Solomon
è passato a trovare Amos e la famiglia. Quando è in città lo fa ogni due-tre giorni:
è affezionato al fratello, alla cognata e ai nipoti e vuole verificare che
non abbiano bisogno di niente. Al
momento di congedarsi, dice: - È
arrivata oggi la notizia. Salah ad-Din è stato sconfitto. Il duca ha guidato
i franchi nella battaglia, vicino ad Ascalona, e ha messo in fuga l’esercito
arabo, anche se era molto più numeroso. Amos
non sa come suo fratello possa esserne a conoscenza: è uscito un’ora fa e in
città nessuno sapeva niente, anche se si parlava molto della guerra in corso
ai confini meridionali del regno. Ma Chlomo sembra sempre sapere le cose
prima degli altri. Amos non gli chiede come ha avuto l’informazione: sa che
non avrebbe una risposta convincente. -
Per noi è una buona notizia, visto che siamo a Rougegarde. -
Sì, dovremo andare dal duca, quando torna. Amos
annuisce: Chlomo ha ragione. Il trasferimento di alcune persone non richiede
certo che ci si presenti al signore della città, ma gli ebrei trasferiti sono
in tanti ed è sensato che Amos vada a parlare con il duca, in quanto rabbino
della comunità che si è stabilita a Rougegarde. Dalle parole di Chlomo è
evidente che intende venire anche lui. Non ce ne sarebbe motivo, Chlomo non
ha nessun ruolo nella comunità, ma Amos è contento che ci sia anche suo
fratello: sa meglio come muoversi in certe occasioni e averlo al proprio
fianco gli dà sicurezza. E poi Chlomo parla benissimo la lingua dei franchi,
mentre Amos la conosce assai di meno: formulare una frase gli richiede tempo
e sa di fare spesso errori. Vero è che il duca parla benissimo l’arabo,
lingua che anche Amos conosce perfettamente, ma forse non è opportuno
utilizzare con il signore della città la lingua dei suoi nemici. Più
tardi Amos esce di nuovo. In sinagoga dice che gli è arrivata notizia della
sconfitta di Salah ad-Din ad opera del duca. Tutti si stupiscono e gli
chiedono come fa a saperlo. Amos riferisce che glielo ha comunicato il
fratello. Chi conosce Solomon è sicuro che sia vero; qualcun altro è
dubbioso, ma meno di un’ora dopo la notizia viene confermata: è appena giunto
in città un messaggero del duca, che ha annunciato la vittoria. E Amos si
chiede come Solomon potesse saperlo prima degli altri. * Renaud
fa preparare un carico: c’è tutto quanto Renaud è riuscito ad estorcere agli ebrei,
più altro oro. La carovana che porta il tesoro sarà scortata da parecchi
soldati: ci sono banditi nel territorio e non sono solo quelli che guida
Olivier. Renaud non vuole correre rischi. Joscelin andrà avanti e comunicherà
a Ramzi che il dono del barone è pronto. Ramzi manderà i suoi uomini a
ritirarlo. Non
ci sono alternative, perché la breve guerra si è conclusa nel peggiore dei
modi, almeno per i progetti di Renaud: Denis ha guidato i cavalieri del regno
a una clamorosa vittoria, che nessuno si aspettava, vista la schiacciante
superiorità numerica del Saladino. Baldovino vedeva in Denis il principale
sostegno del suo regno già prima di questa fottuta battaglia: adesso nessuno
può certo azzardarsi a dire male del duca, perché perderebbe immediatamente
il favore del re. Renaud, che ha preferito non muoversi in soccorso di
Baldovino, adducendo la minaccia dei saraceni al confine orientale del regno,
non verrebbe neanche ascoltato. Renaud guarda la carovana mettersi in marcia.
Purché nessuno lo scopra. Se si venisse a sapere che il barone di San Giacomo
d’Afrin ha pagato un maomettano per uccidere il Cane dagli occhi azzurri, il
più forte guerriero del regno, terrore dei saraceni, la vita di Renaud
varrebbe molto poco: finirebbe come Tancrède d’Espinel, squartato e castrato
in piazza tra le grida di gioia della folla. Ma nessuno lo saprà mai. Nessuno
deve saperlo. Renaud
si chiede se non far uccidere Joscelin: è l’unico che è davvero a conoscenza
del piano e della destinazione dell’oro. Forse sarebbe più prudente. Sarebbe
però un peccato disfarsi di un uomo tanto abile e affidabile. Joscelin è a
conoscenza di altri segreti e non li ha mai traditi. D’altronde verrebbe
anche lui condannato a morte, se rivelasse ciò che sa: è stato lui a uccidere
Philippe di Cesarea e a organizzare l’omicidio di Hugues d’Arbert. * Denis
di Rougegarde è tornato in città. La folla lo accoglie esultante. La vittoria
di Montgisard ha allontanato la minaccia del Saladino e ridato speranza a
tutti i cristiani, confermando il valore del duca. I numerosi musulmani che
vivono a Rougegarde non condividono l’entusiasmo dei cristiani, ma a molti di
loro non spiace che il duca sia tornato sano e salvo dopo aver messo in fuga
il nemico: amano vivere in pace e Denis ha assicurato loro molti anni di
tranquillità. Non hanno subito vessazioni di nessun genere, a differenza dei
musulmani delle altre città del regno, e possono praticare la loro fede in
pace. Non sanno che cosa li aspetterebbe se la guerra li toccasse da vicino,
se Salah ad-Din si impadronisse del regno di Gerusalemme: una conquista è
sempre accompagnata da distruzioni e saccheggi e stare dalla parte del
vincitore non è una garanzia di uscirne indenni. Subito
dietro Denis cavalca il conte Ferdinando, che gode delle simpatie della folla
perché si sa che è un guerriero valoroso e un buon amico del duca e perché è
rimasto un uomo semplice, nonostante il titolo. Poi sfilano tutti i cavalieri
che sono partiti per la breve guerra e alcuni cavalli carichi del bottino.
Verso il fondo c’è anche un nero, la cui presenza desta un certo stupore: che
ci fa con le truppe del duca? È un prigioniero? Dev’essere un guerriero,
perché ha un portamento altero e cavalca con grande sicurezza. Un gran
bell’uomo, osserva qualcuno. Altri non sono d’accordo, perché per loro nessun
nero può essere bello. Il nero è la curiosità del giorno e quando si diffonde
la voce che in effetti si tratta di un valoroso guerriero che il duca ha
fatto prigioniero, incominciano le ipotesi su ciò che il duca ne farà.
