avevi ordinato di uccidere Renaud e ho obbedito: Usama ha spento la sua vita, poi è riuscito a tornare al castello, Iddio lo ha protetto. Non so chi possa aver teso un agguato al fratello del barone. Dicono che fossero arabi, ma non c’è nessuna certezza.

- Va bene. Hai svolto la missione che ti è stata affidata.

- Iddio lo ha permesso.

Sinan annuisce.

- Manderò nuovamente da te due uomini, per verificare che tutti gli errori siano stati emendati.

Ramzi si finge contento.

- È davvero un grande onore. Ti ringrazio di questo, sceicco. La tua sollecitudine nel guidarci nella retta via è un segno della tua bontà. Grazie.

- I tuoi uomini dovranno obbedire ciecamente ai loro ordini.

- Sarà così, sceicco.

Ramzi torna con i due uomini al castello: non sono però quelli che sono già venuti in precedenza. Questa volta Ramzi non si ferma per strada, se non al sopraggiungere della notte: sa che tutto è sotto controllo a Qasr al-Hashim.

Nei primi giorni i due inviati controllano i diversi momenti della vita quotidiana e fanno alcune osservazioni, ma nell’insieme la vita nel castello sembra svolgersi secondo le regole comuni a tutti gli ismailiti: d’altronde ciò che è stato criticato dai primi inviati è stato corretto.

I due però hanno maggiori pretese di controllo. Richiedono che tutte le porte interne non vengano sbarrate, nemmeno quella che divide la parte più interna del castello dalla parte esterna. Entrano a qualsiasi ora del giorno e della notte nelle stanze, controllando ciò che avviene. E richiedono obbedienza assoluta. Molte loro richieste sembrano non avere altro motivo che verificare la disponibilità degli uomini a obbedire ciecamente. Così un giorno, quando ormai il pranzo è stato preparato, impongono come penitenza il digiuno a tutti, esclusi i bambini e i malati. Un altro giorno, mentre un gruppo di guerrieri si prepara a partire, chiamano tutti a una preghiera straordinaria, che rimanda la partenza di un’ora. Una notte pretendono che la porta del castello venga aperta: poiché i soldati di guardia sono restii a farlo, Ramzi viene chiamato. I due uomini appaiono molto irritati: non accettano che qualcuno metta in discussione i loro ordini. Esigono che Ramzi faccia fustigare i soldati di guardia.

Ramzi obbedisce. Altre volte i due si fanno aprire la porta di notte. Di solito uno dei due esce, l’altro rimane dentro. Quello che esce ritorna dopo poco tempo. Ramzi pensa che sia solo un modo per controllare l’obbedienza dei soldati.

Se non vengono contrariati, non pongono problemi, ma è fastidioso vederli spuntare a qualsiasi ora del giorno o della notte. Ramzi ha dovuto rinunciare a scopare con uno dei ragazzini: il rischio è troppo forte. Se li è visti più volte piombare in camera nel cuore della notte. Sembrano non dormire mai. Probabilmente riposano soprattutto durante il giorno, a turno.

Tutti aspettano impazienti il momento in cui i due se ne andranno.

 

Tre uomini sono arrivati a Jabal al-Jadid: dal loro abbigliamento li si direbbe mercanti. Uno di loro si presenta a palazzo e chiede di parlare con Qais o Mahdi. Si rifiuta di spiegare il motivo della sua richiesta, ma dice di conoscere entrambi da tempo e che basterà riferire il suo nome: Morqos. Un soldato va ad avvisare i due ufficiali.

Qais e Mahdi si ricordano benissimo di Morqos, che ha insegnato loro i primi rudimenti della lingua dei franchi quando erano a Rougegarde. Qais esce per accoglierlo.

- Morqos! Sono contento di vederti.

- Anch’io sono contento di vederti, Qais. Ho bisogno di parlarti, da solo.

Qais non riesce a immaginare il motivo per cui Morqos è venuto a Jabal al-Jadid.

- Vieni dentro, che parliamo con calma.

Morqos entra con Qais. Non appena sono in una stanzetta senza testimoni, spiega:

- Qais, non sono solo. Con me ci sono due persone. Uno di questi è il duca di Rougegarde… o di al-Hamra, se preferisci.

Qais è sbalordito.

- Il duca di Rougegarde, qui, in incognito? Ma…

- Deve parlare con l’emiro. È una faccenda maledettamente importante, per lui come per l’emiro. E nessuno deve saperlo. Assolutamente nessuno.

Qais scuote la testa.

- Quell’uomo è incredibile. Avviso immediatamente l’emiro.

- Che nessun altro sappia, Qais.

- Sta’ tranquillo.

Qais raggiunge ‘Izz: è uno dei pochi che possono accedere all’emiro senza particolari controlli.

- Emiro, scusami, ma ho bisogno di parlarti da solo.

‘Izz è stupito della richiesta, ma in Qais ha piena fiducia, per cui congeda i servitori presenti.

- Dimmi, Qais.

- Il duca di al-Hamra è qui.

- Cosa? Il duca Denis?

- È giunto con Morqos, che tu certo ricordi, e con un altro uomo. Ha bisogno di parlarti, ma nessuno deve saperlo.

- Che cosa vuole? Lo sai?

- No, ho parlato solo con Morqos.

- Me lo dirà lui. Digli che può venire quando vuole. Lo aspetto.

Qais raggiunge Morqos e gli dice di andare a prendere il duca. Morqos ritorna con i suoi compagni di viaggio e Qais li accoglie.

- Duca, sono felice di rivederti. Ti dobbiamo la vita e non ce lo siamo dimenticati.

Denis sorride.

- Sono venuto per sventare un’altra minaccia che grava sull’emiro e su di me.

- L’emiro mi ha dato ordine di accompagnarti subito da lui. Verranno anche i tuoi compagni a parlargli?

- No, per il momento soltanto io.

- Seguimi, duca.

- L’emiro è solo?

- Sì. Ha allontanato tutti.

Qais accompagna Denis dall’emiro. ‘Izz lo saluta nella lingua dei franchi e poi gli si rivolge in arabo:

- Sei un uomo imprudente, duca. Vieni senza scorta in territorio nemico.

- Sono venuto in amicizia e so che posso fidarmi di te, emiro.

- Di me certamente: guai, se non fossi leale nei tuoi confronti. Non dimentico che mi hai accolto e protetto quando ero solo un ragazzo perseguitato, in fuga dai suoi assassini. Ma, dimmi, perché ti sei spinto fin tra i tuoi nemici?

- Perché abbiamo un nemico comune, di cui è ora che ci sbarazziamo, emiro.

- Un nemico comune? Ma… aspetta… la sorpresa del tuo arrivo mi ha fatto dimenticare i più elementari doveri di ospitalità. Che vergogna! Prima che proseguiamo, accetterai che io ti offra da bere e da mangiare: non sia mai detto che l’emiro di Jabal al-Jadid non è ospitale nei confronti del più valoroso dei signori franchi, a cui lo lega un profondo debito di riconoscenza.

Denis non rifiuta: sa che non accettando, offenderebbe ‘Izz.

- Grazie. Ma che nessuno dei servitori mi veda.

‘Izz fa preparare bevande e dolci in una stanza, poi congeda i servitori e invita Denis ad accomodarsi sui tappeti, davanti ai vassoi.

Dopo aver mangiato alcuni pasticcini e aver bevuto, Denis chiede:

- Posso parlarti, ora, emiro?

- Certamente.

- So che gli Hashishiyya di Qasr al-Hashim hanno tentato di ucciderti più volte.

- Sì, è così. I miei uomini devono esercitare una sorveglianza continua per sventare la minaccia.

- Hanno provato a uccidere anche me, ma hanno fallito.

‘Izz è stupito.

- Anche te? Di solito non colpiscono i cristiani. Sono grato ad Allah per aver preservato un uomo giusto e generoso.

- Credo che sia ora di mettere fine a questa minaccia.

- E come?

- Ora ti spiegherò.

 

Mentre il duca e l’emiro sono a colloquio, Qais ha fatto portare un rinfresco per Morqos e l’uomo che lo accompagna. Si è alquanto stupito quando ha riconosciuto nel secondo ospite l’orafo a cui l’emiro commissiona i gioielli più pregiati. Non associava certo questo eccellente artigiano a questioni politiche importanti, ma non dice nulla.

Si siede con loro.

- Morqos, non ti chiedo nulla della presenza del duca qui, anche se devo dire che sono curioso.

- Non posso dirti nulla, non per cattiva volontà, ma perché io stesso non ne so nulla. Credo che invece Solomon sappia benissimo i motivi di questa visita, ma dubito che sia disposto a soddisfare la nostra curiosità.

Solomon sorride.

- Posso dirvi che, se tutto va come previsto, la vostra curiosità sarà soddisfatta tra qualche giorno. Fino ad allora, devo tenere la bocca chiusa. È una faccenda troppo delicata. Non possiamo permetterci il minimo errore.

Qais chiede notizie delle persone che conosce a Rougegarde. Morqos le chiede di Feisal e Mahdi.

- Stanno bene. Posso chiamarli entrambi. Saranno contenti di vederti.

