I –  Un pugnale per l’emiro

II – I fuochi di San Giacomo d’Afrin

III – Battaglie

 

IV – I sicari

 

 

 

Solomon è passato a trovare Amos e la famiglia. Quando è in città lo fa ogni due-tre giorni: è affezionato al fratello, alla cognata e ai nipoti e vuole verificare che non abbiano bisogno di niente.

Al momento di congedarsi, dice:

- È arrivata oggi la notizia. Salah ad-Din è stato sconfitto. Il duca ha guidato i franchi nella battaglia, vicino ad Ascalona, e ha messo in fuga l’esercito arabo, anche se era molto più numeroso.

Amos non sa come suo fratello possa esserne a conoscenza: è uscito un’ora fa e in città nessuno sapeva niente, anche se si parlava molto della guerra in corso ai confini meridionali del regno. Ma Chlomo sembra sempre sapere le cose prima degli altri. Amos non gli chiede come ha avuto l’informazione: sa che non avrebbe una risposta convincente.

- Per noi è una buona notizia, visto che siamo a Rougegarde.

- Sì, dovremo andare dal duca, quando torna.

Amos annuisce: Chlomo ha ragione. Il trasferimento di alcune persone non richiede certo che ci si presenti al signore della città, ma gli ebrei trasferiti sono in tanti ed è sensato che Amos vada a parlare con il duca, in quanto rabbino della comunità che si è stabilita a Rougegarde. Dalle parole di Chlomo è evidente che intende venire anche lui. Non ce ne sarebbe motivo, Chlomo non ha nessun ruolo nella comunità, ma Amos è contento che ci sia anche suo fratello: sa meglio come muoversi in certe occasioni e averlo al proprio fianco gli dà sicurezza. E poi Chlomo parla benissimo la lingua dei franchi, mentre Amos la conosce assai di meno: formulare una frase gli richiede tempo e sa di fare spesso errori. Vero è che il duca parla benissimo l’arabo, lingua che anche Amos conosce perfettamente, ma forse non è opportuno utilizzare con il signore della città la lingua dei suoi nemici.

Più tardi Amos esce di nuovo. In sinagoga dice che gli è arrivata notizia della sconfitta di Salah ad-Din ad opera del duca. Tutti si stupiscono e gli chiedono come fa a saperlo. Amos riferisce che glielo ha comunicato il fratello. Chi conosce Solomon è sicuro che sia vero; qualcun altro è dubbioso, ma meno di un’ora dopo la notizia viene confermata: è appena giunto in città un messaggero del duca, che ha annunciato la vittoria. E Amos si chiede come Solomon potesse saperlo prima degli altri.

 

*

 

Renaud fa preparare un carico: c’è tutto quanto Renaud è riuscito ad estorcere agli ebrei, più altro oro. La carovana che porta il tesoro sarà scortata da parecchi soldati: ci sono banditi nel territorio e non sono solo quelli che guida Olivier. Renaud non vuole correre rischi. Joscelin andrà avanti e comunicherà a Ramzi che il dono del barone è pronto. Ramzi manderà i suoi uomini a ritirarlo.

Non ci sono alternative, perché la breve guerra si è conclusa nel peggiore dei modi, almeno per i progetti di Renaud: Denis ha guidato i cavalieri del regno a una clamorosa vittoria, che nessuno si aspettava, vista la schiacciante superiorità numerica del Saladino. Baldovino vedeva in Denis il principale sostegno del suo regno già prima di questa fottuta battaglia: adesso nessuno può certo azzardarsi a dire male del duca, perché perderebbe immediatamente il favore del re. Renaud, che ha preferito non muoversi in soccorso di Baldovino, adducendo la minaccia dei saraceni al confine orientale del regno, non verrebbe neanche ascoltato. Renaud guarda la carovana mettersi in marcia. Purché nessuno lo scopra. Se si venisse a sapere che il barone di San Giacomo d’Afrin ha pagato un maomettano per uccidere il Cane dagli occhi azzurri, il più forte guerriero del regno, terrore dei saraceni, la vita di Renaud varrebbe molto poco: finirebbe come Tancrède d’Espinel, squartato e castrato in piazza tra le grida di gioia della folla. Ma nessuno lo saprà mai. Nessuno deve saperlo.

Renaud si chiede se non far uccidere Joscelin: è l’unico che è davvero a conoscenza del piano e della destinazione dell’oro. Forse sarebbe più prudente. Sarebbe però un peccato disfarsi di un uomo tanto abile e affidabile. Joscelin è a conoscenza di altri segreti e non li ha mai traditi. D’altronde verrebbe anche lui condannato a morte, se rivelasse ciò che sa: è stato lui a uccidere Philippe di Cesarea e a organizzare l’omicidio di Hugues d’Arbert.

 

*

 

Denis di Rougegarde è tornato in città. La folla lo accoglie esultante. La vittoria di Montgisard ha allontanato la minaccia del Saladino e ridato speranza a tutti i cristiani, confermando il valore del duca. I numerosi musulmani che vivono a Rougegarde non condividono l’entusiasmo dei cristiani, ma a molti di loro non spiace che il duca sia tornato sano e salvo dopo aver messo in fuga il nemico: amano vivere in pace e Denis ha assicurato loro molti anni di tranquillità. Non hanno subito vessazioni di nessun genere, a differenza dei musulmani delle altre città del regno, e possono praticare la loro fede in pace. Non sanno che cosa li aspetterebbe se la guerra li toccasse da vicino, se Salah ad-Din si impadronisse del regno di Gerusalemme: una conquista è sempre accompagnata da distruzioni e saccheggi e stare dalla parte del vincitore non è una garanzia di uscirne indenni.

Subito dietro Denis cavalca il conte Ferdinando, che gode delle simpatie della folla perché si sa che è un guerriero valoroso e un buon amico del duca e perché è rimasto un uomo semplice, nonostante il titolo. Poi sfilano tutti i cavalieri che sono partiti per la breve guerra e alcuni cavalli carichi del bottino. Verso il fondo c’è anche un nero, la cui presenza desta un certo stupore: che ci fa con le truppe del duca? È un prigioniero? Dev’essere un guerriero, perché ha un portamento altero e cavalca con grande sicurezza. Un gran bell’uomo, osserva qualcuno. Altri non sono d’accordo, perché per loro nessun nero può essere bello. Il nero è la curiosità del giorno e quando si diffonde la voce che in effetti si tratta di un valoroso guerriero che il duca ha fatto prigioniero, incominciano le ipotesi su ciò che il duca ne farà. Qualcuno, meglio informato, rivela che lo schiavo nero ha dormito tutte le notti accanto al conte Ferdinando e poiché dei gusti del conte si chiacchiera molto, incominciano le battute sull’argomento. Qualcuno osserva che non può essere, perché il nero sembrava stare benissimo in sella e chi prova lo sperone di Ferdinando dell’Arram, per un po’ fa fatica a cavalcare.

 

Denis ha affidato la reggenza della città a Louis, un cavaliere che è al suo servizio da diversi anni e di cui ha avuto modo di apprezzare l’intelligenza: con la partenza di Maria per la Francia e di Nicolas per la Nubia, ha perso le due persone su cui poteva contare di più. Louis è perfettamente in grado di amministrare la città e di prendere tutte le decisioni necessarie. Sa tenere a bada il vescovo Bohémond, perenne spina nel fianco per Denis, e fare attenzione che non cerchi di usurpare le prerogative del duca. Ma non ha l’acuta intelligenza politica di Maria, né l’ampia esperienza di Nicolas. Una cosa però lo accomuna a coloro che hanno in precedenza retto la città quando Denis era assente: un’assoluta fedeltà al duca. Nei suoi tentativi di minare il potere di Denis, il vescovo Bohémond si è sempre scontrato con questo muro che non riesce a superare: gli uomini del duca non sono disposti a tradirlo in nessun modo.

Denis si fa raccontare ciò che è successo durante la sua assenza, ma l’unico evento significativo è stato l’arrivo degli ebrei scacciati da San Giacomo d’Afrin. Il vescovo si è presentato da Louis, cercando di convincerlo a non accogliere i fuggiaschi, ma il reggente gli ha risposto ciò che Bohémond si aspettava: una decisione del genere potrebbe essere presa solo dal duca. Ed entrambi sapevano che il duca non l’avrebbe mai presa. La manovra del vescovo era inutile. Bohémond si è mosso soltanto per poter dire un giorno, se verranno tempi migliori, che ha cercato di opporsi al proliferare degli assassini di Gesù in Terrasanta. La protezione accordata dal duca a un eretico come Emich di Freiburg, l’accoglienza degli ebrei maledetti da Dio, la tolleranza nei confronti dei musulmani: tutte carte in mano al vescovo in una partita da giocare. Carte di nessun valore in questo momento: con Baldovino come con Amalrico queste sono piccole questioni interne di cui certo il re non intende occuparsi e il duca di Rougegarde gode della piena fiducia del sovrano attuale, come godeva di quella del padre. Ma prima o poi Baldovino morirà: ha la lebbra, non può vivere a lungo. E allora forse le cose cambieranno e le carte senza valore diventeranno strumenti utili, come l’accusa di sodomia nei confronti del conte Ferdinando.

 

Ferdinando si ferma a Rougegarde, ospite di Denis. Potrebbe partire il giorno stesso, visto che in mezza giornata può raggiungere il suo palazzo nell’Arram, ma vuole rimanere ancora un po’ con Adham. Durante il viaggio di ritorno Ferdinando ha provato qualche volta a parlare con l’amico dello schiavo nero di cui si è innamorato, ma Denis ha scelto di rinviare la discussione sull’argomento. Vuole prima affrontare il tema con Adham e preferisce lasciare al nero il tempo di capire che cosa desidera fare.

Ferdinando è sui carboni ardenti: vorrebbe portarsi via Adham e sapere che il bel guerriero nero è suo, solamente suo.

L’arrivo a Rougegarde presenza un unico vantaggio: Adham è autorizzato a dormire nella stanza di Ferdinando e finalmente i due possono scopare liberamente. Durante il viaggio gli spazi a disposizione erano limitati e il tempo sempre poco, soprattutto per due uomini dotati di buon appetito.

Ferdinando e Adham si danno da fare, con grande soddisfazione reciproca, ma quando il conte accenna al futuro, non ottiene nessuna risposta dal nero.

 

Solomon si presenta da Amos due giorni dopo l’arrivo di Denis a Rougegarde.

- Oggi è giorno di udienza dal duca. Andiamo a parlargli.

Amos non si aspettava la visita di Chlomo e l’idea di avere a che fare con il duca lo mette a disagio. In quanto rabbino a San Giacomo d’Afrin ha avuto modo di incontrare qualche volta Renaud e l’esperienza è sempre stata molto spiacevole. Sa che il duca è del tutto diverso, ma farebbe volentieri a meno di questo incontro.

- Ma… sei sicuro, Chlomo? È arrivato da appena due giorni.

- Appunto. Sono già passati due giorni e non possiamo aspettare oltre. Di certo è stato informato di quanto è successo a San Giacomo d’Afrin e si aspetta una nostra visita. Se non ci presentassimo, potrebbe considerarlo una mancanza di rispetto. È il signore della città in cui ci siamo stabiliti.

A malincuore Amos si rassegna. Si dirigono al palazzo ducale, dove chiedono di poter parlare con il duca.

Quando ottengono udienza, è Solomon a prendere la parola. Solomon parla perfettamente la lingua dei franchi e Amos è ben contento che sia lui a spiegare la situazione.

- Buongiorno duca. Il mio nome è Chlomo, ma tutti mi chiamano Solomon. Sono un ebreo di San Giacomo d’Afrin e mio fratello – Solomon indica Amos con un gesto della mano - è Amos, il rabbino della comunità. Come voi sapete, siamo stati scacciati da San Giacomo. Posso garantirvi che non avevamo nessuna colpa: altri ci hanno attaccati. Molti di noi sono stati uccisi.

Il duca non commenta le parole di Solomon. Si limita a dire:

- Ho avuto notizia di quanto è avvenuto a San Giacomo d’Afrin.

- Duca, noi ci siamo stabiliti a Rougegarde: siamo gente operosa e tranquilla e vi chiediamo di accordarci la vostra protezione. Saremo sudditi fedeli.

- Tutte le fedi sono ben accette a Rougegarde. Non perseguito nessuno per la religione che pratica e se osserverete le leggi della città e del regno, vi proteggerò da qualsiasi nemico.

Chlomo chiede per artigiani e mercanti l’autorizzazione a continuare le loro attività nel territorio del duca e l’ottiene senza difficoltà: Denis ha sempre preferito assicurare una notevole libertà a coloro che svolgono qualche attività economica. Questo ha favorito un ulteriore sviluppo della città, che è uno dei maggiori centri commerciali della regione, in grado di competere con Damasco e Aleppo e con la stessa Bagdad.

Amos ha lasciato che fosse Chlomo a condurre la conversazione, ma sa che rimanere in silenzio potrebbe apparire poco cortese. Perciò quando il fratello fa una pausa, risponde:

- Vi ringraziamo per la vostra generosa accoglienza, duca, e pregheremo Iddio che vi conceda lunga vita.

- Grazie a voi per le vostre preghiere.

Dopo un breve scambio di saluti, Solomon e Amos lasciano la sala. Denis rimane un momento pensieroso. I due sono fratelli, ma sono del tutto diversi, sia fisicamente, sia, si direbbe, come carattere. Solomon è un gran bell’uomo, alto e forte, sicuro di sé, capelli di un castano scuro e occhi chiari. Amos è più basso e magro, con i capelli e gli occhi scuri, e sembrava essere in soggezione. Per certi versi Amos è il tipico rabbino dedito agli studi, mentre Solomon sembra più un guerriero. Ma se Solomon ha detto che sono fratelli, dev’essere così. Anche se non si può mai sapere.

Il pensiero di Denis va a Pierre, che per lui è suo figlio e che ama profondamente, anche se non è stato lui a generarlo. Pierre è in Francia, ora, in quella contea di Bellerivière che un giorno erediterà, perché l’unico figlio dell’attuale conte è morto. Denis sente molto la mancanza di Pierre e anche quella di Maria, che non ama, ma che si è rivelata una compagna preziosa. Ma dopo la morte di Amalrico Maria non reggeva più a vivere in Palestina. Denis ha deciso di mandare Pierre a Bellerivière, conscio che non c’è futuro per lui in Terrasanta. Il Regno di Gerusalemme non è abbastanza forte e ora che la Siria e l’Egitto stanno per essere riuniti nelle mani di un unico sovrano rischia di essere annientato. Soprattutto Rougegarde, molto più esposta delle altre città, non potrà reggere a lungo.

Maria è stata felice di partire con Pierre, lasciando una terra che in lei risveglia ricordi dolorosi. E Denis è contento che accanto a Pierre ci sia la madre, che è in grado di guidarlo e proteggerlo. Ma gli spiace non vederlo crescere, non averlo al proprio fianco.

 

Il giorno seguente Denis convoca Adham, che per il momento rimane a palazzo con i soldati: Denis lo ha affidato ad alcuni dei suoi uomini, che hanno il doppio compito di insegnargli la lingua dei franchi e di fare un po’ di esercizio in arabo.

Il nero si presenta.

- Allora, Adham, come va lo studio?

Adham risponde nella lingua dei franchi:

- Bene, grazie, sì. Tutto bene.

Poi scoppia a ridere e dice, in arabo:

- Non so perché parlate una lingua così difficile.

Denis sorride. Il dialogo prosegue in arabo:

- Ci vorrà un po’ di tempo, ma la imparerai.

- Spero.

- Tu mi hai detto di avere ancora i tuoi genitori. Vuoi fare avere loro tue notizie?

- Molto volentieri, ma come sarebbe possibile?

- Ci sono mercanti che viaggiano e possono portare messaggi. Anche se siamo in guerra, i traffici non si interrompono. Non del tutto.

- Grazie. Posso scrivere una lettera?

- Certo. La faremo arrivare.

Poi Denis affronta l’argomento più importante:

- Adham, è ora che parliamo del tuo futuro. Come ti ho detto, io non tengo schiavi. Potrei impiegarti nella guardia della città, dove ci sono uomini di diverse fedi.

Adham resta un momento in silenzio, poi dice:

- Tu sei il mio padrone e puoi fare di me ciò che desideri.

- Che cosa vorresti fare tu, Adham?

Adham rimane pensieroso, poi scuote la testa. Denis chiede:

- Vorresti andare con il conte Ferdinando?

Adham guarda Denis negli occhi.

- Tu sei il mio padrone. Decidi tu.

- Ti ho chiesto se vorresti andare con lui. Poi deciderò.

Adham tace. Poi dice:

- Non tocca a me scegliere.

A Denis è chiaro che Adham ha dei dubbi e preferisce non scegliere. In questo caso è meglio che per il momento Adham rimanga a Rougegarde: la separazione da Ferdinando aiuterà tutti e due a chiarirsi le idee e non forzerà Adham a mantenere una relazione che non è sicuro di volere.

- Va bene, per il momento rimarrai qui a palazzo e imparerai la lingua. Incomincerai a partecipare alle ronde per la città. Poi vedremo. Adesso scrivi la lettera per la tua famiglia.

Più tardi Denis e Ferdinando mangiano insieme. Subito dopo pranzo, Ferdinando ritorna alla carica:

- Per me è ora di partire. Allora, mi cedi Adham? O lo liberi?

- Per il momento no, Ferdinando. Adham rimane qui. Voglio che abbia il tempo e la possibilità di scegliere liberamente.

Ferdinando non nasconde la sua delusione.

- Può partire con me e rimanere di tua proprietà. Ti garantisco che se vorrà tornare qui, non cercherò di impedirglielo.

- No, Ferdinando. Adham ha bisogno di un po’ di tempo per capire. E credo che questa separazione faccia bene anche a te: ti aiuterà...

Ferdinando non lo lascia finire:

- Porcoddio, Denis! Non mi dire che cosa mi fa bene o meno. Lo so da me. Merda! Torno al castello.

Ferdinando esce senza dire altro.

Denis è rimasto stupito dallo scatto di rabbia: è la prima volta che l’amico gli risponde in modo aggressivo. Forse è un segno che il legame con Adham è davvero forte. In questo caso, spera che lo sia anche per il nero. Ripensando a quanto è successo, Denis si rende conto di aver sbagliato: non avrebbe dovuto dire a Ferdinando che la separazione gli avrebbe fatto bene.

Ferdinando comunica ai suoi uomini che partiranno entro un’ora. I servitori preparano il bagaglio, mentre il conte cammina inquieto avanti e indietro nella sua stanza. È irritato con Denis che gli nega Adham, con Adham che non ha parlato chiaramente con Denis, con se stesso per essersi lasciato trascinare dall’ira con l’amico e soprattutto per essersi innamorato, perché di questo è perfettamente conscio.

Ferdinando non prende congedo né da Denis, a cui comunque ha già detto che partiva, né da Adham, che di giorno rimane con i soldati, se Ferdinando non lo chiama. Ma quando lascia Rougegarde, gli sembra di avere un peso che lo schiaccia.

 

*

 

Ramzi ibn Qais osserva il giovane Fahd, inginocchiato davanti a lui. Il ragazzo è bello e al conte Ferdinando certamente piacerà. D’altronde piacere al conte è facile: non è di gusti difficili.

- Fahd, il Signore ti ha scelto per una missione.

Fahd annuisce. Spera che il compito che gli verrà affidato sia importante e conta di riuscire a svolgerlo nel migliore dei modi. Da tempo aspetta questo momento. Non sa se tornerà vivo dall’impresa che deve compiere: lo vorrebbe, perché non aspira al martirio, ma se invece il Signore lo chiamerà a sé, accetterà la morte.

- Io sono pronto.

- Il tuo obiettivo è il conte Ferdinando dell’Arram.

Fahd annuisce. Ha sentito parlare di quest’uomo, signore di un piccolo territorio non lontano da Qasr al-Hashim. Dicono che sia alto e forte e che sia un peccatore, sfrenato nella ricerca del piacere. Spegnere la sua vita sarà un atto di giustizia.

- Spero che il Signore mi assista e mi permetta di portare a termine il compito che mi affidi.

- Lo spero anch’io. Ora ti spiegherò come fare.

 

*

 

Nella casa del mercante Giovanni, Solomon ha fatto rapidamente amicizia con i bambini, che si intrattengono volentieri con lui: sono curiosi di conoscere meglio quest’uomo che sembra conoscere tutte le lingue ed è sempre disponibile a parlare con loro. Con gli adulti invece c’è stato solo qualche scambio di saluti. Solomon ha occasione di conversare soltanto con Giovanni e il nipote, ma adesso Riccardo è partito in viaggio e starà via a lungo: deve recarsi a Damasco e ad Aleppo. 

La prima a rivolgersi a Solomon è Sarah, l’altra ebrea che abita nella casa. Lo fa una sera sulla terrazza, spazio comune per tutti gli abitanti. Non fa ancora caldo e all’aperto è preferibile indossare vestiti pesanti, ma la giornata è limpida e il cielo si sta coprendo di stelle.

Accanto a Sarah sono il marito, Pierre, e i tre figli:

- Mi hanno detto che venite da San Giacomo d’Afrin. So che alcuni ebrei sono stati massacrati e i sopravvissuti scacciati.

- È vero. Siamo stati attaccati nella notte. Fortunatamente molti sono riusciti a salvarsi, ma tre famiglie sono state sterminate.

Sarah annuisce, poi sorride.