Qualcuno, meglio informato, rivela che lo schiavo nero ha dormito tutte le
notti accanto al conte Ferdinando e poiché dei gusti del conte si chiacchiera
molto, incominciano le battute sull’argomento. Qualcuno osserva che non può
essere, perché il nero sembrava stare benissimo in sella e chi prova lo
sperone di Ferdinando dell’Arram, per un po’ fa fatica a cavalcare. Denis
ha affidato la reggenza della città a Louis, un cavaliere che è al suo
servizio da diversi anni e di cui ha avuto modo di apprezzare l’intelligenza:
con la partenza di Maria per la Francia e di Nicolas per la Nubia, ha perso
le due persone su cui poteva contare di più. Louis è perfettamente in grado
di amministrare la città e di prendere tutte le decisioni necessarie. Sa
tenere a bada il vescovo Bohémond, perenne spina nel fianco per Denis, e fare
attenzione che non cerchi di usurpare le prerogative del duca. Ma non ha
l’acuta intelligenza politica di Maria, né l’ampia esperienza di Nicolas. Una
cosa però lo accomuna a coloro che hanno in precedenza retto la città quando
Denis era assente: un’assoluta fedeltà al duca. Nei suoi tentativi di minare
il potere di Denis, il vescovo Bohémond si è sempre scontrato con questo muro
che non riesce a superare: gli uomini del duca non sono disposti a tradirlo in
nessun modo. Denis
si fa raccontare ciò che è successo durante la sua assenza, ma l’unico evento
significativo è stato l’arrivo degli ebrei scacciati da San Giacomo d’Afrin.
Il vescovo si è presentato da Louis, cercando di convincerlo a non accogliere
i fuggiaschi, ma il reggente gli ha risposto ciò che Bohémond si aspettava:
una decisione del genere potrebbe essere presa solo dal duca. Ed entrambi
sapevano che il duca non l’avrebbe mai presa. La manovra del vescovo era
inutile. Bohémond si è mosso soltanto per poter dire un giorno, se verranno
tempi migliori, che ha cercato di opporsi al proliferare degli assassini di
Gesù in Terrasanta. La protezione accordata dal duca a un eretico come Emich
di Freiburg, l’accoglienza degli ebrei maledetti da Dio, la tolleranza nei
confronti dei musulmani: tutte carte in mano al vescovo in una partita da
giocare. Carte di nessun valore in questo momento: con Baldovino come con
Amalrico queste sono piccole questioni interne di cui certo il re non intende
occuparsi e il duca di Rougegarde gode della piena fiducia del sovrano
attuale, come godeva di quella del padre. Ma prima o poi Baldovino morirà: ha
la lebbra, non può vivere a lungo. E allora forse le cose cambieranno e le
carte senza valore diventeranno strumenti utili, come l’accusa di sodomia nei
confronti del conte Ferdinando. Ferdinando
si ferma a Rougegarde, ospite di Denis. Potrebbe partire il giorno stesso,
visto che in mezza giornata può raggiungere il suo palazzo nell’Arram, ma
vuole rimanere ancora un po’ con Adham. Durante il viaggio di ritorno
Ferdinando ha provato qualche volta a parlare con l’amico dello schiavo nero
di cui si è innamorato, ma Denis ha scelto di rinviare la discussione
sull’argomento. Vuole prima affrontare il tema con Adham e preferisce lasciare
al nero il tempo di capire che cosa desidera fare. Ferdinando
è sui carboni ardenti: vorrebbe portarsi via Adham e sapere che il bel
guerriero nero è suo, solamente suo. L’arrivo
a Rougegarde presenza un unico vantaggio: Adham è autorizzato a dormire nella
stanza di Ferdinando e finalmente i due possono scopare liberamente. Durante
il viaggio gli spazi a disposizione erano limitati e il tempo sempre poco,
soprattutto per due uomini dotati di buon appetito. Ferdinando
e Adham si danno da fare, con grande soddisfazione reciproca, ma quando il
conte accenna al futuro, non ottiene nessuna risposta dal nero. Solomon
si presenta da Amos due giorni dopo l’arrivo di Denis a Rougegarde. -
Oggi è giorno di udienza dal duca. Andiamo a parlargli. Amos
non si aspettava la visita di Chlomo e l’idea di avere a che fare con il duca
lo mette a disagio. In quanto rabbino a San Giacomo d’Afrin ha avuto modo di
incontrare qualche volta Renaud e l’esperienza è sempre stata molto
spiacevole. Sa che il duca è del tutto diverso, ma farebbe volentieri a meno
di questo incontro. -
Ma… sei sicuro, Chlomo? È arrivato da appena due giorni. -
Appunto. Sono già passati due giorni e non possiamo aspettare oltre. Di certo
è stato informato di quanto è successo a San Giacomo d’Afrin e si aspetta una
nostra visita. Se non ci presentassimo, potrebbe considerarlo una mancanza di
rispetto. È il signore della città in cui ci siamo stabiliti. A
malincuore Amos si rassegna. Si dirigono al palazzo ducale, dove chiedono di
poter parlare con il duca. Quando
ottengono udienza, è Solomon a prendere la parola. Solomon parla
perfettamente la lingua dei franchi e Amos è ben contento che sia lui a
spiegare la situazione. -
Buongiorno duca. Il mio nome è Chlomo, ma tutti mi chiamano Solomon. Sono un ebreo
di San Giacomo d’Afrin e mio fratello – Solomon indica Amos con un gesto
della mano - è Amos, il rabbino della comunità. Come voi sapete, siamo stati
scacciati da San Giacomo. Posso garantirvi che non avevamo nessuna colpa:
altri ci hanno attaccati. Molti di noi sono stati uccisi. Il
duca non commenta le parole di Solomon. Si limita a dire: - Ho
avuto notizia di quanto è avvenuto a San Giacomo d’Afrin. -
Duca, noi ci siamo stabiliti a Rougegarde: siamo gente operosa e tranquilla e
vi chiediamo di accordarci la vostra protezione. Saremo sudditi fedeli. -
Tutte le fedi sono ben accette a Rougegarde. Non perseguito nessuno per la
religione che pratica e se osserverete le leggi della città e del regno, vi
proteggerò da qualsiasi nemico. Chlomo
chiede per artigiani e mercanti l’autorizzazione a continuare le loro
attività nel territorio del duca e l’ottiene senza difficoltà: Denis ha
sempre preferito assicurare una notevole libertà a coloro che svolgono
qualche attività economica. Questo ha favorito un ulteriore sviluppo della
città, che è uno dei maggiori centri commerciali della regione, in grado di
competere con Damasco e Aleppo e con la stessa Bagdad. Amos
ha lasciato che fosse Chlomo a condurre la conversazione, ma sa che rimanere
in silenzio potrebbe apparire poco cortese. Perciò quando il fratello fa una
pausa, risponde: - Vi
ringraziamo per la vostra generosa accoglienza, duca, e pregheremo Iddio che
vi conceda lunga vita. -
Grazie a voi per le vostre preghiere. Dopo
un breve scambio di saluti, Solomon e Amos lasciano la sala. Denis rimane un
momento pensieroso. I due sono fratelli, ma sono del tutto diversi, sia
fisicamente, sia, si direbbe, come carattere. Solomon è un gran bell’uomo,
alto e forte, sicuro di sé, capelli di un castano scuro e occhi chiari. Amos
è più basso e magro, con i capelli e gli occhi scuri, e sembrava essere in
soggezione. Per certi versi Amos è il tipico rabbino dedito agli studi,
mentre Solomon sembra più un guerriero. Ma se Solomon ha detto che sono
fratelli, dev’essere così. Anche se non si può mai sapere. Il
pensiero di Denis va a Pierre, che per lui è suo figlio e che ama
