I – Un pugnale per l’emiro È
pomeriggio quando lo sceicco Labeeb rientra vittorioso a Barqah. Il sole sta
declinando, ma il calore è ancora soffocante. La popolazione,
avvisata dai messi, si è riversata nelle strade per accogliere il suo
signore. Labeeb passa tra due ali festose di uomini e donne che lo acclamano
come un trionfatore, alzando le braccia al cielo e sventolando stoffe
variopinte, in un tripudio di colori e di voci. Il sudore scorre sui visi e
appiccica gli abiti al corpo, ma tutti rimangono al loro posto, per non
essere tacciati di scarsa lealtà nei confronti del signore della città. Labeeb
sorride e con il braccio alzato saluta la folla, celando il suo malcontento.
La breve campagna militare si è conclusa con una vittoria, questo è vero:
Salah ad-Din, il signore dell’Egitto che i Franchi chiamano Saladino e che ha
conquistato la Siria meridionale alla morte di Nur ad-Din, ha rafforzato la
sua posizione, costringendo all’ubbidienza qualche signorotto che
recalcitrava. Salah ad-Din mira a estendere il suo potere su tutta la Siria e
Labeeb ha scelto di stare dalla sua parte, perché è sicuro del successo
dell’impresa. Per
il momento però Labeeb non ha ricevuto nessuna ricompensa per i suoi sforzi:
la gratitudine di Salah ad-Din non si è manifestata in modo tangibile e da
questa spedizione lo sceicco ritorna con un pugno di mosche. Spera che almeno
il suo impegno dia qualche frutto in futuro. Labeeb
raggiunge la piazza davanti al palazzo. Anche qui una folla festante grida il
suo nome, ma lo sguardo dello sceicco è attirato dalle due croci erette
vicino alla porta della sua residenza. Da esse pendono i corpi senza vita di
due ismailiti, quelli che gli altri musulmani chiamano con disprezzo
Hashishiyya. Tutti odiano e temono questa setta di fanatici: i pugnali degli
Hashishiyya hanno spento molte vite. Essi riescono a raggiungere i sovrani
più potenti e perfino il grande Salah ad-Din ha rischiato di cadere sotto i
loro colpi. Questi
due ismailiti predicavano a Barqah. Quando è stato informato della loro
presenza, ormai sulla via del ritorno, Labeeb ha dato ordine di arrestarli e
crocifiggerli immediatamente. Allo sceicco poco importa delle controversie
dottrinali tra musulmani, ma sa che Salah ad-Din si atteggia a difensore
dell’ortodossia ed è implacabile: ha fatto crocifiggere diversi eretici.
Labeeb vuole mostrarsi devoto e pio come il suo signore e nel suo dominio
riserva agli eretici la stessa sorte. I due hashishiyya, che hanno agonizzato
a lungo sulla croce, sono un esempio per tutti e una dichiarazione di lealtà
nei confronti di Salah ad-Din. Labeeb
spinge il cavallo verso le due croci e guarda i cadaveri. Il clamore della folla
si attenua, mentre lo sceicco fissa i due corpi. Le braccia, il viso e le
gambe sono ricoperti di insetti, tanto che i tratti del volto sono appena
visibili. Uno doveva essere molto giovane, l’altro invece era un uomo adulto,
vigoroso. Labeeb sputa a terra, in segno di disprezzo, poi entra nel palazzo,
mentre dalla folla si alzano nuovamente grida di giubilo e le stoffe colorate
vengono sventolate ancora più in alto. Quando
lo sceicco scompare nel primo cortile della sua residenza, la folla
lentamente si disperde. Nel
palazzo guardie e servitori si prosternano ai piedi dello sceicco. Labeeb
congeda i suoi ufficiali e raggiunge le sue stanze. Vorrebbe bagnarsi,
mangiare e poi mandare a chiamare una delle sue mogli, ma prima vuole parlare
con il suo consigliere Muntasir: desidera essere aggiornato sulla situazione
della città. Perciò si limita a farsi portare un po’ di vino, che beve
volentieri nonostante il divieto coranico. Dopo aver bevuto e mangiato due
pasticcini, convoca Muntasir. Nei
quasi tre mesi in cui Labeeb è stato assente, non si è verificato nulla di
particolarmente rilevante, a parte la predicazione dei due ismailiti. Labeeb
ascolta la relazione del suo consigliere e chiede alcuni dettagli, poi lo
congeda: a quanto pare non c’è nulla di urgente, potrà occuparsi di tutto con
calma domani. Quando
Muntasir sta uscendo, Labeeb lo richiama: - Mi
stavo dimenticando… l’orafo ebreo, Solomon, ha portato il monile? Muntasir
si inchina. -
Sì, quattro giorni fa, come si era impegnato a fare. Contava di trovarti,
sceicco: non sapeva che non eri ancora tornato. -
Avete provveduto a controllare che le pietre ci fossero tutte? -
Certamente, sceicco. Ci sono tutte quelle che gli avevate dato e quelle che
avevate acquistato da lui. Labeeb
non aveva dubbi: Solomon non è tipo da imbrogliare, tenendo per sé alcune
pietre o sostituendo quelle ricevute con altre di minor valore. Ci sono orafi
che lo fanno, ma uno che ha per clienti emiri e sceicchi difficilmente
ricorre a questi giochetti: la testa di un ebreo non dura a lungo sulle sue
spalle, se pensa di prendere in giro i grandi della Terra. -
Hai provveduto a pagarlo? -
Sì, come mi avevi ordinato, sceicco. -
Portami il gioiello. Muntasir
chiama il tesoriere, che apre la camera del tesoro. Muntasir prende uno scrigno
e lo porta a Labeeb. -
Aprilo. Il
consigliere apre il cofanetto e Labeeb può vedere il gioiello, una collana
d’oro e pietre preziose. Labeeb la prende e l’osserva. Fili d’oro intrecciati
formano una rete e su ogni nodo c’è un rubino o un diamante. Sul davanti un
ciondolo circolare, anch’esso formato da un intreccio di fili, è tempestato
di diamanti e rubini più piccoli disposti intorno a un rubino di grandi
dimensioni. La
raffinatezza del gioiello non ha rivali. D’altronde l’ebreo è il miglior
orafo che Labeeb conosca e a lui si rivolgono i signori della Siria. Un
gioiello di questa fattura è inestimabile. Labeeb l’ha fatto preparare per
Latifa, la più giovane delle sue mogli, imparentata con Nur ad-Din: un
omaggio alla sua bellezza e anche alla potente famiglia da cui proviene la
donna. Potente per quanto, non si sa. Ma per il momento Labeeb intende
mostrare di tenere alla giovane moglie, che Nur ad-Din stesso gli diede in
sposa quando gli assegnò il dominio su Barqah. Se Salah ad-Din avrà la meglio
sul rivale, il figlio di Nur ad-Din, e lo metterà a morte, allora lo sceicco
provvederà a ripudiare la moglie. Lo
sceicco congeda il consigliere. Tiene con sé il gioiello, che offrirà questa
sera stessa alla giovane. Adesso
può infine riposarsi. Raggiunge il bagno dove il servitore Usama ha preparato
tutto l’occorrente; l’ampia vasca è stata riempita utilizzando l’acqua
corrente del palazzo, che alimenta anche le fontane del giardino, e quella
del serbatoio sul tetto, che il sole della giornata estiva ha riscaldato. In
inverno, l’acqua del bagno viene riscaldata sul fuoco, ma in estate il calore
solare è sufficiente, tanto più che lo sceicco preferisce che la temperatura
non sia troppo alta. Labeeb
si spoglia completamente sotto lo sguardo dello schiavo e si immerge: dopo il
calore e la fatica del lungo viaggio di ritorno, è splendido sentire la
frescura dell’acqua, che lo rinvigorisce. Mentre
si lava, pensa a Latifa, che tra poco manderà a chiamare: ormai è quasi sera.
Mangeranno insieme e poi scoperanno. È una bella donna, Latifa, di forme
prosperose, seni rigogliosi e fianchi larghi: una splendida giumenta da
cavalcare. Pensando a lei, il cazzo gli si tende. Lo
sceicco ride. Ha proprio voglia di scopare, dopo questi mesi in cui ha dovuto
accontentarsi delle schiave. Labeeb
esce dall’acqua. Usama si avvicina con un telo per asciugarlo. Lo sceicco lo
guarda. Lo schiavo indossa solo i pantaloni: il suo torace è scoperto e
Labeeb è sorpreso nel notare quanto vigoroso sia quest’uomo. Potrebbe essere
un guerriero, ma pare che non abbia mai combattuto: è sempre stato al
servizio di famiglie ricche. Labeeb
non si preoccupa di mostrarsi con il cazzo in tiro: è ben dotato e non ha
motivo per nascondersi, tanto più che Usama è solo un servitore. Sorridendo,
si gratta un po’ i coglioni e si accarezza il membro. Lo diverte cogliere il
leggero imbarazzo del servitore. Gli sembra buffo che un uomo forte come
Usama sia pudico. Labeeb indugia con la mano sul cazzo, facendo scivolare le
dita verso il basso e poi di nuovo verso l’alto. Usama
passa dietro lo sceicco e lo avvolge con il telo. E mentre lo fa, Labeeb
sente la lama che gli squarcia il petto e si immerge fino al manico. Lo
sceicco abbassa lo sguardo, incredulo, mentre un fuoco arde nel suo corpo,
trascinandolo in un abisso di dolore. Apre la bocca per gridare, per chiedere
aiuto, ma la sinistra del suo assassino soffoca l’urlo. Vede la destra di
Usama, che impugna l’arma, estrarla e colpire una seconda volta, più sotto. Labeeb
barcolla e cadrebbe, ma Usama lo regge con il braccio che tiene l’arma. Lo
sceicco si appoggia al corpo del suo assassino, incapace ormai di reggersi. Usama
mormora: - I
veri credenti sono vendicati. Lo
sceicco capisce: il suo assassino è un ismailita, uno di quei maledetti
Hashishiyya che da anni uccidono coloro che considerano eretici. Lo stesso
Salah ad-Din è scampato per miracolo ai loro colpi. Labeeb sa che per lui non
c’è salvezza. Usama
estrae ancora una volta l’arma e l’immerge nel cuore. Labeeb sussulta, poi si
affloscia completamente. Lo schiavo lascia che il cadavere cada a terra. Si
lava le mani. Si asciuga con il telo, guardando il corpo dello sceicco di
Barqah. Sorride. Silenziosamente si riveste ed esce dal bagno. C’è
un altro servitore sulla porta. Usama
dice: - Lo
sceicco ha deciso di rimanere un po’ nel bagno: vuole riposare. Se non ti
chiama, non lo disturbare. Io ritorno più tardi. Lascia
il palazzo dalla porta principale, camminando senza fretta, per non dare
nell’occhio. Nella piazza è rimasta poca gente: tutti sono ritornati alle
loro occupazioni. Lo spettacolo dei due crocifissi non attira più nessuno:
ormai i corpi hanno incominciato a putrefarsi e l’odore è troppo forte. Usama
guarda i corpi ancora appesi alle croci e mormora una preghiera, poi dice,
pianissimo: -
Siete stati vendicati, fratelli. Le
porte della città non sono ancora state chiuse. Usama raggiunge quella
occidentale e la varca indisturbato, insieme a molta altra gente: gli
abitanti dei villaggi vicini sono affluiti in città per il ritorno dello
sceicco e ora tornano a casa, dopo aver approfittato dell’occasione per fare
qualche acquisto o una visita al bordello. I soldati non fanno caso a
quest’uomo massiccio che sta lasciando Barqah: nessuno può sospettare che
abbia appena ucciso lo sceicco. Al
guado Usama attraversa il fiume che scorre intorno alla città e si allontana
rapidamente in direzione dei monti: sa che il cadavere dello sceicco verrà
scoperto presto e che avrà inizio una grande caccia. Se
lo prendessero, la sua fine sarebbe orribile, ma Usama non ha paura di
morire. In realtà desidera offrire la sua vita al Signore e perire
testimoniando la sua fede. Non è rimasto a palazzo solo perché, se sfuggirà
ai soldati che lo cercheranno, potrà spegnere altre vite: molti sono i
signori che tradiscono la parola del Profeta. Se invece Iddio vorrà dargli la
gloria del martirio, Usama gliene sarà grato: per lui sarà una prova del
favore divino. Ma è Iddio a decidere, non spetta a Usama scegliere. Quando
il cadavere di Labeeb viene scoperto, Usama sta già camminando lungo un
sentiero tra i monti. Molti soldati vengono subito inviati alla sua ricerca:
Usama è stato visto allontanarsi dal palazzo, ma le sentinelle alla porta non
sanno se ha lasciato la città. Alcuni gruppi di soldati si lanciano lungo le
vie principali che da Barqah portano a Marwan e ad altri centri, ma il sole
sta tramontando e sarà ben difficile raggiungere il fuggitivo, che
probabilmente non segue le grandi strade, ma i sentieri tra i monti. I
soldati fermano le persone che incontrano, forniscono una descrizione di
Usama e chiedono se qualcuno l’ha visto, ma oggi troppa gente si è mossa: le
testimonianze sono confuse, spesso contraddittorie, ed è difficile capire se
qualcuno ha davvero incontrato l’assassino. A
notte fonda i soldati inviati ritornano, senza aver ottenuto nessuna
informazione precisa e senza aver trovato il fuggitivo. D’altronde non è
neanche certo che Usama si sia allontanato da Barqah: potrebbe essere ancora
in città, nascosto nella casa di qualche complice. Ai cittadini è stato dato
l’ordine di rimanere nelle proprie case e adesso i soldati controllano tutte
le abitazioni: se qualcuno davvero nasconde l’assassino, si pentirà di essere
venuto al mondo. Non
c’è nessuno per le vie di Barqah, questa notte, ma in città non regna certo
il silenzio: si sentono i soldati gridare, battere agli usci, minacciare,
chiamarsi. Usama
ormai è lontano. Cammina tutta la notte: la luce della luna e delle stelle
gli permette di percorrere il sentiero che ha scelto. Gli sembra che Allah lo
guidi, mostrandogli il cammino, e nello stesso tempo lo protegga,
avvolgendolo nell’oscurità della notte. Usama è soddisfatto di aver compiuto
il suo dovere, di essere stato il braccio di Dio che colpisce i miscredenti. Infine
il cielo a oriente incomincia a schiarirsi. Usama lascia il sentiero, si
nasconde tra le rocce e riposa alcune ore, mentre gli uomini di Labeeb
continuano a cercarlo. Quando si desta, rimane celato: ormai lo cercheranno
ovunque ed è più saggio aspettare la notte prima di proseguire. Usama ha con
sé un po’ di cibo e di acqua e può nutrirsi. Quando il sole tramonta,
riprende il cammino. Dopo
alcuni giorni raggiunge Qasr al-Hashim, il castello che i templari chiamavano
Jibrin. La gente che vive tra questi monti crede che la fortezza sia
maledetta, perché le guarnigioni precedenti vennero tutte sterminate: una in
una guerra, un’altra da un’epidemia, quella dei templari dagli arabi. Il
castello è reso imprendibile dalla sua posizione: è collocato su uno sperone
roccioso, un cuneo che su due lati ha precipizi vertiginosi. Le pareti a
picco offrono ben pochi appigli e l’unica via d’accesso che non espone il
viaggiatore a gravi rischi è quella dal Nord, lungo l’altopiano: qui il
castello ha una doppia cinta di mura, un baluardo formidabile. All’interno
della fortezza un pozzo profondo fornisce l’acqua necessaria. Qasr al-Hashim
si può conquistare solo con un assedio prolungato, che costringa alla resa
una guarnigione stremata dalla fame, o con l’inganno: solo grazie al
tradimento di Tancrède d’Espinel i saraceni la tolsero ai templari. Le
sentinelle conoscono bene Usama ibn Qais, che è il fratello del loro
comandante, Ramzi ibn Qais. Lo accolgono festosi, contenti di rivederlo sano
e salvo: non sanno quale fosse il suo compito, perché le missioni vengono
tenute segrete, ma sono ben consci dell’odio degli altri musulmani nei loro
confronti e dei rischi che corrono coloro che si avventurano lontano dal
castello. Usama
raggiunge la parte più interna del castello, a cui pochi hanno libero
accesso, e chiede di avvisare il fratello. Ramzi arriva poco dopo. Fisicamente
i due fratelli sono molto simili: entrambi hanno una corporatura massiccia,
occhi e capelli scuri, visi dai lineamenti squadrati. Pochi anni di età li
separano, ma i loro caratteri sono profondamente diversi. Usama è un
guerriero, la cui massima aspirazione è il martirio. Ramzi è un politico,
assai più interessato al potere, anche se nasconde la sua ambizione e si
presenta come un uomo di fede. Usama vive casto e rifugge da ogni contatto
impuro. Ramzi asseconda i suoi desideri senza porsi limiti, se non quelli
dettati dalla necessità che i suoi vizi non diventino noti a tutti. Nelle
mani di Ramzi, Usama è un utile strumento, di cui il signore di Qasr
al-Hashim sa servirsi. Ramzi
abbraccia il fratello e dice: -
Hai portato a termine la tua missione: Iddio ha guidato la tua mano e perduto
i nemici della fede. Le
spie di Ramzi lo hanno già informato della morte dello sceicco di Barqah: hanno
potuto muoversi a cavallo lungo le piste, in pieno giorno, mentre Usama si è
mosso soprattutto di notte, a piedi, lungo sentieri poco battuti. Usama
china il capo. -
Questa è stata la volontà di Iddio. -
Iddio protegge i veri credenti e condanna coloro che non si sottomettono alla
sua volontà. Su
richiesta di Ramzi, Usama racconta i dettagli della sua impresa. Quando ha
concluso, chiede: -
Qual è ora il mio compito? Mi avevi parlato dell’emiro di Jabal al-Jadid. Ramzi
scuote il capo e sorride. Usama ha appena concluso un’impresa ed è già
impaziente di partire per svolgere una nuova missione. -
Non ti riposi mai? Usama
scuote le spalle. -
Siamo al servizio del Signore. Egli ci guida. Non ho bisogno di riposare, se
è il Signore a guidarmi. Ramzi
annuisce. -
Certo, ciò che dici è vero. L’emiro di Jabal al-Jadid deve morire, ma ho già
affidato ad altri questo incarico. Dopo che hai ucciso quel cane di Labeeb,
sarai certamente ricercato in tutta la Siria. A Jabal al-Jadid qualcuno
potrebbe riconoscerti, Barqah non è così lontana. -
Sai che non temo il martirio. Spero che nella Sua infinità bontà Iddio me lo
conceda un giorno. Ramzi
annuisce. Sa benissimo che l’ardore del fratello è autentico e che desidera
davvero una morte da martire per entrare nel paradiso dei veri credenti. Ma
per il momento è più utile che Usama viva. Se un giorno per Ramzi sarà utile
sacrificare il fratello per raggiungere i suoi scopi, lo farà senza esitare,
ma attualmente non c’è nessun motivo per mandarlo a morte. Risponde: -
Alla Sua volontà ci inchiniamo. Ma non avrebbe senso lanciarti in un’impresa
che non avrebbe nessuna possibilità di successo. Per qualche giorno è meglio
che tu rimanga qui, in attesa che si concluda la missione a Jabal al-Jadid. A
Usama pesa rimanere inattivo, ma si rende conto che in questo momento in cui
è ricercato ovunque, i rischi di essere scoperto sono fortissimi e le
possibilità di portare a termine una missione molto scarse. Chiede: - Lo
sceicco Rashid ad-Din Sinan, che Dio lo benedica, non ti ha affidato qualche
nuovo compito? Lo
sceicco Sinan è il capo degli ismailiti e la sua autorità è assoluta. Qasr
al-Hashim è lontano dai domini di Sinan e Ramzi non nutre certo per lo
sceicco la riverenza di Usama. Farebbe volentieri a meno della sua tutela, ma
tra gli ismailiti il potere di Sinan è immenso e la vita di Ramzi non
varrebbe niente se lo sceicco decidesse che deve morire. -
Per il momento nessuno: aspetta che lo sceicco di Jabal al-Jadid venga
ucciso, come ha richiesto. Quando la missione, sarà conclusa, andrò da lui.