Morqos risponde subito:

- No, è meglio di no. Deciderà l’emiro a chi parlare della nostra visita.

Stanno chiacchierando quando uno degli uomini di guardia viene a chiamare Solomon: l’emiro vuole parlargli. Solomon segue la guardia.

Morqos si rivolge a Qais:

- Come vedi, Solomon è molto ben informato.

- E noi due ci teniamo la nostra curiosità.

Ridono.

 

Sono passati diversi giorni. Le truppe del duca d'Aguilard hanno raggiunto la valle dell’Arram e ora risalgono lungo il Nahr. La spedizione si dirige verso i territori dell'emiro di Jabal al-Jadid, per fronteggiarne l’avanzata: alcuni giorni fa l’esercito di ‘Izz ibn Ashraf si è mosso dalla capitale e si è diretto verso i domini del conte Ferdinando.

Per motivi sconosciuti, i rapporti tra l'emiro e i nobili franchi paiono essere improvvisamente peggiorati e, dopo alcuni anni di convivenza pacifica, i signori vicini sembrano intenzionati ad affrontarsi.

Tra gli uomini di ‘Izz, nessuno sa bene che cosa abbia spinto l’emiro a muoversi con l’esercito. Molti pensano che voglia attaccare Qasr Basir, che i franchi chiamano castello San Michele: un forte che il duca di Rougegarde conquistò in passato e che venne dato ai templari. Qasr Basir è nei domini del conte Ferdinando, ma se l’emiro ha pensato che il duca Denis non sarebbe intervenuto a difesa del suo alleato, ha davvero commesso un errore colossale: era ovvio che il duca non potesse tollerare un attacco ai confini settentrionali del suo dominio, in un’area di importanza strategica. E infatti il duca è subito giunto in soccorso del conte Ferdinando e insieme marciano verso Qasr Basir. 

Qualcuno insinua che l'emiro voglia impossessarsi della stessa Rougegarde, ma questa sarebbe pura follia: il duca ha di recente sconfitto un grande esercito guidato dal Saladino in persona e l’emiro di Jabal al-Jadid non ha certo le forze per affrontare il più potente dei signori cristiani. Ma ‘Izz ibn Ashraf è giovane e forse sottovaluta il suo avversario.

Ora i due eserciti si muovono nella valle del Nahr, che in parte rientra nei territori dell’emiro, in parte è sotto il controllo del conte Ferdinando. Lo scontro appare vicino.

Tra i soldati nessuno conosce le intenzioni dei comandanti. Gli uomini del duca non sono preoccupati: il loro signore non ha mai commesso errori e li ha sempre portati alla vittoria, anche contro truppe numericamente molto superiori. Gli uomini dell’emiro sono inquieti. Molti ripetono le voci terribili che circolano sul duca, che dicono alleato delle potenze infernali. Proprio tra i monti che ora percorrono, il duca ha annientato l’immenso esercito del Circasso, quasi senza combattere. Li conforta la presenza del comandante Barbath, in cui hanno tutti una fiducia totale.

 

I due eserciti sono giunti in vista uno dell’altro e sistemano i loro accampamenti su due colline che si fronteggiano.

Il giorno successivo non succede nulla. C’è molta tensione nei due campi, soprattutto in quello dell’emiro. In serata il comandante Barbath seleziona un centinaio di uomini e tiene loro un discorso. Anche Denis e Ferdinando hanno selezionato cento uomini e parlano loro.

Appena scende la notte, dai due accampamenti si muovono numerosi cavalieri e fanti. Le due schiere risalgono lungo la valle del fiume, poi, dopo due ore di avanzata silenziosa, raggiungono la confluenza con un affluente e procedono affiancate. Avanzano senza parlare: ora tutti sanno qual è la loro meta e sono ansiosi di raggiungerla.

 

A Qasr al-Hashim tutti dormono, a parte le sentinelle. I due inviati di Sinan scendono dalla loro stanza, nella parte più interna del forte, e ingiungono di aprire il portone del castello. È già la quinta volta che succede. Le guardie sanno che devono obbedire, se non vogliono assaggiare la frusta. Eseguono l’ordine, nascondendo appena il loro fastidio per questi due coglioni che si fanno aprire la porta solo per verificare l’obbedienza dei soldati.

 

Ramzi si è addormentato da tempo, quando è svegliato da voci concitate. C’è agitazione nel castello. Eppure dev’essere notte fonda: dalla finestra non entra nessuna luce. Qualcuno sta urlando. Ramzi non capisce. Si infila i pantaloni e la tunica, per uscire e andare a vedere che cosa succede. In quel momento però la porta della camera si spalanca e fanno irruzione alcuni soldati. Ramzi non si è nemmeno armato: ha pensato a qualche litigio nel forte, magari a un principio di incendio, non certo a un attacco e men che mai che il nemico potesse essere già giunto nella parte più interna del forte.

I soldati hanno rapidamente ragione di lui. Gli legano le mani dietro la schiena e lo forzano ad uscire, a scendere le scale e a passare nel cortile esterno. Qui Ramzi stupefatto vede molti soldati franchi, che insieme a guerrieri arabi sorvegliano i suoi uomini, inginocchiati a terra con le mani legate dietro la schiena. Vi sono anche alcuni cadaveri: quelli di coloro che hanno cercato di resistere. Ramzi è costretto a inginocchiarsi.

Nel cortile vengono man mano radunati tutti gli uomini del forte. Dagli spalti vengono gettati i cadaveri degli ultimi difensori. Anche Usama compare, legato. È nudo, come molti degli uomini di Ramzi, sorpresi nel sonno.

Ramzi non capisce. Come è stato possibile? Sapeva che i soldati dell’emiro e quelli del duca erano nella valle del Nahr, ma tutti pensavano che volessero affrontarsi. E invece hanno attaccato il castello! Insieme! E le sentinelle non hanno dato l’allarme. Come è possibile? Sono stati sorpresi nel sonno?!

La risposta gli viene osservando vicino alla porta i due inviati dello sceicco Sinan. Non sono legati, loro, non sono in ginocchio. Guardano soddisfatti i prigionieri che vengono portati nel cortile. Sinan li ha mandati per questo, per spalancare le porte del castello agli uomini dell’emiro ‘Izz e del duca Denis! Per questo si sono fatti aprire altre volte le porte, non per verificare l’obbedienza di Ramzi e dei suoi uomini: volevano farle aprire anche la notte dell’attacco, per far entrare gli assalitori. Sinan ha scoperto la verità: le vite degli ismailiti di Qasr al-Hashim sono giunte alla fine.

Ora tutti gli uomini di Ramzi sono nel cortile, i vivi in ginocchio, i morti stesi a terra. In un angolo ci sono le donne e i pochi bambini che vivevano nel castello. I ragazzi sono stati messi insieme agli uomini e ne subiranno la sorte. Ramzi sa benissimo che li attende la morte. Qasr al-Hashim è nei territori dell'emiro, per cui spetta a lui decidere il destino dei prigionieri.  Lo sceicco Sinan ha di certo decretato la morte per tutti loro. E ‘Izz eseguirà, vendicandosi dei tentativi di ucciderlo e dando soddisfazione al capo assoluto degli ismailiti di Siria, da cui non avrà più niente da temere. Ma come è possibile che il duca Denis sia stato coinvolto in tutto questo? Di certo è intervenuto perché Ramzi ha cercato di farlo uccidere, ma un accordo tra lui e l’emiro gli sembra impossibile.

Gli uomini del castello vengono condotti fuori, a quattro per volta. Alcuni soldati dell’emiro rientrano ogni volta per prendere altri quattro maschi e portarli nello spiazzo antistante al castello. Ramzi sa bene che cosa succede e quando, dopo che il cortile è stato svuotato, viene condotto anche lui fuori, insieme a Usama, a Muhyi e ad altri tre ufficiali, non si stupisce di vedere la spianata trasformata in un lago di sangue. I corpi decapitati di tutti gli uomini e i ragazzi del castello giacciono a terra. I soldati stanno montando dei pali, in cima ai quali vengono infilzate le teste.

Ramzi vorrebbe subire la stessa sorte, ma sa che la fine che lo attende non sarà così rapida.

Intanto le donne e i bambini del castello sono stati raggruppati e vengono condotti via. Sanno che verranno venduti come schiavi. Molti piangono e gridano vedono i corpi dei soldati, tra cui ci sono i loro padri o mariti o fratelli.

Come stabilito, Ramzi e i quattro ufficiali verranno portati a Jabal al-Jadid, per essere giustiziati; Usama invece, in quanto assassino del barone di San Giacomo d'Afrin, sarà condotto a Rougegarde, per subire la stessa sorte.

I due inviati di Sinan si avvicinano a ‘Izz.

- Emiro, sappiamo che provvederai tu a giustiziare Ramzi.

- Sì, è così.

- Ti ricordiamo quanto ha ordinato lo sceicco. Quest’uomo ha peccato gravemente.

A ‘Izz il tono di comando dà fastidio, ma non lo lascia vedere, per non irritare gli uomini di Sinan. Annuisce e risponde:

- Sarà fatto. Potete assicurare allo sceicco che Ramzi verrà punito come merita.