profondamente, anche se non è stato lui a generarlo. Pierre è in Francia,
ora, in quella contea di Bellerivière che un giorno erediterà, perché l’unico
figlio dell’attuale conte è morto. Denis sente molto la mancanza di Pierre e
anche quella di Maria, che non ama, ma che si è rivelata una compagna
preziosa. Ma dopo la morte di Amalrico Maria non reggeva più a vivere in
Palestina. Denis ha deciso di mandare Pierre a Bellerivière, conscio che non
c’è futuro per lui in Terrasanta. Il Regno di Gerusalemme non è abbastanza
forte e ora che la Siria e l’Egitto stanno per essere riuniti nelle mani di
un unico sovrano rischia di essere annientato. Soprattutto Rougegarde, molto
più esposta delle altre città, non potrà reggere a lungo. Maria
è stata felice di partire con Pierre, lasciando una terra che in lei
risveglia ricordi dolorosi. E Denis è contento che accanto a Pierre ci sia la
madre, che è in grado di guidarlo e proteggerlo. Ma gli spiace non vederlo
crescere, non averlo al proprio fianco. Il
giorno seguente Denis convoca Adham, che per il momento rimane a palazzo con
i soldati: Denis lo ha affidato ad alcuni dei suoi uomini, che hanno il
doppio compito di insegnargli la lingua dei franchi e di fare un po’ di
esercizio in arabo. Il
nero si presenta. -
Allora, Adham, come va lo studio? Adham
risponde nella lingua dei franchi: -
Bene, grazie, sì. Tutto bene. Poi
scoppia a ridere e dice, in arabo: -
Non so perché parlate una lingua così difficile. Denis
sorride. Il dialogo prosegue in arabo: - Ci
vorrà un po’ di tempo, ma la imparerai. -
Spero. - Tu
mi hai detto di avere ancora i tuoi genitori. Vuoi fare avere loro tue
notizie? -
Molto volentieri, ma come sarebbe possibile? - Ci
sono mercanti che viaggiano e possono portare messaggi. Anche se siamo in
guerra, i traffici non si interrompono. Non del tutto. -
Grazie. Posso scrivere una lettera? -
Certo. La faremo arrivare. Poi Denis
affronta l’argomento più importante: -
Adham, è ora che parliamo del tuo futuro. Come ti ho detto, io non tengo
schiavi. Potrei impiegarti nella guardia della città, dove ci sono uomini di
diverse fedi. Adham
resta un momento in silenzio, poi dice: - Tu
sei il mio padrone e puoi fare di me ciò che desideri. -
Che cosa vorresti fare tu, Adham? Adham
rimane pensieroso, poi scuote la testa. Denis chiede: -
Vorresti andare con il conte Ferdinando? Adham
guarda Denis negli occhi. - Tu
sei il mio padrone. Decidi tu. - Ti
ho chiesto se vorresti andare con lui. Poi deciderò. Adham
tace. Poi dice: -
Non tocca a me scegliere. A
Denis è chiaro che Adham ha dei dubbi e preferisce non scegliere. In questo
caso è meglio che per il momento Adham rimanga a Rougegarde: la separazione
da Ferdinando aiuterà tutti e due a chiarirsi le idee e non forzerà Adham a
mantenere una relazione che non è sicuro di volere. - Va
bene, per il momento rimarrai qui a palazzo e imparerai la lingua.
Incomincerai a partecipare alle ronde per la città. Poi vedremo. Adesso
scrivi la lettera per la tua famiglia. Più
tardi Denis e Ferdinando mangiano insieme. Subito dopo pranzo, Ferdinando
ritorna alla carica: -
Per me è ora di partire. Allora, mi cedi Adham? O lo liberi? -
Per il momento no, Ferdinando. Adham rimane qui. Voglio che abbia il tempo e
la possibilità di scegliere liberamente. Ferdinando
non nasconde la sua delusione. -
Può partire con me e rimanere di tua proprietà. Ti garantisco che se vorrà
tornare qui, non cercherò di impedirglielo. -
No, Ferdinando. Adham ha bisogno di un po’ di tempo per capire. E credo che
questa separazione faccia bene anche a te: ti aiuterà... Ferdinando
non lo lascia finire: -
Porcoddio, Denis! Non mi dire che cosa mi fa bene o meno. Lo so da me. Merda!
Torno al castello. Ferdinando
esce senza dire altro. Denis
è rimasto stupito dallo scatto di rabbia: è la prima volta che l’amico gli
risponde in modo aggressivo. Forse è un segno che il legame con Adham è
davvero forte. In questo caso, spera che lo sia anche per il nero. Ripensando
a quanto è successo, Denis si rende conto di aver sbagliato: non avrebbe
dovuto dire a Ferdinando che la separazione gli avrebbe fatto bene. Ferdinando
comunica ai suoi uomini che partiranno entro un’ora. I servitori preparano il
bagaglio, mentre il conte cammina inquieto avanti e indietro nella sua
stanza. È irritato con Denis che gli nega Adham, con Adham che non ha parlato
chiaramente con Denis, con se stesso per essersi lasciato trascinare dall’ira
con l’amico e soprattutto per essersi innamorato, perché di questo è
perfettamente conscio. Ferdinando
non prende congedo né da Denis, a cui comunque ha già detto che partiva, né
da Adham, che di giorno rimane con i soldati, se Ferdinando non lo chiama. Ma
quando lascia Rougegarde, gli sembra di avere un peso che lo schiaccia. * Ramzi
ibn Qais osserva il giovane Fahd, inginocchiato davanti a lui. Il ragazzo è
bello e al conte Ferdinando certamente piacerà. D’altronde piacere al conte è
facile: non è di gusti difficili. -
Fahd, il Signore ti ha scelto per una missione. Fahd
annuisce. Spera che il compito che gli verrà affidato sia importante e conta
di riuscire a svolgerlo nel migliore dei modi. Da tempo aspetta questo
momento. Non sa se tornerà vivo dall’impresa che deve compiere: lo vorrebbe,
perché non aspira al martirio, ma se invece il Signore lo chiamerà a sé,
accetterà la morte. - Io
sono pronto. - Il
tuo obiettivo è il conte Ferdinando dell’Arram. Fahd
annuisce. Ha sentito parlare di quest’uomo, signore di un piccolo territorio non
lontano da Qasr al-Hashim. Dicono che sia alto e forte e che sia un
peccatore, sfrenato nella ricerca del piacere. Spegnere la sua vita sarà un
atto di giustizia. -
Spero che il Signore mi assista e mi permetta di portare a termine il compito
che mi affidi. - Lo
spero anch’io. Ora ti spiegherò come fare. * Nella
casa del mercante Giovanni, Solomon ha fatto rapidamente amicizia con i
bambini, che si intrattengono volentieri con lui: sono curiosi di conoscere
meglio quest’uomo che sembra conoscere tutte le lingue ed è sempre
disponibile a parlare con loro. Con gli adulti invece c’è stato solo qualche
scambio di saluti. Solomon ha occasione di conversare soltanto con Giovanni e
il nipote, ma adesso Riccardo è partito in viaggio e starà via a lungo: deve
recarsi a Damasco e ad Aleppo. La
prima a rivolgersi a Solomon è Sarah, l’altra ebrea che abita nella casa. Lo
fa una sera sulla terrazza, spazio comune per tutti gli abitanti. Non fa
ancora caldo e all’aperto è preferibile indossare vestiti pesanti, ma la
giornata è limpida e il cielo si sta coprendo di stelle. Accanto
a Sarah sono il marito, Pierre, e i tre figli: - Mi
hanno detto che venite da San Giacomo d’Afrin. So che alcuni ebrei sono stati
massacrati e i sopravvissuti scacciati. - È
vero. Siamo stati attaccati nella notte. Fortunatamente molti sono riusciti a
salvarsi, ma tre famiglie sono state sterminate. Sarah
annuisce, poi sorride. - Io
non sono di Rougegarde, ma alla sinagoga ho conosciuto diverse donne, con cui
ho fatto amicizia. Adesso vengono anche le famiglie scampate da San Giacomo.