Vedremo che cosa mi dirà. A lui dobbiamo obbedienza cieca. In
realtà Ramzi ha preso diverse iniziative senza parlarne a Sinan, ma in questi
casi ha sempre provveduto a tenere nascosto il suo intervento, perché sa che
lo sceicco non è disposto a concedere nessuna autonomia di azione ai suoi
sottoposti. Perciò Ramzi si muove con estrema cautela. Usama
si alza. -
Andrò a lavarmi e poi mi stenderò. -
Dormi, fratello, hai bisogno di riposo. Usama
esce. Ramzi rimane seduto, pensieroso. A Jabal al-Jadid ha preparato tutto e
ora la rete dovrebbe stringersi, intrappolando i due obiettivi principali:
l’emiro ‘Izz ibn Ashraf, che riuscì a scampare anni fa a un altro tentativo
di ucciderlo, e il comandante Barbath. Sono i due uomini più potenti della città.
‘Izz non ha eredi e se verrà ucciso, la città non avrà più un signore. Lo
sceicco Sinan ha dato l’ordine di sopprimerli e Ramzi sa che deve obbedire
senza chiedere spiegazioni. Per quale motivo Sinan vuole privare la città del
suo emiro e del suo comandante? Probabilmente per favorire l’Atabeg
Gumushtugin, che potrebbe occupare Jabal al-Jadid e installarvi un uomo a lui
fedele. Sempre che Salah ad-Din non lo preceda. Sono solo congetture. Ramzi
ubbidisce: Sinan deve pensare che il signore di Qasr al-Hashim è un servitore
fedele, che non prende iniziative personali. L’impresa
dovrebbe concludersi tra poco e allora Ramzi potrà presentarsi da Sinan forte
di un doppio successo. * Nel palazzo
dell’emiro di Jabal al-Jadid il pittore Waahid è al lavoro. Ha preparato il
disegno e ora deve dare il colore. Si rivolge al suo aiutante: -
Hai preparato il rosso, Latif? Latif
prende il recipiente con il colore e lo porge a Waahid. Le loro mani si
sfiorano. Latif sembra non accorgersene neanche. Waahid riprende a dipingere. -
Posso andare? Waahid
guarda Latif. Si conoscono da dodici anni, da quando entrambi passarono al
servizio del comandante Barbath, come schiavi: Waahid donato dall’emiro dopo
la conquista di Shaqra, Latif catturato in battaglia. Sono stati amanti per
tutti questi anni, ma negli ultimi mesi Latif si è allontanato da Waahid.
Dorme in un’altra camera e rifiuta ogni contatto. Waahid vorrebbe chiedere
mille cose, ma sa che sarebbe inutile: più volte ha provato a parlare con
Latif, ma non ha ottenuto nessuna spiegazione, solo un richiamo ai dettami
religiosi che proibiscono i legami tra uomini. Forse non ci sono spiegazioni
da dare quando un rapporto finisce. Latif
attende una risposta, in silenzio, il viso chinato. Waahid
lo guarda, poi dice: -
Vai pure, non ho più bisogno di te. Latif
si accomiata con un cenno del capo, si alza e si allontana, tenendo gli occhi
bassi. Normalmente
quando Waahid dipinge, Latif rimane al suo fianco: è il suo assistente. Ma il
soggetto che sta dipingendo Waahid sembra infastidire Latif, che per questo
ha chiesto di non essere costretto ad assistere. Waahid
guarda Rayhan, disteso sui cuscini in una posa lasciva, la destra sul petto,
con le dita che stringono un capezzolo, la sinistra sulla gamba, che sfiora
il cazzo turgido. Lo sceicco ‘Izz ibn Ashraf, signore di Jabal al-Jadid,
incarica spesso Waahid di dipingere uomini nudi e scene di accoppiamenti tra
maschi: si tratta di solito di illustrare qualche manoscritto, di quelli che
il giovane emiro si procura attraverso alcuni mercanti che conoscono i suoi
gusti. Testi di questo genere non sono rari, ma di solito non sono adornati
di miniature preziose. ‘Izz li fa ricopiare e decorare. Waahid
è abituato a dipingere scene di questo genere e non gli dispiace. Da ragazzo
ne aveva dipinta qualcuna per suo gusto personale. Anche a Latif un tempo non
dava nessun fastidio vedere Waahid impegnato a raffigurare amplessi e nudi
maschili. Negli ultimi mesi però Latif è cambiato: osserva che dipinti di
questo tipo sono contrari agli insegnamenti del Profeta, che l’emiro non
dovrebbe commissionarli, che richiedendoli ‘Izz desta la collera divina e che
obbedendo all’emiro Waahid sprofonda nel peccato. Più
volte ha detto a Waahid che dovrebbe rifiutarsi di dipingere certe scene.
Waahid potrebbe farlo: non è uno schiavo, perché Barbath ha liberato lui e
Latif dopo la sconfitta del Circasso. Ma non gli sembra di fare nulla di
male. Alla corte di ‘Izz i rapporti tra uomini sono frequenti e, anche se non
vengono esibiti, non vengono neppure nascosti, poiché lo stesso emiro ama i
giovani uomini, con qualche anno in meno di lui. Latif
si sta allontanando da lui e da tutta la corte dell’emiro. Waahid non capisce
perché non se ne vada: è un uomo libero, nessuno lo costringe a rimanere a
Jabal al-Jadid. Potrebbe trovare lavoro presso qualche altro pittore, grazie
all’esperienza che ha accumulato in questi anni. Waahid
riprende a dipingere. La scena che deve raffigurare è quella di un giovane
che la notte pensa al suo amante lontano. Rayhan, il modello scelto
dall’emiro per questa immagine, ha un bel corpo e in Waahid il desiderio si
desta, ma Rayhan è di proprietà dell’emiro e Waahid non intende correre
rischi. L’emiro tiene molto al suo pittore di corte, ma non accetterebbe di
certo che Waahid seducesse il suo schiavo favorito. ‘Izz non è feroce come
altri signori, ma richiede assoluta lealtà. Intanto
Latif è sceso nella scuderia. Nashat, uno degli stallieri, è al lavoro. È un
uomo magro, che ormai ha superato i cinquanta. Ha un viso affilato, con barba
e baffi grigi. I suoi occhi sembrano avere sempre un’espressione di
rimprovero. -
Buongiorno, maestro. Nashat
si guarda intorno. -
Non chiamarmi maestro. Qualcuno potrebbe sentirci. - Perdonami. Nashat
sorride. -
Meglio essere prudenti. Latif
annuisce. Jabal al-Jadid è davvero la Geenna se i veri credenti devono
nascondersi mentre i peccatori si abbandonano pubblicamente alla lussuria.
Nashat gli ha aperto gli occhi e gli ha mostrato l’abisso di peccato in cui
viveva. Latif si chiede come ha potuto essere tanto cieco in questi anni,
sprofondando sempre più nel fango. Ha permesso ai desideri più immondi di
essere i suoi padroni, invece di dominarli e sforzarsi di seguire
l’insegnamento del Corano. -
Posso aiutarti? - Il
pittore ti ha lasciato libertà? -
Non posso rimanere con lui quando dipinge un uomo nudo che commette atti
impuri. Nashat
annuisce e un lampo d’ira passa nel suo sguardo. La sua voce vibra di furia
mentre dice, molto piano: -
Coloro che non rispettano le leggi divine incontreranno il castigo divino, in
questa terra e poi nell’aldilà. Questa città è un covo di peccatori, ma come
potrebbero gli uomini non perdersi, quando colui che dovrebbe guidare i
cittadini sulla retta via con l’esempio e con le punizioni, pecca egli
stesso, più degli altri? - Sì
e tutti gli uomini lo seguono. Io stesso… Latif
china il capo. Prova vergogna per il suo passato. -
Finché ‘Izz ibn Ashraf sarà a capo di questa città, non potrà esserci
salvezza. Egli trascina i suoi sudditi alla perdizione. Latif
annuisce. Nashat ha ragione: invece di punire coloro che trasgrediscono le
regole divine, l’emiro è il primo a violarle e tutti i sudditi si sentono
autorizzati a fare altrettanto. Nashat
aggiunge: - La
collera divina si abbatterà su tutta la Siria. Allah ha permesso che i cani
franchi conquistassero tante città per punirci dei nostri peccati. Perfino
al-Hamra, la perla della Siria, è in mano a un cane miscredente. Latif
concorda: -
L’Onnipotente è in collera con noi. -
Sì, questa situazione non può più essere tollerata da chi segue
l’insegnamento del Profeta. È ora di agire. Latif
guarda Nashat perplesso. Molte volte Nashat ha condannato i peccati che
commettono l’emiro e gli uomini intorno a lui, ma non ha mai parlato di
agire. Come sarebbe possibile agire? -
Che cosa intendi? Nashat
si guarda nuovamente intorno, per accertarsi che non ci sia nessuno. Di
colpo, Latif si sente inquieto. Ora la voce dello stalliere è appena un
sussurro. - Il
tempo è venuto. La collera divina incombe sui peccatori. E chi non lotta
contro il peccato, è complice dei peccatori. -
Sì, ma… Latif
non sa come proseguire. -
Latif, tu hai accesso alle stanze dell’emiro. Latif
guarda Nashat, smarrito. Intende chiedergli di uccidere l’emiro ‘Izz? Nashat
continua: - Tu
e il pittore, su cui Iddio farà cadere il meritato castigo, non venite
perquisiti quando l’emiro vi convoca. Sono ormai molti anni che siete al suo
servizio. Iddio ti offre la possibilità di espiare i tuoi peccati. - Che
cosa vuoi che io faccia, Nashat? Io… non so maneggiare le armi. Latif
accompagnò in battaglia il suo signore e amante, ma sono passati dodici anni.
Latif non aveva mai combattuto prima e non ha mai più preso in mano un’arma
dopo quel giorno. -
Basta che oggi stesso tu nasconda nella sala dove il pittore dipinge il
pugnale che io ti darò. L’emiro viene spesso a vedere il pittore all’opera.
Altri eseguirà il compito e guadagnerà il paradiso. È scritto nel Corano: A chi combatte per la causa di Allah, sia ucciso
o vittorioso, daremo presto ricompensa immensa. Chi spegnerà la vita
dell’emiro subirà il martirio e salirà nel paradiso dei credenti. Latif
si accorge di tremare. -
Nashat… io… non posso… Latif
è angosciato. Da quando Nashat gli ha mostrato che si stava perdendo, ha
sempre cercato di mantenersi puro e fuggire il peccato: a volte è difficile
anche questo, perché il desiderio lo assale a tradimento. Ma ora Nashat gli
chiede ben altro: vuole che contribuisca all’omicidio dell’emiro. ‘Izz è
sempre stato buono con lui ed è un signore giusto e generoso. È vero che vive
nel peccato, ma ucciderlo… Nashat
coglie l’esitazione di Latif. Si chiede se non ha fatto male a parlare.
Insiste: -
Latif, è scritto nella seconda sura del Libro: Può essere che una cosa vi ripugni mentre è per voi un bene, e può
essere che amiate una cosa mentre è per voi un male. Dio sa e voi non sapete. Latif
annuisce. Non sa che cosa dire: le parole dello scudiero lo hanno colto di
sorpresa, non si aspettava questo. Nashat interpreta il cenno e il silenzio
come un assenso. -
Aspettami qui. Nashat
si allontana e torna poco dopo con un involto. Lo porge a Latif, che lo
prende. Avvolto nella stoffa c’è un oggetto duro, di certo il pugnale. -
Nascondilo nell’angolo dove c’è la cassa con le borchie di rame, tra i
cuscini. Latif
è paralizzato. Vorrebbe dire di no, ma sente un rumore di passi: qualcuno sta
entrando nella scuderia. Mentre fa scomparire il pugnale sotto la tunica, si
rende conto che la mano gli trema. L’uomo
che è entrato è Azzaam, uno degli ufficiali: un bel giovane, con capelli e
barba neri e occhi color nocciola, un viso dai lineamenti regolari e un corpo
snello ed elegante. Azzaam
saluta e chiede il cavallo che monta abitualmente. Nashat lo va a prendere.
Quando torna, l’ufficiale dice, fissando lo scudiere: -
Oggi vado in un giro di perlustrazione con il comandante Barbath. Nashat
sorride e annuisce. -
Che il Signore ti protegga, Azzaam. Azzaam
fa un cenno con il capo e conduce il cavallo fuori dalla scuderia, nel
cortile. Latif è un po’ stupito della formula augurale usata da Nashat: un
normale giro di controllo non presenta nessun rischio significativo. Perché
lo stalliere si è rivolto così all’ufficiale? Nashat
guarda Latif e dice: - Il
comandante Barbath è un peccatore e l’inferno lo attende. Latif
annuisce. Con Barbath ha avuto diversi rapporti. Il comandante lo ha preso
più volte, quando Latif era un suo schiavo. Latif ha goduto tra le sue
braccia, con un’intensità che ancora ricorda. Non aveva mai goduto
altrettanto. Latif china il capo, vergognandosi. Nashat
gli dice: -
Iddio perdona i peccati di coloro che si pentono. Azzaam è un vero credente.
Il comandante è un peccatore, i suoi vizi sono innumerevoli e immondi. Egli
protegge l’emiro, consentendogli di vivere e di perseverare nel peccato.
Allah guiderà la mano del giusto. Ora vai, non è bene che tu rimanga a lungo
qui. Qualcuno potrebbe sospettare. Latif
si allontana, angosciato. Azzaam intende uccidere Barbath? Latif prova un senso
di smarrimento. Barbath è stato buono con lui, gli ha restituito la libertà.