I due uomini annuiscono, poi salgono a cavallo e si allontanano.

Il castello viene saccheggiato: i cavalli e gli asini presenti nelle scuderie vengono portati fuori e tutti gli oggetti che hanno qualche valore vengono ammucchiati, per essere poi caricati sui cavalli. Vesti e suppellettili saranno distribuite tra gli uomini come bottino.

Il saccheggio si è concluso e il carico è stato messo sui cavalli. ‘Izz sta parlando con Denis del bottino, che andrà diviso. Si prepara a far distruggere il castello, quando un soldato lo avvisa che Jaffar, uno dei quattro ufficiali presi prigionieri, chiede di parlargli. L’emiro dà ordine di portare da lui questo Jaffar.

L’uomo si inginocchia e dice:

- Emiro, il mio nome è Jaffar. So che siamo stati risparmiati solo perché ci attende un supplizio peggiore.

‘Izz lo guarda:

- Morirete sulla croce, questa è la sorte che vi aspetta, Jaffar.

- Lo sospettavo. Emiro, io posso svelarti qualche cosa di molto prezioso. Non ti chiedo in cambio di avere salva la vita, perché so che non me lo concederesti, ma di darmi una morte rapida.

- Che cosa puoi svelarmi?

- Se ciò che ti dirò è davvero di valore, mi darai la morte che hanno avuto gli altri guerrieri?

- Va bene, Jaffar, ma deciderò io se la tua rivelazione vale quello che chiedi.

- Lo vale. Posso dirti dove Ramzi ha nascosto il suo tesoro.

- C’è un tesoro?

- Un tesoro immenso.

‘Izz è diffidente e guarda Denis. Questi dice:

- So che Ramzi si faceva pagare molto per gli omicidi che compiva. Credo anch’io che debba avere un tesoro, ma non so se quest’uomo dica la verità.

Jaffar guarda Denis:

- Non mento, duca.

L’emiro dice:

- Va bene, se davvero ci mostrerai dove si trova il tesoro, ti sarà risparmiato il supplizio sulla croce, ma non avrai salva la vita.

Jaffar guida ‘Izz, Denis e quattro soldati alla camera di Ramzi. Qui spiega come aprire un passaggio segreto, facendo pressione su una pietra e tirando contemporaneamente una sbarra di ferro. Quando un soldato esegue, nel muro si apre un passaggio: è un breve corridoio, che termina con una porta chiusa a chiave.

- Non so dove Ramzi tenesse la chiave, ma oltre questa porta, c’è il tesoro.

La camera di Ramzi è stata spogliata di tutti gli oggetti che vi erano. Due soldati frugano tra ciò che è stato preso e in una cassetta trovano una chiave: dev’essere quella della porta.

Quando la chiave scatta nella serratura e la luce delle lanterne illumina la stanza, agli occhi di Denis, ‘Izz e dei soldati appare una grande quantità di casse di ogni forma e dimensione. Al loro interno c’è un vero e proprio tesoro, che Ramzi ha accumulato nel corso degli anni: oro, gioielli, pietre preziose, monete. Denis e ‘Izz sono stupiti di trovare tanta ricchezza.

Tutto viene portato fuori e caricato sui cavalli. Alcuni degli oggetti che già erano stati messi in groppa agli asini e ai cavalli devono essere scaricati, per far posto al tesoro.

‘Izz si rivolge a Jaffar:

- Hai mantenuto la tua parola, Jaffar: avrai la morte che chiedi.

- Grazie, emiro.

L’emiro chiama due soldati. Jaffar si inginocchia. Un colpo di spada gli tronca la testa.

Poi ‘Izz si rivolge a Denis, riprendendo il discorso che stavano facendo quando Jaffar li ha interrotti:

- Abbiamo conquistato questo castello insieme e il bottino andrà diviso.

Ciò che dice ‘Izz rientra negli usi di guerra. Denis preferisce lasciare a ‘Izz la libertà di effettuare la divisione come crede, per cui risponde:

- Il castello è nel territorio dell’emiro, spetta a lui decidere.

‘Izz sorride.

- L’emiro ringrazia il duca che gli lascia piena libertà e ne approfitta per fare ciò che ritiene giusto. La sua decisione è questa: il duca Denis di al-Hamra avrà un terzo del bottino: utilizzandone solo una piccola parte, il duca potrà dare una ricompensa molto generosa ai suoi uomini e farà del resto l’uso che crede. Io prenderò un altro terzo e anche i miei soldati saranno contenti di quanto riceveranno senza quasi aver combattuto.

Denis è un po’ stupito. Che intende fare ‘Izz dell’altro terzo? Pensa di destinarlo a Sinan, per garantirsi di non essere più minacciato dagli ismailiti? ‘Izz risponde alla domanda inespressa:

- Duca, mi hai detto che l’oro con cui venne pagato Ramzi proveniva dagli ebrei di Afrin e so che è stato Solomon a parlare con Sinan e a permetterci di sconfiggere i nostri nemici comuni.

- Sì, esatto.

- Da’ a lui il terzo del bottino. Saprà farne l’uso giusto.

- È una grande quantità di oro e denaro.

- È quanto si è meritato, forse più di noi.

Denis annuisce. È contento che ‘Izz abbia destinato un terzo del bottino a Solomon. Sa bene che Solomon ne distribuirà una parte agli ebrei scampati al massacro di San Giacomo. 

I soldati hanno finito di issare i pali e di infilzare le teste. Il castello è stato svuotato di tutto ciò che conteneva di valore e ora ‘Izz dà ordine di incendiarlo. Poiché è in pietra, le fiamme  non lo distruggeranno, provocando solo il crollo di alcune parti.

- Non intendi tenere una guarnigione qui?

- No. Sai che è un posto maledetto: tutte le guarnigioni sono state sterminate, credenti e infedeli allo stesso modo. Nessuno ci verrebbe volentieri. Rimarrà un terreno abbandonato.

L’incendio fa crollare una parte del recinto esterno e distrugge le scuderie e qualche edificio interno del primo cortile. L’ingresso però rimane bloccato dalle pietre cadute: nessuno potrà entrare negli edifici ancora intatti.

 

Le truppe si mettono in marcia. I soldati percorrono tutti la stessa strada, ma non si mescolano: gli uomini di ‘Izz precedono quelli del duca di Rougegarde, poiché sono nel territorio dell’emiro.

Gli uomini dell’emiro sono euforici: hanno conquistato il castello senza perdere neanche un uomo; hanno trovato un bottino enorme, di cui certamente beneficeranno anche loro; hanno eliminato una minaccia che gravava sull’emiro e sul comandante Barbath.

Quando passano in una gola dove nella notte si erano mossi silenziosamente, uno dei soldati lancia un grido: sa che c’è un’eco molto particolare. E infatti le pareti rimandano il suono più volte, come se a gridare non fosse stato un solo uomo, ma tanti. Allora anche atri soldati lanciano grida e per un momento sembra che ci siano migliaia di uomini che gridano nella gola.

Quando escono dallo stretto passaggio, Ferdinando si avvicina a Denis.

- Denis, ho visto che Usama è nostro prigioniero. Che vuoi fare di lui?

- Lo consegnerò a Olivier, perché provveda a farlo giustiziare.

- Porcoddio! A quello stronzo?

- Ha ucciso Renaud, va giustiziato a San Giacomo.

- Dallo a me. Faccio una bella caccia. Credo che vada meglio anche per lui.

Denis è perplesso. Sa bene che Olivier farà torturare a lungo Usama e che la fine dell’ismailita sarà terribile, mentre Ferdinando gli darà una morte più rapida, ma Usama ha ucciso il barone di San Giacomo e sarebbe sensato che venisse giustiziato nella città.

Ferdinando insiste:

- Dai. A Olivier mandiamo la testa, come lo sceicco ha fatto con i due che volevano ucciderti.

- Si potrebbe fare. Ma…

Ferdinando non lo lascia finire:

- Grazie, Denis, sei un amico.

Denis si dice che non c’è davvero motivo per dire di no a Ferdinando.

Ferdinando si stacca dal contingente cristiano e sprona il cavallo fino a raggiungere Barbath. Il conte non ha più avuto modo di parlare con il comandante dell’esercito di Jabal al-Jadid dal giorno in cui venne organizzata la finta caccia all’uomo in cui Barbath era la preda. Sono passati circa dieci anni.

I soldati arabi guardano con stupore il conte che si avvicina al loro comandante, ma non dicono nulla.

- Sono contento di rivederti, Barbath.

Barbath guarda Ferdinando. Non dice nulla. Ferdinando desta in lui ricordi che preferirebbe cancellare: la schiavitù sotto Kazbech il Circasso, gli infiniti stupri subiti e poi, non meno disturbante, il momento in cui quest’uomo che ora gli parla lo ha preso, facendolo godere. La prima volta che ha goduto mentre un maschio, un nemico, lo inculava. Barbath si è poi offerto a Feisal alcune volte, ma da tempo ha smesso, perché si è accorto che quando sentiva il cazzo del suo uomo entrargli in culo, il pensiero andava a Ferdinando.