Una donna mi diceva che i morti sono stati pochi perché un uomo ha
organizzato un gruppo di giovani e tra tutti sono riusciti a mettere in salvo
la maggioranza degli ebrei. C’è
un sorriso ironico sulle labbra di Sarah, che evidentemente sa benissimo che
l’uomo di cui parla le sta davanti in questo momento. Solomon
sorride anche lui e dice: -
Dobbiamo imparare a difenderci. -
Sì, sono d’accordo. Volevo solo dirvi che vi ammiro per quello che avete
fatto. Miriam,
la figlia maggiore di Sarah, chiama la madre. Sarah saluta e si allontana.
Pierre ha sentito la conversazione e chiede: -
Non ne sapevo niente. Così vi siete organizzati per difendervi. -
Sì, con i giovani abbiamo formato un gruppo che è intervenuto direttamente là
dove qualche famiglia veniva attaccata; i ragazzi invece erano distribuiti in
modo da guidare i fuggiaschi verso i magazzini: sapevamo che non sarebbero
stati incendiati, perché anche i mercanti cristiani vi tengono le loro merci. - E
siete stato voi a organizzare tutto questo? Solomon
annuisce. -
Bisognava fare qualche cosa, se non volevamo finire tutti assassinati. Il
giorno dopo Pierre si reca a palazzo per parlare con il duca. -
Volevo informarvi di una cosa, che ho scoperto ieri. Nella casa del mercante
Giovanni ha preso alloggio uno degli ebrei scampati al massacro di San
Giacomo d’Afrin, un certo Solomon. -
Sì, è stato qui con il fratello, il rabbino della comunità, quando sono
tornato in città. C’è qualche problema? -
No, nessuno, è uno che si fa gli affari propri e devo dire che ha fatto
un’ottima impressione a tutti. Ma c’è una cosa che forse non sapete. Sarah ha
scoperto che a San Giacomo d’Afrin questo Solomon aveva organizzato un gruppo
di giovani, in previsione dell’attacco che si è poi verificato. Sotto la sua
guida sono riusciti a salvare molte famiglie. Denis
annuisce, immerso nei suoi pensieri. Pierre conclude: - Ho
pensato che fosse opportuno informarvi. -
Hai fatto bene, Pierre. Questo Solomon
mi ha colpito molto. Tienilo d’occhio, con discrezione, naturalmente. E
avvisa Morqos di fare lo stesso. Non credo che ci sia nulla da temere, ma
forse qualcosa da scoprire sì. E magari… vedrò. Ora
Denis è curioso. Forse è il caso di raccogliere qualche informazione in più
su quest’uomo che lo ha colpito. Ha alcuni informatori tra gli ebrei della
città. Farà chiacchierare un po’ il fratello. Pierre
decide di mandare avanti Morqos: tutti sanno che Pierre è al servizio del
duca, anche se ignorano che è uno dei suoi uomini di fiducia, a cui affida i
compiti più importanti e soprattutto quelli che devono rimanere segreti.
Nessuno invece, a parte Pierre, sa che anche Morqos lavora per il duca: chi
lo conosce crede che sia uno sfaccendato, che vive di rendita grazie ai beni
di famiglia. Morqos
è contento del compito che gli viene affidato: Solomon gli ispira simpatia.
L’ebreo però è riservato e Morqos non vuole apparire invadente, per cui
aspetta un’occasione favorevole. Una
sera, sulla terrazza in cima alla casa, Morqos gioca con i due figli. Dina,
che è la più piccola e ha tre anni, quando è in compagnia del padre o della
madre è curiosa e sfacciata, mentre quando i genitori non ci sono, diventa
timida e insicura. Si avvicina a Solomon e gli chiede come mai sa parlare
tante lingue. Solomon sorride, mentre si inginocchia per risponderle, e le
dice: -
Sono vecchio, ho viaggiato molto e ho incontrato tante persone. Per parlare
con loro ho dovuto imparare tante lingue. Dina
ride. -
Non sei vecchio come Emich! Quanti anni hai? - Ho
trentatré anni. - Perché
dici che sei vecchio? Papà è più vecchio. Morqos
si è avvicinato. Osserva, ridendo: - Ma
che figlia gentile che ho! Va in giro a dire che sono vecchio. Dina
alza gli occhi su di lui. -
Solomon dice che è vecchio. Allora sei vecchio anche tu. Di più. Solomon
guarda Morqos e gli sorride: -
Colpa mia. Morqos
prende Dina tra le braccia e la solleva. Anche Solomon si alza. -
Spero che questa piccola impertinente non ti dia fastidio. Morqos
sceglie di dare immediatamente del tu, come è abbastanza comune tra uomini
della stessa generazione. -
No, figurati. Mi piacciono molto i bambini. Poi
Solomon si rivolge a Dina: - E
comunque tu non sei impertinente, sei una bambina saggia. Dina
si mette il pollice in bocca, poi dice: -
Che cosa vuole dire impertinente? È
Morqos a rispondere: - È
una che va in giro a dire che il proprio padre è vecchio. Parlano
un momento, scherzando, finché arriva Mariette, la compagna di Morqos, che
prende i due figli. La piccola protesta, ma è ora di andare a dormire. Morqos
rimane di fianco a Solomon. Non gli spiace avere il compito di conoscere
meglio quest’uomo forte e gentile. Morqos lavora da anni per il duca, come
informatore, ed è abituato a valutare le persone. Di rado si sbaglia. In
Solomon ha colto, celate dietro una riservatezza naturale, una ricchezza
interiore e una grande forza. Non è un uomo qualunque, questo, e ciò che
Sarah ha saputo è solo un frammento di una realtà complessa. -
Come ti trovi a Rougegarde? -
Bene. Ma conoscevo già la città, ci ero venuto parecchie volte. Non l’ho
scelta a caso. -
Siete venuti quasi tutti qui. -
Sì, solo due famiglie hanno preferito stabilirsi in territorio saraceno. - In
generale tra gli arabi gli ebrei corrono meno rischi. -
Sì, questo è vero. Ma a Rougegarde la situazione è molto diversa, grazie al
duca. Rimangono
un momento in silenzio, poi Solomon osserva: -
Non credo che neppure qui a Rougegarde ci sia un’altra casa con abitanti di
tante religioni e che parlano tante lingue. - Ma
tu le parli tutte. Solomon
scuote la testa. - No,
il lombardo di Giovanni e suo nipote lo capisco, ma lo parlo poco. - Io
non lo capisco proprio. Eppure sto in questa casa da dieci anni, da quando
Riccardo era ancora un ragazzo… Ma credo che abbia più o meno la tua età. -
Sì, tre anni in meno. Ho avuto a che fare con lui e soprattutto con lo zio
più volte, nei miei viaggi d’affari. Solomon
non dice nulla dell’attrazione che Riccardo prova per lui. Sospetta che
Riccardo sia attratto anche da Morqos, che è un bell’uomo, ma gli sembrerebbe