Barbath è un peccatore, secondo Nashat merita di morire. Istintivamente Latif
porta la mano al petto e sotto la tunica sente il pugnale. Che cosa sta
facendo? Vogliono uccidere Barbath e l’emiro! E lui dovrebbe essere
complice?! Quando
esce nel cortile, vede Barbath e Azzaam che parlano. Entrambi tengono in mano
le briglie del proprio cavallo. Latif vorrebbe avvicinarsi al comandante,
avvertirlo, ma non può farlo, perché è insieme ad Azzaam. Il cavallo di
Barbath nitrisce e scuote la testa: è un magnifico stallone, che il
comandante ha domato da poco, e ogni tanto è ancora irrequieto. Barbath
ride. Poi dà la briglia della sua cavalcatura ad Azzaam, gli dice qualche
cosa e si dirige verso la porta delle cucine, quella vicino a cui si trova
Latif. Il giovane si infila nello stanzone che funge da ingresso alle
dispense e alle cucine. Non c’è nessuno nella stanza. Barbath entra. Vede
Latif e gli sorride: -
Che c’è Latif? Sembri preoccupato. Barbath
gli è affezionato, lo ha sempre trattato bene. Azzaam vorrebbe ucciderlo.
Latif si guarda intorno. Non c’è nessuno. Gli sembra che sia un segno della
volontà di Allah. Fissa Barbath e dice: -
Credo che Azzaam voglia ucciderti oggi. Barbath
fissa Latif allibito. Fa due passi avanti e gli si avvicina. -
Perché dici questo? Che cosa sai? Latif
scuote la testa. Di scatto si volta e fugge via. Barbath
rimane fermo un momento. Raggiunge la cucina, dove si procura una fiasca
d’acqua. Poi ritorna in cortile. Sorride ad Azzaam. Non dice nulla:
preferisce nascondere i suoi pensieri, ma starà in guardia. Se non succederà
nulla, al ritorno forzerà Latif a spiegarsi. Ma è difficile che il giovane
abbia parlato senza motivo. Azzaam
e Barbath si allontanano a cavallo. Dall’alto delle mura, Feisal li guarda.
Sa benissimo che oggi Barbath intende scopare con l’ufficiale. A Barbath
Azzaam piace molto e Feisal lo ha notato: Feisal sa leggere i desideri e le
emozioni di Barbath. Le
prime volte sapere che Barbath cercava altri uomini lo ha fatto soffrire. Ha
pensato che Barbath non lo amasse più. Poi ha capito che l’amore che Barbath
prova per lui non è diminuito. Ma Barbath non si accontenta di un solo corpo:
il suo desiderio si accende facilmente e se può Barbath cerca di soddisfarlo.
Feisal
ha accettato la situazione: ha capito che non ha senso chiedere all’uomo che
ama di essere diverso da com’è. Prova ancora una punta di gelosia ogni volta
che vede Barbath interessarsi a un altro maschio, ma con il tempo si è
abituato. Quando parla con Qais e Mahdi, i due ufficiali che sono i suoi
migliori amici e che si amano, è un po’ invidioso del loro rapporto, perché
loro non cercano altri corpi. Ma sa che Barbath lo ama. E allora cerca di
ignorare la gelosia che ogni tanto lo punzecchia. Barbath
e Azzaam hanno raggiunto le colline. È una bella giornata, una di quelle in
cui l’estate incomincia a cedere il passo all’autunno e il caldo è piacevole
e non soffocante. Il cielo è terso, senza una nuvola. Sono le condizioni
ideali per una bella cavalcata e per una scopata all’aperto, sull’erba
accanto al torrente. Da tempo Barbath desidera Azzaam e il giovane ufficiale
gli ha fatto capire di non essere insensibile al fascino del comandante. Fino
a ora è mancata l’occasione. Barbath l’ha creata, proponendo ieri un piccolo
giro per far conoscere all’ufficiale le colline a nord della città e
mostrargli alcune fortificazioni. Barbath contava di scopare per la prima
volta con Azzaam, che alla proposta di un giro a cavallo ha risposto con
entusiasmo. Ma dopo le parole di Latif, il comandante non è più sicuro che la
giornata si svilupperà come previsto. In
effetti da tempo Azzaam si è accorto dell’interesse di Barbath nei suoi
confronti e ha finto di essere attratto da lui, memore di un insegnamento
dello sceicco Ramzi: non c’è momento migliore per colpire di quando il
peccatore cede ai desideri della carne. Gli uomini abbassano la guardia e la
vendetta divina li coglie, proprio mentre si accingono a commettere il
peccato. Barbath
ha portato Azzaam in un’area isolata, dove un torrente scende dalla montagna. -
Che ne diresti di un bel bagno, Azzaam? Non c’è niente di meglio che
rinfrescarsi un po’, in una giornata calda come questa. -
Certo, comandante. Mi sembra una bella idea. L’acqua del torrente ci
rinfrescherà. Barbath
incomincia a spogliarsi, mentre con la coda dell’occhio osserva Azzaam.
Facendo finta di guardare verso il torrente, Barbath osserva il corpo forte e
ben tornito che emerge dagli abiti, la peluria scura sul petto. Ora Azzaam è
nudo e Barbath ne può vedere la maschia bellezza: nonostante in questo
momento abbia altro per la testa, la vista accende il suo desiderio e il
cazzo gli si tende. Gli sembra che Azzaam stia controllando se lui guarda
dalla sua parte e allora gira un po’ la testa, come se la sua attenzione
fosse attirata da qualche cosa sul fianco della collina, ma non perde di
vista Azzaam: nel suo atteggiamento legge una conferma delle parole di Latif.
Vede l’ufficiale far scivolare il pugnale sotto la tunica. È sicuro che
quella lama è destinata a lui. Azzaam non si è accorto che il comandante ha
colto il suo movimento. Barbath
si volta verso Azzaam. Vede lo sguardo del giovane scorrere lungo il suo
corpo, ma ora è diffidente nei suoi confronti e non gli sembra di leggere
desiderio. O forse sì, forse c’è anche desiderio, insieme a qualche cosa che
Barbath non saprebbe definire. Forse repulsione. Barbath è teso, pronto a
scattare, ma lo nasconde. Sorride
e dice: -
Andiamo, Azzaam? Azzaam
annuisce. Barbath aspetta che l’ufficiale si avvii, poi lo segue. Ne guarda
il culo, sodo e snello, perfetto. Il cazzo cresce ancora di volume e si
irrigidisce. Barbath
scherza: -
Scusa, Azzaam, ma tu sei un bell’uomo e il mio corpo dice quello che pensa molto
chiaramente. Spero che la cosa non ti dia fastidio. Azzaam
sorride e muove la mano in un gesto di diniego. -
No, no, nessun problema. Ma
Azzaam non mostra nessuna disponibilità, non si fa avanti. Sguazzano
nell’acqua fresca e l’erezione di Barbath si attenua, ma quando escono e
nuovamente il comandante ha modo di osservare il culo dell’ufficiale, il
cazzo riacquista volume e rigidità. Si
avvicinano agli abiti. Barbath è molto vicino ad Azzaam. Si rende conto che
il giovane sta per agire. Azzaam si china sulla sua tunica, guardando verso
Barbath. Pare rabbuiarsi in viso e dice: -
Che cosa c’è là? Con
un movimento della testa indica un punto alle spalle del comandante. Barbath
ha compreso. Finge di voltarsi per guardare nella direzione indicata da Azzaam,
ma non perde di vista il giovane. Nel momento in cui questi afferra l’arma,
Barbath gli blocca il braccio e lo colpisce con un violento pugno in faccia.
Azzaam è intontito dal colpo. Un secondo pugno gli toglie ogni forza. Barbath
lo colpisce ancora due volte. Azzaam crolla a terra, inerte. Il comandante lo
lega saldamente. Poi afferra il giovane per i capelli e lo solleva,
chinandosi su di lui. -
Perché? Azzaam
ha la bocca e il mento coperti dal sangue colato dal naso e dal labbro. Non
risponde. Guarda Barbath con odio. -
Perché, bastardo, perché? Azzaam
sputa del sangue. Dice: -
Iddio… ti punirà per i tuoi peccati. Barbath
tende il braccio con forza, scagliando Azzaam al suolo. Il giovane batte la
faccia contro la terra e altro sangue gli esce dal naso e dalla bocca.
Barbath lo guarda contorcersi a terra e dice: -
Prima sarai punito tu per i tuoi. Barbath
si riveste. Il giovane è ancora nudo, perché non aveva ancora indossato
nessun indumento: probabilmente pensava che senza vestiti avrebbe potuto
uccidere senza sporcarsi gli abiti di sangue. Si sarebbe pulito nel torrente
e poi se ne sarebbe andato, senza che nulla rivelasse l’omicidio commesso.
Barbath si dice che potrebbe caricarlo sul cavallo nudo, ma tutto sommato è
meglio coprirlo. Infila addosso ad Azzaam la tunica, senza slegarlo, così che
le braccia non sono nelle maniche, ma sotto la parte che copre il tronco. Poi
carica il giovane sul cavallo, legandolo in modo che non cada. Prima
di mettersi in movimento, riflette sul da farsi. Con ogni probabilità Azzaam
non ha agito da solo. Se Latif sapeva, è perché qualcuno gli ha detto qualche
cosa. Deve scoprire chi sono i complici di Azzaam. E allora è meglio che non
torni subito in città con il suo prigioniero, perché vedendolo arrivare i
complici saprebbero che il loro piano è fallito e fuggirebbero. Invece
di tornare a Jabal al-Jadid, Barbath si dirige a un piccolo forte non
lontano, un posto di guardia lungo una delle strade principali. C’è una guarnigione di otto soldati, comandata
da un ufficiale. Barbath
parla a lungo con il comandante della guarnigione, poi scrive una lettera che
gli affida. La trappola si richiuderà sugli assassini. Feisal
è a palazzo, a colloquio con due soldati coinvolti in una rissa. Un altro
soldato gli comunica che un ufficiale chiede di parlare con lui da solo, con
la massima urgenza. Feisal è stupito della richiesta. Congeda i due, mettendo
entrambi in punizione, e riceve l’uomo, che gli consegna una lettera del
comandante e gli riferisce quanto Barbath gli ha detto a voce. Feisal
è allibito. Legge la lettera, poi rimanda l’ufficiale al forte, dicendogli di
assicurare Barbath che le sue istruzioni verranno seguite. Poi fa chiamare
Qais e Mahdi: sono i due ufficiali in cui lui e Barbath hanno piena fiducia,
quelli che insieme a Feisal hanno protetto il giovane ‘Izz quando era in fuga
dal Circasso. Mahdi
arriva subito. Qais è nella parte più interna del palazzo e, nonostante
l’urgenza, passa un buon momento prima che il messaggero riesca a raggiungerlo.
Non appena viene contattato, si reca da Feisal, che spiega la situazione. -
Azzaam ha cercato di uccidere il comandante Barbath. Qais
e Mahdi sono sbigottiti. Subito Qais chiede: -
Barbath è ferito? -
No. Latif lo aveva avvisato e ha bloccato Azzaam senza problemi. -
Latif? Come sapeva? Feisal
si rivolge a Mahdi: -
Questo devi stabilirlo tu, Mahdi. Fallo chiamare da Waahid, in modo che non
sospetti niente e non avvisi nessun altro, poi mettilo sotto torchio. Qais
interviene: -
Latif è molto cambiato. E spesso va nella scuderia. Credo che parli con
Nashat. -
Allora, Mahdi, fatti dire tutto quello che sa. - Va
bene. Nuovamente
interviene Qais: -
Perché Azzaam ha cercato di uccidere il comandante? -
Barbath sospetta che sia un seguace degli ismailiti. -
Quei cani! Feisal
aggiunge: -
Tra un po’ diffonderemo la voce che è stato ritrovato il corpo di Barbath.
Qais, tu avvisa l’emiro di ciò che è accaduto e della trappola che stiamo
tendendo ai complici di Azzaam. Mahdi
raggiunge Waahid, che sta disegnando un bozzetto per una scena che deve
dipingere. -
Waahid, manda un servitore a chiamare Latif. Che dica che hai bisogno di lui. Waahid
guarda Mahdi, preoccupato. Vorrebbe chiedere perché dev’essere lui a far
chiamare Latif, ma sa di non poterlo fare, per quanto conosca Mahdi da anni. Waahid
dice a un servo di cercare Latif e di farlo venire da lui. Latif
è nella sua camera. Ha nascosto il pugnale tra i suoi vestiti ed è seduto in
un angolo, angosciato. Si tormenta le mani, incapace di tenerle ferme. Il
respiro è affannoso. Non è sceso a mangiare, divorato dall’ansia. Per tutta
la mattina si è chiesto che cosa succederà. Azzaam riuscirà a uccidere il
comandante, anche se lui lo ha avvisato? L’idea gli fa orrore. Nashat
di certo si aspetta che lui abbia già messo il pugnale dove gli è stato
indicato o che stia per farlo, ma Latif non ha nessuna intenzione di
diventare complice di un omicidio. Purché Barbath non venga ucciso. Se
tornerà vivo, Latif gli parlerà, chiederà a lui che cosa deve fare. Ma questo
significherebbe tradire Nashat. Non farlo sarebbe tradire l’emiro. Latif ha
le lacrime agli occhi. Un
servitore bussa. Latif sussulta. Gli ci vuole un momento per trovare la voce
e chiedere chi bussa, mentre con la manica si asciuga le lacrime. Il servo
dice il suo nome e quando Latif gli dice di entrare, riferisce il suo
messaggio: -
Latif, il pittore Waahid ti chiama. Vuole che tu vada da lui subito. Latif
si sente sollevato: non è ancora arrivato il momento temuto. Mentre cammina
per il corridoio, si chiede se non parlare con Waahid. Sono stati amanti per
anni, da quando erano ragazzi. Poi si sono allontanati. No, non si sono
allontanati: è stato Latif ad allontanarsi. Forse può cercare di spiegare a
lui, Waahid lo aiuterà a capire che cosa deve fare, per non tradire l’emiro e
neppure Nashat. Ma
accanto a Waahid c’è Mahdi, che gli dice subito: -
Vieni con me. Latif
trema, ma abbassa il capo e segue l’ufficiale in un’altra stanza. Il momento
è giunto e ormai è con le spalle al muro. Mahdi
gli chiede: -
Latif, tu hai avvisato il comandante Barbath che Azzaam avrebbe cercato di
ucciderlo. Latif
non può negare. Annuisce, abbassa il capo e dice, pianissimo, tanto piano che
quasi non si sente: -
Sì. Poi
solleva la testa e la domanda sale alle sue labbra, senza che riesca a
trattenerla: - È
vivo, vero? Non l’ha ucciso? Mahdi
coglie benissimo l’angoscia del giovane. Gli fa piacere che Latif si
preoccupi della sorte del comandante. -
Sì, è vivo. Ma tu devi dirmi come l’hai saputo. Chi te l’ha detto? Latif
abbassa di nuovo la testa. Sa di non avere scampo. A fatica, trova le parole
per rispondere: -
Nessuno me l’ha detto. L’ho intuito. -
Come? In che modo? Latif
non vorrebbe tradire Nashat. Si morde il labbro. Non sa come rispondere. È
Mahdi a dire: -
Nashat, vero? Latif
alza gli occhi su Mahdi. Annuisce, senza parlare. -
Raccontami tutto, Latif. Latif
esita ancora un momento, poi incomincia a raccontare. Man mano che procede,
prova una sensazione di sollievo: gli sembra di liberarsi dal peso che lo
opprime. -
Nashat mi ha aperto gli occhi, mi ha mostrato che peccavo. Io ho cercato di
emendarmi. Non pensavo che ci fosse altro, lui mi insegnava a stare sulla
retta via. Oggi però… Latif
si ferma. Mahdi gli fa un cenno. Latif riprende, mentre le lacrime scorrono sulle
sue guance: - Mi
ha dato un pugnale. Dovevo metterlo nella stanza dove Waahid dipinge.
Vogliono uccidere l’emiro. Mahdi
si tende: l’assassinio di Barbath era solo una parte del piano progettato.