- Io non sono di Rougegarde, ma alla sinagoga ho conosciuto diverse donne, con cui ho fatto amicizia. Adesso vengono anche le famiglie scampate da San Giacomo. Una donna mi diceva che i morti sono stati pochi perché un uomo ha organizzato un gruppo di giovani e tra tutti sono riusciti a mettere in salvo la maggioranza degli ebrei.

C’è un sorriso ironico sulle labbra di Sarah, che evidentemente sa benissimo che l’uomo di cui parla le sta davanti in questo momento.

Solomon sorride anche lui e dice:

- Dobbiamo imparare a difenderci.

- Sì, sono d’accordo. Volevo solo dirvi che vi ammiro per quello che avete fatto.

Miriam, la figlia maggiore di Sarah, chiama la madre. Sarah saluta e si allontana. Pierre ha sentito la conversazione e chiede:

- Non ne sapevo niente. Così vi siete organizzati per difendervi.

- Sì, con i giovani abbiamo formato un gruppo che è intervenuto direttamente là dove qualche famiglia veniva attaccata; i ragazzi invece erano distribuiti in modo da guidare i fuggiaschi verso i magazzini: sapevamo che non sarebbero stati incendiati, perché anche i mercanti cristiani vi tengono le loro merci.

- E siete stato voi a organizzare tutto questo?

Solomon annuisce.

- Bisognava fare qualche cosa, se non volevamo finire tutti assassinati.

 

Il giorno dopo Pierre si reca a palazzo per parlare con il duca.

- Volevo informarvi di una cosa, che ho scoperto ieri. Nella casa del mercante Giovanni ha preso alloggio uno degli ebrei scampati al massacro di San Giacomo d’Afrin, un certo Solomon.

- Sì, è stato qui con il fratello, il rabbino della comunità, quando sono tornato in città. C’è qualche problema?

- No, nessuno, è uno che si fa gli affari propri e devo dire che ha fatto un’ottima impressione a tutti. Ma c’è una cosa che forse non sapete. Sarah ha scoperto che a San Giacomo d’Afrin questo Solomon aveva organizzato un gruppo di giovani, in previsione dell’attacco che si è poi verificato. Sotto la sua guida sono riusciti a salvare molte famiglie.

Denis annuisce, immerso nei suoi pensieri. Pierre conclude:

- Ho pensato che fosse opportuno informarvi.

- Hai fatto bene, Pierre.  Questo Solomon mi ha colpito molto. Tienilo d’occhio, con discrezione, naturalmente. E avvisa Morqos di fare lo stesso. Non credo che ci sia nulla da temere, ma forse qualcosa da scoprire sì. E magari… vedrò.

Ora Denis è curioso. Forse è il caso di raccogliere qualche informazione in più su quest’uomo che lo ha colpito. Ha alcuni informatori tra gli ebrei della città. Farà chiacchierare un po’ il fratello.

 

Pierre decide di mandare avanti Morqos: tutti sanno che Pierre è al servizio del duca, anche se ignorano che è uno dei suoi uomini di fiducia, a cui affida i compiti più importanti e soprattutto quelli che devono rimanere segreti. Nessuno invece, a parte Pierre, sa che anche Morqos lavora per il duca: chi lo conosce crede che sia uno sfaccendato, che vive di rendita grazie ai beni di famiglia.

Morqos è contento del compito che gli viene affidato: Solomon gli ispira simpatia. L’ebreo però è riservato e Morqos non vuole apparire invadente, per cui aspetta un’occasione favorevole.

Una sera, sulla terrazza in cima alla casa, Morqos gioca con i due figli. Dina, che è la più piccola e ha tre anni, quando è in compagnia del padre o della madre è curiosa e sfacciata, mentre quando i genitori non ci sono, diventa timida e insicura. Si avvicina a Solomon e gli chiede come mai sa parlare tante lingue. Solomon sorride, mentre si inginocchia per risponderle, e le dice:

- Sono vecchio, ho viaggiato molto e ho incontrato tante persone. Per parlare con loro ho dovuto imparare tante lingue.

Dina ride.

- Non sei vecchio come Emich! Quanti anni hai?

- Ho trentatré anni.

- Perché dici che sei vecchio? Papà è più vecchio.

Morqos si è avvicinato. Osserva, ridendo:

- Ma che figlia gentile che ho! Va in giro a dire che sono vecchio.

Dina alza gli occhi su di lui.

- Solomon dice che è vecchio. Allora sei vecchio anche tu. Di più.

Solomon guarda Morqos e gli sorride:

- Colpa mia.

Morqos prende Dina tra le braccia e la solleva. Anche Solomon si alza.

- Spero che questa piccola impertinente non ti dia fastidio.

Morqos sceglie di dare immediatamente del tu, come è abbastanza comune tra uomini della stessa generazione.

- No, figurati. Mi piacciono molto i bambini.

Poi Solomon si rivolge a Dina:

- E comunque tu non sei impertinente, sei una bambina saggia.

Dina si mette il pollice in bocca, poi dice:

- Che cosa vuole dire impertinente?

È Morqos a rispondere:

- È una che va in giro a dire che il proprio padre è vecchio.

Parlano un momento, scherzando, finché arriva Mariette, la compagna di Morqos, che prende i due figli. La piccola protesta, ma è ora di andare a dormire.

Morqos rimane di fianco a Solomon. Non gli spiace avere il compito di conoscere meglio quest’uomo forte e gentile. Morqos lavora da anni per il duca, come informatore, ed è abituato a valutare le persone. Di rado si sbaglia. In Solomon ha colto, celate dietro una riservatezza naturale, una ricchezza interiore e una grande forza. Non è un uomo qualunque, questo, e ciò che Sarah ha saputo è solo un frammento di una realtà complessa.

- Come ti trovi a Rougegarde?

- Bene. Ma conoscevo già la città, ci ero venuto parecchie volte. Non l’ho scelta a caso.

- Siete venuti quasi tutti qui.

- Sì, solo due famiglie hanno preferito stabilirsi in territorio saraceno.

- In generale tra gli arabi gli ebrei corrono meno rischi.

- Sì, questo è vero. Ma a Rougegarde la situazione è molto diversa, grazie al duca.

Rimangono un momento in silenzio, poi Solomon osserva:

- Non credo che neppure qui a Rougegarde ci sia un’altra casa con abitanti di tante religioni e che parlano tante lingue.

- Ma tu le parli tutte.

Solomon scuote la testa.

- No, il lombardo di Giovanni e suo nipote lo capisco, ma lo parlo poco.

- Io non lo capisco proprio. Eppure sto in questa casa da dieci anni, da quando Riccardo era ancora un ragazzo… Ma credo che abbia più o meno la tua età.

- Sì, tre anni in meno. Ho avuto a che fare con lui e soprattutto con lo zio più volte, nei miei viaggi d’affari.

Solomon non dice nulla dell’attrazione che Riccardo prova per lui. Sospetta che Riccardo sia attratto anche da Morqos, che è un bell’uomo, ma gli sembrerebbe scorretto fare riferimento ai rapporti che ha avuto.

Rimangono un momento silenziosi. A Solomon pare di leggere in Morqos qualche cosa che va oltre il desiderio di conoscerlo meglio, qualche cosa di cui forse Morqos stesso non si rende ben conto. Morqos gli piace molto: è uno spirito libero, che si assume le sue responsabilità, ma non è schiavo di convenzioni e norme imposte da altri.

Mentre la luce scompare, parlano un momento della casa e dei suoi abitanti. Morqos racconta di sé e del fratello, Istfan.

Degli altri si limita a dire da dove vengono.

- E poi c’è la silenziosa Mara, di cui non sappiamo nulla.

- Credo che venga dal nord della Siria, a giudicare da come parla.

- Sei riuscito a parlare con lei? Parla volentieri con le donne, soprattutto con Sarah, che conosce perfettamente l’arabo, e un po’ con Mariette e Louison, che se la cavano con la lingua. Ma con noi uomini difficilmente scambia due parole.

Solomon sorride.

- Anche con me parla poco. Ma qualche volta gioco con il bambino: mi piace moltissimo e ho l’impressione di piacergli. E allora due parole lei è costretta a dirle.

- Direi che piaci a tutti i bambini. Ma hai un modo di trattarli che li conquista.

Chiacchierano ancora. Solomon chiede di Emich:

- So che qui vive Emich di Freiburg, ma lo vedo poco. Non sale sulla terrazza?

- Di rado. La sera preferisce andare a spasso per le strade. Gli piace vedere altra gente, ha stretto amicizia con tanti in città. Noi che viviamo qui andiamo a trovarlo in camera sua: gli vogliamo tutti molto bene. Lo abbiamo adottato e lui ha adottato noi.

- Ho sentito parlare molto di lui. Un uomo eccezionale.

- Sì, davvero. Ma tu non hai avuto modo di parlargli?

- Abbiamo solo scambiato i saluti, ma conto di riuscire a conoscerlo meglio, prima o poi. Abbiamo amici comuni, anche se lui non lo sa.

- Amici comuni?

- Gente che lui ha conosciuto in passato, con cui io sono in contatto.

- Tu devi conoscere tantissima gente.

- Sì, viaggio molto. Per il mio lavoro, ma anche perché mi interessa.

Morqos fa per formulare una domanda, poi ci ripensa e tace. Ma Solomon ha capito.

- Che cosa volevi dire? Di’ pure.

Morqos ride.

- Era una domanda, ma mi è sembrata di essere indiscreto.

Solomon sorride:

- Chiedi pure.

- Tu viaggi molto. Ma perché un orafo deve viaggiare molto?

- È una domanda sensata: tanti orafi non viaggiano e vivono benissimo. Io viaggio perché mi piace: mi piace conoscere nuova gente, nuovi posti, nuove usanze. E vendo alcuni gioielli in posti lontani, dove sono più apprezzati. Ho alcuni clienti molto esigenti, che rifornisco regolarmente.

- Ad esempio?

Morqos ride e aggiunge:

- Sì, va bene, l’hai capito. Sono un impiccione.

Anche Solomon ride.

- Lo era lo sceicco Labeeb, che è stato ucciso dagli ismailiti: ho realizzato molti gioielli per le sue mogli. Lo è il giovane emiro di Jabal al-Jadid, che abitò in questa casa.

Morqos guarda Solomon, sconcertato.

- Come lo sai?

- Me lo raccontò lui stesso. I gioielli sono una merce preziosa e il loro acquisto spesso non viene delegato: quando si tratta di sborsare molto denaro, emiri e sceicchi, signori franchi e ricchi borghesi vogliono vedere personalmente ciò che acquistano e scegliere. E quando hanno acquistato da te due o tre volte, è più facile che scambino due chiacchiere.

- Ma come hai fatto a procurarti una simile clientela?

- Alcuni miei gioielli sono stati apprezzati e in diversi casi sono stato chiamato da signori che avevano visto ciò che avevo prodotto per altri.

- Io penso che tu sia molto bravo… e tu pensi che io sia un gran ficcanaso.

Solomon scuote la testa.

- No, per il momento no. Non mi hai chiesto neppure con chi vado a letto.

Morqos sorride. Ormai è buio, sulla terrazza. Solo una falce di luna getta una luce discreta.

- Per quello c’è tempo. È solo la prima volta che ci parliamo davvero. Posso aspettare la seconda.

- Come preferisci.

Ora Morqos è conscio del proprio desiderio. E nelle parole di Solomon gli sembra di aver letto un invito.

- Oppure posso cercare di scoprirlo in altro modo.

- E come?

Morqos è sicuro di vedere un sorriso ironico sul viso di Solomon.

Morqos si mette di fronte a Solomon, gli prende il viso tra le mani e le loro bocche si uniscono. Quando si separano, Morqos dice:

- Così, ad esempio.

Morqos bacia di nuovo Solomon e questa volta la sua lingua si spinge nella bocca dell’ebreo, che la accoglie.

Quando si staccano, Solomon dice:

- Hai avuto una risposta alla tua domanda?

- La domanda non l’avevo formulata. Comunque non ho ancora avuto una risposta completa. Ma conto di averla presto.

Solomon annuisce.

- Te la posso dare quando vuoi.

Morqos esita. Il desiderio gli stringe i coglioni in una morsa, gli tende il cazzo. Non l’aveva previsto, ma gli cede senza resistere:

- Anche ora, da te?

- Anche ora, da me.

 

 

Da qualche giorno Ferdinando è tornato nella valle dell’Arram. È di pessimo umore, cosa insolita per lui. I suoi uomini si stupiscono di vederlo nervoso, con scatti d’ira spesso provocati da cose molto futili. I massaggi di Ghassan non sono sufficienti né a rilassarlo, né a soddisfare il desiderio che il pensiero di Adham riaccende, ma, altra cosa del tutto insolita per lui, anche scopare con i suoi uomini non gli dà grande soddisfazione.

Sente moltissimo la mancanza di Adham: la separazione gli dà una chiara idea della profondità dei suoi sentimenti e con suo stupore si ritrova a farsi le seghe come un ragazzino, pensando al bel nero. Anche quando fotte qualche soldato, immagina che sia Adham.

A tratti ha la tentazione di tornare a Rougegarde e affrontare Adham, ma poi decide che non vuole prendere nessuna iniziativa: lui ha le idee chiare su quello che vuole, è Adham che deve svegliarsi.

Va quasi tutti i giorni a caccia, per distrarsi un po’. Parte molto presto e quando i cani stanano un cinghiale, lo insegue a lungo. Non vuole che siano i suoi servitori a fiaccare l’animale: preferisce affrontarlo direttamente, ancora nel pieno delle sue forze.

Oggi ha lasciato i servitori al castello. Il cinghiale corre nel bosco e il suo rapido movimento rende difficile a Ferdinando mirare e riuscire a colpirlo. Infine però l’animale attraversa una radura e Ferdinando scaglia la lancia, che trafigge la preda, facendola cadere. La bestia è ancora in grado di risollevarsi. Quando Ferdinando lo raggiunge, il cinghiale è sulla difensiva, ma pronto a caricare. Ferdinando salta dal cavallo, piombando sul dorso dell’animale, che cerca di scrollarselo di dosso. Ferdinando ha il coltello in mano e colpisce il cinghiale più volte. Questi grugnisce e infine crolla al suolo. Ferdinando lo finisce, recidendogli la gola.

Ferdinando si alza. È coperto di sangue e di sudore e il respiro è affannoso, ma è soddisfatto della caccia. Sa benissimo che i suoi uomini lo giudicano imprudente, a esporsi così, ma non gli importa. La caccia gli trasmette sensazioni fortissime, quasi quanto scopare. E non a caso adesso Ferdinando ha il cazzo duro.

Ferdinando si guarda intorno, ma non c’è nessuno: quest’area boscosa è poco popolata.

Ferdinando pensa di raggiungere un torrente, spogliarsi e lavarsi. Poi però dovrebbe mettersi nuovamente addosso gli abiti lordi di sangue. Decide di tornare al castello: si laverà là e manderà qualche servitore a prendere il cinghiale per portarlo nelle cucine.

Quando Ferdinando esce dal bosco incrocia un giovane, fermo sulla strada che porta al castello.

Il ragazzo avrà vent’anni ed è bello come un angelo: i capelli neri e ricci formano un’aureola intorno a un viso dai tratti regolari; gli occhi sono grandi e chiari e il naso diritto; la carnagione scura e le labbra carnose fanno risaltare il bianco splendente del suo sorriso. Anche il corpo appare armonioso.

Ferdinando ferma il cavallo e sorride. Il giovane chiede:

- La caccia è andata bene?

Ferdinando risponde, in un arabo scorrevole e comprensibile, anche se non sempre corretto:

- Sì. Ho ucciso un cinghiale.

- Sei sporco di sangue, signore. Vuoi lavarti? C’è un torrente qui vicino.

- Mi aiuti tu?

Perché se questo giovane angelo lo aiuta, Ferdinando è ben contento di lavarsi una mezza dozzina di volte: anche se preferirebbe che ad aiutarlo fosse il bel nero rimasto a Rougegarde, adesso questo ragazzo va benissimo. Nella vita bisogna sapersi accontentare.

- Certo signore.

- Come ti chiami?

- Fahd.

- Grazie, Fahd.

Ferdinando si dice che con l’aiuto di Fahd sarà un piacere lavarsi e pazienza se poi dovrà rivestirsi con i panni sporchi. Prima di rimetterseli addosso, conta di fare qualche cosa di molto piacevole.

Ferdinando scende da cavallo e segue il ragazzo che fa strada, spogliandolo con gli occhi. Fahd ha un culo incredibile: i fianchi sono stretti e Ferdinando li immagina sodi e delicati al punto giusto. Il cazzo gli è tornato duro.

Il torrente non ha molta acqua, appena un palmo, ma è sufficiente per lavarsi e poi non è la pulizia quella che interessa al conte in questo momento. Ferdinando incomincia a spogliarsi.

- E tu? Togliti i vestiti. Se no, ti sporcherai.

Fahd sorride e per un momento Ferdinando pensa che non abbia capito bene il suo arabo zoppicante. Fahd si avvicina e aiuta Ferdinando a spogliarsi.

Infine Ferdinando si cala le brache, rivelando la sua formidabile erezione. Fa per avvicinarsi al ragazzo, ma Fahd gli dice:

- Lavati, prima.

Ferdinando ha altre priorità, ma non c’è motivo per non accontentare il ragazzo. Entra in acqua, si siede sul fondo sassoso e incomincia a lavarsi. È il riflesso del sole sul coltello a farlo voltare: un lampo di luce che per un attimo brilla nell’acqua. Ferdinando si gira per capire l'origine di quel bagliore improvviso e vede che Fahd sta calando il pugnale su di lui.

Ferdinando è agile e salta di lato. Il pugnale lo sfiora senza ferirlo. Ferdinando afferra il polso di Fahd, bloccandolo. Il divario di forze tra il conte e il ragazzo è troppo forte: Fahd non può certo liberare la mano. Ferdinando colpisce Fahd due volte al ventre con la mano libera. Il ragazzo geme e si piega in due. Ferdinando gli strappa il pugnale e lo fa cadere in acqua. Grida, senza più preoccuparsi di trovare le parole arabe:

- Stronzo! Figlio di puttana!

E poi aggiunge, questa volta in arabo:

- Bastardo!

Fahd cerca di alzarsi, ma Ferdinando lo spinge di nuovo nel torrente. Fahd rotola e i pantaloni bagnati gli si abbassano un po’. Ferdinando guarda il culo che si intravvede.

- Porcoddio, ti do quello che ti meriti.

Ferdinando balza addosso al ragazzo, schiacciandolo con il suo peso. Per un momento Fahd si ritrova la testa sott'acqua, ma riesce a sollevarla e a tenerla fuori, Ferdinando gli cala del tutto i pantaloni, scoprendo il culo. È bello come se l’era immaginato.

- Adesso ti faccio gustare il mio cazzo.

Le sue mani stringono il culo, con forza. Poi Ferdinando infila un dito nel buco, con un movimento brusco, che strappa a Fahd un gemito.

- Hai un bel culo, assassino dei miei coglioni. E ti garantisco che me lo gusto, porcoddio!

Il ragazzo non può capire ciò che Ferdinando gli grida, ma ha intuito le intenzioni del conte. Si agita e cerca di liberarsi, ma il peso di Ferdinando lo schiaccia e le sue mani lo bloccano.

Ferdinando è rabbioso e non si preoccupa di entrare con cautela. Avvicina la cappella al culo e spinge a fondo. Il cazzo forza l'apertura. Il ragazzo ha un guizzo disperato e grida, un urlo di puro dolore: gli sembra che gli abbiano infilato un coltello nelle viscere. Ferdinando non bada al grido: Fahd ha cercato di ucciderlo a tradimento e adesso ha quello che si merita. Ferdinando spinge fino in fondo, mentre Fahd urla di nuovo. Poi il conte incomincia la sua cavalcata, con spinte decise, seguite da un ritrarsi quasi completo. Il ragazzo geme e lo maledice. Ferdinando lo ignora: spinge con forza e non gli spiace far male a questo fottuto bastardo che ha cercato di ammazzarlo senza che lui gli avesse fatto niente. È calda, la carne, e stretta, tanto che Ferdinando deve spingere con forza per costringerla ad accogliere il suo grosso sperone. Di certo il ragazzo non è abituato a essere cavalcato e adesso ha modo di fare l'esperienza. Ferdinando bestemmia e insulta, mentre la tensione sale dai suoi coglioni e infine esplode: Ferdinando viene, riempiendo il culo del ragazzo del suo seme. Poi si affloscia su di lui.

Lentamente, mentre il respiro ritorna più regolare, Ferdinando riprende il controllo della situazione. Fahd è disteso in acqua, Ferdinando ha le gambe a bagno.

Fahd piange e tra le lacrime grida:

- Maledetto!

Ferdinando prende il pugnale e lo preme contro il collo di Fahd.

- Perché volevi uccidermi, stronzo?

- Morirai, cane infedele, morirai!

Ferdinando si dice che è meglio portare Fahd al palazzo: lo farà interrogare.

Si solleva e in quel momento il colpo lo prende alla tempia, stordendolo: Fahd ha preso un sasso sul fondo del torrente e quando Ferdinando si è mosso per alzarsi, si è girato un po', colpendolo con forza.

Prima che Fahd riesca a colpirlo una seconda volta, Ferdinando gli immerge il pugnale nella gola. Si sente solo un gorgoglio. La testa di Fahd ricade inerte, rimanendo sotto l'acqua che rapidamente si arrossa per il sangue.

Ferdinando si porta una mano alla tempia e la ritira coperta di sangue. Lava la ferita, poi si alza. Anche il cazzo è coperto di sangue, ma è quello del ragazzo. Ferdinando guarda il cadavere di Fahd. Si dice che è stato un coglione a ucciderlo. Avrebbe dovuto legarlo e portarlo al palazzo, per interrogarlo.