Il conte prosegue:

- L’ultima volta che ci vedemmo, mi promettesti che se mi avessi ucciso in battaglia mi avresti castrato. E se mi avessi catturato, mi avresti castrato prima di uccidermi.

Ferdinando ride.

Barbath ricorda benissimo la promessa che fece. In questi anni non si sono mai affrontati direttamente e non hanno avuto modo di mantenere – o violare – le loro promesse.

Barbath dice:

- La mia promessa è ancora valida.

Lo è, davvero. Barbath vorrebbe cancellare quest’uomo e l’attrazione, puramente fisica, che prova per lui.

Di nuovo Ferdinando ride.

- Va bene. Anche la mia, se te la ricordi.

Barbath annuisce. Ferdinando non l’aveva esplicitata, ma il senso era chiaro: se lo avesse catturato, lo avrebbe nuovamente preso.

Barbath tace. Che cosa vuole questo infedele?

Come rispondendo alla domanda inespressa, Ferdinando dice:

- Con Usama conto di organizzare una bella caccia all’uomo, in cui lui farà da preda. Vuoi partecipare?

Barbath è spiazzato: non si aspettava questo invito. Arabi e franchi non fraternizzano, soprattutto non è pensabile che il comandante dell’esercito dell’emiro partecipi a una caccia con un conte cristiano, anche se in questo caso cristiani e musulmani hanno collaborato per catturare la preda.

- L’emiro non lo permetterebbe mai.

- Tu dici? Vediamo.

Ferdinando sprona il cavallo e raggiunge l’emiro, che cavalca poco oltre. I soldati vicino a lui lo guardano perplessi, ma non hanno motivo per sbarrargli il passo.

- Emiro, ti chiedo l’autorizzazione di invitare il comandante Barbath alla caccia all’uomo in cui troverà la morte Usama.

‘Izz è alquanto stupito della richiesta. Ma non ha nulla da obiettare.

- Se il comandante lo desidera, può farlo.

- Grazie, emiro.

Ferdinando ferma il cavallo e attende che Barbath sia di nuovo al suo fianco.

- L’emiro ha detto che va bene.

Barbath è perplesso. Ferdinando prosegue:

- Puoi venire con noi. Dal confine in un giorno arriviamo al castello, il giorno dopo facciamo la caccia e poi puoi tornare a Jabal al-Jadid.

Barbath annuisce. Avrebbe dovuto dire di no subito, ormai non ha più senso. L’emiro ha dato il suo assenso. Non gli spiace partecipare alla caccia a Usama. Nei confronti degli Hashishiyya prova un odio profondo: da anni cercano di uccidere ‘Izz, da quando l’emiro era ancora un ragazzino e non poteva certo avere nessuna colpa. Per tutto questo tempo i suoi uomini hanno dovuto esercitare una sorveglianza continua, per evitare che ‘Izz venisse assassinato. Sì, uccidere quel bastardo sarà un piacere. E di certo quel porco di Ferdinando fotterà Usama prima di ucciderlo. Anche assistere sarà un piacere: l’idea di vedere Usama stuprato gli piace. E magari stuprarlo lui stesso. Tutto sommato è una buona idea. L’unico pensiero che lo disturba è la presenza di Ferdinando, ma ormai è fatta.

- Va bene, faremo così.

Ferdinando ritorna accanto a Adham, che gli chiede:

- Come mai sei andato tra gli uomini dell’emiro?

- Ho invitato il comandante Barbath a partecipare alla caccia che faremo domani con Usama.

Adham sa di queste cacce, anche se non vi ha mai assistito, perché negli ultimi mesi non è stato condannato a morte nessun uomo nella valle dell’Arram.

- Quindi Usama farà da preda.

- Sì, Denis me lo ha concesso. E noi faremo da cacciatori, con Barbath.

- Ma perché lo hai invitato?

- Ci conosciamo, è stato nostro prigioniero. Sarebbe dovuto morire anche lui in una caccia, ma… riuscì a fuggire e a salvarsi.

Ferdinando è stato sul punto di raccontare la verità, ma è meglio che nessun altro la conosca: facendo fuggire Barbath, Ferdinando e Denis disobbedirono a un ordine del re.

Adham lo guarda un po’ dubbioso: deve sospettare qualche cosa.

- Aveva combinato qualche cosa? O non era in grado di pagare il riscatto?

- No, niente di tutto questo.

- Allora perché uccidere un prigioniero di guerra?

- È un guerriero valoroso, lo chiamano il Flagello. Il re aveva ordinato di ucciderlo perché non venisse liberato e non ce lo trovassimo di nuovo di fronte.

- Il Flagello? Dev’essere davvero valoroso. Ma escludo che il duca sia disposto a uccidere un prigioniero solo perché è valoroso.

Ferdinando ride. Non replica alle parole di Adham, ma devia il discorso:

- Lo chiamano anche in un altro modo.

- E cioè?

- Tre coglioni.

- Davvero? Per indicare che è molto forte?

Ferdinando scuote la testa.

- No, ne ha proprio tre.

Adham non sembra convinto:

- Non mi pigli per il culo?

- No te lo garantisco.

- E come lo sai?

- Prima della caccia, gusto sempre il culo del condannato. Barbath è un vero maschio ed è stata una delle migliori scopate della mia vita.

- Con tre coglioni… Sono curioso di vedere questa meraviglia. Fotterà anche lui il prigioniero?

- Credo proprio di sì. Odia tutti questi maledetti assassini.

- Ottimo. Così avrò occasione di vederlo anch’io.

 

 

Al momento di separarsi, il bottino viene diviso. Per l’oro e i gioielli non viene fatto un inventario di tutto, che richiederebbe molto tempo. Le casse vengono aperte per verificarne rapidamente il contenuto, poi ‘Izz ne assegna alcune a Denis, altre a Solomon e altre le tiene per sé. Le parti di Denis e Solomon sono probabilmente più generose: ‘Izz non vuole certo apparire avido di fronte al duca. La quantità di ricchezze è comunque tale che tutti possono dirsi pienamente soddisfatti del bottino.

Poi le truppe di ‘Izz si dirigono verso Jabal al-Jadid, mentre quelle di Denis prendono la strada della residenza del conte Ferdinando. Barbath si è unito a loro, insieme a quattro soldati. Gli uomini del duca e del conte non sono stupiti: hanno compiuto un’azione comune e non è strano che il comandante delle truppe dell’emiro venga con loro. Pensano che voglia assistere all’esecuzione di Usama, per verificare che quel bastardo muoia una volta per tutte.

Barbath chiede a Ferdinando qualche dettaglio su come si è giunti all’accordo tra l’emiro e il duca, ma Ferdinando ne sa poco:

- Non so come sia andata la faccenda. Denis ha scoperto che il barone di San Giacomo d’Afrin aveva pagato Ramzi perché ci ammazzasse, me e lui.

- Pagato? Il barone di Afrin? E perché mai?

- Credo che volesse impadronirsi di Rougegarde.

- Ma hanno cercato di uccidervi perché li hanno pagati?

- Sì, sono sicari. Si fanno pagare per uccidere.

- Ma allora, anche con l’emiro… hanno cercato di ucciderlo perché qualcuno li aveva pagati? Figli di puttana!

- Penso proprio di sì. E in ogni caso sono davvero dei figli di puttana.

In realtà solo il primo tentativo di uccidere ‘Izz era nato da una richiesta del Circasso, che aveva effettivamente pagato. Le ultime due volte l’ordine di sopprimere ‘Izz era partito da Sinan stesso e dipendeva dal gioco di alleanze in Siria. Ma Ferdinando pensa davvero che, come nel caso di Denis e nel suo, la decisione sia stata presa perché qualcuno aveva pagato.

Barbath è furente.

- Sono contento che tu mi abbia invitato alla caccia. Fotterai questo bastardo, prima della caccia, vero?

- Certo, come sempre.

- Lo voglio fottere anch’io, questo pezzo di merda.

- Ma certo, ti ho invitato per questo.

 

Anche  soldati del conte Ferdinando sanno che l’esecuzione avverrà sotto forma di una caccia, in cui Usama farà da preda. Tra gli uomini del duca, molti hanno sentito parlare di queste cacce in cui si compie il destino dei condannati a morte. Un rito selvaggio, ma in fondo non più sanguinoso di altre forme di esecuzione capitale e meno doloroso e umiliante per il condannato rispetto allo squartamento o alla crocifissione praticata dai saraceni.

Denis decide di fermarsi per un giorno: vuole essere sicuro che la caccia a Usama si concluda con la morte dell’ismailita. Manda una parte dei soldati a Rougegarde, con il bottino, e ne trattiene solo una quarantina.

 

La caccia viene organizzata per il giorno dopo. Barbath deve tornare a Jabal al-Jadid e comunque non è il caso di rimandare l’esecuzione.

La sera nella cella Usama prega in ginocchio. Ha le mani legate dietro la schiena e non ha potuto compiere le abluzioni rituali, ma non dipende dalla sua volontà.

La porta della cella si apre. Entrano Ferdinando, Barbath e un nero che Usama non conosce, ma che ha visto durante il viaggio da Qasr al-Hashim ad Arram.