Latif prosegue: - Poi
è arrivato Azzaam, Nashat lo ha benedetto. Quando lui è uscito, mi ha detto
che il comandante Barbath è un peccatore e merita di morire. Allora ho
capito. E ho avvisato il comandante. Non volevo che morisse. Non voglio che
l’emiro venga ucciso. Mahdi
annuisce. Latif non mente, di questo è sicuro. E grazie a lui il piano infame
è stato sventato. Latif
non ha altro da dire. Mahdi lo accompagna nella sua stanza e si fa dare il
pugnale. Gli ordina di non lasciare la camera per nessun motivo e di non
parlare con nessuno, poi raggiunge Qais, che intanto ha avvisato l’emiro. Dopo
aver parlato con Mahdi, Qais raggiunge la scuderia. -
Nashat, oggi Azzaam è uscito con il comandante Barbath, vero? Nashat
sa che non avrebbe senso negare per proteggere Azzaam: sicuramente molti li
hanno visti uscire insieme. -
Così mi ha detto, che andava a fare un giro di perlustrazione con lui. Io gli
ho dato il cavallo, ma non ho visto il comandante. Qais
è molto serio, mentre dice: - Il
corpo del comandante è stato ritrovato vicino a un torrente, non lontano dal
passo del Lupo. È stato pugnalato a morte. Di Azzaam non si sa nulla. Nashat
gioisce, ma sul suo viso compare un’espressione di profondo dolore. -
Pugnalato? Dio lo accolga tra i giusti. L’augurio
in realtà è rivolto ad Azzaam. -
Vieni con me, l’emiro vuole sentire la tua testimonianza. Credo che voglia
chiederti alcune cose su Azzaam. Nashat
è un po’ stupito: lui e Azzaam hanno sempre badato a non farsi vedere
insieme, per cui non capisce perché vogliano interrogarlo sull’ufficiale. In
ogni caso non può certo dire di no. Segue Qais, nascondendo la sua gioia per
il successo della prima parte del piano. Spera che presto anche l’emiro possa
cadere sotto i colpi dei veri credenti. Non
ha paura dell’interrogatorio che deve affrontare, ma quando passano dal corpo
di guardia e di lì scendono nei sotterranei, diventa inquieto. Non capisce
perché lo portino nelle celle: di certo l’emiro non lo interrogherà nelle
segrete. Nel
corridoio ci sono quattro guardie che subito si impadroniscono di lui. -
Cosa fate? Ma perché? Nessuno
gli risponde. Lo portano in una cella e lo incatenano al muro, a braccia e
gambe larghe. Nashat
continua a chiedere: -
Perché mi trattate così? Non ho fatto nulla. Perché? Una
guardia si mette davanti a lui e gli lacera completamente la tunica, poi gli
strappa i pantaloni. Ora Nashat è nudo e solo brandelli di vestiti pendono
dal suo corpo. Qais
si mette davanti a lui: -
Nashat, sappiamo tutto. Sei complice di Azzaam. Quell’infame non è riuscito a
uccidere Barbath, Allah non ha voluto: è stato bloccato dal comandante e ha
confessato. Hai dato un pugnale a Latif perché lo nascondesse in una delle
stanze dove si reca l’emiro, perché qualcun altro potesse ucciderlo. Nashat
guarda Qais, gli occhi sgranati per il terrore. Sa di essere perduto. Il
piano è fallito e lo aspetta una morte orribile. -
Dicci chi sono i tuoi complici, Nashat. La morte ti attende, ma almeno ti
risparmierai la tortura e avrai una pena non infamante. Nashat
scuote la testa. Un’ondata di terrore gli stringe le viscere. La sua fede è
forte, ma il suo corpo è debole: Nashat ha paura di non reggere a lungo il
dolore. Grida: -
No, no! Non dirò niente. Iddio mi assisterà. Qais
si rivolge alla guardia che ha strappato gli abiti di Nashat. -
Fallo parlare tu, Ychai. Ychai
annuisce. Esce dalla cella e torna con un braciere. Accende il fuoco e pone
sulle fiamme due sbarre di ferro. Aspettando che il ferro si arroventi,
guarda Nashat e sorride. Ychai è abituato a interrogare i prigionieri e
ottenere da loro le informazioni che chiede: gli basta un’occhiata per capire
che Nashat cederà. Non sarà necessario andare molto avanti. Un po’ gli
spiace, perché questo figlio di puttana voleva uccidere l’emiro e il
comandante: si meriterebbe davvero di essere torturato a lungo. Ychai lo
farebbe volentieri: per Barbath Ychai nutre una grande venerazione, come la
maggior parte dei soldati. Ma si limiterà a svolgere il suo compito. Quando
un ferro è sufficientemente caldo, Nashat lo prende con uno straccio e lo
preme contro l’ascella destra di Nashat, che grida disperatamente, mentre
l’odore di carne bruciata si diffonde nell’aria. Ychai
posa il ferro sul fuoco e prende l’altro. Quando Nashat vede che il carnefice
sta per fare la stessa cosa con l’altra ascella, urla di nuovo: -
No, no! Nooooooo! Il
dolore che lo investe è troppo forte. Nashat sviene. Un getto d’acqua lo
risveglia. Nashat guarda il carnefice, gli occhi dilatati dal terrore. Ychai
prende una delle due sbarre di ferro e la muove in direzione dei genitali di
Nashat, che prende a tremare. -
Intendi collaborare? Nashat
annuisce, senza staccare gli occhi dalla sbarra, che Ychai avvicina
lentamente alla cappella. -
No! Dirò tutto, dirò tutto. Qais
interviene: - I
nomi, tutti. Chi avrebbe dovuto uccidere l’emiro? Nashat
risponde, guardando Qais: fa il nome di due servitori e un soldato del
palazzo. Poi i suoi occhi tornano a fissare la punta rovente, a nemmeno una
spanna dal suo cazzo. -
Vogliamo i nomi anche di tutti gli altri. Hai capito? Nashat
esita un attimo. Si chiede se non cercare di coprire gli altri, quelli che
non avevano nessun ruolo attivo nel piano, ma solo una funzione di supporto.
Ychai avvicina la sbarra, che ora è a due dita dalla cappella. Nashat ne può
sentire il calore. -
No! Dirò tutto. C’è il falegname… Altri
tre nomi, più quello di un pastore che non vive in città, ma vi viene spesso
e fa da collegamento con gli ismailiti di Qasr al-Hashim. Qais pone molte
altre domande. Ychai tiene sempre la sbarra incandescente vicino al cazzo di
Nashat, che risponde, senza nascondere nulla. A un
cenno di Qais, Ychai ritira la sbarra, un po’ dispiaciuto: avrebbe volentieri
arrostito la cappella di questo bastardo. Nashat si affloscia,
semincosciente, mentre le lacrime gli scorrono sul viso. Qais
riferisce a Feisal, che dà rapidamente gli ordini. I complici devono essere
arrestati senza che ognuno di loro sappia degli altri, in modo che nessuno
possa sfuggire. Perciò l’operazione si svolge nella notte, quando ormai i
cittadini sono nelle loro case. L’arresto
avviene senza problemi, perché nessuno sospetta che il complotto sia stato
scoperto. In città circola invece la voce che Barbath sia stato ucciso: è
stato Feisal a farla mettere in giro, in modo che gli assassini si sentano
tranquilli. Quando
i sei uomini sono in cella, un soldato parte per avvisare Barbath, che arriva
nel cuore della notte, con Azzaam legato sul cavallo. Davanti alla porta
chiama: -
Sentinella! -
Chi è là? - Il
comandante Barbath. Il soldato
esulta nel sentire la voce del suo comandante: come tutti, nel pomeriggio ha
sentito dire che forse Barbath era stato assassinato. La notizia non era
sicura, ma aveva gettato nello sconforto la popolazione e i soldati: Barbath
per i cittadini di Jabal al-Jadid è un eroe, colui che ai tempi del Circasso
ha portato in salvo il giovane ‘Izz e poi è tornato a morire a fianco del
vecchio emiro; colui che è stato schiavo e ha subito ogni umiliazione, ma non
si è piegato. L’emiro è amato, perché è giusto e generoso, ma l’attaccamento
nei confronti di Barbath è più forte: in lui i cittadini vedono un padre
protettore. I
soldati aprono la porta. -
Comandante, che gioia! Dicevano che vi avessero ucciso. -
Questo bastardo ci ha provato, ma gli è andata male. I soldati
guardano Azzaam legato alla sella. Uno gli afferra i capelli e gli solleva il
viso, avvicinando la torcia per vedere. -
Azzaam! Un ufficiale! Il
soldato gli sputa in faccia. Anche gli altri due soldati si avvicinano,
frementi di rabbia, desiderosi di colpire, ma Barbath li ferma con un gesto. -
Basta così, ragazzi. Pagherà quello che ha fatto. Barbath
raggiunge il palazzo, accolto anche lì con grande gioia. Azzaam viene portato
in una cella. Feisal,
con Qais e Mahdi, relaziona a Barbath: -
Nashat non ha retto: ha confessato quasi subito. -
Nashat? C’è lui dietro Azzaam? -
Sì, è lui l’uomo degli ismailiti, quello che ha organizzato tutto. Ma messo
sotto tortura ha ceduto in fretta. Li abbiamo arrestati tutti. Due servitori
del palazzo, un soldato e in città due artigiani e un mercante. Domani
mattina contiamo di catturare anche il pastore che fa da collegamento con
Ramzi. Sette in tutto, più Nashat e Azzaam, naturalmente. Barbath
annuisce. - E
Latif? Gli
risponde Mahdi: -
Latif conosceva solo Nashat, che in mattinata gli ha dato un pugnale: gli ha
ingiunto di nasconderlo in una stanza dove uno dei servitori lo avrebbe preso
e se ne sarebbe servito per uccidere l’emiro. Questo gli ha aperto gli occhi.
Ha sospettato che Azzaam volesse ucciderti e ti ha avvisato. -
Non è complice? -
No, anche se ha subito l’influsso di Nashat. -
Meglio così. Mi sarebbe spiaciuto vederlo condannare a morte. -
Adesso dobbiamo presentarci dall’emiro. Mi ha ordinato di accompagnarti da
lui, a qualunque ora tu fossi arrivato. L’emiro
è nel suo appartamento. Feisal gli ha già riferito tutto quanto emerso dalla
confessione di Nashat e dall’interrogatorio degli altri sei arrestati.
Barbath racconta quanto è avvenuto vicino al ruscello. ‘Izz è soddisfatto. -
Allah ci ha protetto e gliene siamo grati. Quanto a questi maledetti, avranno
quello che si sono meritato sulla Terra, prima di finire nella Geenna. Il
mattino seguente il pastore complice degli ismailiti viene arrestato non appena
mette piede in città. Nella giornata a Jabal al-Jadid non si parla d’altro:
quei cani degli ismailiti volevano uccidere il comandante Barbath e lo stesso
emiro, ma Allah non ha voluto che il loro piano infame avesse successo. I
maledetti verranno giustiziati. La
sera prima dell’esecuzione Barbath scende nella cella dove Azzaam è tenuto
prigioniero, le mani legate dietro la schiena. -
Domani sarai giustiziato, Azzaam. Azzaam
non dice nulla. Guarda con odio Barbath, che sorride. -
Sai, mi piacevi e te lo avrei messo in culo volentieri, ma non ti avrei mai
forzato. Non sono abituato a prendermi con la forza quelli che mi piacciono. Azzaam
sibila: -
Finirai a bruciare nell’inferno, maledetto. Barbath
ride e annuisce. -
Sì, credo che tu abbia ragione. E allora tanto vale che aggiunga un altro
peccato a tutti quelli che ho già commesso. Mi spiacerebbe che tu morissi
senza sapere che cosa si prova con un bel cazzo in culo. Azzaam
arretra. -
Non oserai… Non puoi fare questo. Barbath
ride, una risata aspra. C’è molto sarcasmo nella sua voce, mentre dice: -
No? Pensi di potermelo impedire? Barbath
si avvicina. Azzaam è contro la parete. Barbath lo colpisce al ventre, due
volte. Il giovane cade in ginocchio, incapace di reggersi in piedi. Il
comandante lo afferra per i capelli e lo stende a terra, gli solleva la
tunica e gli cala i pantaloni, scoprendo il culo. -
Hai un bel culo, Azzaam. Sarebbe un peccato che morissi vergine. -
No, no… Barbath
si cala i pantaloni, mettendo in mostra il grosso cazzo già rigido. Si
inumidisce la cappella e si stende sul prigioniero. Lo incula con un colpo
secco, spingendo il cazzo fino in fondo: vuole fare male, farla pagare a
questo scellerato. Azzaam grida ancora: -
Nooooooo! L’urlo
si spegne in singhiozzi. Barbath spinge fino in fondo, poi si ritrae e avanza
nuovamente. Fotte con gusto, felice di prendersi questo bel culo e di
umiliare un bastardo che voleva ucciderlo a tradimento. Va avanti a lungo.
Azzaam tace, le lacrime agli occhi. Infine il piacere esplode e Barbath si
ritrae. Si pulisce con un lembo della tunica di Azzaam e si alza. -
Spero ti sia piaciuto, Azzaam. A me è piaciuto. Il
prigioniero mormora solo: -
Iddio ti punirà. - Me
l’hai già detto, Azzaam. E ti ho risposto che prima sarai punito tu. Domani
stesso scoprirai che cosa ti attende. E non saranno le vergini del paradiso
dei giusti. Barbath
si sposta, mettendosi davanti alla testa di Azzaam. Il cazzo ormai ha perso
consistenza, per cui può pisciare. Il getto scende sul capo del condannato. Poi Barbath
si rassetta ed esce. L’indomani
la città si ferma: le botteghe apriranno il pomeriggio, il mercato non ci
sarà. Tutti vogliono assistere all’esecuzione di questi infami. Nashat,
Azzaam e gli altri sette condannati vengono prelevati dalle celle dove sono
rinchiusi. Escono nel cortile della fortezza, nella luce abbagliante del
giorno che gli fa socchiudere gli occhi. Poi vengono condotti a uno degli
ingressi secondari del palazzo: l’esecuzione avverrà nella piazza antistante
la fortezza, ma i prigionieri non escono dall’ingresso principale, che dà
proprio sulla piazza; dovranno invece fare un giro lungo le strade della
città, tra la folla che li attende. L’emiro sa che gli abitanti hanno piacere
di partecipare in qualche modo e di non essere solo spettatori. Non c’è
rischio di fuga: di certo nessuno cercherà di liberare i condannati. I
soldati hanno teso delle corde per impedire alla folla di avvicinarsi troppo
ai prigionieri: i condannati devono arrivare vivi al supplizio. Oltre
la porta, lungo le strade che i prigionieri dovranno percorrere per giungere
al luogo del supplizio, si accalca una grande ressa. Quando gli uomini
compaiono, c’è un momento di silenzio, poi si levano maledizioni e insulti. I
condannati sfilano per le strade di Jabal al-Jadid tra due ali di folla, che
le guardie forzano a rimanere contro i muri delle case. Ma uomini e donne si
protendono, per cercare di ferire i condannati: alla folla non sembra che il
supplizio che li aspetta sia sufficiente. Le dita pizzicano, stringono, graffiano,
lacerano. Qualcuno ha nascosto nella manica o tra le dita un ago, una punta,
una lama, con cui cerca di ferire. Dalle finestre altri gettano addosso ai
condannati rifiuti, oggetti, escrementi. I corpi dei condannati si coprono di
piccole ferite e di sporcizia. Qualcuno cade a terra, ma le guardie lo
forzano ad alzarsi. Infine
il gruppo arriva alla piazza dell’esecuzione. Prima salgono sul palco i due
artigiani, il mercante e il pastore. Un artigiano piange in silenzio; il
mercante prega, scosso da un tremore inarrestabile; il pastore grida, chiede
pietà. Solo il secondo artigiano sembra indifferente. Il
mercante viene fatto inginocchiare. Il boia alza la spada e la cala con un
movimento deciso: la testa rotola a terra. Con uno strattone il pastore riesce
a liberarsi dai soldati che lo tengono e si getta dal palco, ma la folla che
lo inghiotte non offre protezione: felici di poter mettere la mano su uno di
coloro che volevano assassinare l’emiro e il comandante, gli uomini
colpiscono con pugni e calci, chi ha un arnese o un oggetto che possa essere
usato come corpo contundente vibra colpi senza pietà. Quando i soldati
riescono infine a raggiungere il pastore, questi è coperto di ferite e non è
più in grado di reggersi in piedi, gli abiti sono completamente lacerati.
Mentre i soldati lo afferrano, la folla colpisce ancora. Viene riportato
quasi incosciente sul palco, dove un soldato deve reggergli la testa per i
capelli perché il boia possa decapitarlo. È poi il turno dei due artigiani.