Ferdinando raccoglie il corpo, lo carica sul cavallo e raggiunge la sua abitazione. Dà ordine a una delle guardie e al suo segretario di indagare sul ragazzo: chi è, da dove viene, quali motivi potesse avere per odiare lui o i cristiani in generale.

Le indagini che si svolgono nei due giorni successivi non portano a nulla: nessuno sembra conoscere Fahd, nessun ragazzo è scomparso dai villaggi della valle dell’Arram. Nessuno aveva mai visto prima il giovane forestiero.

Ferdinando è perplesso. Decide di partire per Rougegarde: l’unico che forse può aiutarlo a chiarire il mistero è Denis.

 

Ferdinando ha finito di raccontare. Denis ha ascoltato con la massima attenzione, senza fare commenti. Si è limitato a porre qualche domanda.

- Che cosa ne dici, Denis? Hai un’idea dei motivi per cui voleva uccidermi?

- Non posso esserne sicuro, ma potrebbe avere a che fare con gli ismailiti che hanno occupato il castello di Jibrin, Qasr al-Hashim, come lo chiamano gli arabi.

- Gli ismailiti?

- Sì, una delle tante sette in cui sono divisi i maomettani.

Ferdinando non dice nulla: sulle divisioni religiose del mondo musulmano non sa nulla e ha sempre preferito evitare di occuparsene. Denis prosegue:

- Questi ismailiti del castello sono legati ad altri che vivono in Persia e più a nord in Siria. Fanno spesso ricorso all’omicidio di coloro che considerano nemici della fede. I saraceni li disprezzano e li chiamano Hashishiyya, non mi chiedere da dove viene questo nome.

- Non perseguito i musulmani, lo sai benissimo, Denis.

- No, ma questo non significa nulla. Il comandante della fortezza potrebbe aver mandato questo Fahd anche solo per metterlo alla prova, per vedere se era in grado di svolgere il compito affidatogli.

- Credi che sia questa la spiegazione?

- Potrebbe. Potrebbe anche non esserlo, ma per saperlo dovremmo interrogare Fahd e temo che non sia più possibile, a meno di non rivolgersi a qualche negromante.

Denis sorride. Ferdinando annuisce.

- Già, non avrei dovuto ucciderlo. Ho agito d’impulso, ma stava di nuovo cercando di ammazzarmi. Mi sono reso conto solo dopo di aver fatto una cazzata.

Ferdinando rimane un momento pensieroso. Poi aggiunge:

- Come fai a sapere queste cose, Denis? Degli ismailiti, intendo.

- Ho i miei informatori. Un signore deve sapere quello che accade, per difendere il suo territorio.

- Mandi delle spie?

- Talvolta. Altre ne inviano i templari e il re. Raccogliamo notizie e ce le scambiamo, per capire ciò che succede, prevenire ciò che non è ancora successo e rimediare per tempo a ciò che non abbiamo potuto prevenire.

Ferdinando annuisce.

- Credi che ci proveranno ancora?

- È possibile. Fino ad ora questi ismailiti hanno colpito soprattutto altri maomettani. Penso però che questi siano gli ismailiti del castello di Jibrin. Hanno già cercato di uccidere l’emiro di Jabal al-Jadid. Può darsi che adesso abbiano deciso di colpire i signori franchi e allora tu, io e Renaud siamo i bersagli ideali: tutti vicini ai domini saraceni. A meno che… ci sono anche altre possibilità, posto sempre che si tratti di loro.

- Porcoddio! Adesso dovrei pure guardarmi da questi?

Denis sorride, mentre dice:

- Non viviamo in una terra pacifica. Ci siamo imposti con la forza e solo con la forza possiamo mantenere il nostro dominio, contro avversari pronti a fare altrettanto. Se vuoi vivere in pace, faresti meglio a tornare a casa. Puoi vendere i tuoi beni qui e ritornare in Sicilia. Non ci hai mai pensato?

Ferdinando lo guarda, un po’ perplesso.

- Dici sul serio?

- Sì, Ferdinando. È una scelta che al tuo posto prenderei in considerazione.

- Tu pensi di farlo?

Denis scuote la testa.

- No. Ho conquistato Rougegarde e finché sarà in mio potere, cercherò di governarla nel miglior modo possibile. Governare una città è una grande responsabilità. Non intendo sottrarmi. Finché potrò impedirlo, non finirà nelle mani di un Renaud, pronto a perseguitare ebrei e maomettani, o di qualche saraceno magari altrettanto intollerante nei confronti dei cristiani.

- E allora perché mi dici che dovrei tornare in Sicilia?

- Non ti dico che dovresti farlo. Ti dico solo che se vuoi vivere in pace, quella è la scelta migliore.

Ferdinando sorride.

- Credo che tu abbia ragione, ma non penso che lascerò questa terra. Sono arrivato qui che ero un pezzente e ora sono conte, signore di un territorio fertile. E poi ti dirò Denis, mi piace la vita che conduco qui. Non mi interessa vivere in pace. Mi piace combattere. So che potrei essere ucciso, ma accetto il rischio. Morire in battaglia non è una brutta morte.

Denis non appare molto convinto.

- Può darsi, ma spero che tu non abbia mai occasione di scoprirlo. In ogni caso, nei prossimi mesi fa’ attenzione ed evita di muoverti da solo.

- Va bene, Denis.

C’è un momento di silenzio, poi Denis dice:

- Adesso vorrei che tu parlassi con Adham.

Ferdinando si tende.

- Te l’ha chiesto lui?

- Non so nemmeno se qualcuno lo ha informato del tuo arrivo. Ma in questi giorni l’ho visto triste e apatico. Credo che sia meglio che vi chiariate le idee tutti e due.

- Io le ho chiarissime.

- Lo ami, Ferdinando?

Ferdinando non si aspettava una domanda così diretta: l’amore non è un argomento di cui abbiamo mai davvero parlato. Ma ormai conosce la risposta.

- Sì.

- Va bene. Lo mando a chiamare. Tu accomodati nella biblioteca. Vi parlerete a quattr’occhi, con calma.

- Va bene.

Ferdinando passa nella biblioteca. Una stanza ampia, con molti manoscritti di epoca diversa: si tratta perlopiù di testi arabi, che erano di proprietà dell’emiro di al-Hamra, ma ci sono anche diversi testi greci e latini.

Ferdinando guarda gli armadi in cui sono rinchiusi i manoscritti. Essendo analfabeta, non può neanche leggere qualche pagina. Al massimo potrebbe sfogliare un volume miniato, ma non è dell’umore giusto. È inquieto e non riesce a stare fermo, per cui si mette a camminare nervoso avanti e indietro.

Mentre aspetta Adham, Denis riflette su quanto Ferdinando gli ha raccontato. Potrebbero davvero essere gli ismailiti, perché la modalità d’azione è tipica. Ma perché hanno deciso di colpire Ferdinando? E quali altri bersagli hanno in mente? Chi li ha mandati? Per avere le risposte, bisognerebbe espugnare il castello di Jibrin, ma è un’impresa difficilissima e, poiché il castello è nel territorio dell’emiro di Jabal al-Jadid, attaccarlo sarebbe una dichiarazione di guerra.

Mentre Denis riflette, arriva Adham.

- Mi hai fatto chiamare, duca?

- Sì, Adham. Il conte Ferdinando è qui.

Adham non dice nulla, ma è chiaramente turbato.

- Ho piacere che vi parliate. È di là, nella biblioteca.

Adham annuisce. Guarda la porta della stanza e per un momento Denis coglie un’incertezza che è quasi paura.

- Non ti voglio obbligare a fare nulla che tu non voglia, Adham, ma dovete chiarirvi e ho piacere che vi parliate. Poi mi dirai che cosa vorresti fare.

- Come comandi, duca.

Adham raggiunge la biblioteca. Dalla soglia vede Ferdinando fermo in piedi, che guarda fuori dalla finestra. Ferdinando avverte la presenza di Adham e si volta verso la porta. Si guardano, senza muoversi. Poi Adham entra, chiude la porta dietro di sé e avanza fino al tavolo.

Rimangono entrambi in silenzio. Si guardano. Poi Ferdinando si avvicina, prende tra le mani il viso di Adham e lo bacia. Un bacio lungo, che risparmia a entrambi la fatica di cercare le parole. Ma il bacio è solo un antipasto e dopo questi giorni di astinenza (completa per Adham, molto relativa per Ferdinando) sono tutti e due alquanto affamati.

Ferdinando porta una mano di Adham ad appoggiarsi sui pantaloni, sopra il cazzo già teso alla spasimo. Il nero stringe e con l’altra mano si slaccia i calzoni, tirando fuori il suo uccello, non meno rigido di quello del conte. Ferdinando si stacca e scivola in ginocchio, guarda il cazzo vigoroso del nero, sorride e bacia la cappella, poi vi passa sopra la lingua, più volte e infine l’avvolge con le labbra. Adham geme, cercando di mantenere basso il tono della voce.

Ferdinando lo guida a stendersi sul tappeto davanti al tavolo, poi si cala i pantaloni e, senza nemmeno toglierseli, si siede sul ventre di Adham, dandogli la schiena. Sotto di sé sente il cazzo del nero, caldo e rigido. Solleva un po’ il culo e il nero mette in verticale il cazzo, in modo che abbassandosi Ferdinando vi si impali, con un brivido di piacere e un gemito.

Le mani di Adham si posano sul culo di Ferdinando e guidano i movimenti del conte, che si alza e si abbassa. Il nero osserva la schiena vigorosa del guerriero, le cicatrici, la peluria. Le sue mani stringono, mentre il piacere cresce. Poi Adham si solleva. Ferdinando non capisce che cosa l’amico intenda fare, ma ne asseconda il movimento. Ora sono tutti e due in piedi, il cazzo di Adham ancora dentro al culo di Ferdinando. Il nero spinge il conte contro il tavolo, su cui Ferdinando si appoggia. Adham arretra finché solo la cappella è dentro il culo di Ferdinando, poi con un movimento brusco in avanti, affonda l’intero cazzo. Ferdinando bestemmia: per un attimo il dolore è più forte del piacere. Adham ripete la manovra, arretrando e nuovamente avanzando. Ferdinando china la testa, mormorando:

- Merda!

Adham si ritrae e Ferdinando muove il culo, accompagnandolo, mentre le sue mani poggiano sul tavolo e la sua bocca è socchiusa in un lamento che non esce. Adham spinge con forza, accelera il ritmo e infine viene, rovesciando il suo seme nelle viscere del conte.

Poi lo abbraccia e rimangono così, stretti.

La mano del nero scivola fino al cazzo di Ferdinando e lo stringe. Ferdinando emette un grugnito, poi dice:

- Esci, che voglio fotterti io.

A malincuore Adham lascia il culo di Ferdinando, che lo fa sedere sul tavolo. Lo bacia sulla bocca, più volte. Le loro lingue si inseguono e si cercano. Poi Ferdinando gli solleva le gambe e Adham si distende sul tavolo. Ferdinando lo avvicina a sé e, tenendogli le mani sotto le ginocchia e le gambe divaricate, passa la lingua sul solco, più volte. Adham geme al contatto con questa lingua che lo fa fremere. Poi il conte si mette le gambe del nero sulle spalle e avvicina il cazzo al culo. Osserva l’apertura e sorride.

- Ora ti fotto, Adham, come tu hai fottuto me.

Adham annuisce. Lo desidera. Ormai sa di desiderarlo e lo accetta. Quello con Ferdinando è un rapporto alla pari. Il conte non è il suo padrone e gli si offre. E ormai Adham sa che vuole sentire il cazzo vigoroso di Ferdinando entrargli in culo, vuole le sensazioni forti che accompagnano l’ingresso, desidera questo abbandonarsi a un altro maschio, allo stesso tempo padrone e schiavo.

Ferdinando entra dentro Adham, dolore e piacere si mescolano. Le sue mani accarezzano la pelle scura, indugiano sui capezzoli, li stringono con forza, mentre il cazzo affonda, fino a che i coglioni del conte sbattono contro il culo del nero.

Adham poggia le mani sulla schiena di Ferdinando, le fa scivolare fino al culo, stringe con forza, quasi volesse tenere dentro di sé l’arma che lo trafigge. Ferdinando si china, lo bacia, poi incomincia a muovere il culo, in un movimento prima lento, che va progressivamente accelerando.

Le mani di Ferdinando scorrono sul corpo del nero, stringono i capezzoli, accarezzano il viso, sfiorano il cazzo, schiacciato sotto il ventre del conte. Ferdinando fotte con l’energia che lo contraddistingue e Adham si abbandona completamente a questo padrone che lo ha soggiogato. Si offre, preda consenziente, al cacciatore che affonda la sua arma e la ritrae, dilatando sofferenza e godimento. Ferdinando continua e Adham si rende conto che nuovamente il cazzo gli si tende, anche se è venuto da poco.

Le spinte di Ferdinando diventano ancora più vigorose. Il dolore cresce, ma quando Ferdinando viene, con le ultime spinte brutali, anche Adham viene.

Ferdinando si abbandona sul corpo di Adham. Gli accarezza il viso.

- Quanto mi hai fatto penare, stronzo!

Adham ride.

Rimangono abbracciati, finché Adham spezza il silenzio.

- Se il mio padrone sapesse che scopo nella biblioteca…

- Credo che lo sospetti. Mi conosce bene.

Adham ride.

- Sa che sei un porco.

- Un porco fottuto.

Ora è più facile parlare. Ferdinando va subito al dunque:

- Allora, hai deciso, testa di cazzo?

Ferdinando non ha detto che cosa, ma è chiaro a tutti e due.

- Verrò con te, Ferdinando, se il duca me lo permette. Ma non voglio essere il tuo schiavo.

- Neanch’io ti voglio come schiavo. Voglio che tu possa decidere liberamente se succhiarmi il cazzo o prendertelo in culo o farmi una sega.

Adham ride.

- Mi lasci scegliere? Troppo buono.

 

A Denis basta un’occhiata per capire che Ferdinando e Adham si sono parlati. O almeno: si sono intesi, magari senza usare tanto le parole. Conoscendo Ferdinando, sa che probabilmente l’amico ha usato altri sistemi per intendersi.

Ferdinando si rivolge a Denis:

- Adham ha qualche cosa da dirti.

Adham guarda il conte e ride. Poi si rivolge al duca, serio.

- Duca, tu mi hai chiesto che cosa vorrei fare. Tu sei il mio padrone e tocca a te decidere, ma io vorrei poter andare con il conte Ferdinando.

Denis annuisce.

- Va bene, Adham. Rimarrai al mio servizio, ma sarai libero di rimanere con il conte finché vorrai. Se deciderai che non sopporti più questo bestemmiatore, tornerai da me e deciderò il da farsi.

Ferdinando sorride.

- Grazie, Denis, sei un amico. E mi scuso de l’altro giorno ti ho risposto malamente. Ma sai che sono alquanto rozzo.

Anche Denis sorride e risponde:

- Di’ pure che sei un cazzone, Ferdinando.

Ridono tutti e due. A Ferdinando non sembra vero che Adham venga con lui.

 

*

 

Il tentativo di uccidere Ferdinando è fallito. Ramzi è irritato. Renaud di certo non andrà a raccontare in giro di aver cercato di far uccidere il conte, ma lo smacco pesa a Ramzi. Dovrà rimediare: nessuno può sfuggire alla morte se Ramzi ha decretato la sua condanna.

Ferdinando starà in guardia. Per il momento è più saggio aspettare. È ora invece di spegnere un’altra vita, quella di Denis d’Aguilard, duca di Rougegarde, il Cane dagli occhi azzurri. Un uomo più pericoloso di Ferdinando. Ramzi lo farà uccidere perché Renaud lo ha pagato per questo, altrimenti non oserebbe prendere un’iniziativa del genere senza avvisare lo sceicco Sinan. Ma è contento di spegnere la vita di quest’uomo che nei suoi possedimenti accoglie tutti e che è rispettato da cristiani, ebrei e musulmani.

Sopprimere il signore di al-Hamra non sarà facile. Bisogna scegliere bene chi eseguirà il compito. Ramzi preferisce non servirsi del fratello: se Usama venisse scoperto e arrestato, prima o dopo aver ucciso il duca, lo sceicco Sinan capirebbe subito che è stato Ramzi a mandarlo. E se lo sceicco scoprisse che Ramzi si permette di far uccidere uno dei più importanti signori cristiani senza chiedergli l’autorizzazione, la vita di Ramzi varrebbe molto poco.

Qualcun altro ucciderà il duca. Ma come?

Ramzi invia due uomini ad al-Hamra. In città non può contare su molti appoggi, soprattutto contro il duca: troppi uomini, anche tra i seguaci della vera fede, vedono in Denis d’Aguilard un uomo giusto e saggio. Ma i suoi uomini cercheranno di prendere contatto con le persone giuste. Ad al-Hamra andranno Faaris e Maazin.

Faaris è un mercante, che solo recentemente ha aderito alla setta degli ismailiti. Ha tutto lo zelo di chi ha da poco abbracciato una nuova fede e si dichiara pronto a subire il martirio, se questa è la volontà divina. Ramzi non è sicuro che l’entusiasmo di Faaris regga di fronte al rischio concreto di essere messo a morte, ma intende servirsi di lui. Non è l’uomo adatto a uccidere il duca, ma può sondare il terreno all’interno della comunità musulmana di al-Hamra. Se riuscirà a trovare qualcuno disposto ad agire contro il signore della città, ben venga. Se sarà scoperto, non sarà una grave perdita. Sarebbe comunque preferibile che non venisse arrestato, perché potrebbe rivelare che è stato Ramzi ad affidargli l’incarico.

Durante l’ultimo colloquio, dopo avergli dato tutte le istruzioni, Ramzi porge a Faaris una fialetta.

- Questa è per te.

Faaris la prende, senza capire.

- Che cos’è?

- Un veleno potente, in grado di uccidere un uomo in pochi minuti.

Faaris guarda il piccolo recipiente. Sembra affascinato.

- Per il duca? Pensi che riuscirò…

Ramzi lo interrompe:

- Escludo che tu possa trovare l’occasione per somministrarlo al duca. Se ne avessi davvero la possibilità, sarebbe un segno del favore divino. Ma se non sarà così, il veleno può servire a te.

Faaris lo guarda, stupefatto.

- A me?

- Nel caso venissi scoperto. Non devi rivelare chi ti manda, altrimenti il duca starà in guardia.

Faaris fissa di nuova la fiala. Respira a fondo. Poi annuisce.

- Se sarò scoperto, berrò il veleno.

Ramzi congeda Faaris. Non è per niente convinto che il mercante sia disposto a uccidersi se venisse arrestato.

 

Maazin lavora per Ramzi da più tempo. È un ladro e un assassino e stava per essere crocifisso, ma Ramzi lo ha salvato, perché ha capito il suo valore. È un uomo abile e deciso, che è utile avere al proprio servizio. La sua fede è debole e Ramzi sa benissimo che non cercherebbe il martirio, ma è l’uomo adatto per procurargli le informazioni di cui ha bisogno per poter colpire il duca. E, se si presenterà l’opportunità, sarà lui stesso a colpire, perché sa che riceverebbe una lauta ricompensa. Faaris non è un uomo d’azione e al massino potrebbe usare un veleno, ma Ramzi non conta su di lui per uccidere il duca: gli serve per prendere contatti con le persone giuste. Maazin invece potrebbe davvero portare a termine il compito, se le circostanze glielo permetteranno.

Faaris si muoverà tra i mercanti e gli artigiani, nella comunità musulmana di al-Hamra. Maazin agirà nei bassifondi, l’ambiente che gli è più congeniale.

Nessuno dei due è informato della presenza di un secondo inviato: Ramzi vuole evitare che un passo falso di uno porti alla scoperta anche dell’altro.

 

 

Faaris si reca a Rougegarde come se fosse in viaggio d’affari. Porta con sé alcune merci, perché nessuno possa sospettare, e si occupa di piazzarle. Ma il secondo giorno, seguendo le istruzioni ricevute, si presenta da uno dei notabili della città, Kaarem ibn Umar, anche lui ismailita. Kaarem gli fa conoscere altri commercianti ed artigiani, in modo da introdurlo nell’ambiente.

Quando parla del duca, Faaris non incontra tra i suoi interlocutori nessuna reazione ostile nei confronti del signore della città, come in parte aveva previsto. Se prova a osservare che è un peccato che la perla della Palestina sia nelle mani di un infedele, i suoi interlocutori gli rispondono che questo è stato il volere di Allah. Nei rari casi in cui Faaris si spinge un po’ oltre, perché gli sembra che il terreno sia più favorevole, si accorge di suscitare diffidenza: non pare esserci nessuna disponibilità a collaborare.

Un’unica volta Faaris accenna alla possibilità che il duca possa morire per mano di qualche credente disposto al martirio. Il calderaio a cui parla si limita a una risposta generica sul volere di Allah e cambia rapidamente discorso. Quando Faaris torna per parlargli, un garzone gli risponde che l’artigiano non è nella sua bottega. Faaris è sicuro che si tratta di una menzogna, ma insistere non avrebbe nessun senso.

A quanto pare tra i bravi musulmani di al-Hamra, nessuno sembra intenzionato a raggiungere il paradiso prima del tempo: il martirio non ha fascino per questi mercanti e artigiani, più interessati ai propri affari che a guadagnarsi gloria eterna.

Faaris non demorde, anche se si rende conto che gli altri mercanti sono diventati diffidenti nei suoi confronti e lo tengono a distanza.