scorretto fare riferimento ai rapporti che ha avuto. Rimangono
un momento silenziosi. A Solomon pare di leggere in Morqos qualche cosa che
va oltre il desiderio di conoscerlo meglio, qualche cosa di cui forse Morqos
stesso non si rende ben conto. Morqos gli piace molto: è uno spirito libero,
che si assume le sue responsabilità, ma non è schiavo di convenzioni e norme
imposte da altri. Mentre
la luce scompare, parlano un momento della casa e dei suoi abitanti. Morqos
racconta di sé e del fratello, Istfan. Degli
altri si limita a dire da dove vengono. - E
poi c’è la silenziosa Mara, di cui non sappiamo nulla. -
Credo che venga dal nord della Siria, a giudicare da come parla. -
Sei riuscito a parlare con lei? Parla volentieri con le donne, soprattutto
con Sarah, che conosce perfettamente l’arabo, e un po’ con Mariette e
Louison, che se la cavano con la lingua. Ma con noi uomini difficilmente
scambia due parole. Solomon
sorride. -
Anche con me parla poco. Ma qualche volta gioco con il bambino: mi piace
moltissimo e ho l’impressione di piacergli. E allora due parole lei è
costretta a dirle. -
Direi che piaci a tutti i bambini. Ma hai un modo di trattarli che li
conquista. Chiacchierano
ancora. Solomon chiede di Emich: - So
che qui vive Emich di Freiburg, ma lo vedo poco. Non sale sulla terrazza? - Di
rado. La sera preferisce andare a spasso per le strade. Gli piace vedere
altra gente, ha stretto amicizia con tanti in città. Noi che viviamo qui
andiamo a trovarlo in camera sua: gli vogliamo tutti molto bene. Lo abbiamo
adottato e lui ha adottato noi. - Ho
sentito parlare molto di lui. Un uomo eccezionale. -
Sì, davvero. Ma tu non hai avuto modo di parlargli? -
Abbiamo solo scambiato i saluti, ma conto di riuscire a conoscerlo meglio,
prima o poi. Abbiamo amici comuni, anche se lui non lo sa. -
Amici comuni? -
Gente che lui ha conosciuto in passato, con cui io sono in contatto. - Tu
devi conoscere tantissima gente. -
Sì, viaggio molto. Per il mio lavoro, ma anche perché mi interessa. Morqos
fa per formulare una domanda, poi ci ripensa e tace. Ma Solomon ha capito. -
Che cosa volevi dire? Di’ pure. Morqos
ride. -
Era una domanda, ma mi è sembrata di essere indiscreto. Solomon
sorride: -
Chiedi pure. - Tu
viaggi molto. Ma perché un orafo deve viaggiare molto? - È
una domanda sensata: tanti orafi non viaggiano e vivono benissimo. Io viaggio
perché mi piace: mi piace conoscere nuova gente, nuovi posti, nuove usanze. E
vendo alcuni gioielli in posti lontani, dove sono più apprezzati. Ho alcuni
clienti molto esigenti, che rifornisco regolarmente. - Ad
esempio? Morqos
ride e aggiunge: -
Sì, va bene, l’hai capito. Sono un impiccione. Anche
Solomon ride. - Lo
era lo sceicco Labeeb, che è stato ucciso dagli ismailiti: ho realizzato
molti gioielli per le sue mogli. Lo è il giovane emiro di Jabal al-Jadid, che
abitò in questa casa. Morqos
guarda Solomon, sconcertato. -
Come lo sai? - Me
lo raccontò lui stesso. I gioielli sono una merce preziosa e il loro acquisto
spesso non viene delegato: quando si tratta di sborsare molto denaro, emiri e
sceicchi, signori franchi e ricchi borghesi vogliono vedere personalmente ciò
che acquistano e scegliere. E quando hanno acquistato da te due o tre volte,
è più facile che scambino due chiacchiere. - Ma
come hai fatto a procurarti una simile clientela? -
Alcuni miei gioielli sono stati apprezzati e in diversi casi sono stato
chiamato da signori che avevano visto ciò che avevo prodotto per altri. - Io
penso che tu sia molto bravo… e tu pensi che io sia un gran ficcanaso. Solomon
scuote la testa. -
No, per il momento no. Non mi hai chiesto neppure con chi vado a letto. Morqos
sorride. Ormai è buio, sulla terrazza. Solo una falce di luna getta una luce
discreta. -
Per quello c’è tempo. È solo la prima volta che ci parliamo davvero. Posso
aspettare la seconda. -
Come preferisci. Ora
Morqos è conscio del proprio desiderio. E nelle parole di Solomon gli sembra
di aver letto un invito. -
Oppure posso cercare di scoprirlo in altro modo. - E
come? Morqos
è sicuro di vedere un sorriso ironico sul viso di Solomon. Morqos
si mette di fronte a Solomon, gli prende il viso tra le mani e le loro bocche
si uniscono. Quando si separano, Morqos dice: -
Così, ad esempio. Morqos
bacia di nuovo Solomon e questa volta la sua lingua si spinge nella bocca
dell’ebreo, che la accoglie. Quando
si staccano, Solomon dice: -
Hai avuto una risposta alla tua domanda? - La
domanda non l’avevo formulata. Comunque non ho ancora avuto una risposta
completa. Ma conto di averla presto. Solomon
annuisce. - Te
la posso dare quando vuoi. Morqos
esita. Il desiderio gli stringe i coglioni in una morsa, gli tende il cazzo.
Non l’aveva previsto, ma gli cede senza resistere: -
Anche ora, da te? -
Anche ora, da me. Da
qualche giorno Ferdinando è tornato nella valle dell’Arram. È di pessimo
umore, cosa insolita per lui. I suoi uomini si stupiscono di vederlo nervoso,
con scatti d’ira spesso provocati da cose molto futili. I massaggi di Ghassan
non sono sufficienti né a rilassarlo, né a soddisfare il desiderio che il
pensiero di Adham riaccende, ma, altra cosa del tutto insolita per lui, anche
scopare con i suoi uomini non gli dà grande soddisfazione. Sente
moltissimo la mancanza di Adham: la separazione gli dà una chiara idea della
profondità dei suoi sentimenti e con suo stupore si ritrova a farsi le seghe
come un ragazzino, pensando al bel nero. Anche quando fotte qualche soldato,
immagina che sia Adham. A
tratti ha la tentazione di tornare a Rougegarde e affrontare Adham, ma poi
decide che non vuole prendere nessuna iniziativa: lui ha le idee chiare su
quello che vuole, è Adham che deve svegliarsi. Va
quasi tutti i giorni a caccia, per distrarsi un po’. Parte molto presto e
quando i cani stanano un cinghiale, lo insegue a lungo. Non vuole che siano i
suoi servitori a fiaccare l’animale: preferisce affrontarlo direttamente,
ancora nel pieno delle sue forze. Oggi
ha lasciato i servitori al castello. Il cinghiale corre nel bosco e il suo
rapido movimento rende difficile a Ferdinando mirare e riuscire a colpirlo.