Le quattro teste verranno infilate sui pali all’ingresso della città, come
monito. I corpi saranno invece abbandonati agli animali del deserto: per
coloro che volevano commettere crimini così gravi, non vi è sepoltura. Per
i due servitori, il soldato, Nashat e Azzaam la pena è assai più grave:
Nashat ha organizzato gli omicidi; Azzaam voleva uccidere Barbath; uno dei
due servitori avrebbe assassinato l’emiro; il soldato ha tradito il suo
compito legandosi agli assassini. I
soldati strappano le loro tuniche, lasciandoli a torso nudo. Poi li legano
alle croci, che vengono issate. La folla accompagna con grida di giubilo il
sollevamento delle croci e si bea dell’agonia che ha inizio. Non sarà breve:
soffriranno a lungo, forse per più di un giorno. Tra
gli spettatori c’è anche Latif, sulle mura del palazzo. Gli è a fianco
Barbath: è stato lui a volere che assistesse. Mentre
i corpi vengono issati sulle croci, Barbath dice: -
Latif, ti ringrazio perché il tuo avvertimento mi ha quasi sicuramente
salvato la vita e ha permesso di scoprire i colpevoli. Non avrai punizioni,
ma spero che tu abbia capito con chi ti eri messo. Latif
annuisce. C’è dentro di lui una grande confusione, una stanchezza che lo
inghiotte. Mormora: -
Forse vorrei essere tra quelli che sono stati decapitati. Almeno sarebbe
tutto finito. Barbath
lo guarda, perplesso. Latif gli fa pena. -
Credo che tu abbia bisogno di allontanarti, Latif. Latif
alza lo sguardo su Barbath: - Mi
manderete in esilio? -
No, Latif. Sarai libero di tornare quando vorrai, se lo vorrai. Ma lontano da
qui forse troverai la pace. Latif
parte due giorni dopo: la sua destinazione è una taifa, una confraternita sufi, nel Nord della Siria. Barbath
spera che nel silenzio e nella meditazione le sue ferite possano guarire. Il
giorno in cui Latif parte, Ramzi viene informato di tutti i dettagli
dell’esecuzione. Il fallimento dell’impresa gli brucia: sperava di potersi
presentare allo sceicco Sinan forte di un doppio successo. Dovrà trovare il
modo di recuperare e uccidere ‘Izz, ma non sarà facile: l’emiro sta in
guardia e dopo questo tentativo di ucciderlo, sarà ancora più diffidente. Per
Ramzi è giunta l’ora di recarsi dallo sceicco a Masyaf e fare una relazione
sulle due imprese che gli erano state affidate. Non va volentieri da Sinan,
soprattutto ora che deve riconoscere il proprio fallimento con l’emiro. Sa
bene che basterebbe una parola sbagliata, un sospetto, per provocare la sua
morte: per lo sceicco la vita di Ramzi non ha nessun valore. Ramzi
si mette in strada: il percorso richiede alcuni giorni. Quando infine
raggiunge la fortezza di Masyaf, si presenta e chiede di parlare con Sinan.
Dopo una lunga attesa, viene ammesso al cospetto dello sceicco. Rashid
ad-Din Sinan è seduto sui cuscini. Davanti a lui Ramzi ibn Qais si prosterna
e poi rimane in ginocchio. Ramzi è un guerriero potente, ma Sinan è il
signore di tutti coloro che in Siria credono nel ritorno dell’Imam nascosto.
Tutti lo temono. Ramzi
racconta del successo dell’impresa a Barqah, conclusasi con la morte dello
sceicco, e del fallimento di quella di Jabal al-Jadid. Sinan sa già tutto, ma
lascia che Ramzi racconti. - Mi
spiace, sceicco. Gli uomini che avrebbero dovuto uccidere l’emiro e il
comandante non sono stati all’altezza del compito. Che Iddio li accolga tra i
giusti. -
L’emiro di Jabal al-Jadid deve morire, Ramzi. Devi portare a termine
quest’impresa. - Ti
ringrazio per la fiducia che mi accordi ancora, sceicco. So di non meritarla,
perché ho fallito, ma farò tutto il possibile perché questa volta non vengano
commessi errori. Sinan
annuisce. -
Ora voglio che tu mi parli della vita a Qasr al-Hashim. Ramzi
non si aspettava la domanda. Nasconde il suo disagio: sa bene che alcuni
aspetti del suo comportamento non riscuoterebbero l’approvazione dello
sceicco. -
Dimmi che cosa desideri sapere e ti risponderò sinceramente. -
Ramzi, tu sai che negli ultimi anni alcuni gruppi di credenti hanno
interpretato l’annuncio dei nuovi tempi come un’autorizzazione a infrangere
ogni regola. Io sono intervenuto con severità. -
Sceicco, ti assicuro che nel castello tutti rispettano le norme di
comportamento che ci ha dato il Profeta. Sinan
pone molte domande e le risposte di Ramzi sembrano soddisfarlo. Alla fine lo
sceicco appare convinto che a Qasr al-Hashim tutto si svolga secondo i suoi
desideri. Ramzi spera che ne sia davvero persuaso, perché ne va della sua
vita. Tornando
a Qasr al-Hashim Ramzi riflette sul modo migliore per assolvere il compito
che gli è stato affidato. Potrebbe mandare Usama a Jabal al-Jadid, ma in
questo momento il rischio che venga scoperto e non riesca a raggiungere il
suo obiettivo è altissimo: di certo la sua descrizione è stata diffusa in
tutta la Siria ed è facile che qualcuno vedendolo sospetti di lui. Bisogna
trovare un’altra strada. Ramzi
riflette a lungo. Un’idea gli viene pensando ai gusti del giovane emiro, che
ama i ragazzi con pochi anni in meno di lui. Li preferisce vergini, per
insegnare loro i piaceri del letto. C’è un ragazzo che risponde a questi
requisiti, a Qasr al-Hashim. Ramzi gli ha affidato una spedizione nella valle
del Nahr. Dovrebbe tornare tra non molto. Potrebbe… sì, potrebbe essere la
strada giusta. Ridwan
cavalca davanti ai suoi uomini e ai prigionieri: questi hanno le mani legate
da corde che sono state attaccate alle selle dei cavalli, così sono costretti
a seguire il passo dei loro nuovi padroni. Ridwan
è soddisfatto della spedizione: ha eseguito il compito che gli è stato
affidato e ha catturato nella valle del Nahr ben diciotto uomini validi, che
verranno venduti al mercato di Aleppo. E poi c’è il ragazzo, la cui bellezza
certamente permetterà di ottenere un buon prezzo. È la
prima volta che Ridwan conduce da solo una spedizione importante: lo sceicco
Ramzi ibn Qais ha avuto fiducia in lui e Ridwan ha dimostrato di meritarla.
Ridwan è molto giovane, ma è stato addestrato a combattere, per diventare un
giorno un guerriero o un sicario e spegnere la vita dei nemici del vero Dio. Giunti
al castello, gli uomini scendono da cavallo. I prigionieri sono condotti nel
locale che viene utilizzato come cella provvisoria: domani stesso partiranno
per Aleppo. Ridwan aspetta che lo sceicco lo convochi. Quando viene chiamato,
si presenta davanti a lui, si inginocchia in segno di sottomissione e poi
racconta come si è svolta la spedizione e la sua conclusione. Lo
sceicco annuisce. -
Hai compiuto la tua missione, Ridwan. Avremo venti schiavi per il mercato di
Aleppo. Ridwan
ha detto che erano stati catturati diciannove prigionieri, ma Ramzi ha
parlato di venti, sottolineando con la voce il numero. - Venti?
-
Venti. Sei tu il ventesimo. È giunto il momento della tua missione, Ridwan. Ridwan
guarda, senza capire. Ramzi aggiunge: -
Questa è la mia volontà. Ridwan
china la testa. - La
tua volontà è legge per me. Lo
sceicco sorride. -
Ridwan, Allah ti chiama per una missione. ‘Izz ibn Ashraf ad-Din, l’emiro di
Jabal al-Jadid costituisce una minaccia per la vera fede. Egli perseguita i
nostri confratelli e tratta in segreto con i cristiani. Le
motivazioni per cui Sinan vuole la morte di ‘Izz sono altre, ma Ramzi stesso
non le conosce e in ogni caso non spiegherebbe a Ridwan i calcoli politici
che stanno dietro a questa decisione: il giovane deve pensare che si tratta
solo di motivazioni religiose. - Mi
hai spesso detto che desideri compiere una missione, in cui guadagnare il
paradiso con il martirio. Questo momento è giunto. Negli
occhi del giovane si accende una scintilla. Ridwan, sottratto alla sua
famiglia quando era ancora bambino, è stato allevato a Qasr al-Hashim e
preparato al martirio. Gli è stato insegnato che non c’è gloria maggiore e
gioia più grande che sacrificare la propria vita al volere divino. Perciò ha
sempre desiderato compiere una di quelle missioni per cui gli uomini dello
sceicco Sinan sono conosciuti e temuti in tutta la regione. Gli altri
credenti li disprezzano e li chiamano Hashishiyya, ma hanno paura di loro:
sanno che sono tutti pronti a dare la vita in onore di Dio. -
Questo è un grande onore per me, sceicco. Ti ringrazio e rendo lode ad Allah. -
Non sarà una missione facile, Ridwan, e molto dovrai tollerare in nome della
tua missione. Iddio ti chiede di fare sacrificio del tuo corpo. Ridwan
non capisce: pensa che Ramzi faccia riferimento al martirio che dovrà subire.
-
Non chiedo di meglio che morire per la gloria di Dio. -
Non è solo questo, Ridwan. L’emiro partirà per Aleppo domani e certo si
recherà al mercato degli schiavi, come fa ogni volta. Tu sarai tra gli
schiavi, ma non tra quei cani cristiani che sono stati catturati. Sarai
venduto a parte, dal nostro fratello Muhammad Ben Fadlan, che ha ordine di
venderti solo all’emiro. ‘Izz ad-Din apprezza i giovani come te. Ridwan
ha intuito. È impallidito. Ramzi
continua: -
Ridwan, l’emiro cerca uomini giovani per il suo letto. Tra gli infiniti
peccati di cui si macchia davanti a Dio, c’è anche questo. Il tuo corpo sarà
violato, ma tu sottomettiti, perché è la volontà di Dio. Conquistando la sua
fiducia, lo potrai uccidere. Ridwan
annuisce. Gli sembra di avere la gola secca e di non riuscire a parlare. - È
un sacrificio quello che Dio ti chiede, ma così acquisterai gloria davanti a
Lui. -
Farò la volontà di Dio. E affronterò il martirio. Ridwan
desidera il martirio, ora più che mai: solo la morte in nome di Dio può
riscattare la vergogna in cui sprofonderà. Ramzi
congeda Ridwan. Il giovane è sconvolto. Ma la camera da letto è il luogo in
cui gli uomini abbassano la guardia. Il tentativo di uccidere Barbath, il
comandante dell’esercito di Jabal al-Jadid, non è riuscito. Ma Ridwan porterà
a termine la sua missione, proprio perché l’emiro lo violerà: il giovane
vorrà vendicarsi e l’umiliazione gli darà la forza di eseguire il compito
affidatogli. Ridwan
è angosciato. È stato tolto ai suoi genitori da bambino e allevato a Qasr
al-Hashim, dove lo hanno educato e preparato al sacrificio in nome di Dio. La
morte non lo spaventa: ha sempre pensato che sarebbe morto combattendo in
nome di Dio o subendo il martirio. Ma non è mai stato sfiorato dall’idea che
per compiere la sua missione avrebbe dovuto sottostare ai desideri impuri di
un altro uomo. L’idea
di essere posseduto lo sgomenta. Ha sempre represso il desiderio e scacciato
i pensieri non casti, anche se a volte nei suoi sogni essi ritornano. Non ha
mai avuto rapporti con una donna, né con un uomo. E ora dovrà accettare che
il suo corpo venga violato da un uomo impuro. Ridwan vorrebbe poter uccidere
l’emiro prima che il suo corpo sia sporcato dal contatto, ma sa che non sarà
facile conquistare la fiducia di un uomo che ha molti nemici ed è già
scampato più volte a tentativi di ucciderlo. Non
è facile accettare questo sacrificio. Il suo corpo sembra volersi ribellare. Il
giorno seguente due uomini partono con Ridwan verso Aleppo, insieme alla
carovana degli schiavi cristiani, scortata da numerosi soldati. Ridwan
trascorre alcune ore nella bottega del venditore di schiavi, lontano dagli
sguardi degli altri. Solo quando Muhammad Ben Fadlan ha conferma dell’arrivo
dell’emiro in città, Ridwan viene esposto. Il nuovo schiavo attira subito
l’attenzione: diversi uomini guardano Ridwan e qualcuno ne chiede il prezzo,
ma Muhammad chiede una cifra troppo alta. I compratori se ne vanno,
dicendogli che non otterrà mai quanto chiede e che deve ridurre le pretese:
il giovane è molto bello, ma anche se ha il nome dell’angelo che sta alla
porta del paradiso, è solo un mortale. Muhammad non si preoccupa delle loro
parole: può vendere Ridwan solo all’emiro. Nel
tardo pomeriggio l’emiro giunge al mercato. Ridwan
lo osserva. Sente che il cuore batte più forte. Questo è l’uomo che lo
comprerà, che lo prenderà. Ridwan abbassa lo sguardo, per nascondere l’odio
profondo che prova per lui. Questo è l’uomo che deve uccidere, vendicando
tutto ciò che il suo corpo subirà. Sarà umiliato, posseduto, ma laverà la
vergogna con il sangue e con la sua azione conquisterà merito davanti ad
Allah. L’emiro
sorride mentre si avvicina: -
Allora, Muhammad Ben Fadlan, hai qualche schiavo per me? Muhammad
si prosterna in un inchino profondo. - Ho
merce della migliore qualità e oggi credo di poter offrire ciò che nessuno
degli altri mercanti di Aleppo, per non dire di tutta la Siria, potrebbe
dare… L’emiro
ride e conclude la frase. -
…chiedendomi il doppio degli altri mercanti. Muhammad
si inchina di nuovo e dice: -
L’emiro è un intenditore. Mi dirà lui se qualcun altro ha merce che valga la
mia. E
con un gesto della mano indica Ridwan. ‘Izz ad-Din guarda lo schiavo. Ridwan
abbassa di nuovo gli occhi. - È
un bel giovane, lo riconosco. È cristiano o segue la vera fede? - È
stato allevato nella vera fede. - Un
figlio di schiavi, dunque? L’emiro
sa bene che un musulmano non può ridurre in schiavitù un suo correligionario.
Se Ridwan è stato allevato nella fede musulmana, deve essere nato da schiavi. -
Sì, i suoi genitori sono al servizio di un proprietario di terre di Jabala. - Peccato.
Avrei preferito un cristiano. Muhammad
guarda l’emiro senza capire. - E
perché mai, se posso chiedere, emiro? -
Perché se è nato schiavo, di certo altri hanno già gustato il frutto che
avrei voluto essere il primo ad assaporare. Muhammad
sorride: -
No, emiro. Ridwan è sempre rimasto nella stessa famiglia e posso garantire
che nessuno ha colto il frutto. L’emiro
guarda Muhammad. Sanno entrambi che il mercante non oserebbe mentire
all’emiro: se questi scoprisse di essere stato ingannato, la vita di Muhammad
Ben Fadlan varrebbe ben poco, anche se ‘Izz ad-Din non è il signore di
Aleppo. -
Quanti anni ha? -
Diciassette anni. Muhammad
sa che per l’emiro è l’età giusta: l’emiro non apprezza i ragazzini, che
accendono il desiderio di tanti altri. Preferisce giovani maschi che si
affacciano all’età adulta. Ridwan
ha seguito tutto il dialogo. Ha capito benissimo qual è il frutto che l’emiro
vuole assaporare e nuovamente si sente sgomento. Ma sa che è l’unico modo per
riuscire a entrare nella camera dell’emiro. L’emiro
si è avvicinato. Ridwan sente su di sé il suo sguardo. Tiene sempre gli occhi
bassi. Non dice nulla, ma nessuno si aspetta che uno schiavo intervenga nella
trattativa tra il mercante e il cliente e tanto meno quando il cliente è
l’emiro di Jabal al-Jadid, uno degli uomini più potenti della regione. L’emiro
gira intorno a Ridwan. Sorride. Mette due dita sotto il mento di Ridwan e gli
fa sollevare la testa. Lo fissa negli occhi. Poi passa dietro. Afferra il
tessuto che cinge i fianchi di Ridwan e con un gesto deciso lo fa cadere a
terra. Annuisce. È merce di qualità, questa che gli offre il mercante. E lo
schiavo è arrossito quando l’emiro lo ha spogliato. Il mercante non mente. -
Quanto vuoi? Muhammad
avanza la sua richiesta, aggiungendo: - È
un prezzo speciale per voi, perché siete il mio miglior cliente. La
cifra è inferiore a quella che Muhammad ha richiesto qualche ora fa agli
altri possibili acquirenti, ma non è certo bassa. L’emiro
fa un’offerta leggermente al di sotto. Il mercante si inchina: -
Solo perché siete voi. A chiunque altro direi di no. È
vero, anche se i motivi sono diversi da quelli che l’emiro potrebbe pensare. Dopo
l’acquisto, un uomo di ‘Izz ad-Din prende in consegna Ridwan e lo conduce al
palazzo dove l’emiro si è stabilito per i tre giorni che conta di trascorrere
ad Aleppo. Qui Ridwan viene vestito con abiti di buona stoffa. La
sera Ridwan si chiede se l’emiro lo chiamerà per trascorrere la notte con
lui. Ridwan vorrebbe che questo non avvenisse. Spera di avere un’occasione per
uccidere l’emiro prima che questi lo possieda. Se avesse qualche giorno di
tempo, potrebbe forse trovare il modo per sgozzare l’emiro prima di dover
subire l’umiliazione che lo attende. Le ore passano, ma nessuno viene a
chiamarlo. Molto tardi Ridwan si dice che l’emiro non lo farà più chiamare e
si addormenta. Il
giorno successivo, Ridwan non ha quasi modo di vedere l’uomo a cui ormai
appartiene: rimane in una stanza del palazzo. La serva che gli porta da
mangiare gli chiede come si chiama e come mai è schiavo. Ridwan racconta la
storia che ha concordato con lo sceicco. La
sera nuovamente Ridwan è inquieto, ma neppure questa volta viene convocato
dall’emiro e nemmeno la notte seguente. Ridwan incomincia a chiedersi se
l’emiro non si sia dimenticato di lui. Il
quarto giorno, molto presto, l’emiro riparte per Jabal al-Jadid. Quando
arrivano alle colline da cui si vede la città, Ridwan osserva l’alta cinta di
mura che la circonda, il bianco delle case tra cui spicca il verde degli orti
e dei giardini, i minareti delle numerose moschee. Su un’altura una seconda
cinta di mura protegge il grande palazzo dell’emiro, quasi una città nella
città. Intorno la grande ansa del fiume che scorre pigro. Ridwan
sa che il suo destino sta per compiersi, ma ancora spera di trovare una via
per evitare ciò che lo attende. In
serata Ridwan viene condotto al bagno. Un servitore lo fa lavare,
controllando che si pulisca accuratamente in ogni parte. Ridwan sa bene i
motivi di questa pulizia così accurata. A tratti si sente assalire da uno
sconforto profondo, poi la rabbia ha il sopravvento. Ma cela tutti i suoi
sentimenti sotto una maschera d’indifferenza. Dopo
che si è asciugato, il servitore gli dà una veste, che Ridwan indossa. L’uomo
ha parlato pochissimo, solo lo stretto necessario. Quando hanno finito e
lasciano il bagno, c’è un soldato a attenderli. L’uomo scorre con le mani
lungo il corpo di Ridwan, sincerandosi che non abbia con sé nessun oggetto,
poi lo accompagna negli appartamenti privati dell’emiro. Qui,
davanti a una porta chiusa, c’è un uomo massiccio, dallo sguardo ostile.