Il conte dice, sorridendo:

- Bene, Usama, domani sarai la preda di una caccia in cui noi saremo i cacciatori: invece di andare in giro ad assassinare gente disarmata, ti troverai ad affrontare uomini armati che ti danno la caccia.

Usama non dice nulla. Questa è la morte che lo aspetta? Non lo spaventa di certo. L’Onnipotente lo accoglierà tra i giusti, perché ha svolto il suo dovere di buon musulmano. Il martirio è il premio della sua fedeltà.

Ferdinando però prosegue:

- Adesso però, prima della caccia, i cacciatori si divertono un po’ con la preda.

Usama si chiede se intendano torturarlo. La risposta alla domanda inespressa gli viene dallo spogliarsi dei tre uomini e dalle parole del conte:

- Non so se te lo sei mai preso in culo, ma adesso avrai modo di provare.

Ferdinando ride. Usama arretra e dice, quasi grida:

- No, no!

Usama non è mai stato posseduto. È vissuto in castità, consacrandosi a Dio, dal tempo in cui ha abbracciato l’insegnamento di Sinan. Prima della conversione aveva talvolta peccato con donne, come tanti altri maschi. Ma mai con un uomo. Ciò che questi infedeli vogliono fargli è abominio.

Usama cerca di opporsi, ma ha le mani legate dietro la schiena e i tre guerrieri sono uomini vigorosi, che hanno facilmente ragione di lui. Usama si ritrova con il torace appoggiato sul giaciglio. Barbath e Adham lo tengono fermo, schiacciandogli il capo e le spalle contro il pagliericcio, mentre dietro di lui Ferdinando gli ha poggiato le mani sul culo e gli divarica le natiche. 

Usama si dibatte, maledice Ferdinando e i suoi complici.

- E piantala, stronzo, ché tanto non serve a niente!

Ferdinando sputa sull’apertura, si inumidisce il cazzo, appoggia la cappella contro il buco e lo forza, spingendo con decisione.

Usama ha la sensazione che sia la lama di una spada quella che gli dilania le viscere. Per un attimo il dolore lo acceca ed è più forte di tutto.

Ferdinando fotte con forza, godendosi questo culo caldo e sodo. Gli piace l’idea di essere il primo a fotterlo ed è contento di umiliare questo assassino. Procede a lungo, stringendo con le dita il culo di Usama.

Quando ha finito, si ritira.

- A te, Barbath. Spero che non ti dispiaccia, Adham, ma adesso che ho aperto la strada, il secondo è giusto che sia il nostro ospite.

Adham ride.

- Non mi dispiace e sono curioso di vederlo all’opera. Sai, Barbath, Ferdinando mi ha detto che sei un magnifico stallone.

Ferdinando prende il posto di Barbath, per tenere fermo Usama, ma l’ismailita non reagisce più. Barbath è eccitato: vedere Ferdinando fottere il prigioniero gli ha trasmesso sensazioni fortissime. Penetra Usama con violenza, contento di fargli male: prova un odio profondo per quest’uomo, un assassino che non affronta gli altri lealmente, ma li uccide quando sono indifesi. Questo bastardo è uno di quelli che hanno minacciato la sua vita e quella dell’emiro, per anni. Hanno agito per denaro. Non meritano nessuna pietà.

Barbath non può sapere che Usama ha sempre colpito per ubbidienza al fratello, credendo di eseguire la volontà di Sinan, il capo degli ismailiti. Forse, se lo sapesse, il suo odio non sarebbe così forte.

A Barbath non basta fottere e umiliare questo assassino. Afferra i coglioni di Usama e incomincia a stringere. Sente tendersi l’uomo che sta fottendo.

- Hai quello che ti meriti, bastardo.

Il coglione destro cede. Usama lancia un urlo.

Ferdinando e Adham si guardano. Ferdinando si chiede se intervenire, ma tutto sommato non c’è motivo per farlo. Capisce la furia di Barbath nei confronti di quest’uomo, che in fondo ha solo quello che si merita. Alza le spalle. Al nero non piace l’idea che a un prigioniero vengano spaccati i coglioni, ma è un assassino, che uccideva a tradimento le vittime: non è il caso di preoccuparsi della sua sorte.

Quando cede anche il coglione sinistro, Usama perde i sensi. Lo sveglia il piscio di Barbath, che gli scende in faccia: il comandante ha finito e ora che tocca al nero, vuole che Usama sia cosciente dell’ulteriore umiliazione.

Anche quando Adham lo prende, Usama non oppone più resistenza. Sprofonda in un abisso di dolore e vergogna, che lo inghiotte.

Adham non è meno dotato di Barbath e l’ingresso moltiplica il dolore al culo, ma la sofferenza dei coglioni spaccati sovrasta ogni altra sensazione.

Adham fotte a lungo, con energia. Guarda Ferdinando e vede che al conte sta tornando duro. Ride. Continua a spingere, finché non viene.

Adham si stacca. Usama rimane a terra. Dal culo colano sborro e sangue: la penetrazione violenta ha provocato diverse lacerazioni. Usama ha sempre desiderato versare il suo sangue: il martirio lo attrae, le torture non lo spaventano. Ma non aveva mai immaginato di dover subire uno stupro.

Quando i tre escono, Usama singhiozza. L’umiliazione non è meno forte del dolore che sale dal culo e dai coglioni stritolati. Usama si sente indegno.

Ferdinando è allegro. Gli è piaciuto fottere questo assassino, che era vergine. E certamente non è sazio, tutt’altro: vedere Adham e Barbath fottere il bastardo lo ha nuovamente eccitato. Quando ha invitato Barbath, lo ha fatto nella speranza di rinnovare la conoscenza.

I tre si rivestono, poi Ferdinando guida Barbath e Adham nella sua camera.

- Ti è piaciuto fottere quel bastardo, Barbath?

- Puoi dirlo. Mi è piaciuto fotterlo e ancora di più sono contento di avergli spaccato i coglioni.

Ferdinando ride e osserva:

- Per spaccarli a te, uno dovrebbe avere tre mani.

Barbath scuote la testa, senza rispondere. Ferdinando riprende:

- Bene, ci siamo divertiti, ma io non sono sazio. Barbath, ci tieni compagnia mentre ci divertiamo tra di noi?

Barbath vorrebbe dire di no. Non vuole lasciarsi possedere ancora, non da quest’uomo, da questo fottuto porco. Sa che una parte di lui lo desidera, ma proprio per questo non lo vuole.

Pensa che Ferdinando gli si è anche offerto, quando lo ha preso. Barbath lo fotterebbe volentieri. Gli piacerebbe anche inculare il nero, che è un gran bel maschio. Si dice che li fotterà senza offrirsi loro. In fondo sa di ingannarsi, ma sceglie di ignorare i suoi dubbi.

- Perché no? Ma la mia promessa rimane sempre valida.

- Va bene, va bene. Questa però non è una battaglia. E tu non ci spaccare i coglioni, per favore.

Ferdinando si spoglia. Adham e Barbath lo imitano. Ferdinando sale sul grande letto, dove dorme con Adham ogni notte. Adham si mette al suo fianco. Il conte tende la mano a Barbath, che li raggiunge.

C’è un gioco di carezze, mani che afferrano, dita che si infilano, bocche che avvolgono, denti che mordono, lingue che leccano. Il desiderio si accende e i corpi si stringono. Dopo che hanno lavorato un po’ con la lingua, Ferdinando scende dal letto e si appoggia sul lenzuolo con il petto, divaricando un po’ le gambe. È quanto Barbath desiderava. Si mette dietro di lui, gli stringe il culo con forza, avvicina la cappella al buco e spinge, forzando l’apertura. Ferdinando sussulta. Barbath sa di essere stato un po’ brutale, anche se ha cercato di controllarsi.

È bello fottere questo porco, spingere il cazzo bene in fondo a questo grosso culo coperto da una peluria scura, come se fosse una spada che entra in culo a Ferdinando.

Adham passa dietro di lui e ora Barbath sente sul culo la pressione delle mani del nero, che gli divaricano le natiche. Cazzo! Che cosa intende fare?

La risposta arriva subito, quando qualche cosa di caldo e rigido si infila tra le natiche di Barbath e poi fin dentro il culo. Barbath è stato posseduto moltissime volte dal Circasso e poi si è offerto a Feisal: per quanto da tempo non si faccia più inculare, sente che l’apertura cede facilmente e il cazzo vigoroso del nero gli trasmette sensazioni piacevoli, anche se non scevre da dolore. Non si aspettava di essere preso, non lo voleva, ma non gli dispiace, soprattutto perché a farlo è Adham e non Ferdinando. Soprattutto perché è lui a fottere Ferdinando.

Adham ha spinto fino in fondo, poi arretra leggermente e si ferma. Barbath inizia a muovere il culo: in avanti, spingendo il cazzo fino in fondo nel culo di Ferdinando e sfuggendo quasi completamente all’arma di Adham; all’indietro, quasi lasciando il calore del culo di Ferdinando e impalandosi sul cazzo del nero.

Non ha mai fatto niente del genere e gli piace, molto. Le sensazioni che salgono dal suo cazzo e dal suo culo sono forti. Barbath si muove a un ritmo regolare, assaporando questa doppia scopata. Sta fottendo e viene fottuto.