 

Sul letto, Solomon è disteso sulla schiena, la testa su un cuscino. Morqos è steso su di lui. Solomon gli accarezza il capo, in silenzio. Morqos sta bene tra le braccia di Solomon. Il culo gli fa un po’ male, ma stare su questo corpo è bello.

Morqos ama Mariette, ma gli piacciono sia gli uomini, sia le donne. E questo maschio lo attrae.

Quando Morqos si alza per andare, Solomon dice:

- Morqos, volevo dirti una cosa.

- Dimmi.

- C’è un mercante di Homs, un certo Faaris, che è in città da due settimane. È entrato in contatto con molti artigiani e commercianti. È molto critico nei confronti del duca e sembra quasi cercare altre persone che la pensino come lui. E che non si limitino a pensare, ma intendano agire.

- Intendi dire che…

Morqos non completa la frase.

- Credo che lui, o chi lo manda, miri a uccidere il duca.

- Bisogna avvisare il duca.

- Per questo te ne ho parlato.

Morqos pone la domanda che gli è subito venuta in mente:

- Perché l’hai raccontato a me, Solomon? Sai benissimo che Pierre è al servizio del duca.

- Perché preferisco parlarne a te, che conosco. Con Pierre ho poche occasioni di scambiare due parole. È meglio che glielo dica tu.

Morqos non obietta. Si limita a chiedere:

- Come fai a sapere di questo Faaris, Solomon?

- Chiacchiere. Cose che ho sentito.

Morqos ha forti dubbi che la risposta di Solomon sia sincera: l’ebreo non è tipo da perdere tempo ad ascoltare chiacchiere. Ma se non vuole dirgli come ha scoperto di questo Faaris, non è un problema. Quello che conta è l’informazione. Bisogna verificare se le cose stanno davvero così. Poi il duca deciderà il da farsi anche con Solomon. Se vorrà saperne di più, lo interrogherà.

 

Faaris si reca regolarmente nel bagno turco. Parla anche qui con chi gli si avvicina, ma non si espone troppo: è un ambiente in cui facilmente ci sono spie, proprio perché la gente chiacchiera volentieri con sconosciuti.

Di fianco a lui si siede un uomo che deve aver superato i trent’anni. Come tutti, porta un telo attorno alla vita.

L’uomo gli sorride e gli dice:

- Sei un forestiero? Non ti ho mai visto qui.

- Sì, vengo da Homs. Ma sono già venuto altre volte. Sono ad al-Hamra da qualche settimana.

- Al-Hamra! Fa piacere sentirla chiamare con il suo nome e non Rougegarde. Se penso che la più bella delle città è in mano a un infedele…

Faaris annuisce.

- Credo che per tutti noi sia un tormento sapere che un miscredente è signore di questa città.

- Purtroppo è così e non cambierà, se nessuno si decide…

L’uomo si interrompe: evidentemente si è reso conto di essersi esposto. Dice, ridacchiando:

- Parlo troppo, non dare peso alle mie parole.

- Non devi preoccuparti, anch’io la penso come te. Tu vivi qui ad al-Hamra?

- Sì. Sono nato in un villaggio qui vicino, ma mi sono trasferito in città molti anni fa, ben prima che gli infedeli conquistassero al-Hamra.

- Bisognerebbe fare qualche cosa, ma mi sembra che nessuno abbia intenzione di agire.

- Sì, hanno tutti paura. Gente senza coglioni, scusa la franchezza.

- La penso come te. Gente senza coglioni, che accetta di avere per signore un infedele, un uomo che dovrebbe morire.

L’uomo si guarda intorno, poi annuisce, lentamente.

- Parla piano.

Faaris ha parlato sottovoce, per essere certo che nessun altro potesse sentirlo.

- Sì, certo.

- Ci sono alcuni che vorrebbero agire, ma entrare a palazzo è impossibile e non si riesce a corrompere qualche uomo del duca. Alcuni darebbero volentieri una mano, ma non sono forti e decisi a sufficienza per… portare a termine l’impresa. Non ci si improvvisa guerrieri o sicari.

- Tu conosci… Io saprei trovare persone esperte e decise, che però avrebbero bisogno di un aiuto, per poter agire.

L’uomo annuisce lentamente. Appoggia la schiena contro la parete, controllando che nessuno si avvicini.

- Che cosa intendi per aiuto?

Faaris sente che il cuore batte più in fretta. Sa che si sta esponendo e si accorge di essere agitato. Anche se il calore nella stanza è soffocante, sente un brivido. Risponde:

- Informazioni su come e dove colpire, magari un nascondiglio e quello che può servire per portare a termine l’azione.

L’uomo rimane in silenzio. Si guarda ancora intorno. Poi chiede, a bruciapelo:

- Non sei una spia del duca?

- No, no, che dici?

- Sanno che sono contro il duca, io. Qualcuno mi ha denunciato, quelle merde. Mi hanno interrogato, sono stato in prigione due mesi, per poche parole che ho detto.

- No, io la penso come te. Stai tranquillo.

L’uomo annuisce, ma tace. Dopo un momento Faaris dice:

- Come posso mettermi in contatto con queste persone disposte a dare una mano?

L’uomo gira la testa da una parte e dall’altra, controllando che nessuno si sia avvicinato, poi dice:

- Domani è giorno di mercato nel quartiere che chiamano di San Pietro. Dalla piazza parte una strada che sale verso il palazzo del duca. Sulla sinistra ci sono diversi negozi. Subito dopo il primo passaggio coperto, c’è una bottega di spezie.

L’uomo si ferma. È chiaramente agitato. Per l’ennesima volta controlla che nessuno possa ascoltarli. Anche Faaris è inquieto, ora: l’uomo gli ha trasmesso il suo nervosismo.

- Vacci verso mezzogiorno, quello che questi cani chiamano l’ora sesta, quando le campane delle loro fottute chiese suonano. Chiederai al mercante se ha delle spezie della Nubia. Io l’avviserò oggi stesso.

- Qual è il tuo nome?

- Faaris.

- Bene, adesso è meglio che tu vada.

Faaris annuisce. È contento di andarsene, perché si sente a disagio, ma è molto soddisfatto dell’incontro: è sicuro di aver trovato l’aggancio che cercava, qualcuno che gli permetterà di entrare in contatto con le persone giuste. Non è stato un caso fortunato: Allah ha premiato la sua perseveranza e la missione sarà coronata dal successo.

Faaris saluta e passa nell’altra sala, per lavarsi e poi andarsene.

Morqos lo guarda allontanarsi. Solomon aveva ragione. Quest’uomo vuole uccidere il duca. Non direttamente: non è in grado di usare un’arma, al massimo un veleno, ma forse neanche quello. A un certo punto Morqos lo ha visto tremare. Questo però significa che c’è qualcuno che gli sta dietro ed è ancora peggio.

 

Le campane di San Pietro suonano. Faaris si avvia lungo la strada che si inerpica sul fianco della collina. È nervoso e man mano che si avvicina alla sua meta, deve frenare l’impulso di voltarsi e tornare indietro. Sta rischiando e adesso, lontano dagli altri veri credenti, senza nessuno che possa dirgli una parola di conforto, i dubbi lo assalgono. Il suo passo rallenta, senza che se ne accorga. Quando vede la bottega del mercante di spezie, oltre la viuzza che deve attraversare, sussulta. Perché si è cacciato in questo guaio? 

A fatica Faaris avanza. Si ferma davanti alla bottega del venditore di spezie e osserva le merci disposte ordinatamente nei cesti.

Il negoziante lo guarda, poi chiede:

- Amico, dimmi di che cosa hai bisogno. Qui puoi trovare tutto quello che ti serve.

Faaris cerca di sorridere, per nascondere il suo nervosismo, e dice, con una voce che cerca di rendere tranquilla:

- Cerco delle spezie della Nubia.

L’uomo sorride.

- Sei fortunato, amico. Le spezie della Nubia sono rare, ma ne ho alcune: le tengo dentro la bottega, per evitare che qualcuno me le rubi mentre io parlo con un altro cliente. Vieni dentro.

Faaris annuisce. Ormai è fatta, non avrebbe senso rinunciare ora, anche se la tentazione è forte. Segue il mercante nella bottega, cercando di nascondere il suo nervosismo.

- Siediti amico. Permettimi di offrirti da bere.

Mentre Faaris si siede, l’uomo versa da una brocca un po’ di limonata e gliela passa. Faaris beve, sorridendo.

È il mercante a parlare:

- Come ti chiami, amico?

- Faaris ibn Rayyan.

Il mercante annuisce. Conosce il nome.

- Sono contento che tu sia venuto a trovarmi. C’è bisogno di qualcuno che abbia il coraggio di compiere il volere dell’Onnipotente, di realizzare ciò che molti vorrebbero veder accadere.

- Per agire bisogna avere informazioni, sapere dove e come… intervenire.

Faaris avrebbe voluto dire “colpire”, ma ha preferito scegliere un termine più neutro. Gli sembra che per il momento la loro conversazione sia molto generica e questo lo tranquillizza.

- Sono in molti disposti ad aiutare. Per i figli di Maometto è difficile tollerare che al-Hamra sia governata da un miscredente.

- Sì, lo capisco.

Il mercante sorride senza rispondere. Faaris prosegue:

- Se il duca morisse, al-Hamra potrebbe tornare sotto il dominio di un signore credente. 

- Sì, se il duca morisse, il re di Gerusalemme non riuscirebbe a difenderla: è giovane, inesperto e Allah lo ha punito con la lebbra. Solo il duca gli ha permesso di sconfiggere il grande Salah ad-Din, che Iddio lo protegga.

C’è di nuovo un silenzio. Il mercante sorride, in attesa. Faaris osserva:

- Bisognerebbe che il duca morisse.

- Così avverrà, se c’è la volontà di Allah.

Faaris annuisce.

- Se c’è la volontà di Allah, il duca morirà.

Di nuovo il mercante tace. Faaris si rende conto che deve abbandonare la prudenza: non ha senso continuare a girare intorno.

- Ci sono uomini forti e coraggiosi, disposti a sacrificare le loro vite, ma non è facile avvicinarsi al duca.

- Sei sicuro della fede e del coraggio di questi uomini?

- Sì.

- Essi sono qui, in città?

- No, ma verranno quando l’impresa sarà possibile. E questo dipende dall’aiuto che possono ricevere.

- Uomini disposti a uccidere il duca. E tu vuoi metterli in contatto con qualcuno qui che possa aiutarli.

Faaris annuisce. È contento che sia stato il mercante a formulare la frase, esplicitando ciò di cui hanno parlato fino a ora senza esprimerlo direttamente.

Il mercante sorride e dice:

- Sì, direi che è sufficiente.

La tenda si apre. Compaiono quattro uomini armati. Faaris li guarda, poi guarda il mercante, che sorride. È caduto in una trappola. La sua vita è finita. Un’ondata di terrore lo investe. Si alza di scatto e si dirige di corsa verso la porta, in un inutile tentativo di sfuggire ai soldati. In un attimo i quattro lo bloccano e lo gettano a terra. Gli legano le mani e i piedi, poi lo sollevano.

Non escono in strada. Scendono lungo una scala a cui si accede dall’interno della bottega e raggiungono un passaggio sotterraneo.

Portato da due uomini, che lo tengono per i piedi e le mani legate, Faaris guarda con terrore il soffitto del corridoio lungo cui lo trascinano, debolmente illuminato dalla luce della lanterna che uno dei soldati tiene davanti a sé. Non si accorge neppure di aver perso il controllo della vescica. Mentre il piscio gli bagna i pantaloni e poi scende sul pavimento, pensa che non rivedrà mai più la luce, se non, forse, per morire. Grida, un urlo disperato, che gli uomini intorno a lui non sembrano neppure sentire. Il suo “Noooooooo!” rimbomba nel buio del sotterraneo. Il passaggio è chiuso da una porta. Uno degli uomini bussa. Si apre uno spioncino, poi la porta viene spalancata e il gruppo entra. Dietro di loro la porta viene di nuovo chiusa. Faaris ha trovato una via per entrare nel palazzo ducale. Non avrà modo di raccontarlo.

 

Il giorno seguente, Denis parla con Pierre. Dopo aver dato alcune istruzioni, il duca conclude:

- Pierre, dirai a Solomon che ho piacere di parlargli. Se accetta di venire da me, gli dirai di chiedere di Manrique: così nessuno saprà che è venuto a parlare con me. Se invece non vuole, non è tenuto a farlo: non voglio obbligarlo.

Pierre fa un cenno d’assenso. Visto che è stato l’ebreo a informare il duca del piano, è naturale che il duca voglia parlargli. Ma è anche comprensibile che non voglia forzare chi lo ha messo in guardia contro una minaccia mortale.

Solomon non si stupisce della convocazione a palazzo. Si aspettava che il duca volesse sapere in che modo ha scoperto il tentativo di ucciderlo e sospetta che non intenda accontentarsi di qualche spiegazione generica.

Si presenta a palazzo il mattino del giorno seguente. Sa già che il mercante Faaris non è ritornato alla locanda dove alloggiava ed è sicuro che sia stato arrestato.

Solomon chiede di Manrique, che arriva subito e lo accompagna dal duca.

Denis non lo riceve nella sala delle udienze, ma in una stanzetta a parte. Ci sono un tavolo e due poltrone.

- Accomodatevi, Solomon. Vi ringrazio di essere venuto.

Solomon si siede. Sembra essere a suo agio. Sorride mentre risponde:

- Non potevo certo sottrarmi, duca.

Anche Denis sorride.

- Non era un obbligo, ma ero sicuro che sareste venuto. E sono altrettanto sicuro che sappiate il motivo per cui vi ho chiesto di venire. Ma prima voglio ringraziarvi: mi avete permesso di sventare una minaccia e di scoprire un pericolo che mi sovrasta.

- Purtroppo su di voi incombono tanti pericoli. Avete nemici tra i franchi come tra i saraceni, ma è inutile che ve lo dica, perché lo sapete benissimo.

- Sì, so di avere tanti nemici e so anche chi sono. Il problema è sapere di quali mezzi e di quali persone si serviranno per colpire.

Solomon annuisce, senza dire nulla.

Denis riprende:

- Solomon, siete un uomo troppo intelligente perché sia necessario che io vi ponga la domanda che ho in mente. Avete voglia di rispondermi?

- Mi lasciate la libertà di non rispondere?

- Sì. Mi avete permesso di scoprire un potenziale assassino. Non voglio forzarvi.

- Vi ringrazio di questo. E vi parlerò francamente. Vi conosco e so che posso fidarmi di voi. Forse vi parrà strano, dato che ci siamo parlati un’unica volta, ma voi siete il signore di Rougegarde e di voi si dicono molte cose.

- E voi di certo sapete ascoltare.

Denis vorrebbe aggiungere che anche lui ha fiducia nell’uomo che gli sta davanti, ma preferisce non formulare il suo pensiero. Solomon sorride e riprende:

- Incomincerò da lontano, perché voi non siete uomo da accontentarvi di frammenti di spiegazione. Forse potrei offrirvi una parte della verità e voi ve ne accontentereste, perché non volete forzarmi, ma preferisco dirvi tutto.

- Vi ringrazio anche di questo.

Solomon incomincia a parlare. Ha una bella voce, profonda.

- Conoscete la situazione di noi ebrei tra gli arabi. Paghiamo un tributo, ma siamo tollerati. Arabi, curdi, persiani sono abituati alla nostra presenza e di solito ci lasciano vivere in pace. Con l’arrivo dei franchi in queste terre molte cose sono cambiate. Tanti ebrei sono stati massacrati. Io sono stato concepito durante uno di questi massacri: mia madre venne violentata da un soldato, suo marito e due suoi fratelli furono uccisi. Mia madre, incinta di me, si trasferì con mio fratello Amos ad Afrin, perché non se la sentiva di vivere tra i franchi che aveva visto uccidere suo marito e tanti altri. Ad Afrin vivevano i suoi fratelli, che ci presero sotto la loro protezione: non avevano figli e Amos e io diventammo i loro figli. Uno di loro era il rabbino della comunità e Amos gli successe alla sua morte, l’altro era un orafo e fu lui a insegnarmi il mestiere. Non solo il mestiere: era un uomo molto deciso e coraggioso ed era capace di difendersi all’occorrenza, cosa che per un orafo che viaggia può risultare utile. Mi insegnò a maneggiare le armi e a lottare, in modo che fossi in grado di reagire se qualcuno mi attaccava.

Solomon si ferma un attimo, poi riprende:

- Vi chiederete perché vi racconto cose personali, che nulla hanno a che vedere con quanto vi interessa.

- Ciò che mi raccontate mi interessa molto, invece. E sono sicuro che scoprirò qual è il legame con ciò che è successo. Continuate, vi prego.

È la verità: Denis è molto incuriosito da Solomon ed è contento di scoprire qualche cosa di più di quest’uomo.

- Avevo diciannove anni quando voi conquistaste Afrin. Sapete ciò che successe. La città non si era consegnata e ne pagammo tutti le conseguenze. Ma il saccheggio non fu accompagnato da stupri e omicidi: eravamo convinti di essere scampati al peggio, anche se ci trovavamo a vivere tra quei franchi che avevano fatto strage della famiglia. Le nostre condizioni però peggiorarono in fretta, man mano che la popolazione cristiana della città aumentava. Nei nostri confronti c’era un’ostilità crescente e subivamo vessazioni di ogni tipo.

Solomon fa una breve pausa, poi riprende:

- Io ero a bottega presso mio zio e viaggiavo molto con lui e talvolta anche da solo. Incontravo persone diverse e parlavo con loro. Confrontavo situazioni. Con il tempo pensai che dovevamo imparare a difenderci.

Solomon fa un’altra pausa e tossisce leggermente.

Denis si alza, raggiunge un armadio e prende una brocca con del vino.

- Volete bere del vino, Solomon?

- Sì, grazie.

Denis versa un po’ di vino in un bicchiere. Solomon beve solo un sorso, poi riprende:

- Approfittai dei miei viaggi per stabilire contatti, raccogliere informazioni. Difendersi non significa solo affrontare il nemico: per noi si tratta soprattutto di evitare il pericolo, di prevenirlo. Come orafo ho contatti con molte persone diverse. Da ognuna posso ottenere informazioni. E posso darne. Se dai un’informazione utile, ne riceverai anche da chi magari non è convinto di quello che stai facendo, ma ti aiuta perché sa che tu puoi aiutarlo ancora.

Solomon si ferma. Denis prosegue per lui:

- Così in questi anni avete costruito una rete di persone che forniscono informazioni, sui signori franchi, su quelli arabi e così via.

- Sì, e più la rete si allarga, più facile è allargarla ancora, perché sai sempre di più e sei in grado di aiutare sempre più persone. O anche, lo confesso, di carpire informazioni che non ti darebbero. Noi ebrei siamo spesso odiati tra i cristiani, ma abbiamo anche la proprietà di essere invisibili: non essere considerati uomini a volte può presentare qualche vantaggio.

- Non credo che questo compensi gli svantaggi…

- Ma aiuta a ridurli.

- Senza dubbio.

Solomon beve ancora un sorso di vino dal bicchiere.

- Ho contatti con persone lontane e di certo vi stupireste se vi dicessi alcuni nomi, ma non è questo che vi interessa, almeno in questo momento. Il mio lavoro mi permette di incontrare gente di tutti i tipi, anche molto in alto. Avevo diversi contatti anche a Rougegarde assai prima di stabilirmi qui: ci venivo spesso. E queste persone mi hanno informato dell’arrivo di questo mercante, Faaris, e delle domande che poneva. Preferirei non dirvi i nomi di chi mi ha informato. Non credo siano importanti per voi.

Denis annuisce.

- No, non lo sono.

Solomon rimane un momento in silenzio, poi dice:

- Ho risposto alla vostra domanda, Duca?

- Pienamente. Ma ve ne pongo ancora una.

- Ditemi.

- Avete un’idea di chi l’ha mandato?

- Dalle informazioni che mi sono giunte, senza dubbio gli ismailiti di Qasr al-Hashim, il castello di Jibrin, come lo chiamavate voi. Ma credo che lo sappiate già: Faaris non deve essere il tipo da rifiutare di collaborare…

Solomon sorride e anche il volto di Denis si apre in un sorriso, mentre risponde:

- In effetti ha collaborato, quasi spontaneamente. E risulta essere come voi mi dite. In questo modo ha trovato conferma anche il mio sospetto che chi ha tentato di uccidere il conte Ferdinando sia stato inviato dal capo degli ismailiti di Jibrin, Ramzi.

Solomon annuisce.

- Ho sentito di questo tentativo di omicidio e credo che sia come pensate.

C’è di nuovo un momento di silenzio, poi Solomon dice:

- E adesso voi vi chiedete perché gli ismailiti, fanatici che uccidono altri musulmani, abbiano deciso di sopprimere voi e il conte. Non colpiscono signori cristiani, di solito.

Denis guarda quest’uomo che sembra leggergli nel pensiero. Ma dopo quello che gli ha raccontato Solomon, non si stupisce: l’ebreo è troppo intelligente per non capire che Denis si pone la domanda.

- Avete una risposta, Solomon?

Solomon tace un momento, poi dice.

- Un’ipotesi. Credo che abbiamo pagato noi i vostri assassini.

- Voi chi? Gli ebrei?

- Sì, gli ebrei di Afrin, permettetemi di chiamarla con il suo vecchio nome, di quando era una città in cui potevamo vivere. Abbiamo dovuto pagare una somma enorme per poter lasciare la città senza essere uccisi. E quel denaro è partito per Qasr al-Hashim, questo lo so con sicurezza. E quando l’ho saputo, ho pensato che fosse il prezzo di un omicidio. O più d’uno. E allora ho chiesto ai miei… amici in città di stare all’erta.