Ridwan sa chi è: è Barbath ibn Yusif, comandante delle guardie dell’emiro e
valoroso guerriero. Ramzi gli ha parlato di quest’uomo, che chiamano
Tre-Coglioni perché ha tre testicoli: Ridwan sa che deve fare molta
attenzione, perché il comandante è un uomo intelligente e attento, fedele
all’emiro. Ha il compito di vigilare sulla sicurezza del signore di Jabal
al-Jadid. Barbath
esegue un altro controllo, molto accurato. Passa anche le mani tra i capelli
di Ridwan, per essere sicuro che non nasconda nulla nella chioma. Poi bussa
e, quando l’emiro gli dice di entrare, apre la porta e fa segno a Ridwan di
avanzare. Anche lui si introduce nella stanza e si inchina davanti all’emiro,
che indossa una vestaglia legata alla vita da una cintura di stoffa. Ridwan
si dice che forse potrebbe impadronirsi della cintura e strozzare l’emiro. Barbath
dice: - Ho
controllato, mio signore. L’emiro
sorride. -
Non ne dubito, Barbath. Barbath
rimane nella camera, di fianco alla porta. Ha un pugnale e la spada al
fianco. Ridwan si chiede se rimarrà lì tutto il tempo. Probabilmente sì.
Anche questa è per lui un’umiliazione. L’emiro
si limita a tirare la cortina del letto, per cui Barbath non può vederli, ma
certamente può sentire ogni sospiro. L’emiro è prudente: hanno già cercato
altre volte di ucciderlo, ma hanno fallito e hanno subito il martirio. Se
anche Ridwan riuscisse a passare la cintura intorno al collo dell’emiro,
Barbath interverrebbe. ‘Izz
ad-Din sorride a Ridwan. Le sue mani gli accarezzano il volto, scivolano tra
i capelli. Ridwan lo guarda, senza dire nulla. -
Sei bello, Ridwan. L’emiro
gli prende la testa tra le mani e avvicina le sue labbra alla bocca di
Ridwan. Ridwan vorrebbe girare il capo e sfuggire al bacio, ma le mani
dell’emiro gli tengono la testa ferma e Ridwan sa che non deve mostrarsi
troppo indocile. Ridwan si irrigidisce, mentre l’emiro lo bacia con
delicatezza. Poi ‘Izz si stacca e lo guarda negli occhi. Il bacio ha trasmesso
a Ridwan una sensazione strana, che non saprebbe definire, una mescolanza di
disgusto e… E che cosa? Ridwan non è in grado di dirlo, ma non è stata una
sensazione del tutto negativa. L’emiro
lo stringe a sé e lo bacia di nuovo, questa volta con maggiore ardore. Ridwan
non oppone resistenza: sa che deve cedere per guadagnarsi la fiducia
dell’emiro. Le mani dell’emiro scendono lungo il suo corpo, dalla testa alla
schiena, fino ai fianchi. Ridwan sente la tensione salire. Ha paura di quanto
avverrà. -
Baciami, Ridwan. Ridwan
non si aspettava la richiesta. Esita un attimo, poi avvicina le sue labbra a
quelle dell’emiro. Lo bacia, piano. Non è una sensazione spiacevole. L’emiro
tiene le mani sui fianchi di Ridwan. I loro corpi aderiscono. Ridwan può sentire
contro il ventre la pressione dell’uccello dell’emiro, che sta riempiendosi
di sangue. Ridwan vorrebbe liberarsi dalla stretta. Ha paura, paura di ciò
che sta per avvenire. L’emiro
si stacca da lui, con le mani gli solleva la tunica e poi, facendogli scorrere
le dita lungo il corpo, gliela alza completamente, finché Ridwan alza le
braccia e la tunica viene tolta e lasciata cadere a terra. -
Spogliami, Ridwan. Le
mani di Ridwan si muovono, impacciate. A fatica sciolgono il nodo della
cintura. Ridwan tiene in mano il pezzo di stoffa, chiedendosi se non provare
a strangolare l’emiro, ma ‘Izz è forte e dietro la cortina c’è il comandante.
Non riuscirebbe mai a ucciderlo prima di essere bloccato. Ridwan lascia
cadere la cintura. L’emiro gli sorride. Ridwan esita, poi con le mani apre la
vestaglia dell’emiro. L’emiro è nudo e contro il ventre batte l’uccello,
rigido e pieno di sangue. Ridwan ha l’impressione che la terra gli manchi
sotto i piedi. Non vuole, non vuole essere posseduto. L’emiro si avvicina a lui
e lo stringe. Le sue mani si muovono lungo la schiena di Ridwan, indugiano
sui fianchi, stringono con forza. I loro corpi aderiscono e Ridwan sente il
suo turbamento crescere. Il suo corpo risponde alla stretta. L’emiro
si stacca e gli sorride. Ha un bel sorriso. -
Stenditi, Ridwan. Ridwan
vorrebbe fuggire. Si guarda intorno, cercando qualche cosa con cui uccidere
l’uomo che ha davanti, ma non c’è nulla. Ridwan
si stende sul letto, sulla schiena. L’emiro si siede accanto a lui e passa le
sue mani sul corpo di Ridwan. Gli accarezza il viso, poi il torace, il
ventre. Ridwan si rende conto che il membro gli si sta irrigidendo. Le mani
dell’emiro passano oltre, scendono lungo le cosce, giungono ai piedi. Poi
risalgono, lente, e questa volta accarezzano i testicoli, poi li stringono.
Con orrore, Ridwan si accorge che il proprio membro è perfettamente teso.
Vorrebbe pregare, ma gli sembra che in questo momento sarebbe una
profanazione. Le mani dell’emiro sfiorano appena l’uccello teso, risalgono
fino al collo, stringono il viso e poi ‘Izz ad-Din si china e bacia Ridwan
sulla bocca. Ridwan riceve quel bacio e chiude gli occhi. Quello che sta
accadendo lo sconvolge. Sente la lingua dell’emiro farsi strada tra i suoi
denti e gli sfugge un singhiozzo. La
lingua si ritira, poi avanza di nuovo. Ridwan l’accoglie e avverte che il
desiderio sale, violento. Ridwan
ora ha paura, non della penetrazione che avverrà, ma del proprio corpo, che
lo tradisce. Il desiderio cresce ancora, mentre le loro bocche si cercano, si
trovano e si lasciano senza interruzione. Poi Ridwan sente la mano dell’emiro
che gli accarezza l’uccello e grida, in uno spasimo di piacere. Il seme si
spande, abbondante, sul ventre e sul torace di Ridwan, fino al mento. Ridwan
chiude gli occhi. Si sente umiliato per non aver saputo resistere più a
lungo. Ma il piacere è stato troppo violento. L’emiro lo accarezza ancora,
raccogliendo il seme e spargendolo sul corpo di Ridwan. Poi lo bacia ancora
sulla bocca e si alza. -
Puoi andare, Ridwan. Ridwan
lo guarda senza capire. Poi si alza, si inchina, si infila la veste e si
dirige alla porta. Barbath lo fa passare. L’uomo che lo ha accompagnato lo
attende. Lo riporta nella sua stanza, dove c’è un grande bacile e un tessuto
per asciugarsi. Ridwan
si lava e mentre le sue mani puliscono il suo corpo, cerca di mettere ordine
nei suoi pensieri. È confuso. Si aspettava di essere posseduto, ma l’emiro
non l’ha preso. Eppure di certo intende farlo, le frasi che ha scambiato con
il mercante non lasciano dubbi sulle sue intenzioni. Ma non è solo questo
rinvio inatteso a turbare Ridwan. Le carezze dell’emiro lo hanno portato a
raggiungere il piacere, un piacere violento. A Ridwan pare ancora di avere
sulle labbra il gusto della bocca dell’emiro. Ridwan si lava le labbra, ma sa
che quel gusto non gli dispiace. Ridwan
dice le sue preghiere, ma gli sembra di essere indegno. A
letto pensa al da farsi. L’emiro lo chiamerà ancora, di certo. Come può
ucciderlo? Se avesse modo di vederlo durante il giorno, potrebbe cercare di
prendere una spada o un pugnale a una delle guardie e colpirlo. Nella sua
camera, come ucciderlo? Soffocarlo con un cuscino non è possibile: Barbath è
oltre la cortina e se ne accorgerebbe. Ridwan
non vuole tornare dall’emiro, ha paura, ora più ancora di prima. Paura del
suo corpo, di cui non sa controllare le reazioni. La
sera successiva Ridwan viene nuovamente lavato e portato nella stanza
dell’emiro. Anche questa volta viene controllato per due volte, prima
dall’uomo che lo accompagna, poi da Barbath. Il comandante sembra molto
diffidente e fruga con cura. Che cosa potrebbe nascondere Ridwan sotto quella
tunica che gli hanno dato loro? Mentre
Barbath lo controlla, Ridwan guarda la stanza. Tutto è come il giorno prima,
non c’è nessuna arma che possa usare. Vicino al letto c’è una ciotola con una
sostanza biancastra. L’emiro
osserva Barbath perquisire Ridwan, poi tira la cortina. Bacia di nuovo Ridwan
e il giovane si rende conto che la sua bocca si schiude e accoglie la lingua
di ‘Izz ad-Din. A questo bacio profondo, tutto il suo corpo reagisce.
L’uccello si tende nuovamente e Ridwan si sente smarrito. L’emiro
gli sfila la tunica, ma oggi le sue mani indugiano più a lungo, stringono con
delicatezza le natiche, avvolgono lo scroto, due dita scorrono lungo la
verga, poi Ridwan sente una stretta ai capezzoli, che si ergono. E il
desiderio preme, impetuoso. Ridwan si sente perduto. ‘Izz
ad-Din gli ha tolto la tunica e ora lo bacia di nuovo, poi si stacca e
attende. Ridwan intuisce e slaccia la cintura della veste da camera dell’emiro
e la fa scivolare a terra. Ha un bel corpo, l’emiro, armonioso, e mentre lo
ammira Ridwan ha di nuovo la sensazione che per lui non vi sia più nessuna
salvezza. Nudi
si baciano, entrambi con il sesso vigoroso che svetta. L’emiro lo stringe e i
loro corpi aderiscono. Ridwan si rende conto di non essere in grado di
controllare le reazioni del suo corpo, che lo tradisce e arde di un desiderio
la cui forza lo spaventa. -
Stenditi, Ridwan. Ridwan
obbedisce e si mette sulla schiena. L’emiro
incomincia ad accarezzarlo. Le sue mani gli scompigliano i capelli, gli
sfiorano il viso, gli stringono i capezzoli, scivolano sul petto, scendono,
senza toccare il sesso, percorrono le gambe fino ai piedi. E poi è la bocca a
compiere un percorso simile: le labbra si posano leggere sugli occhi, i denti
mordono il lobo di un orecchio, un bacio sulla bocca, un morso a un
capezzolo, alla spalla, un bacio sul petto, sull’uccello teso – Ridwan
sussulta – la lingua accarezza l’asta e poi i testicoli, risale, scende
nell’ombelico. -
Ora voltati, Ridwan. Ridwan
sa che non c’è più nulla da fare, che è perduto: ora l’emiro lo prenderà. Ma
più di tutto lo sgomenta il tradimento del suo corpo, che ha ceduto
completamente. ‘Izz
ad-Din gli bacia il collo, gli morde una spalla, risale ad afferrare tra i
denti il lobo dell’orecchio, poi la lingua scorre lungo la colonna
vertebrale, i denti mordono le natiche, prima con delicatezza, poi con forza.
E poi la lingua scorre lungo il solco, più e più volte, indugia a lungo
sull’apertura. Ridwan chiude gli occhi. Il piacere sale dentro di lui. Si
rende conto di essere quasi sul punto di venire. Ora
sono le mani dell’emiro a percorrere la sua schiena, ad accarezzargli una
guancia, a stringere con forza le natiche, a stuzzicare l’apertura. Un dito
scivola dentro, senza sforzo, esce, si introduce di nuovo, avanza più a
fondo. Ridwan
si tende, si dice che sta per accadere. Vorrebbe evitarlo, a ogni costo,
perché sa che il suo corpo non è un alleato, ma un traditore. Anche la
pressione di questo dito che scava dentro di lui non è spiacevole. L’emiro
non ha fretta. Le sue dita si muovono, stringono, accarezzano, si spingono
dentro il corpo di Ridwan, che geme senza ritegno. ‘Izz
ad-Din continua a tormentare il corpo di Ridwan e questi sente che il piacere
sale, incontenibile. L’emiro spinge un dito a fondo dentro l’apertura e
Ridwan grida, mentre il seme prorompe. L’emiro riprende ad accarezzarlo, con
movimenti lenti. Poi dice: -
Puoi andare, Ridwan. Ridwan
si alza, confuso. Gli sembra di non riuscire a stare in piedi. Guarda
l’emiro, nudo, con l’uccello in tiro. Non capisce perché non si prenda il suo
piacere. ‘Izz ad-Din gli sorride. Ridwan
si infila la tunica. Si volta ancora verso l’emiro, ma non sa che cosa dire.
Si allontana, confuso, pieno di vergogna. In
camera Ridwan si lava, poi si stende. Vorrebbe fuggire, andare via, per
sempre. Ha paura, paura del suo corpo che lo tradisce. Deve uccidere l’emiro,
deve ucciderlo, prima dell’ultimo tradimento, della resa completa. Ma
l’emiro è inavvicinabile durante il giorno. La
terza sera il rituale si ripete identico. Solo i baci e le carezze dell’emiro
sono più sfrontati e Ridwan sente che il suo corpo risponde, che attende con
ansia i morsi, le strette, i baci, i pizzicotti. Le sue mani si muovono,
contro la volontà di Ridwan e il desiderio è ancora più forte. Ridwan
si stende e di nuovo le carezze lo fanno impazzire. Di nuovo le dita di ‘Izz
ad-Din entrano dentro di lui e preparano la strada e Ridwan geme, di piacere.