Quando il piacere ormai sta per esplodere, Barbath accelera il ritmo e viene nel culo di Ferdinando, poi si abbandona su di lui. È Adham ora ad accelerare il ritmo e infine a versargli il seme in culo.

Rimangono un buon momento così, poi Adham si stacca e anche Barbath si alza. I due sono sazi: sono venuti due volte in un’ora. Ma Ferdinando ha il cazzo duro e non è ancora venuto.

Il conte guarda Barbath, sorridendo. Barbath scuote la testa. Non vuole, non vuole. Non Ferdinando, non questo porco infedele. Non vuole farsi prendere da lui.

- Eddai, Barbath, che ti costa? Adham ha aperto la strada. Porcoddio! Vuoi lasciarmi così, col cazzo duro? Se mi catturi in battaglia, mi castri, allora tanto vale, no?

Barbath scuote ancora la testa, ma il suo corpo cede a un desiderio che lo travolge. Non dovrebbe farlo, è una follia, ma mentre lo pensa già scivola al posto di Ferdinando.

- Sei un amico, Barbath.

Ferdinando entra con cautela e poi incomincia la sua cavalcata. Le sensazioni di Barbath sono un misto di piacere e dolore. Desidera quanto sta avvenendo, con tutto il suo corpo, e nello stesso tempo la sua mente vorrebbe che non avvenisse. La cavalcata è lunga e infine vengono entrambi. Per Barbath è un piacere violentissimo, come forse non ha mai provato nella sua vita. Un piacere che ha a lungo atteso: gli sembra di aver aspettato per anni questo momento. Ora però che ha goduto è esausto e vorrebbe solo cancellarsi. Non avrebbe dovuto farlo. Ma ha goduto. Questo porco lo ha fatto godere.

I tre si stendono sul letto e si abbandonano al sonno.

 

Il giorno seguente si svolge la caccia. Si è alzato un vento forte, a raffiche, e le nuvole temporalesche che coprono il cielo, soprattutto a occidente, si avvicinano. All’orizzonte si vedono lampi e sui monti di certo già piove.

Denis ha richiesto che venissero prese delle misure speciali, per avere la sicurezza che Usama non riesca a sfuggire. Perciò in alcuni punti strategici sono stati dislocati soldati a cavallo, in modo che al fuggiasco sia di fatto impossibile lasciare il bosco in cui si svolgerà la caccia.

In realtà appare subito chiaro che la caccia sarà molto breve e che il prigioniero non riuscirà ad andare molto lontano: Usama si muove a fatica, perché nella notte la sacca dello scroto si è gonfiata e ha assunto una tinta bluastra. Non è in grado di correre e neppure di camminare velocemente. D’altronde Usama stesso desidera solo finire. Ucciderebbe volentieri coloro che lo cacciano, per vendicarsi dell’’umiliazione che gli è stata inflitta, ma sa che non riuscirà a farlo, nelle condizioni in cui si trova.

Quando lo liberano, inizia a camminare, ma si ferma ben presto: muoversi è troppo doloroso. Mentre è fermo, la pioggia incomincia a scendere. Prima poche gocce, che presto diventano un diluvio. Usama si siede sul tronco di un albero abbattuto, senza curarsi dell’acqua che scroscia. Guarda il coltello che gli hanno dato. Digrigna i denti. Se potesse davvero lottare, ucciderebbe almeno il conte Ferdinando, che per primo lo ha stuprato! Il boato di un tuono lo fa sussultare. Altri fulmini si susseguono. Le nuvole hanno coperto il cielo, compatte, e sembra che sia notte, una notte che solo i lampi squarciano. La pioggia scende violenta, obliqua, a raffiche,

Sente il latrato dei cani e li vede arrivare. Si alza. I cani gli sono intorno e ringhiano. Ecco arrivare i cavalieri, i suoi tre stupratori. Hanno lance, spade e pugnali, questi maledetti.

Ferdinando scende per primo da cavallo. Non prende la lancia, ma si avvicina a Usama con la spada. Barbath e Adham lo seguono.

Ora sono intorno a Usama, che li minaccia con il coltello. Si muove a fatica, ma, ignorando il dolore violento, si lancia contro Ferdinando. Adham lo intercetta e lo colpisce, immergendogli la spada nel ventre. La spinge con forza e la punta emerge dalla schiena. Usama barcolla. Lascia cadere il pugnale. Adham estrae la spada. Usama cade in ginocchio, le mani sulla ferita.

Adham alza la spada per decapitarlo, ma Barbath gli dice:

- Aspetta.

Barbath molla un violento calcio in faccia a Usama, che cade all’indietro: il sangue schizza dal naso e dalla bocca, ma la pioggia violenta lo lava via. Poi il comandante si china e afferra il cazzo e lo scroto dell’ismailita in una mano. Usama grida: il solo contatto è intollerabile, la stretta quasi lo fa svenire. Con il coltello Barbath recide i genitali e li getta ai cani che latrano vicini.

Usama emette un lamento prolungato, interrotto da singhiozzi.

Barbath si rivolge a Ferdinando:

- Permettimi di finirlo.

Ferdinando annuisce:

- Va bene, Barbath.

Barbath prende la spada, volta Usama sulla pancia e gli infila la spada in culo. Usama grida. Barbath spinge la lama dentro, fino all’elsa, poi l’estrae.

Usama geme, poi il sangue gli esce dalla bocca e il corpo rimane immobile, sotto il muro d’acqua che cala dal cielo, tra il fragore dei tuoni e la luce accecante dei lampi.

- Possano crepare così tutti gli Hashishiyya.

- Porcoddio, Barbath! Certo che ce l’avevi proprio con lui.

- Era un infame assassino.

- Va bene così, ha avuto quello che si meritava, questo pezzo di merda. La testa ci serve.

Ferdinando si china e con il coltello taglia la testa di Usama. Poi fischia ai cani, che si lanciano sul corpo del morto e incominciano a divorarlo.

Adham chiede:

- Perché la testa serve?

- La manderemo a Olivier, il fratello del barone Renaud, che Usama ha ucciso.

Sono sporchi di sangue, ma la pioggia li sta pulendo rapidamente. Si spogliano e si lavano con l’acqua che scende dal cielo. Ora sono tutti e tre nudi, sotto il diluvio. Si guardano. Ferdinando e Adham ridono, Barbath no. Presto hanno il cazzo duro. Sul tronco d’albero dov’era seduto Usama Ferdinando prende Adham e Barbath incula il conte: lo fa con violenza, per cancellare il ricordo del giorno prima, di quando ha ceduto al desiderio. Poi lasciano che la pioggia li pulisca nuovamente e si rivestono.

Ferdinando è un po’ deluso dalla caccia, ma soddisfatto di aver di nuovo scopato con Barbath. Adham è perplesso: la ferocia del comandante dell’emiro lo ha sorpreso. Mentre risalgono a cavallo, si rivolge a lui:

- Lo odiavi davvero.

- Sì, li odio tutti. Per anni abbiamo dovuto difenderci da questi bastardi. Hanno cercato di uccidere l’emiro tre volte. E una volta anche me. E quando ho saputo che agivano per soldi…

 

Barbath riparte in tarda mattinata. Saluta il conte dicendo:

- Ferdinando, ricordati che la mia promessa è sempre valida. Prima o poi ci troveremo davanti in battaglia e allora… finirai come Usama.

Ferdinando ride, anche se Barbath non sta scherzando.

- Cercherò di non farmi catturare vivo.

- È meglio per te.

Anche Denis parte subito dopo la caccia e ritorna a Rougegarde. È impaziente di ritrovare Solomon. Ha ritenuto preferibile che non partecipasse alla spedizione, ma la separazione gli è pesata moltissimo. Ci sono momenti in cui l’intensità di ciò che prova lo sgomenta: nessuno ha mai avuto su di lui il potere di Solomon. A trentacinque anni l’amore è arrivato inatteso e forse per questo con una forza che Denis non si aspettava.

Quando ormai sono in vista della città, Denis ferma il cavallo e la guarda. È splendida, Rougegarde, di una bellezza che nessun’altra città della Terrasanta ha. E adesso, al pensiero che tra quelle case in pietra rossiccia lo attende Solomon, Denis prova un senso di benessere. Mai come ora Rougegarde è davvero la sua casa, il suo mondo.

Appena arrivato a palazzo, Denis manda Pierre ad avvisare Solomon. Vorrebbe chiedergli di venire immediatamente, ma frena la sua impazienza di rivederlo e a Pierre dice soltanto:

- Digli che venga da me quando può.

Scoprire che poco dopo Solomon è già alla porta, è una gioia intensa. Solomon aspettava di essere chiamato, perché in città ieri sono arrivati i soldati e si attendeva il ritorno del duca. Anche lui è impaziente di rivedere Denis, che avrebbe voluto accompagnare.

Denis lo guarda entrare e per un momento gli sembra incredibile che Solomon lo ami, lo desideri.

Denis muove verso di lui e si abbracciano. Rimangono avvinghiati, felici di stringere l’uno il corpo dell’altro, di essersi ritrovati. La spedizione è durata pochi giorni, ma ad entrambi è sembrato un tempo lunghissimo.