Denis fissa Solomon senza dire nulla. Non lo stupisce che sia Renaud il mandante: sa che il barone lo odia e lo vorrebbe morto, perché spera di impadronirsi di Rougegarde. Ma che Solomon sappia anche questo, davvero lo sorprende.

- Non vi chiederò come lo sapete: se mi dite che ne siete sicuro, non ho dubbi.

- Vi ringrazio per la fiducia.

- Posso dirvi una cosa?

Solomon ride. Ha una bella risata, calda. È piacevole vederlo ridere.

- Certo! Qualsiasi cosa. Ditemi.

- Siete un uomo temibile, Solomon.

- Solo per coloro che considero nemici.

- E un uomo prezioso per i vostri amici.

- Se è così, mi fa piacere. Spero di esserlo ancora per voi, anche se preferirei che non ne aveste bisogno.

- Anch’io lo preferirei, ma temo che non sia possibile.

Dopo un attimo di pausa, Solomon aggiunge:

- Adesso sono io che vorrei chiedervi una cosa.

- Ditemi.

- Che cosa intendete fare di Faaris?

- Cercava di organizzare il mio omicidio. Sarà giustiziato.

- Posso suggerirvi di tenerlo in vita? Credo che, se certe cose stanno come penso io, potrà tornarvi utile per sventare questa minaccia.

Denis è sorpreso.

- Non volete spiegarmi?

Solomon esita un attimo, poi dice:

- Qasr al-Hashim, o Jibrin, come preferite chiamarlo, dipende dallo sceicco Rashid ad-Din Sinan, che è il capo di tutti gli ismailiti. Non so se l’ordine di uccidervi sia partito da lui: ne dubito, perché il denaro è andato a Qasr al-Hashim. E poi Sinan non ordina omicidi perché lo pagano. Se è così, Ramzi ibn Qais, il capo degli ismailiti di Qasr al-Hashim, ha commesso una violazione gravissima delle regole. E allora possiamo intervenire, ma dobbiamo dimostrare a Sinan che l’ordine è partito da Ramzi.

Denis è molto dubbioso: lo sceicco gli sembra irraggiungibile.

- E chi mai potrebbe parlare con Rashid ad-Din Sinan, Solomon? Con un uomo che molti temono più dello stesso Saladino?

E mentre formula la domanda, Denis trova la risposta e la formula:

- Voi, vero?

- Ci potrei provare. Abbiamo conoscenze comuni. Ma è presto. Escludo che un uomo astuto come Ramzi abbia puntato tutto su una sola carta, soprattutto se questa carta è un Faaris. Fate attenzione, duca, e cerchiamo di scoprire chi altri è coinvolto in questo piano.

 

Denis guarda Solomon uscire dalla stanza. Stupefacente, quest’uomo. Un alleato utilissimo. Una delle pochissime persone con cui Denis sente di poter parlare alla pari, anche se Solomon non ha nessuna carica e nessun potere. Ma ha comprensione e capacità di azione come pochi altri.

Denis si avvicina alla finestra e guarda in basso. Solomon è appena uscito dalla porta interna e sta attraversando il cortile a passo sicuro. È anche un bell’uomo. Denis scuote la testa. Che cosa gli è passato per la testa? Eppure il pensiero gli è venuto chiarissimo. È vero, Solomon è un bell’uomo, ma Denis vede spesso uomini belli di aspetto e non ci bada. In qualche modo, a trentacinque anni, Denis ha rinunciato a desiderare. Ad amare aveva già rinunciato prima, dopo l’esperienza con Charles. Ma quest’uomo…

Avrà modo di vederlo ancora. E sarà un piacere poter parlare di nuovo con lui. Ma adesso deve scoprire chi è il secondo uomo che vuole ucciderlo.

 

 

Maazin ha incominciato a muoversi qualche giorno dopo Faaris. Anche lui si è servito di un intermediario, un ricettatore che lo ha messo in contatto con un gruppo di ladri. Ha incontrato una certa diffidenza, perché i ladri temevano che volesse far loro concorrenza. Ma Maazin ha distribuito qualche moneta e chiarito che ha altri obiettivi. Non ha certo detto quali: la solidarietà tra chi svolge lo stesso lavoro non esclude il tradimento e più d’uno sarebbe ben contento di vendere Maazin, sapendo che riceverebbe una lauta ricompensa.

I ladri conoscono bene la città, sia la parte in cui si muovono gli altri cittadini, sia la rete di passaggi segreti scavati sottoterra in passato per garantire vie di fuga o per realizzare acquedotti e cisterne. Il duca ha fatto costruire muri e bloccare alcuni passaggi, isolando l’area sotto il palazzo dagli altri cunicoli. Ma forse in questo complesso sistema potrebbe essere possibile scoprire qualche falla ed entrare nel palazzo.

 

Solomon ha chiesto di poter vedere il duca. Lo ha domandato attraverso Pierre, perché non vuole presentarsi nei giorni di udienza: preferisce che nessuno noti la sua presenza e vuole poter parlare tranquillamente, senza testimoni. Denis ha subito fissato l’appuntamento, dicendogli di chiedere di Manrique, come la volta scorsa. È contento di rivederlo: quest’uomo la ha incuriosito.

- Buongiorno, Solomon. Sono lieto di vedervi.

- Lo sono anch’io.

Solomon guarda Denis, sorridendo. Denis ricambia il sorriso, ma si sente turbato. Con un gesto indica una sedia.

- Sedetevi. E ditemi.

Solomon si siede.

- Non ho grandi notizie, ma preferisco informarvi man mano che scopro qualche cosa. Non si sa mai.

Denis aggrotta la fronte.

- Che cosa intendete? Voi… pensate che qualcuno possa colpirvi? Certo… se scopriranno che voi interferite con i loro piani, per salvarmi… in questo caso siete in pericolo.

Denis non aveva riflettuto su questo. L’idea che Solomon rischi la vita per lui lo disturba.

- Sono molto prudente, duca. Conto di non commettere errori.

- Ma un margine di rischio c’è sempre. Non credo che voi commettiate spesso errori. Non sareste qui a parlarmene. Ma non mi va che voi rischiate per causa mia.

- Duca, sapete benissimo che l’esistenza degli ebrei nella cristiana Rougegarde è resa possibile solo dalla vostra presenza. Anche soltanto per quello la vostra vita è preziosa. Ma in ogni caso tengo a voi.

Le ultime parole di Solomon colpiscono Denis. Anche lui tiene a questo ebreo che vede per la terza volta nella sua vita. È strano, ma è così. Denis non sa come rispondere. Si limita a dire:

- Grazie.

C’è un attimo di silenzio e Denis si sente un po’ a disagio. Solomon sembra tranquillo e sicuro.

Denis si siede davanti a Solomon.

- Vi ascolto.

Solomon lo fissa un momento in silenzio, poi incomincia a parlare:

- Adesso so con sicurezza che c’è un secondo uomo, che si muove in un ambiente del tutto diverso. È senza dubbio molto più pericoloso e ha già ucciso. Non so il suo nome e non posso descrivervelo, ma ha stabilito rapporti con ladri e criminali, qui in città. Cerca di ottenere da loro qualche informazione per sapere come arrivare fino a voi. Non so ancora quali idee abbia: è molto più difficile seguirne le tracce.

- E molto più pericoloso. Non esponetevi troppo, Solomon.

Solomon alza le spalle.

- Conto di scoprire qualche cosa di più nei prossimi giorni.

- C’è altro che volete dirmi?

- No, per il momento no.

- Adesso vi vorrei chiedere io alcune cose. Sono mie curiosità. Non siete tenuto a rispondermi.

- Vi risponderò volentieri, se mi è possibile.

- Voi avete una rete di relazioni molto ampia, che vi permette di ottenere le informazioni che vi servono. La volta scorsa mi avete detto che essa si estende anche qui a Rougegarde.

- Sì.

- E che avevate contatti già prima di trasferirvi qui.

- Esatto. Adesso, stando a Rougegarde, ho ampliato la rete, stabilendo più relazioni.

- E vi servite di queste relazioni per proteggere i vostri correligionari. E me.

Solomon ride.

- Soprattutto per proteggere i miei correligionari, è vero. E adesso soprattutto per proteggere voi. Ma anche per altri interventi. Diciamo che se posso aiutare chi ne ha bisogno, lo faccio volentieri.

- Correndo anche dei rischi.

- Talvolta. Queste cose però le sapete già. Non sono domande.

- No, avete ragione. Le domande che volevo porvi sono altre. Prima di tutto una cosa che mi è venuta in mente in questi giorni. Anni fa, venne in visita a Rougegarde un principe nubiano. Era stato a San Giacomo d’Afrin e aveva potuto evitare un’esperienza molto spiacevole grazie a un orafo ebreo che lo aveva avvisato. Me lo raccontò, ma poi se ne pentì, dicendomi che si era impegnato a non rivelarlo a nessuno: mi chiese di mantenere il segreto e io glielo promisi. Una faccenda di alcuni anni fa, più o meno quando morì re Amalrico. Quell’orafo ebreo eravate voi, Solomon.

Solomon sorride.

- Anche questa non è una domanda. Sì, ero io. Venni a sapere quanto sarebbe successo da un soldato, capii quali sviluppi avrebbe avuto la faccenda e allora avvisai il principe.

Denis annuisce. Era sicuro che fosse Solomon.

- Voi mi parlate di un soldato. Che non credo acquistasse gioielli. Com’è che avete contatti con gente così diversa? Come riuscite a farvi raccontare certe cose, anche da chi sa che deve tenerle segrete?

Solomon rimane un attimo pensieroso, poi dice:

- Ho sempre cercato di tenere contatti con persone diverse: emiri e sceicchi, signori e ricchi mercanti possono fornire informazioni utili, ma anche lavoranti e soldati, osti e contadini. Ci sono molti modi per entrare in contatto con costoro e io confesso di averli usati un po’ tutti.

Denis vorrebbe chiedere quali sono questi modi, ma la domanda gli sembra indiscreta. Accenna:

- Qualche moneta è sempre un buon modo per scucire bocche chiuse. Un uomo intelligente sa far chiacchierare gli altri. Qualche piccolo favore viene ricambiato. È così, no?

- Sì, tutto questo. E talvolta altro.

Solomon non dice che cos’è questo “altro”. Denis si chiede se Solomon non si serva anche del proprio corpo per ottenere ciò che vuole: è un gran bell’uomo, forte e di notevole fascino, un po’ impudente, ma anche questo contribuisce a renderlo attraente. E non deve avere troppi scrupoli per quanto riguarda il sesso. Ma non è una domanda che Denis possa porre senza apparire invadente, per cui si tiene la propria curiosità.

- E adesso vorrei che mi raccontaste del massacro di San Giacomo d’Afrin e di ciò che avete fatto.

- Come desiderate.

Solomon racconta. Non accenna a Charles: si limita a dire che ha avuto le informazioni essenziali da alcune persone, di cui preferisce non fare il nome. Spiega come ha organizzato i giovani e come hanno fatto per cercare di ridurre i danni.

Denis ascolta con molta attenzione. Pone qualche domanda, per capire meglio il ruolo di Solomon. Alla fine dice:

- Vi ammiro, Solomon. E mi scuso se vi ho sottoposto a un vero interrogatorio. Mi incuriosite molto.

- Anche voi mi incuriosite molto.

Denis non si aspettava la risposta, che lo spiazza. Solomon ride:

- Sono un impertinente, duca. Scusatemi.

- Non avete motivo di scusarvi. Vi ho posto tante domande io. Siete libero di farmene voi.

Solomon lo fissa un momento, Poi chiede:

- Dite davvero?

Denis annuisce, anche se non è così sicuro di volerlo. A quest’uomo molto sicuro di sé è pericoloso lasciare troppo spazio.

- Certamente.

- Una domanda ce l’ho. Non vi sentite solo, duca?

Denis guarda Solomon, senza nascondere il suo stupore. Solomon sorride e dice:

- Mi avete autorizzato voi a porvi una domanda.

Denis scuote la testa.

- Avete ragione. E vi devo una risposta.

- Soltanto se non vi pesa. Sono sfacciato, lo so, me l’hanno detto diverse persone, ma entro certi limiti.

- No, va bene.

Denis tace un attimo, poi dice.

- Sì, mi sento spesso solo. Ma credo che la solitudine sia un prezzo da pagare quando si ha il potere.

- Non necessariamente. Mi rendo conto che in una posizione come la vostra è difficile avere amici con cui riuscire a tenere i contatti, perché siete troppo al di sopra di coloro che vi stanno vicino. Potreste avere amici tra gli altri signori, ma credo che siate legato solo al conte Ferdinando e forse più per una lunga frequentazione che per affinità.

Denis guarda Solomon e scuote la testa. Quest’uomo sembra sapere tutto. Solomon continua:

- So che siete molto legato a Guillaume di Hautlieu, ma avete pochissime occasioni di vederlo. Vostra moglie e vostro figlio sono lontano. Al vostro posto sentirei molto la solitudine.

- Le circostanze mi hanno spinto a mandare mio figlio in Francia: conoscete troppo bene la situazione per non sapere che il regno di Gerusalemme non potrà reggere molto a lungo. Se il Saladino unirà la Siria e l’Egitto sotto il suo comando, come sta facendo, saremo stretti in una morsa che ci stritolerà. Pierre eredità la contea di Bellerivière, perché mio cugino è morto senza avere figli e suo padre non ha altri eredi. Era necessario che Pierre vi si recasse: il suo futuro è là. Rougegarde è troppo esposta.

- Sì, avete senza dubbio ragione. Ma in questo modo siete rimasto solo. Non vi pesa?

Denis guarda Solomon negli occhi. Ha anche lui occhi chiari, azzurri.

- Sì, ve l’ho detto, ci sono dei momenti in cui mi pesa. Sono stato schiavo, oltre un anno, vicino a Damasco. Non parlavo con nessuno. Ascoltavo ciò che dicevano, ma tutti mi credevano muto. All’inizio ero sconvolto per la morte di mio padre, ma poi… era un modo per scomparire. Avete detto che a volte voi ebrei siete invisibili. Ecco, una cosa del genere.

- Il silenzio è un buon modo per rendersi invisibili.

- Allora ero completamente solo. Sono abituato alla solitudine.

Denis tace un attimo, poi aggiunge:

- Per questo apprezzo molto le occasioni di parlare con un uomo come voi, Solomon.

- Grazie, duca. Anche a me fa piacere parlare con voi.

- Non credo che voi vi sentiate solo.

Solomon scuote la testa.

- No, faccio parte di una comunità al cui interno esistono legami stretti e ho diversi amici, sparsi qua e là nel regno di Gerusalemme come in Siria. Non ho con loro l’intimità che viene dal contatto quotidiano, ma ci sono affinità profonde che permettono di ritrovarsi anche dopo una lunga separazione.

- Quello che mi succede con Guillaume.

- Sì, credo di sì.

Rimangono un attimo in silenzio, poi Solomon dice:

- E ora, se non avete altre domande, tolgo il disturbo. Vi ho rubato fin troppo tempo.

Denis ride.

- Credo di avervene rubato molto di più io.

- Ma voi siete il duca e io solo…

Denis non lo lascia proseguire e completa al posto suo:

- …solo uno degli uomini più intelligenti e abili che io abbia mai conosciuto.

- Grazie, duca.

- Tornate a trovarmi quando volete, Solomon. Mi fa sempre piacere parlare con voi.

- Grazie. A presto, allora.

Denis è contento di questo colloquio. Spera di avere presto occasione di parlare di nuovo con Solomon. Con lui si trova davvero bene. Ed è proprio un bell’uomo. Denis si rende conto di essere attratto da lui. Non farà nulla, ma l’idea di rivederlo e parlargli gli fa davvero piacere.

 

Nella casa Solomon fa infine conoscenza con Emich: è Morqos a portarlo da lui, una sera. Emich è prudente, perché sa che il vescovo cerca di perderlo, ma quando Solomon gli parla delle loro conoscenze comuni, si rende conto di non aver nulla da temere da questo ebreo.

Chiacchierano volentieri, a lungo: è l’inizio di una nuova amicizia. Morqos è molto contento che Emich e Solomon si siano intesi subito: tiene molto ad entrambi. Attraverso Emich, l’ebreo ha modo di conoscere meglio gli altri uomini della casa, soprattutto il servitore Tristan.

Intanto prosegue con le sue indagini, ma ottiene ben poco. Si muove con prudenza, conscio dei rischi che corre, e sa che non può esporsi troppo, perché molti lo conoscono. Ma in questo modo non arriverà da nessuna parte. Decide perciò di tornare dal duca, anche se ha fatto solo un piccolo passo avanti.

 

Solomon si presenta a palazzo e chiede di parlare con Manrique. L’ufficiale viene ad accoglierlo. Davanti ai soldati di guardia sorride e stringe la mano all’ospite, dicendo:

- Solomon, sono contento di vederti. Vieni.

La frase serve solo perché tutti credano che Solomon viene davvero per parlare con Manrique: in realtà l’ufficiale conosce solo di vista l’orafo e sa che quando si presenta, deve accompagnarlo dal duca, sincerandosi che nessuno venga a saperlo. Non ha nessuna idea degli argomenti affrontati in queste visite e dei motivi per cui devono rimanere segrete, ma è ovvio che deve trattarsi di qualche cosa di molto importante.

Il duca è occupato, ma Manrique ha l’ordine di avvisarlo comunque. Entra e dice:

- Mi scusi, signor duca, ma devo dirle una cosa con la massima urgenza.

Denis ha capito. Si avvicina a Manrique, che è rimasto sulla porta, e gli dice, pianissimo:

- Solomon?

- Sì.

- Digli che ne ho per qualche minuto. Rimani con lui fino a che ho concluso.

Denis ritorna per terminare il colloquio.

Manrique riferisce a Solomon che deve attendere un momento e si ferma con lui. Non sa bene che dire, ma l’ebreo lo toglie dall’imbarazzo.

- Come ti trovi qui, Manrique?

Manrique è stupito della domanda diretta, ma Solomon gli ispira simpatia e non gli dispiace scambiare due parole.

- Bene. Apprezzo molto il duca: devo dire che ogni giorno che passa, mi rendo conto di quanto sia intelligente e giusto. Il suo valore, l’ho visto sul campo di battaglia e non me lo scorderò mai.

- Sei contento di essere al suo servizio, allora.

Non è una vera domanda. Manrique risponde.

- Sì. Molto.

- Non ti pesa stare lontano dalla tua terra?

Manrique alza le spalle.

- Ho lasciato il mio paese tra i monti quando ero ragazzo. Non ho grandi legami. E poi, ti dirò…

Manrique esita un momento. Solomon lo incoraggia:

- Dimmi.

- Non avevo piacere di tornare a Tarragona. Il conte mi aveva incaricato di proteggere il figlio. Ma non pensava certo che si saremmo trovati ad affrontare il Saladino. Guillem è morto, anche se abbiamo cercato di difenderlo. Se…

Manrique vorrebbe dire che se Guillem non avesse cercato di fuggire, probabilmente il duca sarebbe arrivato in tempo per salvare anche lui, ma non vuole parlare male di colui che serviva. Prosegue:

- Insomma, non tornerei volentieri da suo padre, anche se non ho nessuna colpa.

- Capisco. Perciò rimarrai qui. È una buona cosa. Il duca ha bisogno di uomini leali.

- Mi sembra che tutti abbiano nei suoi confronti una vera devozione.

- Sì, senz’altro, ma ha anche molti nemici potenti. E non solo tra i saraceni. Occorre vegliare su di lui.

- Capisco che i saraceni lo possano odiare, anche se è un guerriero leale e generoso. Ma che sia odiato anche da altri cristiani… so che il problema esiste, mi hanno detto che è in conflitto con il vescovo… ma davvero, mi sembra incredibile.

- Non ti stupire, Manrique. Rougegarde è davvero la perla del regno, ricca e splendida. Il duca è un uomo molto potente, che gode, meritatamente, della piena fiducia del re. Tutto questo suscita invidia in gente che non ha neppure la metà della sua intelligenza e del suo coraggio.

Manrique non fa in tempo a rispondere: mentre stanno parlando, entra Denis. L’ufficiale si congeda.

- Sono contento di vedervi, Solomon. Avete novità?

- Ho pochi elementi nuovi, ma devo porvi una domanda.

- Ditemi.

- Prima vi espongo quel poco che ho scoperto. In primo luogo so il nome di colui che sta cercando una via per arrivare a voi e uccidervi: Maazin.

- Non l’ho mai sentito nominare.

- Non mi stupisce. È un ladro di professione e un assassino quando occorre, è stato condannato a morte a Hama, ma liberato su pressione di Ramzi, che ne ha intuito il valore. È qui in città e si sta dando da fare. Si muove tra quelli come lui. Si è presentato con il suo vero nome per vincerne la diffidenza. Ma non so dove si nasconda. E non è facile scoprirlo senza farsi scoprire.

- Non correte rischi per me, Solomon. Non lo voglio.

Denis sorride e aggiunge:

- È un ordine, non una preghiera.

Anche Solomon sorride.

- Duca, credo che abbiate capito benissimo che non sono così obbediente. Sono sempre stato una testa calda, la disperazione di mia madre e soprattutto di mio fratello, che ancora oggi mi sopporta a fatica. Mio zio usò la cinghia molte volte. Il mio culo porta ancora i segni di una volta in cui lui perse completamente la pazienza.