Infine però l’animale attraversa una radura e Ferdinando scaglia la lancia,
che trafigge la preda, facendola cadere. La bestia è ancora in grado di
risollevarsi. Quando Ferdinando lo raggiunge, il cinghiale è sulla difensiva,
ma pronto a caricare. Ferdinando salta dal cavallo, piombando sul dorso
dell’animale, che cerca di scrollarselo di dosso. Ferdinando ha il coltello
in mano e colpisce il cinghiale più volte. Questi grugnisce e infine crolla
al suolo. Ferdinando lo finisce, recidendogli la gola. Ferdinando
si alza. È coperto di sangue e di sudore e il respiro è affannoso, ma è
soddisfatto della caccia. Sa benissimo che i suoi uomini lo giudicano
imprudente, a esporsi così, ma non gli importa. La caccia gli trasmette
sensazioni fortissime, quasi quanto scopare. E non a caso adesso Ferdinando
ha il cazzo duro. Ferdinando
si guarda intorno, ma non c’è nessuno: quest’area boscosa è poco popolata. Ferdinando
pensa di raggiungere un torrente, spogliarsi e lavarsi. Poi però dovrebbe
mettersi nuovamente addosso gli abiti lordi di sangue. Decide di tornare al
castello: si laverà là e manderà qualche servitore a prendere il cinghiale
per portarlo nelle cucine. Quando
Ferdinando esce dal bosco incrocia un giovane, fermo sulla strada che porta
al castello. Il
ragazzo avrà vent’anni ed è bello come un angelo: i capelli neri e ricci
formano un’aureola intorno a un viso dai tratti regolari; gli occhi sono
grandi e chiari e il naso diritto; la carnagione scura e le labbra carnose
fanno risaltare il bianco splendente del suo sorriso. Anche il corpo appare
armonioso. Ferdinando
ferma il cavallo e sorride. Il giovane chiede: - La
caccia è andata bene? Ferdinando
risponde, in un arabo scorrevole e comprensibile, anche se non sempre
corretto: -
Sì. Ho ucciso un cinghiale. -
Sei sporco di sangue, signore. Vuoi lavarti? C’è un torrente qui vicino. - Mi
aiuti tu? Perché
se questo giovane angelo lo aiuta, Ferdinando è ben contento di lavarsi una
mezza dozzina di volte: anche se preferirebbe che ad aiutarlo fosse il bel
nero rimasto a Rougegarde, adesso questo ragazzo va benissimo. Nella vita
bisogna sapersi accontentare. -
Certo signore. -
Come ti chiami? -
Fahd. -
Grazie, Fahd. Ferdinando
si dice che con l’aiuto di Fahd sarà un piacere lavarsi e pazienza se poi
dovrà rivestirsi con i panni sporchi. Prima di rimetterseli addosso, conta di
fare qualche cosa di molto piacevole. Ferdinando
scende da cavallo e segue il ragazzo che fa strada, spogliandolo con gli
occhi. Fahd ha un culo incredibile: i fianchi sono stretti e Ferdinando li
immagina sodi e delicati al punto giusto. Il cazzo gli è tornato duro. Il
torrente non ha molta acqua, appena un palmo, ma è sufficiente per lavarsi e
poi non è la pulizia quella che interessa al conte in questo momento.
Ferdinando incomincia a spogliarsi. - E
tu? Togliti i vestiti. Se no, ti sporcherai. Fahd
sorride e per un momento Ferdinando pensa che non abbia capito bene il suo
arabo zoppicante. Fahd si avvicina e aiuta Ferdinando a spogliarsi. Infine
Ferdinando si cala le brache, rivelando la sua formidabile erezione. Fa per
avvicinarsi al ragazzo, ma Fahd gli dice: -
Lavati, prima. Ferdinando
ha altre priorità, ma non c’è motivo per non accontentare il ragazzo. Entra
in acqua, si siede sul fondo sassoso e incomincia a lavarsi. È il riflesso
del sole sul coltello a farlo voltare: un lampo di luce che per un attimo
brilla nell’acqua. Ferdinando si gira per capire l'origine di quel bagliore
improvviso e vede che Fahd sta calando il pugnale su di lui. Ferdinando
è agile e salta di lato. Il pugnale lo sfiora senza ferirlo. Ferdinando
afferra il polso di Fahd, bloccandolo. Il divario di forze tra il conte e il
ragazzo è troppo forte: Fahd non può certo liberare la mano. Ferdinando
colpisce Fahd due volte al ventre con la mano libera. Il ragazzo geme e si
piega in due. Ferdinando gli strappa il pugnale e lo fa cadere in acqua.
Grida, senza più preoccuparsi di trovare le parole arabe: -
Stronzo! Figlio di puttana! E
poi aggiunge, questa volta in arabo: -
Bastardo! Fahd
cerca di alzarsi, ma Ferdinando lo spinge di nuovo nel torrente. Fahd rotola
e i pantaloni bagnati gli si abbassano un po’. Ferdinando guarda il culo che
si intravvede. - Porcoddio,
ti do quello che ti meriti. Ferdinando
balza addosso al ragazzo, schiacciandolo con il suo peso. Per un momento Fahd
si ritrova la testa sott'acqua, ma riesce a sollevarla e a tenerla fuori,
Ferdinando gli cala del tutto i pantaloni, scoprendo il culo. È bello come se
l’era immaginato. -
Adesso ti faccio gustare il mio cazzo. Le
sue mani stringono il culo, con forza. Poi Ferdinando infila un dito nel
buco, con un movimento brusco, che strappa a Fahd un gemito. -
Hai un bel culo, assassino dei miei coglioni. E ti garantisco che me lo
gusto, porcoddio! Il
ragazzo non può capire ciò che Ferdinando gli grida, ma ha intuito le
intenzioni del conte. Si agita e cerca di liberarsi, ma il peso di Ferdinando
lo schiaccia e le sue mani lo bloccano. Ferdinando
è rabbioso e non si preoccupa di entrare con cautela. Avvicina la cappella al
culo e spinge a fondo. Il cazzo forza l'apertura. Il ragazzo ha un guizzo
disperato e grida, un urlo di puro dolore: gli sembra che gli abbiano
infilato un coltello nelle viscere. Ferdinando non bada al grido: Fahd ha
cercato di ucciderlo a tradimento e adesso ha quello che si merita.