Solomon prende la testa di Denis tra le mani e lo bacia, un bacio che diventa ardente. Sa già che l’impresa ha avuto successo: in città non si parla d’altro. Vorrebbe chiedere dettagli, ma non ora. Adesso desidera solo questa stretta. Tutto il resto passa in secondo piano. Per il resto c’è tempo dopo. Non è il desiderio fisico, non solo quello.

Ma l’abbraccio accende i loro corpi ed è Solomon a proporre:

- Andiamo in camera.

Denis annuisce. Non ha avuto il tempo di lavarsi, deve ancora occuparsi di mille cose, ma tutto il resto può aspettare. Avvisa i servitori di non disturbare e raggiunge la camera da letto.

Appena sono dentro, Solomon lo abbraccia da dietro, gli poggia la testa sulla spalla, gli bacia il collo, poi si stacca, lo volta e incomincia a spogliarlo.

Denis ride davanti all’impazienza di Solomon.

- Sei così affamato?

- Puoi dirlo.

Solomon si stacca e guarda Denis, un sorriso sulle labbra.

- Tu non sei impaziente?

Denis torna serio. Annuisce e risponde:

- Non vedevo l’ora di tornare. Non per scopare. Per vederti. Avevo bisogno di averti vicino.

- Anche tu mi sei mancato molto, Denis.

 

Dopo essersi amati, distesi sul letto, Solomon e Denis parlano.

- So che gli Hashishiyya sono stati quasi tutti decapitati.

- Sì, tutti, a parte Ramzi, tre dei suoi collaboratori e Usama. Usama è stato portato nella valle dell’Arram e ieri Ferdinando lo ha ucciso in una delle sue cacce, con Barbath e Adham.

- Ne ho sentito parlare. Il conte ama il sangue.

- Sì, ama la caccia. E ama uccidere, è vero.

- So che siete amici, ma siete talmente diversi…

- Ci conosciamo da molto tempo e abbiamo sempre combattuto insieme. È un uomo coraggioso e leale. Su di lui posso sempre contare, incondizionatamente. E non è poco, Solomon.

- Sì, lo so. Mi sembra… posso dire che è un magnifico animale? Un leone, mi verrebbe da dire. Fiero, forte e feroce.

Denis ride.

- Non glielo riferirò.

- Credo che lo prenderebbe per quello che è: un complimento.

- Un complimento…

Denis scuote la testa, poi ride e dice:

- Bada, che se gli fai i complimenti potrei diventare geloso.

- No, è un magnifico maschio, ma non lo desidero.

Solomon cambia discorso:

- Che ne sarà di Ramzi? Lo ha preso l’emiro, mi hanno detto.

- Sì. Ramzi è a Jabal al-Jadid. Sarà giustiziato là, con i suoi collaboratori.

- E questa è la fine degli Hashishiyya di Qasr al-Hashim.

Denis bacia Solomon sulla bocca, poi dice.

- Adesso devo dirti qualche cosa di importante. L’emiro ‘Izz ha deciso di dividere il bottino in tre parti: una per lui, una per me e una… per te.

Solomon è stupefatto: per una volta Denis ha la soddisfazione di sorprenderlo. Fino a ora, è sempre stato Solomon a sorprendere lui.

- Per me?

- Sì, se gli ismailiti di Ramzi sono stati definitivamente debellati, è esclusivamente merito tuo.

- Esclusivamente, direi proprio di no. I soldati erano i vostri. In ogni caso… davvero generoso da parte sua.

- Ha preso lui la decisione, io ho lasciato che facesse quello che voleva. Adesso hai un po’ di oro e di pietre preziose di cui potrai disporre.

Solomon annuisce.

- Non mi dispiace. Serve sempre. Non so di quanto si tratti…

- Te lo dico subito: è molto di più di quanto tu possa pensare. Ci sono intere casse di oro, pietre preziose e gioielli. Solo quando ho conquistato Rougegarde ho trovato tante ricchezze. Ramzi doveva essere molto avido. Te lo faccio vedere. Andiamo.

Si rivestono e Denis accompagna Solomon nella stanza dove ha fatto mettere la parte del tesoro che gli spetta.

- Tutto questo? È incredibile!

- Neanch’io mi immaginavo che Ramzi possedesse un simile tesoro. Deve aver accumulato per anni, facendosi pagare caro.

- Sì, si faceva pagare per uccidere. O per non uccidere. O per entrambi: so che in alcuni casi si è fatto pagare per risparmiare qualcuno e poi lo ha ugualmente fatto ammazzare, perché altri lo hanno pagato di più.

- Non credo che tu voglia tenere tutto questo oro a casa tua. Mi dirai dove posso portarlo.

- Distribuirò una parte di questo denaro agli ebrei di San Giacomo d’Afrin: è davvero loro.

Denis ride:

- Anche quello che loro hanno versato a Renaud per lasciare la città era in parte tuo.

Solomon lo guarda, stupito: per la seconda volta Denis è riuscito a sorprenderlo.

- Come lo sai, Denis?

Denis ride.

- Non sei l’unico che ha informatori e spie. E non è difficile far parlare tuo fratello, almeno su queste cose.

Solomon scuote la testa.

- Non pensavo che indagassi su di me.

Denis sorride.

- Ho fatto davvero indagare su di te, dopo che siete venuti, tu e Amos, no… dopo che Pierre mi ha riferito che tu avevi organizzato i ragazzi per difendervi nella notte dell’attacco. Mi avevi colpito quando eri venuto e in ogni caso avevo bisogno di sapere di più sugli ebrei di San Giacomo. Sono saltate fuori alcune cose interessanti. Quando hai avvisato Morqos che qualcuno voleva uccidermi, non mi sono stupito che tu sapessi cose che io non sospettavo. Avevo capito che avresti potuto sorprendermi. Ero sicuro che avrei sentito ancora parlare di te.

Solomon sorride.

- Spero che ne sentirai parlare ancora a lungo.

Denis scuote la testa.

- Non voglio sentire parlare di te. Voglio averti al mio fianco.

Denis vuole davvero avere Solomon accanto a sé e non solo qualche ora al pomeriggio. Vorrebbe poterlo vedere tutti i giorni e dormire accanto a lui.

- Solomon, dobbiamo trovare un modo per poterci vedere liberamente, senza che ogni volta tu debba chiamare Manrique e io mandare Pierre.

- Puoi darmi qualche incarico ufficiale, in modo che possa passare più tempo a palazzo e fermarmi qualche volta a dormire. Vorrei dormire con te, Denis. Non l’abbiamo mai fatto.

È bello sentire Solomon esprimere lo stesso desiderio.

- Lo faremo questa notte.

 

A Jabal al-Jadid tutto è pronto per l’esecuzione di Ramzi e dei tre uomini portati dal castello. C’è una grande folla, perché molti sono giunti anche dalla campagna per assistere. Come è avvenuto prima dell’esecuzione di Azzaam, Nashat e i loro complici, i quattro devono sfilare tra due ali di folla che li insulta e cerca di colpirli. Quando arrivano nella piazza davanti alla fortezza, i loro corpi sono coperti di piccole ferite e sporchi di fango ed escrementi. Uno ha una larga ustione a una spalla, provocata dal lancio di acqua bollente.

Qasim, il carnefice, lega uno dopo l’altro alle croci i tre ufficiali. Poi le croci vengono issate, tra le urla di giubilo e le maledizioni della folla.

Ramzi guarda i suoi uomini, la cui agonia è appena iniziata, e poi la quarta croce, ancora stesa sul palco, che lo attende. Mormora:

- Testimonio che non vi è dio se non Iddio e che Muhammad è inviato di Dio.

Il boia gli si avvicina e gli cala i pantaloni: un’ulteriore umiliazione per il signore di Qasr al-Hashim. Verrà crocifisso nudo, sotto gli occhi della folla che si bea dello spettacolo, che si godrà le sue contorsioni, la sua sofferenza.

Ramzi alza lo sguardo verso gli spalti. Vede l’emiro, che osserva la scena, e accanto a lui Ridwan. Se quel maledetto avesse svolto il suo compito, tutto sarebbe andato diversamente.

Ridwan assiste impassibile alla scena: è convinto che Ramzi lo abbia mandato a uccidere ‘Izz per denaro e nei confronti di colui che un tempo considerava un maestro prova soltanto disprezzo. Porta le dita della destra al ciondolo che ha al collo: un piccolo capolavoro con il ritratto dell’uomo che ama. ‘Izz vede il gesto, sorride e gli stringe la sinistra.

Ramzi viene legato e quando la croce viene issata, nuovamente la folla lancia un grido di soddisfazione. Chi è più lontano si alza sulla punta dei piedi e allunga il collo per vedere. Molti ridono e si scambiano battute: è ben raro che un condannato venga crocifisso nudo e lo spettacolo suscita ilarità e commenti feroci.

L’agonia è lunga per tutti e quattro: sono uomini robusti, che conducono una strenua battaglia contro la morte.

La giornata è calda: non una nuvola vela il cielo. I corpi si coprono di una patina di sudore, che presto scorre a rivoli sul viso, sul petto e sul ventre dei suppliziati.