Il tono del loro colloquio è formale e l’ultima frase di Solomon appare una stonatura. Per un attimo Denis prova l’impulso di scherzare e dire che vuole vedere se è vero: un pensiero chiaramente assurdo, che non viene neanche preso in considerazione. Il duca si limita a commentare:

- Ma le cinghiate non vi hanno reso più obbediente.

- No, per nulla. E in fondo neanche mio zio mi avrebbe voluto diverso. Però cercava di insegnarmi i limiti. In questo credo che ci sia riuscito, a spese del mio culo.

Di nuovo la parola che sembra in qualche modo voler rompere la gabbia di una conversazione corretta e distaccata. Di nuovo una strana sensazione, che Denis preferisce ignorare.

Denis scuote la testa. Poi dice, serio:

- Davvero, fate attenzione. Mi spiacerebbe molto se vi succedesse qualche cosa.

- E a me spiacerebbe se succedesse qualche cosa a voi.

Denis sorride.

- Temo che con voi sia difficile avere l’ultima parola. Ma ditemi qual è la domanda che volete pormi.

- Questa, duca: posso giocare a carte scoperte con Morqos?

Denis non nasconde il suo stupore. Ha intuito, ma la sorpresa è stata troppo forte. Si limita a una domanda generica:

- Che cosa intendete?

- Credo che lui lavori per voi. E adesso anch’io sto lavorando per voi, anche se non in modo continuativo. Potrebbe essere utile unire le nostre forze, a meno che voi abbiate qualche motivo per preferire che questo non avvenga.

- Potrei chiedervi che cosa vi fa pensare che lavori per me, ma sarebbe un insulto alla vostra intelligenza. Vi chiedo allora come avete fatto a scoprirlo.

- L’ho intuito, da tante cose. Ha incominciato a interessarsi a me dopo che siete stato informato del ruolo che ho svolto ad Afrin, a San Giacomo d’Afrin, se preferite. Perché siete stato informato, da Pierre, suppongo. E poi Morqos è una persona troppo intelligente per vivere di rendita perdendo il suo tempo. Comunque vi ringrazio per avermi permesso di conoscerlo. Mi piace molto.

Denis guarda Solomon, che sorride. Ha l’impressione che in quel sorriso ci sia un che di ironico. Si chiede quanto vadano d’accordo l’orafo e l’informatore. Morqos ha due figli, ma questo non vuol dire. Solomon è un uomo affascinante.

- Ci sono momenti in cui mi preoccupate, Solomon. Credo di avervelo già detto, ma preferirei non avervi come nemico.

- Non credo che sarebbe possibile. Vi stimo e vi ammiro troppo.

- Grazie, Solomon. Comunque la risposta alla vostra domanda è positiva. Dirò a Pierre di parlare con Morqos oggi stesso.

- Perfetto. Ora vi lascio. Non voglio rubarvi troppo tempo.

A Denis spiace che Solomon se ne vada, ma preferisce non mostrarlo. Nel pomeriggio però il pensiero va spesso a lui. Solomon ha detto di essere un impertinente. In fondo è vero, ma a Denis piace la sua sfacciataggine.

 

Al laboratorio di Solomon si accede da una porta sulla strada e da una interna, che dà sul cortile: in questo modo l’orafo non deve uscire dalla casa per raggiungere la bottega. Morqos passa dal cortile e bussa alla porta, che è chiusa: Solomon lavora con materiali preziosi e l’uscio è sempre sbarrato.

Solomon gli apre, lo guarda, gli sorride e dice:

- Vedo che Pierre ti ha già parlato.

Morqos ride.

- Non so se me lo leggi in faccia o se semplicemente l’hai capito vedendomi venire qui. Ma ero sicuro che non avrei avuto bisogno di dirti niente.

- Vieni dentro. Devo finire un lavoro. E in ogni caso parliamo dove nessuno ci può ascoltare.

Passano nel laboratorio di Solomon.

- Scusa, ma non posso interrompere. Pazienta un momento.

- Nessun problema: ti guardo volentieri al lavoro. Però tu mi spieghi che cosa stai facendo.

È vero. Morqos è curioso di vedere Solomon al lavoro: non ha mai avuto l’occasione di seguire l’attività di un orafo.

- Sto finendo un champlevé. Sai che cos’è?

- Ho sentito questo termine. È un oggetto con una decorazione a smalto.

- Esatto. Può essere di metalli diversi e dorato. Oppure può essere interamente d’oro, come in questo caso. Ho scavato alcune cavità, che poi ho riempito con smalto vitreo. Poi l’ho cotto, in modo che lo smalto sciogliendosi riempisse bene le cavità e adesso lo sto levigando e lucidando. Ma ho quasi finito.

Solomon riprende il lavoro. Morqos lo osserva, in silenzio: non vuole disturbare. L’orafo passa un oggetto che sembra una lima in alcuni punti. Poi sparge una specie di crema e la toglie con uno straccio. Pulisce ancora con un secondo straccio e osserva il lavoro, annuendo. Morqos intuisce che Solomon ha concluso e chiede:

- Posso vederlo?

- Certo.

Solomon gli porge l’oggetto, un ciondolo che raffigura un arabo: un uomo giovane, con barba e fitti capelli ricci e neri, snello ed elegante. È vestito sontuosamente, con un abito blu a ricami dorati, e ha un bracciale d’oro al polso e diversi anelli alle dita. Morqos lo osserva con attenzione: è un ritratto ricco di dettagli, di grande bellezza. È incredibile come Solomon sia riuscito a creare in un ciondolo di ridotte dimensioni un ritratto tanto preciso ed elegante.

- È una persona reale?

- Certo, l’emiro ‘Izz ibn Ashraf, di Jabal al-Jadid.

- Posso chiederti per chi è?

- Per lui. Credo che voglia donarlo a qualcuno.

- Una delle sue mogli?

Solomon scuote la testa.

- Non si è sposato. E preferisce i giovani maschi.

- Certo che ne sai di cose.

- Non è un segreto per nessuno, questo.

- Comunque è un oggetto splendido.

- Grazie.

C’è un attimo di silenzio, poi Morqos ride.

- E adesso mi dici come hai fatto a capire.

Solomon scuote la testa.

- Morqos, questa non è una casa qualunque. Il duca ha mandato qui prima Sarah e suo fratello, poi… Mara con il figlio. Tuo fratello è uno dei medici del duca. E qui c’è Emich, che il duca protegge e che il vescovo odia. Difficile che non ci sia qualcuno a tenere sotto controllo la situazione. Certo, c’è Pierre, ma lui rimane a palazzo gran parte del tempo e tutti sanno che lavora per il duca.

- Tutto ciò l’hai saputo da Giovanni?

- Sì, certo. Ci conosciamo da diversi anni. Aveva già avuto qualche contatto con mio zio. E ama chiacchierare. Racconta volentieri della casa e degli ospiti. È un po’ più prudente su Emich, perché non vuole correre rischi.

- E hai individuato in me un uomo del duca.

- Sì. Un po’ perché ti sei avvicinato dopo che Pierre ha saputo del ruolo che ho svolto a San Giacomo durante il massacro, un po’ perché ogni tanto esci vestito come un poveraccio, con abiti che non ti vedo mai quando sei nella casa. E soprattutto perché sei troppo intelligente per passare il tempo a grattarti i coglioni.

Solomon ride.

- Non abbastanza intelligente per farla in barba a te. Ma va bene così e devo dire che l’hai messo in un modo che lenisce la ferita al mio amor proprio. Sarà un piacere collaborare con te, Solomon, davvero. Dimmi tutto.

- Il duca è minacciato. Faaris era uno degli uomini inviati dagli ismailiti, ma non l’unico. L’altro si chiama Maazin, ladro e assassino. Un uomo molto pericoloso, a differenza di quel coglione di Faaris. Perciò, te lo dico subito, muoviti con cautela.

- Sono abituato a essere prudente. E credo che lo stesso valga per te, se sei ancora vivo.

- Esatto. Ho bisogno di avere qualcuno che mi aiuti, ma non voglio mettere la tua vita a rischio.

- Me l’hai detto. Che cosa posso fare?

- Credo che Maazin stia nel quartiere di quella che chiamano la terza moschea.

- Uno dei posti peggio frequentati della città. Adatto per un ladro e un assassino.

- Sì. Sarebbe utile che tu ti aggirassi un po’ da quelle parti. Io non posso fingermi un criminale, non qui a Rougegarde, dove molti sanno che sono un orafo ebreo.

- Posso farlo. In fondo l’essere stato condannato alla lapidazione per adulterio mi ha reso sospetto agli occhi di molti. E tutti sanno che frequento gente poco raccomandabile.

Morqos ha raccontato a Solomon il suo passato e la condanna a cui è sfuggito solo perché il duca ha conquistato la città prima che venisse eseguita la sentenza.

- Dobbiamo capire come intende muoversi questo Maazin.

- Hai qualche idea? Potrei mettermi anch’io a cercare un assassino, con la scusa di avere un conto da regolare, senza passare per la giustizia del duca, ma non mi sembra che abbia senso.

- No, non ne ha, sono d’accordo. Perché non basta assoldare un assassino, dobbiamo capire chi ha assoldato Maazin, che non agirà certo da solo, e soprattutto come conta di agire, se pensa di entrare a palazzo o di tendere un agguato fuori.

- Entrambe le vie mi sembrano difficili da percorrere.

- Incominciamo a vedere se è possibile introdursi a palazzo contro la volontà del duca.

- Se provassi a dire che voglio vendicarmi di un soldato, che ha sedotto mia moglie? Chi conosce la situazione potrebbe pensare a Pierre: sta nella stessa casa dove abito io. Se scopasse con mia moglie, non potrei ammazzarlo a casa, saprebbero subito che sono stato io. Allora voglio colpirlo a palazzo, perché nessuno pensi a me.

- Non so quanto regga, ma potrebbe essere una via da percorrere. Anche se non ti credono, l’importante è che non sospettino che vuoi ostacolare i progetti di qualcun altro. Bada a come ti muovi, Morqos. Corri dei rischi. Al minimo errore potresti ritrovarti la gola tagliata.

- Me l’hai già detto, sembra quasi che tu tenga a me.

Solomon sorride:

- Sai benissimo che tengo a te, realmente. E non solo perché mi piace scopare con te ogni tanto. Direi che quello non è proprio l’elemento essenziale. Anche se fa la sua parte.

Solomon si avvicina a Morqos, fino a che i loro visi si sfiorano. Poi lo bacia sulla bocca.

 

 

La terza moschea si chiama così perché il signore di al-Hamra che la fece costruire, un antenato dell’emiro Ashraf ibn Harun, aveva fatto voto di innalzare tre moschee se avesse ottenuto un figlio maschio. Il suo desiderio fu esaudito ed egli mantenne il voto. L’edificazione delle prime due moschee comportò grandi spese, perché l’emiro le volle grandi e sontuose. Prima che incominciassero i lavori per la terza moschea, scoppiò una guerra e vennero a mancare i fondi per una costruzione al livello delle altre. Venne perciò realizzata una piccola moschea nella parte alta della città.

Il quartiere è molto povero e viene scelto come rifugio da molti uomini che vivono al margine della legge. Qui si trovano anche diverse case di prostituzione, che Morqos talvolta frequenta, se pensa di potervi ottenere le informazioni che cerca.

Morqos sa a chi rivolgersi per le sue indagini. Rimane molto sul vago per quanto riguarda i motivi per cui vuole introdursi a palazzo. Spiega che è una faccenda personale, che riguarda un soldato del duca, ma che vuole colpirlo dove nessuno può pensare a lui.

Due giorni dopo, nel tardo pomeriggio, Morqos bussa di nuovo al laboratorio di Solomon.

- Hai ottenuto qualche cosa, vero?

Morqos annuisce.

- Sì, ma poca roba e niente di certo. In primo luogo sembra che io non sia l’unico che vuole entrare a palazzo di nascosto. Non ho chiesto chi altri abbia la stessa intenzione, ma mi sembra probabile che sia il nostro amico.

- Direi di sì.

- Pare che l’unico modo per accedere siano i passaggi sotterranei. Ho scoperto come entrare in uno di questi, ma secondo il tizio con cui ho parlato, non si può più arrivare al palazzo, perché il corridoio è sbarrato da una porta, che viene sorvegliata. Questo passaggio incrocia un canale, che passa sotto il palazzo. Secondo il mio informatore, il canale non è percorribile, però è l’unica via che lui conosce.

- Verificherò.

- Posso farlo io.

- No, ci dividiamo i compiti. Tu cerchi le informazioni e io le verifico.

Morqos annuisce.

- Come vuoi, ma fa’ attenzione. Il canale è sotterraneo ed è buio: quando sei sott’acqua ci vuole un attimo a perdere l’orientamento e affogare prima di trovare il modo di uscire.

- Vedo che anche tu ti preoccupi per me.

Morqos annuisce. Poi ghigna e dice:

- Sei bravo a scopare. Solo per quello.

- Stronzo!

 

Solomon segue le indicazioni ricevute. Al passaggio sotterraneo si accede dal cortile di una casa. Bisogna scavalcare il muro esterno, ma non è un problema: ci sono appigli e sporgenze ed è facile issarsi. Solomon studia la situazione di giorno e ritorna la notte, con una lanterna. Conta di non incontrare nessuno, perché ormai è tardi, ma proprio davanti al muro c’è una donna accovacciata a terra. Solomon si chiede se tirare dritto e ripassare più tardi, ma avvicinandosi si accorge che la donna geme e si torce le braccia. Si avvicina:

- Avete bisogno d’aiuto?

La donna alza la testa, mostrando un viso scarno in cui brillano due grandi occhi spiritati.

- Mio figlio… dov’è mio figlio?

Solomon capisce chi è la donna: una povera demente che da tempo si aggira nel quartiere, alla ricerca di un figlio forse morto, forse lontano o forse del tutto immaginario.

- Non so. Non lo conosco. Posso aiutarvi?

La donna scuote la testa. Solomon le porge una moneta: sa che la donna vive di elemosina. Poi si allontana.

Si ferma in un angolo buio, dove nessuno può scorgerlo, ma da dove può vedere la donna seduta a terra: prima o poi la poveretta se ne andrà. Passano circa venti minuti e in cima al muro appare un’ombra: un uomo che con un salto scende nella via, senza accorgersi della presenza della folle. La donna vede quest’ombra comparirle di fronte di colpo, dall’alto, e lancia un grido:

- Figlio mio, figlio mio!

Si aggrappa all’uomo, ma lo lascia subito con un grido soffocato. Lo sconosciuto si allontana rapidamente e la donna crolla a terra. Solomon si avvicina. Una pozza di sangue si allarga sul selciato. Chinandosi su di lei, Solomon vede la donna ha la gola tagliata: l’assassino l’ha colpita per liberarsene. L’ha uccisa in un attimo, con un colpo solo, dato senza incertezze: è un uomo abituato a uccidere e sa bene come fare. Deve trattarsi di Maazin. Se Solomon non avesse incontrato la donna, se lo sarebbe trovato di fronte. La donna forse gli ha salvato la vita, ma è stata uccisa. Per lei non c’è più niente da fare.

E ora?

Esplorare il passaggio sotterraneo è rischioso: al ritorno Solomon potrebbe trovarsi di fronte i soldati della ronda ed è meglio che nessuno sappia quello che sta facendo. Solomon decide di ritornare verso il mattino.

 

Il buio è ancora molto fitto quando Solomon ripassa nella via. Il corpo non c’è più: la ronda notturna l’ha trovato oppure l’ha visto qualche passante che ha avvisato i soldati.

Supera il muro e si ritrova nel cortile. Lo attraversa, spinge un uscio e si trova davanti una scala: una rampa sale al piano superiore, l’altra porta nei sotterranei. Solomon scende e trova una porta sbarrata con alcune assi. Le toglie e vede una seconda scala, a chiocciola, che cala fino a un corridoio. Solomon riflette sulla posizione in cui si trova, per capire in quale direzione il passaggio porta verso il palazzo ducale, poi incomincia ad esplorarlo.

Dopo aver percorso una breve distanza, vede un canale che scorre parallelo al passaggio per un tratto, poi se ne allontana. Dal punto in cui il canale si stacca dal corridoio, il soffitto si abbassa e l’acqua sembra riempire tutto lo spazio. Se è così, o ci sono dei tratti in cui è possibile emergere per respirare, o non lo si può percorrere.

Solomon si spoglia. Lascia la lanterna sul bordo del canale. Si immerge nell’acqua e il freddo gli trasmette un brivido. Il canale non è molto profondo e con i piedi Solomon tocca il fondo. Giunto al punto in cui il canale abbandona il passaggio, Solomon si immerge e avanza, tenendo una mano in alto, per verificare se ci sono spazi in cui ci sia aria. La parete superiore non sale mai, per cui l’acqua riempie davvero tutto il condotto. Quando si rende conto che non può procedere molto oltre, Solomon si volta e, nuotando vigorosamente sott’acqua, ritorna al punto di partenza.

Decide di procedere a un secondo tentativo: nuovamente si immerge e avanza, questa volta nuotando, in modo da riuscire a spingersi più lontano. Non sembra esserci nessun punto in cui il soffitto sia più alto, per cui Solomon deve tornare indietro. Si rende conto che ha bisogno di respirare, ma non è ancora arrivato a dove ha lasciato la lanterna e non può emergere. Spinge con più forza e urta contro la parete. Tra poco incomincerà a inghiottire acqua. Deve uscire dall’acqua in fretta. Spinge con forza, tocca ancora una volta un lato del passaggio e quando teme ormai di essere perduto, vede la luce della lanterna. Con un’ultima spinta riemerge e respira rumorosamente. L’ha scampata per un pelo.

Questa via non è percorribile. Meglio così.

Solomon si asciuga alla bell’e meglio con la tunica. Poi risale, a torso nudo, e solo dopo aver scavalcato il muro finisce di rivestirsi. La notte è fresca e Solomon ogni tanto ha un brivido.

Arrivato  a casa, si asciuga per bene e si corica. Rimane a letto tutto il mattino.

Nel pomeriggio si alza: non si sente perfettamente in forma, ma non è nulla di grave.

In serata Morqos gli annuncia di aver fatto un notevole passo avanti.

- Un mio amico, chiamiamolo così, anche se mi fido di lui come la lepre della volpe, conosce qualcuno che sa come entrare a palazzo.

- In che modo?

- Non lo so, ma il mio amico è sicuro che questo tizio sappia davvero come arrivarci senza che nessuno se ne accorga.

- Ottimo. Verificheremo questa via.

- E non è tutto. Forse non è neanche la cosa più importante.

- E qual è allora la cosa più importante?

Morqos ghigna.

- Non so se te la dico…

Solomon ride.

- Cazzo! Morqos, mi pigli per il culo? Non mi tenere in sospeso.

- Qualcun altro si deve essere rivolto a questo tizio per conoscere la via.

- Maazin, quindi.

- Penso di sì. Il mio amico mi ha fissato un appuntamento con il tipo stanotte. Dev’essere un delinquente, da quel che ho capito, e spero che non mi accoltelli.

Morqos ride e aggiunge:

- A quanto pare dovrò pure pagare parecchio.

- Va bene, Morqos. Andrò io.

- Tu? Perché?

- Perché pago io.

Morqos ride.

- Paga il duca. Su quello non ci sono problemi.

Solomon scuote la testa.

- Andrò io. Dammi tutte le indicazioni.

Morqos è perplesso. Intuisce che l’amico non vuole che lui corra rischi e si pente di avergli detto che il tizio potrebbe tirargli una coltellata. Non vuole che Solomon si ficchi nei guai. Ma ormai è tardi: è Solomon a prendere le decisioni, Pierre glielo ha detto ben chiaro.

- Solomon, fa’ attenzione.

Solomon ride:

- Continuiamo tutti e due a dirci di fare attenzione. Va bene, se siamo vissuti fino ad ora, significa che siamo prudenti.

 

Nella via Solomon si muove senza fare rumore. Rimane rasente ai muri delle case, dove la luce lunare non arriva e l’ombra è più fitta. C’è silenzio, perché ormai è notte fonda e solo i soldati di ronda percorrono le vie della città. Ai cittadini non è vietato muoversi: le guardie si limitano a controllare le persone che incontrano e a chiedere i motivi per cui sono in giro.

Solomon preferisce evitare di incontrare i soldati. Ha un appuntamento, in un vicolo, sotto un arco, dove il buio è completo. Anche adesso che i suoi occhi si sono abituati all’oscurità, Solomon riesce a malapena a distinguere i contorni delle cose. La sua mano stringe il manico del pugnale: sa benissimo che se Maazin e i suoi complici sospettassero le sue intenzioni, cercherebbero di ucciderlo. Se lo trovassero scannato, tutti crederebbero a una rapina: ogni tanto succede, anche se in città i controlli sono molto rigorosi e gli omicidi rari.

Qualcuno si avvicina. Si ferma a pochi passi, in un punto in cui l’oscurità è meno fitta. L’uomo tossisce tre volte: il segnale convenuto. Poi avanza in direzione di Solomon.

Solomon si schiarisce la gola, per segnalare la propria presenza. È teso. Ha l’arma in mano, ma un colpo di daga arriva in fretta.

L’uomo parla pianissimo.

- Tu vuoi conoscere una via, mi dicono.

- Sì.

- Pochissimi la conoscono. È una merce che costa cara.

Senza lasciare il pugnale, che tiene nella sinistra, con la destra Solomon porge all’uomo la borsa. Le mani dell’informatore si stringono avide alla tela. Le ha usate entrambe: non ha un’arma in mano.

- Pago bene, come vedi.