Quando infine l’emiro si stende su di lui e Ridwan sente una pressione più
forte contro l’apertura, anche la sua bocca lo tradisce e gli sfugge un: -
Sì! L’emiro
gli morde un orecchio e insieme al morso, Ridwan sente che l’uccello di ‘Izz
ad-Din si fa strada dentro di lui, con molta delicatezza. Il suo corpo cede
senza resistere, complice di quest’invasione, e il desiderio monta, mentre
l’emiro lo bacia e lo accarezza, spingendo, prima con delicatezza, con poi
vigore via via maggiore. C’è anche dolore, in questa penetrazione, ma non ha
importanza, nessuna. Più forte di tutto è il piacere che sale fino a non
essere più contenibile. Ridwan chiude gli occhi e grida. Poco dopo, con una
successione di spinte più violente, anche l’emiro viene e Ridwan sente dentro
di sé la scarica. L’emiro
lo bacia sul collo e lo accarezza, a lungo. Poi
esce da lui, lo volta e lo bacia sulla bocca. Si stende su di lui e ancora lo
bacia e lo stringe e Ridwan ricambia i baci e gli abbracci. Quando
infine i loro corpi si separano, Ridwan torna nella sua camera. Si prosterna,
ma non è capace di pregare. Si sente indegno. Il piacere è stato
intensissimo, ha provato le sensazioni più forti della sua vita. Si
stende sul letto e rimane a occhi aperti nel buio. Il
giorno seguente, l’emiro lo fa chiamare nel pomeriggio. ‘Izz ad-Din è steso
sui cuscini. Accanto a lui Barbath, come sempre, che lo perquisisce con la
meticolosità abituale. -
Raccontami di te, Ridwan. Prima
di essere portato al mercato di Aleppo, Ridwan ha concordato con lo sceicco
Ramzi la storia che doveva raccontare, nel caso fosse stato interrogato. La
narra. L’emiro
sembra interessato e fa parecchie domande. Ridwan ha paura di tradirsi: non
ha pensato a tutti i dettagli, non si aspettava che l’emiro volesse conoscere
a fondo la sua vita prima del momento in cui è stato venduto al mercato di
Aleppo. Inventa sul momento, mescolando ricordi reali e menzogne, ma sa bene
che rischia di tradirsi. L’emiro
gli chiede anche dei suoi interessi e dei suoi gusti. Ridwan si sente più
tranquillo ora: non rischia di cadere in contraddizione e può rispondere
senza dover inventare. Non conosce i poeti e gli scrittori di cui gli parla
‘Izz. Sa leggere e scrivere, ma ha letto quasi esclusivamente testi religiosi.
L’emiro si mostra stupito di scoprire che uno schiavo sia istruito e abbia
una certa cultura religiosa. Ridwan si rende conto di aver fatto un altro
errore. L’emiro non dice nulla, ma Ridwan teme che sospetti. Infine
l’emiro lo congeda. Quasi
tutte le notti Ridwan viene chiamato nella camera dell’emiro. Ridwan si
accorge con sgomento che se non viene chiamato non prova sollievo, ma
delusione. E notte dopo notte scopre che il piacere può assumere molte forme,
che le sue mani, la sua bocca, i suoi fianchi, il suo uccello, le sue palle,
i suoi capezzoli, possono dare e ricevere piacere. Gli sembra di scivolare
lentamente in un pozzo senza fondo. A tratti, durante il giorno, ripensa a
ciò che ha fatto la sera prima e si sente colpevole, ma quando arriva la notte,
il suo corpo si arrende completamente, avido di apprendere ciò che l’emiro
gli insegna, mai sazio del piacere. Ridwan
può muoversi nel palazzo, ma non può uscirne. Nelle cucine potrebbe
procurarsi un coltello da usare come arma, ma in che modo portarlo nella
stanza dell’emiro? E mentre si pone la domanda, si chiede se davvero potrebbe
ucciderlo. Potrebbe uccidere l’uomo che lo possiede, di cui conosce i sapori,
gli odori, il calore, il sorriso, i baci, le carezze, la forza? Di
giorno l’emiro lo fa spesso chiamare e parlano. ‘Izz ad-Din gli fa scoprire poeti e illustratori, lo
tiene accanto a sé mentre un lettore legge qualche opera, gli dà dei
manoscritti. Ma prima di ogni incontro, Ridwan viene perquisito con cura e
Barbath rimane accanto a loro. Ridwan intuisce che Barbath diffida di lui. A
volte l’emiro tira una cortina e un lettore legge opere di cui Ridwan non
sospettava neppure l’esistenza, testi che cantano l’amore tra gli uomini, che
ne descrivono ogni dettaglio. E l’emiro incomincia a spogliare Ridwan, mentre
la voce del lettore li accompagna in quella che diventa presto una cavalcata
frenetica, sui cuscini della sala o nella camera da letto. ‘Izz
ad-Din gli dà due di queste opere perché Ridwan le legga, ma egli non le
guarda: non vuole aggiungere altri peccati a quelli che già commette ogni
giorno. Quando però, una settimana dopo, l’emiro si allontana per alcuni
giorni dalla città, Ridwan si ritrova a leggere uno di quei testi, Cinquanta e una notte. Sono pagine
ardenti, in cui si mescolano amore e desiderio. Nadir
ringraziò ed entrò nella tenda. Si spogliò e si stese, ma era inquieto e non
riusciva a prendere sonno. Era abituato a dormire tra i monti, ma il pensiero
di Hamza che dormiva nella tenda vicino alla sua lo turbava. A un certo punto
si alzò e uscì dalla tenda, senza rivestirsi. La luna era piena e la sua luce
rischiarava l’accampamento, immerso nel sonno. Nadir guardò la tenda accanto
alla sua, in cui dormiva il prode Hamza. Senza riflettere mosse alcuni passi
verso l’ingresso. Si fermò, chiedendosi che cosa avrebbe pensato di lui Hamza
se fosse entrato nella sua tenda di notte, ma una forza che non riusciva a
dominare lo attirava verso il guerriero che riposava. Entrò
nella tenda. La luce lunare filtrava e Nadir vide sul letto Hamza, che
giaceva nudo. Al suo ingresso Hamza voltò il viso verso di lui, si sollevò
leggermente e gli tese la mano. Nadir, ormai del tutto privo di volontà, si
diresse verso di lui, fermandosi solo quando fu di fianco al giaciglio. Hamza
gli prese la mano e lo guidò a stendersi su di lui. Hamza gli prese il viso
tra le mani e lo baciò, spingendo la sua lingua tra le labbra del giovane. Il
desiderio ardeva in lui e il suo membro si tese. Contro il ventre Nadir sentì
la verga possente di Hamza, che cresceva e si gonfiava di sangue, mentre le
mani del guerriero scorrevano lungo la sua schiena, gli si posavano sui
fianchi, stringendo con forza. A Nadir parve che il mondo scomparisse. Lasciò
che Hamza lo baciasse, lo abbracciasse, lo stringesse. A lungo il guerriero
accarezzò il principe, poi lo distese sul giaciglio e percorse il suo corpo
con baci ardenti e carezze. E infine, voltatolo, dopo averlo ancora baciato,
lo penetrò. Nadir provò dolore, sentendo per la prima volta tra i fianchi il
membro di un uomo, e il dolore fu forte, perché Hamza era molto virile, ma il
piacere dominò anche la sofferenza e Nadir godette più volte, mentre il
grande guerriero lo prendeva. Leggendo
queste pagine, che Waahid ha illustrato, Ridwan immagina se stesso nel ruolo
di Nadir e l’emiro al posto di Hamza. Quando
l’emiro torna, Ridwan è impaziente di ritrovarlo e anche l’emiro sembra
esserlo, perché lo chiama un’ora dopo essere arrivato e insieme si dedicano
ai loro giochi. Giorno dopo giorno, il legame che li unisce sembra diventare
sempre più forte. A
palazzo tutti trattano Ridwan con deferenza, anche se è solo uno schiavo.
Ogni tanto qualcuno allude al fatto che è nel cuore del padrone più di
qualunque altro uomo, schiavo o libero. Un
giorno l’emiro gli dona una miniatura. È un vero gioiello di raffinatezza.
Raffigura due uomini che si amano su una terrazza in cima a un palazzo. Ai
piedi del palazzo alcuni servitori sono al lavoro, lungo il fiume passa una
barca carica di persone, nel cielo tempestoso volano alcuni uccelli. Ma lo
sguardo di Ridwan si sofferma sui due uomini abbracciati, uno dei quali sta
possedendo l’altro, il più giovane, anche lui con il membro eretto. I due
hanno il volto dell’emiro e di Ridwan. -
Quest’immagine è splendida, davvero non ha uguali. - È
opera di Waahid ibn Munthir, che lavora per me. Un
altro giorno ‘Izz gli regala due gioielli: una catena da portare al collo e
un bracciale. Sono d’oro, ornati con smeraldi e diamanti. Sono certo monili
di grande valore, ma a colpire Ridwan è la perfezione del lavoro, di una
raffinatezza senza pari: neanche i gioielli che Ridwan ha avuto modo di
vedere addosso all’emiro hanno questa eleganza. -
Sembrano opera degli angeli. - Ho
chiesto a un orafo ebreo di farli. - Un
ebreo? -
Sì, lo chiamano Solomon, Suleiman in arabo. Dicono che il re Suleiman
comandasse ai jinn e quando vedo i gioielli che questo ebreo produce, penso
davvero che abbia al suo servizio i jinn. Ridwan
è in imbarazzo. -
Non sono gioielli adatti a uno schiavo, questi. -
Sono adatti a te. -
Sono gioielli per un ricevimento fastoso. ‘Izz
sorride e dice: - Li
indosserai per i nostri incontri. Da
qualche settimana ‘Izz ad-Din ha dato a Ridwan il permesso di uscire dal
palazzo: sa che non cercherà di fuggire. Sono
passati ormai nove mesi da quando Ridwan è diventato schiavo dell’emiro. Ridwan
gira per il mercato di Jabal al-Jadid. Qualcuno si rivolge a lui: -
Perché non compri i miei dolci? Non ne hai mai mangiati di così buoni. Ridwan
sussulta. Ha riconosciuto l’uomo che si è rivolto a lui. Non è un mercante,
come appare, ma uno degli uomini dello sceicco Ramzi, un credente come lui,
avrebbe detto Ridwan qualche tempo fa. Ma adesso Ridwan non sa più in che
cosa crede. Ridwan
ha capito che l’uomo vuole parlargli. Vorrebbe sottrarsi al colloquio, ma non
è possibile. Si avvicina, guardando i dolci esposti sul banco, come se
davvero volesse sceglierne uno, magari quello con i datteri, il miele e le
mandorle. Cerca
di controllare la voce, perché l’uomo non si renda conto della sua
agitazione: - A
quanto li vendi? L’uomo
risponde, poi aggiunge, piano: -
Non hai ancora eseguito il tuo compito, Ridwan. Ridwan
dice ad alta voce: -
No, chiedi troppo. Ridwan
offre poco più di metà di quanto gli è stato chiesto, poi risponde,
sottovoce: -
L’emiro è diffidente e c’è sempre una guardia armata nella stanza. Non posso
introdurre un’arma. Ogni volta mi perquisiscono con cura. Non so se
sospettano di me o se lo farebbero comunque. È la
verità. Ma se oggi stesso smettessero di perquisirlo, Ridwan sa bene che non
sarebbe capace di uccidere l’emiro. La contrattazione procede ad alta voce,
mentre sussurrando Ridwan spiega qual è la situazione. L’uomo ascolta con
attenzione. - Ti
contatterò ancora e ti indicherò come agire. Faremo in modo di introdurre
un’arma nella camera dell’emiro, così potrai servirtene. L’emiro deve morire. Poi
l’uomo aggiunge, ad alta voce: -
Non ci guadagno nulla, ma come dire di no a un bel ragazzo come te? Eccoti.
Torna a trovarmi, ragazzo: i miei dolci sono i migliori. Ridwan
prende i dolci e si allontana. Cammina per le vie del mercato, senza vedere
nulla. L’emiro deve morire. Ridwan si ripete la frase. L’emiro deve morire.
Si perde nel mercato, poi tra le vie della città. Non sa dove sta andando. L’emiro
deve morire. Per questo si è lasciato vendere come schiavo, per questo ha
lasciato che l’emiro lo possedesse. Per questo si è piegato, docile, a ogni
sua richiesta. Per questo ha accettato di compiere atti a cui mai avrebbe
accondisceso. L’emiro
deve morire. L’emiro
sembra volergli molto bene, ma non ha piena fiducia in lui: ogni volta
Barbath lo perquisisce con cura. Quando l’emiro non lo chiama, Ridwan non può
avvicinarglisi. Nessuno può comparire davanti all’emiro se non è stato chiamato.
E chiunque venga chiamato, viene perquisito. L’emiro deve morire. Gli
uomini al servizio dell’emiro gli sono fedeli e l’emiro prende tutte le
precauzioni necessarie per scongiurare un attentato alla sua vita. Come si
può uccidere l’emiro? L’emiro
deve morire. Ridwan
ha fatto tutto quello che poteva, ma è divenuto complice delle notti ardenti
in cui il suo corpo viene più volte appagato. L’emiro deve morire. Ridwan
è giunto sulla riva del fiume. Non sa nemmeno lui come i suoi passi lo hanno
portato fin qua. Guarda l’acqua, che non è molto profonda. Si chiede se sia
sufficiente per annegarsi. Vorrebbe scomparire nella corrente, lasciarsi
trascinare verso la morte, farsi inghiottire dai gorghi. L’emiro deve morire. Ridwan
chiude gli occhi. L’emiro deve morire. Il
sole sta calando. Quanto tempo è rimasto qui, in riva al fiume? Deve
rientrare subito. Nessuno degli schiavi può rimanere fuori dopo il tramonto,
neanche lui, che gli altri schiavi dicono essere più un padrone che un
servitore. Ridwan
rientra al palazzo quando il sole è appena scomparso all’orizzonte. La
guardia sulla porta gli rivolge la parola, sorridendo: -
Hai comprato dei dolci. Ridwan
guarda il pacchetto che ancora stringe nella mano. Non si è accorto di averli.
Vorrebbe averli gettati via. Li regala alla guardia. - Io
ne ho già mangiati. Prendili tu. -
Grazie, Ridwan. Sei generoso. L’emiro
lo fa chiamare per la notte. Ma Ridwan ha la morte nel cuore. Ridwan
si spoglia, lentamente, finché rimane solo con i due gioielli opera di
Solomon. -
Che ti succede, Ridwan? Ridwan
guarda l’emiro. Non trova le parole per rispondere. -
Perché mi chiedi questo, mio signore? -
Sei turbato, Ridwan. Sei perfino pallido. Non stai bene? - No
signore. Un malessere passeggero. -
Non mentirmi, Ridwan. Non è la verità. Chi hai incontrato oggi in città? Ridwan
guarda l’emiro, senza rispondere. L’emiro deve morire. Ridwan
cade in ginocchio. - Un
uomo mi ha ricordato il mio compito, mio signore. L’emiro
lo fissa. Ridwan non abbassa lo sguardo. - E
qual è il tuo compito? -
Ucciderti, mio signore. Per questo sono stato venduto a te. -
Sei uno degli Hashishiyya, vero? -
Così ci chiamate. - Lo
sospettavo. Ridwan
non dice nulla. Anche l’emiro rimane immobile, in silenzio. Poi si rivolge a
Barbath. -
Barbath, dammi il pugnale. Barbath
si avvicina e con un inchino porge l’arma all’emiro. -
Ecco, mio signore. -
Ora esci e chiudi la porta dietro di te. Barbath
sembra stupito. Vorrebbe fermarsi, ma sa che non può disubbidire a un ordine dell’emiro,
per cui si allontana. Ridwan
pensa che ora l’emiro lo ucciderà e si dice che è la soluzione migliore. Non
eseguirà il suo compito e non tradirà i suoi compagni. Forse Dio non lo
accoglierà in paradiso, perché non ha saputo portare a termine la missione
che gli è stata affidata, ma non ha importanza. Vuole solo mettere fine alla
sofferenza che prova. -
Spogliati, Ridwan. Ridwan
esegue. Anche l’emiro si sta spogliando. Perché? Vuole possederlo un’ultima
volta e ucciderlo mentre lo prende? Vuole privarlo della sua virilità? Ora
entrambi sono nudi. L’emiro è di fronte a Ridwan, che si è rimesso in
ginocchio. -
Alza la destra, Ridwan. Ridwan
solleva la mano. L’emiro gli mette il pugnale sul palmo. Ridwan lo guarda,
sbalordito. -
Puoi uccidermi, Ridwan, se è questo che vuoi. Ridwan
scuote la testa. Sa che non potrebbe mai uccidere l’emiro. -
No, mio signore. -
Perché no? È questo il tuo compito. Per questo hai accettato di essere
venduto, di diventare schiavo. Per questo hai lasciato che io ti prendessi.