I soldati sudano anch’essi, immobili sotto il sole cocente, e maledicono i quattro uomini crocefissi. La folla è spossata dal gran calore, ma non vuole rinunciare allo spettacolo e si ripara dal sole come può, coprendosi la testa con strisce di tela bianca intrise d’acqua. Ogni tanto qualcuno si allontana, ma poi torna. Tra la gente si aggirano venditori di cibo e bevande e altri con secchi d’acqua tirata su dai pozzi, in cui gli uomini immergono la tela da mettere in testa. Molti rumoreggiano, alzando la voce, ebbri di caldo e rabbia, felici di vedere il dolore dei condannati.

Man mano che il tempo passa, la sofferenza cresce. Ormai l’aria entra a fatica, perché la posizione innaturale delle braccia rende difficile respirare.

Ramzi si solleva sulla croce, facendo forza sulle gambe, per immettere ossigeno nei polmoni. La fatica aumenta, lo sforzo diviene ogni volta maggiore. Ramzi vorrebbe abbandonarsi alla morte, null’altro desidera, ma il suo corpo si attacca tenacemente alla vita e allora Ramzi, ogni qual volta sente l’aria mancargli, cerca di sollevarsi sulle gambe e riesce ad immettere un po’ di ossigeno. Il sole lo brucia e gli insetti si posano sul cazzo e sui coglioni, sul viso sudato, sulle labbra e sugli occhi, sul piscio che gli è colato sulle gambe quando non è più riuscito a trattenerlo. Presto perde il controllo degli sfinteri e la merda gli cola tra le gambe, attirando altri insetti. Ramzi è coperto di insetti brulicanti, che si nutrono del suo sudore, che attendono la sua morte.

Altre ore passano. Solo nel tardo pomeriggio muore il primo dei suppliziati, poi il secondo e il terzo. L’emiro non è più sugli spalti, ma ora ritorna, per osservare l’interminabile agonia di Ramzi, l’ultimo degli ismailiti di Qasr al-Hashim ancora vivo. Il sole declina, ma la morte ancora non viene. Respirare è sempre più difficile, le forze mancano. Ramzi comprende che la fine è vicina. Il fuoco che gli divora i polmoni e l’agonia di ogni fibra del suo corpo lo spingono a desiderare il grande vuoto che lo attende.

Vede l’emiro fare un gesto al carnefice. Pensa che l’uomo ora gli spaccherà le gambe, impedendogli di sollevarsi ancora, e che infine la morte lo ghermirà.

Qasim però non afferra la mazza ferrata, ma un coltello. Si avvicina a Ramzi, sorridendo, e gli afferra il cazzo e i coglioni in una morsa. Avvicina la lama.

Ramzi sgrana gli occhi. Non si aspettava quest’ultima umiliazione, che di certo è stata decisa da Sinan. Vorrebbe gridare, ma non riesce: dalla sua bocca esce solo un lamento.

La folla urla la sua gioia e maledice nuovamente l’uomo crocifisso. Qasim recide e il dolore di Ramzi cresce ancora.

Il carnefice lascia cadere a terra i genitali di Ramzi. Poi prende la grande mazza con la punta di ferro. Ramzi si solleva ancora una volta, con uno sforzo immane, per cercare di introdurre un po’ d’aria nei suoi polmoni, poi ricade. Guarda l’emiro sulla terrazza del palazzo.

Il carnefice vibra il colpo, spezzando la gamba destra. Il dolore è intenso, un lampo accecante. Il mondo si dissolve in pura sofferenza, che martella nella testa di Ramzi

Il secondo colpo arriva subito dopo. Ramzi sprofonda in un oceano di dolore e l’incendio che arde nei suoi polmoni lo trascina nel nulla.

Il cadavere viene lasciato marcire sulla croce per due giorni, poi viene portato nel deserto e abbandonato agli animali selvatici: per nessuno degli Hashishiyya di Qasr al-Hashim c’è una sepoltura.

 

Solomon distribuisce agli ebrei di Afrin parte dell’oro che ha ricevuto come sua quota del bottino da Qasr al-Hashim: tutte le famiglie fuggite da San Giacomo ricevono più di quello che hanno dovuto pagare per lasciare la città, ottenendo di fatto un indennizzo per la perdita delle loro case. Solo Immanuel, che ha pagato per molti, rifiuta di ricevere più di quanto ha versato. A Solomon dice:

- Non ne ho bisogno, Solomon, e so che nessuno userà mai quest’oro meglio di come lo farai tu.

 

Con una parte dell’oro ricevuto Solomon realizza un gioiello per ognuna delle donne della casa. Ogni monile è diverso dagli altri e tiene conto della donna a cui è destinato. Mariette riceve così un bracciale con quattro ciondoli che rappresentano le fasi della luna, perché gestisce la locanda della Luna piena. A Louison, la moglie di Giovanni, che lavora con Mariette, Solomon dona un paio di orecchini, di cui uno rappresenta il sole, l’altro la luna: anche se il soggetto è diverso, i due orecchini costituiscono un unico paio. Per Sara c’è una splendida collana e un ciondolo con la stella di Davide. Mara riceve un bracciale lungo la superficie del quale si sviluppa un paesaggio montuoso e sullo sfondo delle cime vola un’aquila ad ali dispiegate.

Nessuna di loro ha mai visto un gioiello così bello, neppure Mara, che era una principessa e ha ancora con sé alcuni dei gioielli della sua famiglia: ma Halel era una cittadini tra i monti, priva di una grande tradizione di oreficeria.

Guardando con attenzione il bracciale che Solomon ha prodotto per lei, Mara nota l’aquila in volo: è il simbolo dei signori di Halel. Solleva la testa e il suo sguardo incrocia quello di Solomon. Gli legge negli occhi che l’orafo ha capito ciò che nessuno degli altri abitanti della casa sa, ciò che nessuno al mondo sa, se non il duca di Rougegarde. Per un attimo prova sgomento, ma subito si rassicura: quest’uomo non la tradirà. Di lui può fidarsi. E non le spiace avere qualcuno che conosce il suo segreto, qualcuno a cui potersi rivolgere se mai ne sentirà il bisogno.

 

Solomon si divide tra la casa e il palazzo, dove gli sono state assegnate due stanze nella parte più interna: è stato nominato orafo personale del duca. Dorme a palazzo e trascorre la notte a casa solo quando Denis ha impegni la sera. Se però Denis deve assentarsi da Rougegarde, Solomon preferisce ritornare nel suo appartamento della casa di Giovanni: l’amicizia che lo lega a Morqos, a Emich e agli altri fa della casa un piccolo mondo accogliente, in cui Solomon sta bene.

Ha ridotto i suoi viaggi, anche se gli capita ancora di dover partire. Cerca di far coincidere i suoi spostamenti con i periodi in cui Denis si assenta per recarsi a Cesarea o Gerusalemme o per qualche altro motivo.

Ritrovarsi dopo un’assenza è una gioia per entrambi.

 

Un giorno, al ritorno da una settimana trascorsa a Gerusalemme, Denis dice a Solomon:

- Solomon, è una giornata molto calda. Che ne diresti di fare un bagno nella cisterna?

Non sono mai scesi insieme nella grande cisterna sotterranea, da quando Maazin e i suoi complici cercarono di uccidere Denis.

- Volentieri.

Prendono un telo per asciugarsi e scendono. Quando sono nel locale, infilano le torce negli anelli alla parete.

- Mi avevi detto che hai fatto mettere una grata per bloccare l’accesso.

- Sì. È molto solida e nessuno entrerà più di lì. Ora la grande cisterna è un posto sicuro.

Si spogliano. Si guardano, sorridenti e felici di essere uno con l’altro. Denis osserva:

- In fondo devo essere grato agli Hashishiyya.

Solomon ride. Scuote la testa e risponde:

- Questa poi! E perché mai?

- Se non fosse stato per loro non avrei avuto modo di conoscerti. Ti avevo visto una volta, ma sarebbe finita lì.

- Non pensarlo. Avrei cercato di sedurti comunque. Mi piacevi troppo.

Denis sorride. È bello sentirsi dire queste parole.

- Non ti sarebbe stato facile, Solomon. Non ti avrei lasciato avvicinare, mi sarei tenuto a distanza.

- Mi sottovaluti, Denis. Sono una testa dura e, modestamente, sono abbastanza abile a intrufolarmi dove voglio.

Denis scuote la testa.

- Modestamente... ti riconosco molte qualità, ma quanto alla modestia, non mi sembra proprio che sia una tua dote.

Denis ride. Solomon si finge irritato.

- Ah, sì!? Adesso vedi!

Di colpo Solomon afferra Denis, lo solleva e lo getta in acqua. Poi si tuffa anche lui. Denis si allontana nuotando veloce, ma Solomon lo insegue. Si spingono fino alla parte più buia, dove la luce delle torce è appena un bagliore lontano. Denis si aggrappa a una colonna. Solomon si mette dietro di lui. Lo abbraccia, lo bacia sul collo, lo accarezza. Denis sente il cazzo premere contro il solco e poi forzare l’apertura. Geme, mentre Solomon lo penetra e nuovamente lo stringe tra le braccia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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