L’uomo ride, una risata un po’ roca.

- Che cazzo vuoi vedere, in questo buio? Ma il peso mi dice che se non ci hai messo del ferro, va bene.

- Se tocchi, ti accorgi che sono monete.

- Sì, mi fido. Chi mi ha parlato, mi ha detto che sei uno di cui ci si può fidare. In ogni caso non dire che mi hai parlato.

- Lo so. Lo stesso vale per me.

Hanno entrambi interesse a tacere e lo sanno bene.

- Allora, ascoltami. I tuoi amici intendono passare di sotto.

- La rete di canali e passaggi sotterranei?

Solomon ha già verificato che non è possibile percorrere il canale sotterraneo. Se questa è la via che conosce l’uomo, le sue informazioni non valgono nulla, a meno che l’uomo non conosca un altro passaggio.

- Sì, esatto. Ti spiego come si entra e da che parte bisogna andare.

- Dimmi.

- Di fianco al palazzo ducale, dove c’è la moschea al-Kabir, c’è la bottega di coltelli. Sul retro della bottega c’è una porta, che conduce al cortile di una casa abbandonata. C’è un pozzo nel cortile e una scala che scende, all’interno del pozzo. Al fondo passa il canale che porta l’acqua alla cisterna sotto il palazzo.

Non si tratta dello stesso passaggio, quindi. Buono.

- Allora devo passare dal venditore di coltelli. Ci si può fidare di lui?

- Venderebbe la propria madre a Satanasso, se il diavolo fosse disposto a pagare per quella vecchia puttana. Ma se paghi bene, non ti tradirà.

- Va bene, ti ringrazio.

- Io non ti ho detto niente.

- E io non ho incontrato nessuno, anche se qualcuno deve avermi preso una borsa di monete, questa notte. Pazienza.

L’uomo ride di nuovo.

- Guai che succedono. Non è prudente girare da soli di notte.

 

Solomon ha avuto l’informazione che cercava. Conosce la via che gli assassini contano di seguire, ma deve verificare che sia in effetti percorribile, poi ne parlerà al duca.

Al pensiero di Denis di Rougegarde, gli sfugge un sorriso. Denis gli piace, moltissimo. Non è bello, per nulla, ma  è un uomo affascinante, più di tutti quelli che Solomon ha conosciuto nella sua vita. E l’ebreo ha l’impressione di piacergli. Non sa nulla dei gusti del duca, ma Pierre d’Aguilard è in realtà figlio di re Amalrico. E dopo Pierre la principessa Maria non ha più avuto figli. Troppo poco per arrivare a conclusioni certe, ma qualche spiraglio sembra esserci.

Solomon cammina per le vie del quartiere come se non avesse nessuna meta precisa. Si ferma ad osservare un gruppo di bambini intenti a giocare: recitano la storia di un eroe che difende una città, ma il comandante nemico lo fa strangolare nel sonno con un laccio di seta. Il laccio di seta è in realtà un lembo di stoffa, ma i bambini si immedesimano molto nella scena, quasi fossero su un palcoscenico. Non fanno caso a Solomon, il loro unico pubblico, e dopo un momento l’ebreo si allontana, salendo verso la bottega che cerca.

Il venditore di coltelli è sulla soglia. Solomon si avvicina e osserva la merce. Il mercante si accosta a lui e gli dice:

- Serve un coltello, amico? Ne ho di tutti i tipi.

Ha un alito molto pesante e mentre parla goccioline di saliva schizzano dalla sua bocca.

- Mi serve un buon coltello, che vorrei donare: non un coltello raffinato, ma una lama affilata. Hai qualche cosa di meglio di questi che vedo qui?

- Questi sono tutti buoni coltelli, ma se vuoi merce di valore, vieni dentro: sulla strada preferisco non esporre i coltelli migliori. Non voglio che me li rubino.

All’interno della bottega il venditore mostra a Solomon diversi coltelli. L’orafo ne sceglie uno, con una buona lama e un manico comodo da impugnare. Nel pagare fa in modo di mostrare il contenuto della borsa, che è piuttosto piena. Negli occhi del venditore si accende una scintilla di avidità.

- Se hai bisogno di altra merce, amico…

- Ho bisogno d’altro, in effetti.

Il tono di Solomon lascia intendere che non si tratta di un coltello. Il venditore ha capito benissimo che ora si parlerà di una merce diversa e che le possibilità di guadagno saranno maggiori. Sorride e dice:

- Siediti e dimmi, amico.

Solomon si siede su un cuscino.

- Ho bisogno di tre cose. Posso pagarle tutte e tre e posso farlo in due modi diversi.

L’uomo aggrotta la fronte.

- Che intendi, amico?

- Posso pagarle con monete d’oro, come quelle che hai visto. Pago bene e subito. Ma se mi prometti di darmi ciò che ti chiedo e poi non mantieni, pago con la lama di questo coltello.

Il venditore annuisce. Sa che l’uomo che ha davanti non scherza: non è tipo da lasciarsi imbrogliare e un coltello sa usarlo benissimo, basta vedere come lo impugna.

- Dimmi che cosa vuoi.

- La prima cosa che voglio è passare oltre quella porta.

Solomon indica la porta sul retro del negozio. L’uomo annuisce.

- Costa.

Solomon mette due monete sul tavolo. L’uomo allunga la mano, ma Solomon lo ferma.

- Compro tre cose insieme o non compro nulla.

- Dimmi le altre due cose.

Solomon mette quattro monete accanto alle altre due. È una grossa somma. Gli sembra che il mercante trattenga il fiato.

- La seconda cosa è sapere chi e quando è passato o passerà per quella porta.

- Corro dei rischi. Grossi.

- Nessuno lo saprà mai e credo che il prezzo sia buono.

Lo è, chiaramente: Solomon lo legge negli occhi del mercante.

- Mi assicuri il tuo silenzio?

- Nessuno lo saprà mai.

- Va bene, dimmi la terza cosa.

Solomon mette altre quattro monete. Il venditore le guarda, senza riuscire a nascondere la propria cupidigia. Non ha mai ricevuto una simile somma in una volta sola.

- Il tuo silenzio. Completo.

Solomon mette di fianco alle monete il coltello che ha appena comprato: un monito chiarissimo.

L’uomo guarda le monete, poi guarda Solomon. Annuisce. Allunga una mano. Solomon lo ferma.

- Quando sono venuti?

- Ieri, nel pomeriggio.

- Quanto sono stati via?

- Forse un’ora.

- Va bene. Le monete sono tue. Ma bada a quello che fai. Anche se mi uccidessero, qualcun altro ti farebbe conoscere il sapore del ferro, ricordatelo.

- Non ti tradirò, amico: ho una parola sola.

Solomon ha forti dubbi sull’onestà del mercante, ma ha pagato davvero tanto: è abbastanza sicuro di aver portato l’uomo dalla sua parte.

Solomon si alza e attraversa la bottega. La vecchia porta di legno ha un fermo, che Solomon toglie. Spinge il battente e passa in un piccolo cortile, occupato in parte da un pozzo che appare troppo grande per quello spazio angusto.

Solomon si sporge. Il pozzo è molto profondo e al suo interno ci sono alcuni mattoni sporgenti disposti lungo la parete, che permettono di scendere. Solomon si spoglia, tenendo addosso solo i pantaloni leggeri che ha indossato prima di uscire. Li rimbocca fino al ginocchio, in modo che non gli siano d’impaccio. Dalla sacca prende la lanterna, la accende e la fissa al collo con una cordicella. Poi entra nel pozzo e, poggiando i piedi sui mattoni sporgenti e aiutandosi con le mani, scende. In fondo l’acqua scorre. Solomon rabbrividisce. Non sta del tutto bene, non si è ancora completamente ripreso dal freddo dell’esplorazione precedente. Ma non ha importanza. Vincendo la repulsione istintiva, entra nel canale sotterraneo che attraversa il pozzo. L’acqua gli arriva alla vita, ma il cunicolo è basso e per procedere Solomon deve chinarsi. Se il livello dell’acqua crescesse, Solomon si troverebbe sommerso, senza nessuna possibilità di salvarsi. Ma l’acquedotto sotterraneo passa sotto al palazzo e sembra essere l’unica via per introdursi di nascosto: altri passaggi, costruiti per gli uomini e in alcuni casi anche per i carri, sono stati sbarrati e non è possibile accedere all’area del palazzo. Solomon procede con cautela: l’acquedotto ha una leggerissima pendenza, appena percepibile, che permette all’acqua di scorrere. Il soffitto però va abbassandosi e presto Solomon riesce a malapena a tenere la lampada e parte della testa fuori.

A un certo punto c’è un ulteriore abbassamento del soffitto. Procedere è impossibile senza immergersi completamente. Il rischio è enorme: se l’altezza del cunicolo non aumenta andando oltre, proseguire significa morire. Solomon non può portare con sé la lanterna: questo significa che non sarà più in grado di vedere dove va.

Torna indietro, finché non trova una nicchia su cui la appoggia. Poi riprende a procedere fino al punto in cui deve immergersi. Respira a fondo e si lancia sott’acqua, spingendosi in avanti con forza, finché si rende conto che deve emergere o tornare indietro. Con cautela si avvicina alla superficie. La testa urta contro la volta, ma c’è un po’ di spazio tra il soffitto e la superficie dell’acqua. Solomon riesce a respirare. Ora che può tenere fuori la testa, riprende a camminare e procede lentamente, tenendo il capo inclinato all’indietro, in modo da non urtare la volta. Avanza fino a che, di colpo, il terreno sotto di lui precipita. Solomon finisce sott’acqua e muove le braccia rapidamente per ritornare a galla. Riemergendo, si rende conto che la spinta energica che si è dato lo porterà a sbattere contro la volta, ma non è così: la testa può stare completamente fuori dall’acqua senza sfiorare la volta. Allora alza il braccio e si accorge che non raggiunge il soffitto. Non è più in un cunicolo. Ha raggiunto la grande cisterna: è sotto il palazzo ducale.

Ha sentito parlare di questo grande locale sotterraneo e sa che il duca ama bagnarvisi. Non è un segreto per nessuno: alcuni soldati montano la guardia alla porta che conduce alla cisterna e uno di loro deve averlo raccontato in giro, senza pensare che qualcuno avrebbe potuto approfittare dell’informazione per colpire il duca. Infatti dalla primavera all’autunno il signore di Rougegarde scende spesso qui, da solo. Un posto ideale per un agguato: basta appostarsi e attendere; prima o poi il duca scenderà, senza sospettare che è possibile accedere alla cisterna attraverso il canale sotterraneo.

Solomon raggiunge la parete e si sposta senza staccarsene. Non si vede nulla: la cisterna è immersa nel buio più completo. Solomon nuota lentamente, spingendosi con le gambe e il braccio sinistro, mentre tiene la mano destra contro il muro. A un certo punto gli sembra di scorgere un chiarore. In effetti c’è un piccolo cunicolo, sopra il livello dell’acqua, da cui arriva una luce molto tenue: un passaggio di aerazione, che però deve avere un gomito, per cui la luce non arriva direttamente. Poco oltre, la cisterna è nuovamente immersa nel buio.

Solomon prosegue con la sua esplorazione. Trova un altro canale di aerazione, poi la parete gira ad angolo retto. Ora Solomon è lungo un lato su cui la parete è molto bassa: ci si può facilmente issare, ma procedendo Solomon trova anche una scala, che permette di uscire senza sforzo. Solomon sale. Su questo lato di fronte alla cisterna c’è una superficie piatta. I passaggi che scendono dal palazzo finiscono certamente qui, ma sono bloccati da porte. Solomon non può fermarsi a lungo: si accorge di avere freddo. Deve muoversi. Farebbe meglio a tornare indietro, ma vuole verificare che non esistano altri ingressi o uscire. Si immerge e procede nella sua esplorazione, facendo il giro completo della cisterna. Non trova il canale di uscita, che certamente esiste, né quelli che portano ai due pozzi presenti nei cortili del palazzo: evidentemente sono molto sotto il livello dell’acqua e non possono essere percorsi. L’unico modo per entrare è seguire la via che ha scelto Solomon.

Quando ha completato il giro, Solomon riprende il passaggio che lo ha condotto alla cisterna. Adesso ha molto freddo e il suo corpo è percorso da brividi. Raggiunge senza difficoltà la lanterna che ha lasciato. La riprende e ritrova il punto in cui può uscire dal canale e passare nel pozzo. Risale a fatica aggrappandosi ai mattoni sporgenti: gli mancano le forze. Uscito dal pozzo si riveste e ripassa dalla bottega.

Il negoziante non chiede nulla. Solomon si limita a dire:

- Hai ricevuto il prezzo del silenzio. Sai qual è il prezzo del tradimento.

- Lo so. Non dovrò pagarlo.

L’orafo esce. Si sente stanco e ha freddo.

A casa si asciuga bene. Dovrebbe andare dal duca a riferire, ma è troppo debole e ha i brividi. Ha bisogno riposarsi un po’, prima di uscire per informare Denis. Si stende sui cuscini, ma presto si rende conto di fare fatica anche a stare seduto e si mette a letto.

 

 

 

In serata Morqos, non vedendo Solomon, passa a trovarlo e lo trova coricato. Pare addormentato, ma il respiro è affannoso. Morqos si spaventa:

- Solomon! Che ti è successo?

Solomon si sveglia. Vede l’amico e cerca di parlare, ma ha la lingua impastata e gli costa fatica articolare una frase. Risponde:

- Preso freddo… non sto… bene… brividi… Non è niente.

Poi tace: le poche parole sono già state uno sforzo.

Morqos tocca la fronte di Solomon e gli pare che scotti. Gli occhi sono lucidi e a tratti l’ebreo sembra non riuscire a respirare.

- Chiamo subito Istfan. Per fortuna è qui.

Istfan è il fratello di Morqos. È medico e vive nella stessa casa, insieme al servitore Tristan.

Istfan arriva dopo pochi minuti. Controlla le condizioni di Solomon: il respiro, il battito cardiaco, la temperatura. I risultati del suo esame lo preoccupano. Prepara una pozione che fa bollire e la dà da bere ancora molto calda al malato. Solomon inghiotte a fatica.

Istfan fa accendere un fuoco nel camino, anche se non fa più così freddo, e ordina a Solomon di rimanere ben coperto. Poi si rivolge a Morqos:

- Bisogna vegliarlo.

Molto piano, perché Solomon non senta, aggiunge:

- È una situazione disperata, Morqos.

Morqos si sente gelare. È profondamente affezionato a Solomon e l’idea che sia in pericolo di vita lo angoscia.

Solomon sente freddo, nonostante il fuoco nel camino, le coperte e la bevanda calda. Ha i brividi e non riesce a controllare il tremito del suo corpo. Ha l’impressione che gli manchi l’aria e al petto sento un dolore forte, che va crescendo. Si rende conto di essere a un passo dalla morte. Vorrebbe avvisare Morqos del passaggio sotterraneo, perché possa riferirlo al duca, ma non riesce più a formulare una frase coerente e anche le idee si confondono, fino a svanire. Quando ha gli occhi aperti, vede solo più forme indefinite passargli davanti. Chiude gli occhi.

Morqos decide di trascorrere la notte al capezzale.

Il mattino dopo Solomon è incosciente e non c’è modo di comunicare con lui. A tratti delira: dice frasi senza senso, in cui talvolta ricorrono nomi. Respira con grande fatica.

Morqos dice a Pierre di informare il duca della malattia di Solomon. La notizia coglie di sorpresa Denis, che si preoccupa. Chiede:

- Ma che cosa dice Istfan?

- È molto pessimista.

- Senti, mando anche Nabih.

Nabih è il medico personale di Denis.

Pierre accompagna Nabih da Solomon. A Istfan non spiace potersi consultare con un collega molto in gamba: Nabih è considerato il miglior medico del Regno.

Il medico esamina con attenzione il malato e ascolta la relazione sul decorso della malattia. Scuote la testa e anche lui è chiaramente pessimista, ma dice:

- Ha una fibra molto robusta. Può farcela.

- C’è qualche cos’altro che posso fare?

- No, hai fatto tutto quanto potevi. Adesso possiamo solo sperare che sia più forte della malattia.

Nabih torna a palazzo e relaziona al duca.

- Le condizioni del malato sono molto gravi e rischia di morire. Ma è un uomo robusto e non è detto che non riesca a sopravvivere.

Denis è angosciato. L’orafo lo ha colpito molto già al loro primo incontro e i colloqui successivi hanno creato tra loro un forte legame. In lui Denis ha trovato qualcuno con cui può sempre parlare. Gli piace la sicurezza di Solomon, gli piacciono la sua irriverente sfacciataggine, la sua generosità. Tiene moltissimo a lui.

Denis chiede a Pierre di portargli regolarmente notizie. Nel pomeriggio Pierre ripassa da Solomon e informa Denis che c’è stato un ulteriore peggioramento. Le possibilità di guarigione appaiono minime. Denis manda nuovamente Nabih.

L’ebreo è assistito tutto il giorno. Sono in molti a darsi il cambio per seguirlo, soprattutto Morqos, insieme a Emich, e le donne, che si aiutano a vicenda, per cui quando una assiste Solomon, le altre le tengono i bambini. Mariette, la compagna di Morqos, è meno presente perché deve gestire la locanda, ma anche lei fa brevi turni, come Tristan. Istfan passa più volte al giorno, ma Solomon sembra sprofondare in un abisso, da cui il medico teme di non riuscire a tirarlo fuori.

Nabih passa ogni mattina ed è lui il primo a manifestare un cauto ottimismo il quarto giorno:

- Ha retto per tre giorni, se regge ancora un giorno o due, se la caverà.

In effetti la febbre incomincia a calare e anche Istfan diventa meno pessimista. Molto lentamente Solomon riemerge dall’abisso.

Denis deve partire per Cesarea, dove lo chiama il suo ruolo di tutore dell’erede della città: ha rimandato il viaggio per le condizioni di Solomon, ma ora che l’ebreo è fuori pericolo e migliora di giorno in giorno, decide di partire. Al suo ritorno lo convocherà, perché ha piacere di parlargli.

 

Quando Solomon recupera la lucidità, chiede del duca. Gli rispondono che Denis è appena partito: starà via almeno due settimane, forse di più. Solomon si tranquillizza: se il duca è assente, ha tempo per organizzarsi e per avvisarlo. Quando avrà ripreso le forze, farà un controllo della situazione e poi aspetterà il ritorno di Denis per comunicargli ciò che ha scoperto.

Superata la fase acuta, Solomon si rimette in fretta. Per tutti nella casa è una gioia vederlo migliorare costantemente. Ora che sta meglio, non ha più voglia di rimanere a letto, ma Istfan lo costringe a riguardarsi e Morqos lo sorveglia “peggio di un carceriere”, come dice Solomon.

Quando infine è perfettamente guarito, Solomon riprende a lavorare e a uscire. L’assenza del duca si prolunga e, in attesa che Pierre gli comunichi il suo ritorno, Solomon decide di tornare dal negoziante di coltelli, per sapere se i sicari sono ripassati. Probabilmente no, visto che il duca non è in città.

Ha quasi raggiunto la bottega quando casualmente scopre che il duca è rientrato in città in mattinata. Deve avvisarlo subito, prima che i sicari raggiungano la cisterna. Fa per avviarsi a palazzo, quando un dubbio lo assale.

Si dirige alla bottega. Il mercante sussulta vedendolo e il suo sguardo va alla porta sul retro. Solomon intuisce:

- Sono là?

L’uomo annuisce.

- Da questa mattina.

 

Denis è rientrato, accaldato per il viaggio. Ha avuto conferma che Solomon sta bene e che ha già ripreso a uscire di casa. La notizia lo rallegra. È contento al pensiero che presto lo rivedrà: lo farà chiamare nel pomeriggio.

Dopo aver parlato brevemente con Luc, Denis decide di scendere nella grande cisterna sotterranea per bagnarsi: nelle giornate già molto calde della primavera mediterranea, questo ambiente fresco lo attrae e vi si reca con frequenza.

Il locale è molto vasto, ma buio: dalle piccole aperture praticate lungo una delle pareti, subito sotto il soffitto, filtra pochissima luce, appena visibile per chi è nelle vicinanze. Per chi arriva dalle scale, la cisterna è immersa nell’oscurità più completa.

Denis ha portato una torcia, con cui ne accende una seconda, infilando entrambe negli anelli alla parete. Non gli dispiace nuotare al buio, ma ama anche vedere l’immensa sala, con le alte colonne che reggono il soffitto: questo locale è davvero un capolavoro di ingegneria, che la luce delle torce illumina solo in parte.

Denis si spoglia. Si toglie le vesti e rimane nudo. Guarda l’acqua scura e scende i gradini. Si immerge completamente e si mette a nuotare, allontanandosi dal bordo. Scivola tra le colonne, verso l’area dove la luce delle torce arriva appena.

Nuota un buon momento, godendosi il piacere che gli trasmettono la frescura dell’acqua e la sensazione di leggerezza del rimanere a galla. Poi si dirige verso la scala che scende nella cisterna, per uscire, asciugarsi, rivestirsi e risalire. Ma mentre si avvicina nuotando lentamente, si accorge che la sua spada non c’è più. Invece di salire e uscire, arretra velocemente. Il suo movimento è stato notato e da dietro le colonne spuntano tre uomini armati di pugnale. Sono riusciti a infilarsi nel palazzo. Come? Denis non lo sa, ma non è questo il problema, ora. Denis arretra, ma la cisterna non ha altre vie di uscita e i suoi assalitori non gli permetteranno di raggiungere la porta del passaggio che conduce al palazzo.