Non è così? Ridwan
ha la gola secca. La sua risposta si sente appena. -
Sì. -
Allora fallo. Hai il pugnale e io non ho difese. Ridwan
lascia cadere il pugnale a terra. -
Non posso eseguire il mio compito, mio signore. -
Perché? Ridwan
si nasconde la faccia tra le mani. -
Perché? -
Perché non posso farti del male, mio signore. -
Perché? Ridwan
vorrebbe fuggire, sottrarsi a questo interrogatorio. Per un attimo pensa di
prendere il pugnale e immergerselo nel cuore. L’emiro
insiste: -
Perché? -
Perché tu sei il mio signore. -
Che cosa vuol dire? Tu ti sei fatto vendere per uccidermi. Ridwan
annuisce. - E
allora? Esegui il tuo compito. Ridwan
afferra il pugnale e con un gesto rapido volge la punta contro il proprio petto
e fa per affondare la lama, ma l’emiro è più veloce di lui e gli blocca il
braccio. -
Lascialo. Ridwan
cerca di liberare la mano, per potersi colpire. -
Lascialo! Non farmi chiamare Barbath. Ridwan
lascia cadere il pugnale. L’emiro lo allontana con il piede. - A
questo sei disposto. A ucciderti. Perché? Perché non puoi uccidere me? Ridwan
non riesce più a tollerare l’angoscia che sale. Non alza lo sguardo, mentre
dice: - Tu
sei il mio signore. Tu comandi al mio corpo e al mio cuore. Ora
l’emiro sorride. -
Anche tu comandi al mio cuore, Ridwan. Ridwan
alza il viso e fissa l’emiro. Questi si china su di lui e lo solleva. Gli
prende il viso tra le mani e lo bacia sulla bocca. A
casa di Barbath, il comandante discute con Feisal, Qais e Mahdi. Una o due volte
la settimana gli ufficiali si riuniscono nella casa del comandante: una
vecchia abitudine che l’arrivo del Circasso aveva interrotto, ma che poi è
ripresa. Molti degli uomini che partecipavano alle riunioni prima della
conquista della città da parte di Kazbech sono morti: Jabal al-Jadid ha
pagato un tributo pesante alle guerre che hanno funestato la regione e al
Passo dei Morti hanno perso la vita tanti soldati. Adesso però sono passati
otto anni e la vita ha ripreso il suo ritmo abituale. Questa
sera non ci sono tutti gli ufficiali, ma un gruppo molto ristretto. Feisal,
Qais e Mahdi hanno vegliato sull’emiro quando il Circasso lo voleva far
uccidere dagli Hashishiyya: in loro Barbath e l’emiro hanno una fiducia
cieca. E ci sono argomenti di cui Barbath discute solo con loro. La
stanza in cui si ritrovano ha diversi tappeti e cuscini, su cui gli invitati
si siedono. Quando non ci sono altri, i quattro non nascondono i legami che
li uniscono. Mahdi è seduto su un tappeto e Qais gli ha appoggiato la testa
in grembo. Mahdi gli accarezza i capelli e ogni tanto la sua mano scende sul
viso. Quando un dito sfiora le labbra, Qais lo morde leggermente e Mahdi gli
dà un buffetto. Feisal è sdraiato sui cuscini accanto a Barbath e tiene la
destra su una gamba del comandante. Le traversie del passato li hanno legati
in modo molto forte. -
Gli Hashishiyya costituiscono una minaccia continua. Sono determinati e non
arretrano davanti a niente. -
Hanno cercato di uccidere perfino Salah ad-Din. -
L’emiro non sarà mai sicuro finché quei bastardi saranno vivi. Feisal
osserva: -
Bisognerebbe assalire Qasr al-Hashim, il covo di quegli infami. Assalirlo e
ucciderli tutti, senza lasciarne vivo neanche uno. Barbath
scuote la testa. -
Piacerebbe anche a me, molto. Li ucciderei volentieri tutti con le mie mani,
ma non servirebbe niente, anzi: peggiorerebbe la situazione. -
Perché dici che peggiorerebbe la situazione? -
Feisal, Qasr al-Hashim è solo uno dei castelli che sono nelle mani degli
Hashishiyya. Se davvero riuscissimo a conquistarlo e a sterminare i suoi
abitanti, tutti gli altri Hashishiyya vorrebbero solo vendicare i loro
compagni. Qais
aggiunge: -
Esatto, Barbath. Feisal, tieni anche conto che conquistare Qasr al-Hashim è
un’impresa disperata. La fortezza sorge su uno strapiombo ed è ben difesa. Ci
sono pozzi per l’acqua e bisognerebbe assediarla per mesi. - E
che cosa possiamo fare? -
Vegliare sull’emiro. Ma il giorno in cui sarà possibile espugnare quel covo
di figli di puttana… Spero di esserci, perché sarà un piacere ucciderli uno
per uno. E castrare Ramzi e quell’Usama che ha ucciso Labeeb. Tutti
concordano. Poi Qais osserva: -
Così anche il bel Ridwan era uno di loro. Questa
è una notizia riservata, che soltanto l’emiro e i quattro ufficiali
conoscono. - Ho
sempre diffidato di lui. - E
hai fatto bene, ma in questo caso l’amore è stato più forte di tutto. Sul
viso di Barbath appare un smorfia. -
Personalmente , lo decapiterei. Qais
ride. -
Dubito che l’emiro te lo lascerebbe fare. Più probabilmente decapiterebbe te,
dopo averti fatto tagliare i tuoi tre coglioni. Qais
non ha perso la sua impudenza, ma tra loro esiste una grande intimità, che
gli anni e le traversie passate hanno rafforzato. Feisal ride e la sua mano
si sposta, risalendo sulla gamba di Barbath fino a raggiungere i coglioni. Barbath
sussulta. Qais e Mahdi scoppiano a ridere. Feisal giocherella un momento con
gli attributi del comandante e l’effetto è immediato: il cazzo di Barbath si
tende e forma una vistosa protuberanza. Barbath
ride, scuote la testa e dice: -
Temo che tu abbia ragione, Qais. Pazienza, lascerò vivere Ridwan e mi terrò i
coglioni. -
Una scelta saggia. Feisal non sarebbe per niente contento di perdere i suoi
giocattoli. Scoppiano
a ridere tutti e quattro. Feisal non molla la presa. Anche in lui il
desiderio si tende. Senza
smettere di giocherellare, Feisal osserva: -
Ridwan è stato consegnato a quel figlio di puttana di Ramzi quando era
bambino e cresciuto in modo da farlo diventare un fanatico, disposto a
uccidere. Non possiamo dargli la colpa di questo. -
Come lo sai? Feisal
indica Barbath con il mento: - Me
l’ha raccontato lui. - Se
è così, non è strano che lo abbiano convinto a uccidere l’emiro. Lo posso
capire. Mahdi,
che fino a ora non ha aperto bocca, dice: -
Sì, capisco più Ridwan che Latif. Che ne è di lui? È
Barbath a rispondere. - So
che sta bene, ma non ho notizie dirette. Non da lui, intendo. Nella
confraternita sembra tranquillo. Spero che recuperi la serenità. -
Waahid non sembra aver sofferto molto per la sua partenza. - Si
erano allontanati già prima. Qais
guarda Mahdi e dice: -
Mahdi, è meglio che ce ne andiamo. Ho il sospetto che questi due signori
vogliano rimanere da soli. Noi siamo di troppo. Barbath
scuote la testa, ma in effetti sia lui, sia Feisal hanno il cazzo duro e
negare sarebbe assurdo. Feisal però nota che anche i pantaloni di Qais
presentano una protuberanza, per cui ride e dice: - Ho
l’impressione che intendiate divertirvi anche voi. Qais
e Mahdi ridono, si alzano e si congedano. Barbath
attira a sé Feisal, lo bacia sulla bocca e poi gli dice: -
Che figure mi fai fare! Sei un maiale. -
Hai ragione. Scusa. Tu che sei tanto casto e pudico… Barbath
ride. Afferra la tunica di Feisal e gliela sfila, poi gli abbassa i
pantaloni. Feisal infila la testa sotto la tunica di Barbath, gli cala un po’
i pantaloni e prende il bocca il cazzo del comandante. Incomincia a
succhiarlo, mentre le sue dita giocano con i coglioni. Barbath passa una mano
sulla stoffa della tunica, che ora copre la testa del suo vice. Poi si
solleva un po’, ignorando le proteste di Feisal, e si toglie la tunica e i
pantaloni. Ora sono tutti e due nudi. Feisal riprende in bocca la sua preda. Barbath
sente il piacere salire. Mormora: -
Feisal, Feisal… Il
piacere cresce ancora e infine deborda. Feisal inghiotte il seme. Barbath
chiude gli occhi. Quando
li riapre, si china e forza Feisal ad avvicinare il capo, per baciarlo. Poi
sussurra: -
Prendimi. Si
stende sui cuscini, in modo da avere il culo un po’ sollevato. Feisal guarda
il corpo che gli si offre. Lo accarezza. Non è frequente che Barbath gli si
offra: più spesso è il comandante a prendere il suo vice. Feisal
sputa sul buco e lo inumidisce bene. Poi si sputa sul palmo della mano e
sparge un po’ di saliva anche sulla cappella. Preme il cazzo contro
l’apertura e lentamente avanza. Sente la carne che cede e spinge fino in
fondo. Barbath emette una specie di grugnito. Feisal
gli accarezza il capo, ormai quasi privo di capelli. Poi le sue mani
stringono il culo di Barbath in una morsa, strappandogli un gemito. Feisal
gli morde una spalla. Barbath geme di nuovo e protesta: - Ma
che hai, questa sera? Sei feroce! Feisal
ride e incomincia la cavalcata. Si ritrae e avanza, senza dare tregua, mentre
Barbath lo incoraggia con gemiti e, quando le spinte sono più decise, piccoli
grugniti. Feisal cavalca a lungo, finché il piacere esplode. Allora si
abbandona sul corpo di Barbath e sussurra: -
Barbath, Barbath, amore mio. Non
lontano, anche Qais e Mahdi si dedicano ai giochi dell’amore. Non hanno
raggiunto le camere degli ufficiali, dal lato opposto del cortile interno:
Qais ha portato Mahdi sugli spalti, per guardare insieme le stelle che si
stanno scoprendo dopo il temporale. Mahdi è un po’ stupito che l’amico non
voglia andare subito in camera, visto che il suo desiderio era ben evidente. In
cima alla scala percorrono un tratto della cinta muraria, salutando la
sentinella, e raggiungono una terrazza accessibile da due scale. Il pavimento
è ancora bagnato e l’aria è piacevolmente fresca. Qais spinge Mahdi in un
angolo, dove la torre proietta la sua ombra: l’oscurità è completa. -
Che fai, Qais? La
risposta viene dalle mani di Qais, che si muovono decise e brutali, si
infilano sotto la tunica di Mahdi, gli abbassano i pantaloni, giocano con il
suo cazzo, gli stringono un po’ i coglioni, stuzzicano il solco tra le
natiche, tormentano l’apertura. -
Qui, Qais? Ma sei matto? Possono… Mahi
avrebbe voluto dire “possono vederci”, ma davvero il buio è completo. - Qui,
così non vedi quanto sono brutto. Qais
sa di non essere bello, ma sa che Mahdi lo ama com’è. -
Sei bellissimo, Qais. Mahdi
ride e aggiunge: -
Qui, qui sei bellissimo! -
Stronzo! Qais
ha spinto Mahdi contro il muro. Si appoggia su di lui. Mahdi può sentire il
cazzo di Qais, duro e caldo, premere contro l’apertura, forzarla, entrare.
Gli sfugge un gemito. Di colpo, gli sembra di non riuscire a stare in piedi. -
Sì, Qais, sì! Qais
ha spinto fino in fondo, fino a che i coglioni toccano il culo di Mahdi. Ride
e dice: -
Mahdi, amore mio! E
poi incomincia a muovere il culo, lentamente, mentre una mano si infila tra
il corpo di Mahdi e il muro e stuzzica il cazzo, lo avvolge, lo accarezza. Il
gioco prosegue a lungo, finché entrambi vengono. Rimangono
un buon momento immobili, contro la parete. Le dita di Qais giocano con i
capelli di Mahdi, gli carezzano le guance, stuzzicano un orecchio, si
infilano tra le labbra. Mahdi dice: -
Sei matto, Qais. Ma ti amo. Qais
sfiora ancora una guancia di Mahdi, poi sussurra: - Preda facile dei sensi fosti come in
sonno, t'abbandonasti lento, incominciasti piano, nel sogno, a scendere la china, io colsi il fiore dei tuoi fianchi, divorai il frutto e tu giungesti alle soglie d'un piacere senza freni. Non ti fermasti. Proseguisti ancora Accogliendo la mia virilità trionfante,
ebbro di desiderio e di piacere (vuota la mente, prosciugato il corpo) sprigionasti al vento le ultime fiamme,
le ultime scintille, toccasti il fondo,
poi, placati i sensi, giacesti vinto
alfine.1 Qais
ama molto la poesia e non è raro che ne reciti qualcuna a Mahdi, quando sono
soli. Ma è la prima volta che Mahdi sente questi versi. -
Questa non l’avevi mai recitata. Di chi è? - Di
Ishaq ibn Imraan. -
Chi? Vuoi dire… l’eretico di Damasco, quello che Salah ad-Din ha fatto
crocifiggere? -
Sì, proprio lui. - E
come hai fatto a procurarti questa poesia? - Me
l’ha data Farid. Farid
è un servitore dell’emiro, quello che gli legge ad alta voce i testi. Qais
prosegue: -
Non so come sia arrivata nelle mani dell’emiro, ma non mi stupisce: sai che
anche lui ama le poesie e le storie d’amore. Mahdi
sorride. - È
una bella poesia. E la nostra è una bella storia d’amore. Qais
bacia ancora Mahdi, sul collo. Mahdi mormora: - Ti
amo, Qais. -
Anch’io. Morirei, se ti perdessi. A
malincuore Qais si stacca. Si sistemano le vesti e raggiungono la camera di
Mahdi, dove di solito dormono tutti e due, abbracciati. * Ramzi
è furente per il nuovo scacco. Si chiede se non servirsi di Usama, ma il
rischio che venga scoperto è troppo forte e non avrebbe senso sacrificarlo
per niente. Usama può servire in altre occasioni. E allora? Ramzi
deve tornare da Sinan. Gli pesa ancora più della volta precedente, perché è
un secondo scacco e perché questa volta non c’è un’altra missione portata a
termine con successo, per compensare almeno in parte il fallimento. Ma deve
rendere conto allo sceicco, senza tardare, perché potrebbe apparire una
mancanza di rispetto. Qualche
giorno dopo Ramzi è nel castello di Sinan. È inquieto, come sempre quando si
deve presentare davanti al capo supremo. Questa volta lo sceicco lo lascia
attendere oltre tre ore. Di certo Sinan sa che l’emiro è ancora vivo: ha le
sue fonti di informazione e se ‘Izz ibn Ashraf fosse morto, la notizia gli
sarebbe giunta. Quindi con ogni probabilità ha capito che la missione non è
stata portata a termine. Quando
infine viene ricevuto, Ramzi racconta tutto quello che sa a Sinan. Lo sceicco
ascolta la relazione senza battere ciglio. Ramzi
conclude: - Il
giovane non ha più avuto contatti con noi. L’uomo che lo ha avvicinato è
stato arrestato e poi crocifisso. Qualcuno potrebbe aver visto Ridwan parlare
con il nostro uomo e aver denunciato entrambi all’emiro. Ma Ridwan è ancora
vivo, anche se esce di rado dal palazzo. Non possiamo saperlo con certezza,
ma crediamo che abbia tradito. Lo
sceicco annuisce, in silenzio. Appare del tutto impassibile. Ramzi
è a disagio. Questo silenzio che si prolunga gli appare intollerabile. Gli
sembra di far fatica a respirare. - Ho
fallito, sceicco. Sono indegno. Ma l’emiro non sfuggirà alla sua sorte… Lo
sceicco alza la mano. È un gesto lento. Ramzi smette di parlare. Poi, dopo un
lungo periodo di silenzio, lo sceicco dice: -
Non fare nulla, per ora. Ti farò sapere ciò che dovrai fare, quando sarà
giunta l’ora. Per il momento l’azione è sospesa. Adesso puoi andare. Ramzi
ringrazia e si congeda. Quando è uscito dalla stanza, si accorge di essere
tutto sudato. Lascia in fretta il castello. Ha bisogno di essere fuori, all’aria
aperta, di respirare liberamente. Solo
durante il viaggio di ritorno Ramzi ritrova la calma necessaria per
riflettere sulla situazione. Lo sceicco ha in mente un piano diverso per
uccidere ‘Izz? Oppure la decisione di soprassedere, almeno per il momento,
dipende da qualche strategia politica, dal gioco di alleanze, per cui la
morte dell’emiro non costituisce più una priorità o addirittura va evitata?
Ramzi è contento di non doversi occupare di questa impresa, in cui è già
andato due volte incontro al fallimento. Ma se il compito venisse affidato ad
altri, che fossero più fortunati e riuscissero a portarlo a termine, sarebbe
un grave smacco. 1 Rielaborazione di una poesia di Albisola |