Ferdinando spinge fino in fondo, mentre Fahd urla di nuovo. Poi il conte
incomincia la sua cavalcata, con spinte decise, seguite da un ritrarsi quasi
completo. Il ragazzo geme e lo maledice. Ferdinando lo ignora: spinge con
forza e non gli spiace far male a questo fottuto bastardo che ha cercato di
ammazzarlo senza che lui gli avesse fatto niente. È calda, la carne, e
stretta, tanto che Ferdinando deve spingere con forza per costringerla ad
accogliere il suo grosso sperone. Di certo il ragazzo non è abituato a essere
cavalcato e adesso ha modo di fare l'esperienza. Ferdinando bestemmia e
insulta, mentre la tensione sale dai suoi coglioni e infine esplode:
Ferdinando viene, riempiendo il culo del ragazzo del suo seme. Poi si
affloscia su di lui. Lentamente,
mentre il respiro ritorna più regolare, Ferdinando riprende il controllo
della situazione. Fahd è disteso in acqua, Ferdinando ha le gambe a bagno. Fahd
piange e tra le lacrime grida: -
Maledetto! Ferdinando
prende il pugnale e lo preme contro il collo di Fahd. -
Perché volevi uccidermi, stronzo? -
Morirai, cane infedele, morirai! Ferdinando
si dice che è meglio portare Fahd al palazzo: lo farà interrogare. Si
solleva e in quel momento il colpo lo prende alla tempia, stordendolo: Fahd
ha preso un sasso sul fondo del torrente e quando Ferdinando si è mosso per
alzarsi, si è girato un po', colpendolo con forza. Prima
che Fahd riesca a colpirlo una seconda volta, Ferdinando gli immerge il
pugnale nella gola. Si sente solo un gorgoglio. La testa di Fahd ricade
inerte, rimanendo sotto l'acqua che rapidamente si arrossa per il sangue. Ferdinando
si porta una mano alla tempia e la ritira coperta di sangue. Lava la ferita,
poi si alza. Anche il cazzo è coperto di sangue, ma è quello del ragazzo.
Ferdinando guarda il cadavere di Fahd. Si dice che è stato un coglione a
ucciderlo. Avrebbe dovuto legarlo e portarlo al palazzo, per interrogarlo. Ferdinando
raccoglie il corpo, lo carica sul cavallo e raggiunge la sua abitazione. Dà
ordine a una delle guardie e al suo segretario di indagare sul ragazzo: chi
è, da dove viene, quali motivi potesse avere per odiare lui o i cristiani in
generale. Le
indagini che si svolgono nei due giorni successivi non portano a nulla:
nessuno sembra conoscere Fahd, nessun ragazzo è scomparso dai villaggi della
valle dell’Arram. Nessuno aveva mai visto prima il giovane forestiero. Ferdinando
è perplesso. Decide di partire per Rougegarde: l’unico che forse può aiutarlo
a chiarire il mistero è Denis. Ferdinando
ha finito di raccontare. Denis ha ascoltato con la massima attenzione, senza
fare commenti. Si è limitato a porre qualche domanda. -
Che cosa ne dici, Denis? Hai un’idea dei motivi per cui voleva uccidermi? -
Non posso esserne sicuro, ma potrebbe avere a che fare con gli ismailiti che
hanno occupato il castello di Jibrin, Qasr al-Hashim, come lo chiamano gli
arabi. -
Gli ismailiti? - Sì,
una delle tante sette in cui sono divisi i maomettani. Ferdinando
non dice nulla: sulle divisioni religiose del mondo musulmano non sa nulla e
ha sempre preferito evitare di occuparsene. Denis prosegue: -
Questi ismailiti del castello sono legati ad altri che vivono in Persia e più
a nord in Siria. Fanno spesso ricorso all’omicidio di coloro che considerano
nemici della fede. I saraceni li disprezzano e li chiamano Hashishiyya, non
mi chiedere da dove viene questo nome. -
Non perseguito i musulmani, lo sai benissimo, Denis. -
No, ma questo non significa nulla. Il comandante della fortezza potrebbe aver
mandato questo Fahd anche solo per metterlo alla prova, per vedere se era in
grado di svolgere il compito affidatogli. -
Credi che sia questa la spiegazione? -
Potrebbe. Potrebbe anche non esserlo, ma per saperlo dovremmo interrogare
Fahd e temo che non sia più possibile, a meno di non rivolgersi a qualche
negromante. Denis
sorride. Ferdinando annuisce. -
Già, non avrei dovuto ucciderlo. Ho agito d’impulso, ma stava di nuovo
cercando di ammazzarmi. Mi sono reso conto solo dopo di aver fatto una
cazzata. Ferdinando
rimane un momento pensieroso. Poi aggiunge: -
Come fai a sapere queste cose, Denis? Degli ismailiti, intendo. - Ho
i miei informatori. Un signore deve sapere quello che accade, per difendere
il suo territorio. -
Mandi delle spie? -
Talvolta. Altre ne inviano i templari e il re. Raccogliamo notizie e ce le
scambiamo, per capire ciò che succede, prevenire ciò che non è ancora
successo e rimediare per tempo a ciò che non abbiamo potuto prevenire. Ferdinando
annuisce. -
Credi che ci proveranno ancora? - È
possibile. Fino ad ora questi ismailiti hanno colpito soprattutto altri
maomettani. Penso però che questi siano gli ismailiti del castello di Jibrin.
Hanno già cercato di uccidere l’emiro di Jabal al-Jadid. Può darsi che adesso
abbiano deciso di colpire i signori franchi e allora tu, io e Renaud siamo i
bersagli ideali: tutti vicini ai domini saraceni. A meno che… ci sono anche
altre possibilità, posto sempre che si tratti di loro. -
Porcoddio! Adesso dovrei pure guardarmi da questi? Denis
sorride, mentre dice: -
Non viviamo in una terra pacifica. Ci siamo imposti con la forza e solo con
la forza possiamo mantenere il nostro dominio, contro avversari pronti a fare
altrettanto. Se vuoi vivere in pace, faresti meglio a tornare a casa. Puoi
vendere i tuoi beni qui e ritornare in Sicilia. Non ci hai mai pensato? Ferdinando
lo guarda, un po’ perplesso. -
Dici sul serio? -
Sì, Ferdinando. È una scelta che al tuo posto prenderei in considerazione. - Tu
pensi di farlo? Denis
scuote la testa. -
No. Ho conquistato Rougegarde e finché sarà in mio potere, cercherò di
governarla nel miglior modo possibile. Governare una città è una grande responsabilità.