I tre uomini lo guardano, tranquilli: sanno che non può sfuggire loro. I loro pugnali avranno infine ragione del Cane dagli occhi azzurri.

Denis si allontana nuotando, fino a raggiungere la parte dove la luce delle torce arriva appena. I tre assassini sono rimasti fermi e fissano l’oscurità. Probabilmente riescono appena a intravederlo. Denis potrebbe arretrare ancora, ma lo farà solo se i tre scenderanno in acqua. Per raggiungerlo dovranno immergersi e nuotare e questo ridurrà il loro vantaggio, ma sono in tre e sono armati. E Denis non può nascondersi a lungo, né rimanere per sempre in acqua.

Gli uomini si guardano, poi, dopo un cenno d’intesa, due di loro avanzano. Si infilano il coltello tra i denti e scendono i tre gradini che portano in acqua. Denis sa che non ha scampo. Anche se in qualche modo riuscisse a raggiungere il bordo, magari nuotando sott’acqua in modo da non essere visto dai due che si sono immersi, troverebbe il terzo uomo che lo aspetta. E non può pensare di riuscire a sfuggire a lungo ai due che lo cercano.

Denis ha coscienza di essere perduto, ma intende lottare fino all’ultimo.

 

I due stanno nuotando lentamente verso di lui: non vogliono perderlo di vista. Denis si immerge e si allontana, fino a raggiungere un’area dove il buio è quasi completo. I suoi assassini si fermano, guardandosi intorno. Non possono vederlo, perché dove si trova l’oscurità è troppo densa, mentre il duca può scorgerli, perché la luce delle torce giunge fino al punto dove si trovano.

In quel momento l’acqua poco lontano da lui si muove e una testa emerge. Per un attimo Denis pensa che uno degli assassini lo abbia raggiunto, ma la voce sussurra:

- Duca.

Denis riconosce la voce. Allibito, risponde:

- Solomon!

Solomon si avvicina e gli porge un coltello, senza dire nulla.

- Fatevi vedere da loro.

Denis non sa che cos’abbia in mente Solomon, ma non c’è il tempo per discutere. Avanza un po’, in modo che ora i due assassini possano scorgerlo. Solomon si immerge e scompare.

I due uomini avanzano. Non sanno che il duca ora è armato. Quando ormai sono vicini, alle spalle di uno dei due emerge Solomon, che afferra l’uomo per i capelli e gli recide la gola. L’altro sente il grido soffocato e si volta. Subito Denis gli è addosso, lo afferra e prima che possa reagire gli immerge il pugnale nel cuore.

I due sono morti. In un attimo la situazione si è rovesciata. Solomon dice:

- Non lasciatelo affondare. Ci servono. E poi se affondano, l’acqua non sarà più utilizzabile.

Denis annuisce. Gli sembra tutto incredibile, ma non è il momento delle spiegazioni, questo. Solomon prosegue:

- Avviciniamoci al bordo, portando i cadaveri con noi, in modo che Maazin si accorga solo all’ultimo momento di ciò che è successo.

Denis annuisce. Evidentemente Maazin è l’uomo che aspetta sul bordo della cisterna.

 

Maazin non può sospettare che i suoi due complici siano morti. Vede nella penombra avanzare due nuotatori. C’è qualche cosa di strano nei loro movimenti… già, uno porta il corpo del duca, per questo nuota così. Ma…

Solo quando i due sono quasi a riva e anche Solomon, che nell’ultimo tratto ha tenuto la testa sott’acqua, emerge, Maazin capisce che i due nuotatori sono il duca e qualcuno che lo ha aiutato. I sicari sono solo cadaveri, che ora vengono trascinati fino alla scalinata.

È Solomon a parlare, mentre emerge dall’acqua, il pugnale in mano:

- Arrenditi, Maazin. Non hai nessuna speranza di cavartela.

Maazin arretra. È armato, ma i suoi avversari sono in due e gli bloccano l’unica via di fuga percorribile. Non può pensare di ucciderli entrambi e riuscire a fuggire.

Si scaglia contro Solomon, nella speranza di colpirlo o almeno costringerlo ad arretrare, per potersi lanciare in acqua e raggiungere il canale sotterraneo da cui è entrato. Ma Solomon gli getta contro il cadavere che ha sollevato e poi, prima che Maazin abbia recuperato l’equilibrio, gli salta addosso. Maazin cade a terra e batte la testa. Solomon è forte e già gli sta torcendo un braccio dietro la schiena, bloccandolo completamente.

- Merda!

Maazin è costretto a lasciare il coltello.

 

Denis d’Aguilard guarda ancora il cadavere ai suoi piedi, poi l’altro corpo, disteso a terra. Poi fissa Solomon, che rimane in silenzio davanti a lui, bloccando Maazin.

- Come hai saputo? Come hai fatto a sapere che mi avrebbero ucciso oggi? Perché lo sapevi, vero?

- Sospettavo che avrebbero agito al tuo ritorno. Ma… forse non è il momento per spiegare. Ci sono cose più urgenti.

Le parole di Solomon riportano Denis alla realtà.

- No, di certo.

Denis prende la corda che uno dei sicari portava alla vita e con l’aiuto di Solomon lega le mani di Maazin saldamente dietro la schiena, poi con la sua cintura gli blocca anche i piedi.

Prende il telo che ha portato per asciugarsi e lo lancia a Solomon.

- Adesso asciugati, subito, sei appena uscito dal letto e rischi di ammalarti di nuovo.

Solomon sorride e si asciuga vigorosamente.

- Boh, non è così facile farmi ammalare.

Denis aggiunge:

- È meglio che tu ti tolga quei pantaloni bagnati.

E mentre lo dice, Denis si pente della sua frase. Perché Solomon obbedisce e il corpo che ora si scopre completamente provoca in lui una reazione tanto forte quanto improvvisa, che la sua nudità impedisce di nascondere.

È davvero un bell’uomo, Solomon, di una bellezza guerriera: spalle larghe, petto possente, gambe e braccia robuste, una peluria diffusa che copre il corpo, un bel cazzo circonciso, i coglioni voluminosi.

Solomon sta finendo di asciugarsi, un po’ voltato. Finge di non aver notato che il cazzo di Denis si sta rapidamente irrigidendo. Quando ha finito, gli getta il telo, girandosi appena un po’.

- Eccoti, duca. Asciugati anche tu, che la tua vita è ben più preziosa della mia.

Solo ora, che Solomon gli risponde con il tu, Denis si rende conto di aver usato anche lui il tu.

Denis si volta, dando le spalle a Solomon, e si asciuga, poi rapidamente si riveste, rimanendo voltato.

- Andiamo su.

- Su? Così, nudo?

Denis si volta. Ed è come se qualcuno gli avesse tirato un pugno nello stomaco: la tranquilla nudità di Solomon gli toglie il fiato. Il cazzo non è a riposo, non completamente, almeno. Un po’ gonfio, proteso in avanti, sembra sfidare Denis.

Denis deglutisce. Cerca di non lasciar trapelare il suo turbamento mentre risponde:

- Vorrai mica tornare da dove sei venuto? Rischiare la pelle ancora? Mi farò portare un mantello dai soldati di guardia alla porta. Dai, vieni. Che importanza ha? Oltre ai soldati, non c’è nessun altro.

Salgono la lunga scala e poi percorrono un breve corridoio. Solomon rimane dietro a Denis, che è conscio della sua presenza, della sua nudità.

Ci sono due soldati di guardia.

- Baudouin, va’ subito a prendere una tunica, un mantello, perché Solomon possa coprirsi. Foucher, chiama subito Heinrich, che venga con otto uomini.

Poco dopo Solomon può infilarsi una tunica e avvolgersi in un mantello, mentre l’ufficiale Heinrich si occupa di far portare in superficie i cadaveri e in prigione Maazin. I soldati rimangono a sorvegliare l’ingresso: fino a che l’apertura dell’acquedotto non verrà protetta con una grata, la porta dovrà essere tenuta sotto controllo giorno e notte.

 

Ora Solomon e Denis sono in una saletta dell’appartamento ducale. Non fa freddo e sono entrambi ben asciutti, ma Denis ha fatto accendere un fuoco nel camino. Solomon si è tolto il mantello e indossa solo la tunica che Denis gli ha fatto portare; si scalda davanti al fuoco, come Denis gli ha ordinato di fare.

- Mi vuoi far arrostire, duca? In effetti sono abbastanza grosso da fare un buon pasto. Il cuoco non avrebbe neanche bisogno di spennarmi. Mi potrebbe infilare uno spiedo dalla bocca al culo… o viceversa, su per il culo.

Il sorriso di Solomon è sornione. Denis si rende conto che quel sorriso lo turba. Decide di ignorarlo.

- Adesso voglio che tu mi dica tutto, Solomon. Come hai fatto a sapere? E a trovarti nella cisterna al momento giusto? Perché non mi hai detto niente prima?

Solomon annuisce. Il sorriso scompare.

- Nelle mie indagini avevo scoperto che Maazin cercava una via per introdursi nella fortezza attraverso i canali sotterranei, ma il primo canale che aveva percorso non permetteva di raggiungere il palazzo.

- Non me ne avevi parlato.

- Avevo verificato subito e, visto che di lì non si poteva passare, non me ne sono preoccupato. Pensavo di riferirtelo in seguito, al colloquio successivo. Ma il giorno dopo Morqos mi ha messo in contatto con un altro uomo e lui mi ha indicato un secondo passaggio, quello che porta alla cisterna.

Solomon sorride e aggiunge:

- Per fortuna c’è gente disponibile a vendere anche la propria madre per due monete.

Denis sorride:

- Hai pure dovuto pagare. Dovrò rimborsarti…

Solomon annuisce, fingendo di essere serio.

- Ci conto, duca. Non mi sei costato poco, te lo garantisco. Due monete era solo un modo di dire.

Solomon scoppia a ridere, poi riprende il racconto:

- Ho deciso di verificare, con l’intenzione poi di raccontarti. In effetti attraverso il ramo dell’acquedotto ho raggiunto la cisterna. Ma l’acqua era molto fredda, io sono rimasto troppo a lungo e quando sono tornato a casa, stavo male.

- Ti sei ammalato per questo!

- Credo di sì. E a letto ho perso il senso del tempo. Stavo troppo male. Alla fine però sono riemerso e ho capito che erano passati diversi giorni. A quel punto mi sono preoccupato, ma mi hanno detto che eri via. Ho deciso di controllare la situazione e poi di venire a parlarti, non appena tu fossi tornato. Ma in giro per la città mi hanno detto che eri rientrato in mattinata e quando ho parlato con il mio informatore, ho scoperto che Maazin e due altri si erano già avviati, proprio oggi. Se tu non ti bagnavi, avevo tutto il tempo, ma se dopo il viaggio avevi deciso di rinfrescarti? Correre a palazzo, riuscire a entrare, far capire a qualcuno il pericolo… mi sembrava tutto troppo complicato. Avvisare Morqos, Pierre… potevo non trovarli in casa… anche quella mi pareva una perdita di tempo e io non ne avevo, di tempo da perdere. Ero a due passi dal luogo in cui si scende. Allora ho ripercorso la strada della volta precedente… e sono arrivato in tempo.

- Rischiando di lasciarci le penne, tra il freddo e i coltelli.

Solomon alza le spalle.

- L’importante era far fallire il loro piano.

Si volta verso Denis, dando la schiena al fuoco. Sorride. C’è un lungo momento di silenzio.

A Denis sembra che la tunica si stia tendendo davanti al basso ventre di Solomon. Denis è in imbarazzo, mentre Solomon sembra del tutto a suo agio.

Denis si accorge che anche il suo corpo sta reagendo e allora si volta e guarda dalla finestra. Sente che Solomon si sta avvicinando alle sue spalle. Ora è dietro di lui e lo abbraccia. Denis si tende. Sa che dovrebbe dire qualche cosa, fermare Solomon, ma non riesce a parlare. Solomon appoggia la bocca sul collo di Denis e lo bacia.

Denis mormora:

- No.

Ma Solomon non ascolta le parole. Solomon ascolta ciò che sta gridando il corpo di Denis, forte, molto più forte di quanto potrebbe urlare la sua bocca. Le mani di Salomon risalgono fino ad accarezzare le guance di Denis, con delicatezza, come se ci fosse una ferita aperta. E intanto la sua bocca bacia ancora il collo.

Denis mormora ancora:

- No.

Ma tutto il suo corpo sta dicendo un sì che sembra riempire la stanza e Solomon sente solo quel sì. Le mani di Solomon si staccano e poi fanno ruotare Denis su se stesso, senza incontrare nessuna resistenza. Ora Denis e Solomon sono uno di fronte all’altro e mentre il viso di Solomon si avvicina al suo, Denis mormora:

- No.

Tutto in lui sta smentendo la sua bocca e Solomon appoggia le labbra su quelle del duca, mentre le sue mani si posano di nuovo sulle guance e le accarezzano, piano. È un bacio delicato, appena uno sfiorarsi delle labbra. Poi Solomon si stacca e fissa Denis negli occhi. Gli sorride. E di nuovo lo bacia, con più forza.

Quando le loro labbra si separano, Denis ripete:

- No.

Ma Denis stesso non sa se ha parlato o no. Il suono si è perso e ora la bocca di Solomon preme sulla sua, con forza, e la sua lingua si spinge tra i denti. Mai nessuno lo ha baciato così. È una sensazione nuova e Denis non saprebbe dire se gli piace o no. Sa solo che le mani che poggiano sulle sue gote gli trasmettono una pace infinita, più forte dell’incendio che divampa nel suo corpo. Solomon si stacca di nuovo, lo guarda e gli sorride. Quando Denis sta per aprire la bocca per dire un’altra parola inutile, Solomon lo bacia di nuovo. Poi le sue mani incominciano a spogliare Denis.

Denis non vuole, rifiuta questo abbandono totale, questa resa incondizionata, eppure non riesce a parlare e il suo corpo lo tradisce, asseconda ogni gesto di Solomon, lo anticipa. Le mani di Solomon gli hanno sfilato la tunica e ora Denis è nudo. Solomon si inginocchia davanti a lui e gli sfila le scarpe. Poi appoggia la sua testa contro il ventre del duca, mentre le sue mani risalgono lungo i fianchi, verso il torace. Solomon gli bacia il ventre, poi la sua bocca scende fino al sesso, che ormai sta riempiendosi di sangue, e depone un altro bacio. Le labbra avvolgono la cappella e Denis geme. Trova ancora la voce per dire:

- No.

Le mani di Solomon percorrono il suo corpo con lentezza, stringono i capezzoli, facendogli male, scivolano di lato, scendono ad afferrare il culo e a stringere con forza. La bocca avvolge e Denis sente che il piacere cresce e lo avvolge. Lentamente sprofonda in un’oscurità in cui c’è solo più il piacere che sale da tutto il suo corpo, dalle dita vigorose di Solomon che stringono o accarezzano, dalla bocca che avvolge il suo membro, dal viso che preme contro il suo ventre.

Il desiderio si tende allo spasimo. Le sue mani accarezzano le spalle di Solomon, i suoi capelli, la sua nuca. E ancora Denis riesce a dire:

- No.

Denis ha chiuso gli occhi e rovesciato indietro la testa. Ha la sensazione che solo le mani di Solomon lo sostengano. Il desiderio ancora cresce, in cerchi sempre più vasti, mentre Denis precipita nel buio accecante di un piacere troppo forte per essere contenuto ancora. Infine la tensione esplode e si scioglie in una serie di scariche violente. Denis barcolla, mentre le mani di Solomon gli impediscono di cadere.

Solomon beve ogni goccia del seme. Poi la sua bocca lascia la cappella. Solleva Denis tra le braccia e lo porta oltre la soglia della camera del duca, fino al letto. Lo stende a faccia in giù. Denis intuisce che la via che ha incominciato a percorrere lo porterà ancora più lontano, dove non è mai giunto, e nuovamente prova paura. Solomon è su di lui, il suo corpo preme, le sue mani accarezzano, la sua bocca bacia. Tra i fianchi Denis sente la pressione e il calore di un uccello vigoroso.

Denis mormora:

- No.

Solomon si stacca. Denis sente un morso al culo, che lo fa sussultare. Poi un secondo, un terzo. Morsi lievi, quasi baci. Morsi forti. Piccoli baci. E poi la lingua scorre lungo il solco. Altri baci, altri morsi. Ancora la lingua.

Solomon si stende di nuovo su Denis. Sta per accadere, Denis lo sa. Per l’ultima volta dice:

- No.

Ma Solomon ascolta solo il sì che sale da tutto il corpo di Denis, ciò che la sua bocca può dire non ha importanza, la bocca mente.

Solomon preme piano e lentamente il suo uccello si fa strada, forzando l’apertura. Denis sussulta. Solomon si ferma un momento, gli dà il tempo di abituarsi alla pressione, al dolore che è anche piacere. Poi Solomon avanza, con grande lentezza, mentre le sue labbra baciano, le sue mani accarezzano e stringono. E Denis sente lo sperone avanzare, più a fondo, sempre più a fondo. Denis si abbandona completamente. Non sa più dov’è, chi è. Non sa più nulla. E Solomon si ritrae e nuovamente avanza, inesorabile, senza dare tregua. Denis sprofonda sempre più. Gli sfugge un gemito, poi un altro. Geme ancora più forte. Solomon lo accarezza e prosegue con vigore la sua opera.

E infine una rapida successione di spinte violente strappa un grido a Denis e Solomon si abbandona su di lui. Sono venuti insieme.

Solo adesso Solomon parla: solo adesso che la sua voce risuona, Denis capisce che fino a ora Solomon non ha detto una parola.

- Amore mio.

Denis chiude gli occhi. Gli sembra che non riuscirà mai più a ritornare in superficie.

Solomon rimane dentro di lui, ma si volta di lato. Lo abbraccia e lo bacia ancora, più volte.

Lentamente, con una fatica infinita, Denis riesce a scuotersi dal torpore che lo ha invaso. Si stacca da Solomon, con uno sforzo, con sofferenza, contro la volontà del suo corpo.

Si alza e guarda Solomon, che si è girato sulla schiena. Guarda il corpo dell’uomo che lo ha posseduto, l’uccello del maschio che lo ha penetrato.

Scuote la testa. Mormora:

- Dovrei ucciderti, Solomon.

Solomon gli sorride.

- E perché mai, duca? Perché ti ho dato ciò che il tuo corpo chiedeva? Perché ti ho regalato piacere come tu lo hai regalato a me?

- Nessuno mi aveva mai preso, Solomon.

- Forse nessuno ti aveva mai amato, duca, prima d’ora.

Denis è disorientato. Sa che quello che dice Solomon è vero. Denis è stato amato da sua madre, morta troppo presto. È stato amato da suo padre, che ha visto morire. È amato da suo figlio. È stato talvolta desiderato da altri uomini e da donne. Ma nessuno lo ha mai veramente amato dell’amore di Solomon, l’amore che è anche desiderio. Non certo la donna che il re Amalrico I gli assegnò per sposa, la madre di Pierre. Né Charles di Soissons, che si dava a lui come ad altri. Né Nicolas, con cui pure ha condiviso i giochi del letto per anni.

- Tu mi ami, Solomon? Mi hai visto poche volte in vita tua e mi ami?

Denis lo dice per difendersi, perché sa benissimo che anche in lui è nato un sentimento, di cui non è così sicuro come Solomon, ma che non può negare. E vuole sentirsi dire ciò che desidera.

- Ti amo. Vieni qui.

Solomon gli tende le mani. Denis alza le braccia e ora le loro dita si toccano, si intrecciano. Solomon lo guida a ritornare sul letto.

Le mani di Solomon percorrono il corpo di Denis, lo accarezzano, lo stringono. E ora è Denis ad avvicinare la bocca a quella di Solomon e a baciarlo. Gli sembra di vivere in un sogno, ma va bene così.

 

È tarda sera quando Solomon lascia il palazzo ducale. Sarebbe rimasto volentieri a dormire con Denis, ma ha preferito non chiederlo: Denis ha bisogno di tempo per accettare questo rapporto fino in fondo. Il valoroso duca, che sul campo di battaglia sa prendere la decisione giusta in un attimo, deve ancora imparare a fare i conti con un sentimento nuovo. Ma Solomon è sicuro che il suo amore è ricambiato.

Hanno parlato a lungo del da farsi. La minaccia che grava su Denis è stata sventata per il momento, ma occorre agire perché non ritorni. La via proposta da Solomon appare folle al duca di Rougegarde, ma probabilmente è l’unica. E in questa faccenda Solomon sembra sapere come muoversi.

 

Quando riceve notizie da Rougegarde, Ramzi è furente. Maazin è scomparso nel nulla, come Faaris. Ucciso? Arrestato? Fuggito? Nessuno lo sa. I due sicari che dovevano uccidere Denis di Rougegarde insieme a Maazin hanno fallito e sono morti, come Fahd, che avrebbe dovuto colpire Ferdinando. Un altro insuccesso, un altro smacco. Deve trovare il modo di rimediare, ma come? Inviare Usama? Se Maazin e Faaris sono stati scoperti, il duca di certo starà in guardia e un altro tentativo andrebbe quasi sicuramente incontro a un ulteriore fallimento. Se Faaris è stato catturato vivo, il duca sa che è stato Ramzi a ordinare di ucciderlo e di sicuro sarà molto difficile per un musulmano sconosciuto avvicinarsi a lui. Non è certo il caso di sacrificare Usama per niente.

Ramzi decide di aspettare. Di sicuro il barone Renaud non verrà a chiedergli conto del fallimento.

 

 

V – La giustizia dello sceicco

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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