Non intendo sottrarmi. Finché potrò impedirlo, non finirà nelle mani di un
Renaud, pronto a perseguitare ebrei e maomettani, o di qualche saraceno
magari altrettanto intollerante nei confronti dei cristiani. - E
allora perché mi dici che dovrei tornare in Sicilia? -
Non ti dico che dovresti farlo. Ti dico solo che se vuoi vivere in pace,
quella è la scelta migliore. Ferdinando
sorride. -
Credo che tu abbia ragione, ma non penso che lascerò questa terra. Sono
arrivato qui che ero un pezzente e ora sono conte, signore di un territorio
fertile. E poi ti dirò Denis, mi piace la vita che conduco qui. Non mi
interessa vivere in pace. Mi piace combattere. So che potrei essere ucciso,
ma accetto il rischio. Morire in battaglia non è una brutta morte. Denis
non appare molto convinto. -
Può darsi, ma spero che tu non abbia mai occasione di scoprirlo. In ogni
caso, nei prossimi mesi fa’ attenzione ed evita di muoverti da solo. - Va
bene, Denis. C’è
un momento di silenzio, poi Denis dice: -
Adesso vorrei che tu parlassi con Adham. Ferdinando
si tende. - Te
l’ha chiesto lui? -
Non so nemmeno se qualcuno lo ha informato del tuo arrivo. Ma in questi
giorni l’ho visto triste e apatico. Credo che sia meglio che vi chiariate le
idee tutti e due. - Io
le ho chiarissime. - Lo
ami, Ferdinando? Ferdinando
non si aspettava una domanda così diretta: l’amore non è un argomento di cui
abbiamo mai davvero parlato. Ma ormai conosce la risposta. -
Sì. - Va
bene. Lo mando a chiamare. Tu accomodati nella biblioteca. Vi parlerete a
quattr’occhi, con calma. - Va
bene. Ferdinando
passa nella biblioteca. Una stanza ampia, con molti manoscritti di epoca
diversa: si tratta perlopiù di testi arabi, che erano di proprietà dell’emiro
di al-Hamra, ma ci sono anche diversi testi greci e latini. Ferdinando
guarda gli armadi in cui sono rinchiusi i manoscritti. Essendo analfabeta,
non può neanche leggere qualche pagina. Al massimo potrebbe sfogliare un
volume miniato, ma non è dell’umore giusto. È inquieto e non riesce a stare
fermo, per cui si mette a camminare nervoso avanti e indietro. Mentre
aspetta Adham, Denis riflette su quanto Ferdinando gli ha raccontato.
Potrebbero davvero essere gli ismailiti, perché la modalità d’azione è
tipica. Ma perché hanno deciso di colpire Ferdinando? E quali altri bersagli
hanno in mente? Chi li ha mandati? Per avere le risposte, bisognerebbe
espugnare il castello di Jibrin, ma è un’impresa difficilissima e, poiché il
castello è nel territorio dell’emiro di Jabal al-Jadid, attaccarlo sarebbe
una dichiarazione di guerra. Mentre
Denis riflette, arriva Adham. - Mi
hai fatto chiamare, duca? -
Sì, Adham. Il conte Ferdinando è qui. Adham
non dice nulla, ma è chiaramente turbato. - Ho
piacere che vi parliate. È di là, nella biblioteca. Adham
annuisce. Guarda la porta della stanza e per un momento Denis coglie
un’incertezza che è quasi paura. -
Non ti voglio obbligare a fare nulla che tu non voglia, Adham, ma dovete
chiarirvi e ho piacere che vi parliate. Poi mi dirai che cosa vorresti fare. - Come
comandi, duca. Adham
raggiunge la biblioteca. Dalla soglia vede Ferdinando fermo in piedi, che
guarda fuori dalla finestra. Ferdinando avverte la presenza di Adham e si
volta verso la porta. Si guardano, senza muoversi. Poi Adham entra, chiude la
porta dietro di sé e avanza fino al tavolo. Rimangono
entrambi in silenzio. Si guardano. Poi Ferdinando si avvicina, prende tra le
mani il viso di Adham e lo bacia. Un bacio lungo, che risparmia a entrambi la
fatica di cercare le parole. Ma il bacio è solo un antipasto e dopo questi
giorni di astinenza (completa per Adham, molto relativa per Ferdinando) sono
tutti e due alquanto affamati. Ferdinando
porta una mano di Adham ad appoggiarsi sui pantaloni, sopra il cazzo già teso
alla spasimo. Il nero stringe e con l’altra mano si slaccia i calzoni,
tirando fuori il suo uccello, non meno rigido di quello del conte. Ferdinando
si stacca e scivola in ginocchio, guarda il cazzo vigoroso del nero, sorride
e bacia la cappella, poi vi passa sopra la lingua, più volte e infine
l’avvolge con le labbra. Adham geme, cercando di mantenere basso il tono
della voce. Ferdinando
lo guida a stendersi sul tappeto davanti al tavolo, poi si cala i pantaloni
e, senza nemmeno toglierseli, si siede sul ventre di Adham, dandogli la
schiena. Sotto di sé sente il cazzo del nero, caldo e rigido. Solleva un po’
il culo e il nero mette in verticale il cazzo, in modo che abbassandosi
Ferdinando vi si impali, con un brivido di piacere e un gemito. Le
mani di Adham si posano sul culo di Ferdinando e guidano i movimenti del
conte, che si alza e si abbassa. Il nero osserva la schiena vigorosa del
guerriero, le cicatrici, la peluria. Le sue mani stringono, mentre il piacere
cresce. Poi Adham si solleva. Ferdinando non capisce che cosa l’amico intenda
fare, ma ne asseconda il movimento. Ora sono tutti e due in piedi, il cazzo
di Adham ancora dentro al culo di Ferdinando. Il nero spinge il conte contro
il tavolo, su cui Ferdinando si appoggia. Adham arretra finché solo la
cappella è dentro il culo di Ferdinando, poi con un movimento brusco in
avanti, affonda l’intero cazzo. Ferdinando bestemmia: per un attimo il dolore
è più forte del piacere. Adham ripete la manovra, arretrando e nuovamente
avanzando. Ferdinando china la testa, mormorando: -
Merda! Adham
si ritrae e Ferdinando muove il culo, accompagnandolo, mentre le sue mani
poggiano sul tavolo e la sua bocca è socchiusa in un lamento che non esce.
Adham spinge con forza, accelera il ritmo e infine viene, rovesciando il suo
seme nelle viscere del conte. Poi
lo abbraccia e rimangono così, stretti. La
mano del nero scivola fino al cazzo di Ferdinando e lo stringe. Ferdinando
emette un grugnito, poi dice: -
Esci, che voglio fotterti io. A
malincuore Adham lascia il culo di Ferdinando, che lo fa sedere sul tavolo.
Lo bacia sulla bocca, più volte. Le loro lingue si inseguono e si cercano.
Poi Ferdinando gli solleva le gambe e Adham si distende sul tavolo.
Ferdinando lo avvicina a sé e, tenendogli le mani sotto le ginocchia e le
gambe divaricate, passa la lingua sul solco, più volte. Adham geme al
contatto con questa lingua che lo fa fremere. Poi il conte si mette le gambe
del nero sulle spalle e avvicina il cazzo al culo. Osserva l’apertura e
sorride. -
Ora ti fotto, Adham, come tu hai fottuto me. Adham
annuisce. Lo desidera. Ormai sa di desiderarlo e lo accetta. Quello con
Ferdinando è un rapporto alla pari. Il conte non è il suo padrone e gli si
offre. E ormai Adham sa che vuole sentire il cazzo vigoroso di Ferdinando
entrargli in culo, vuole le sensazioni forti che accompagnano l’ingresso,
desidera questo abbandonarsi a un altro maschio, allo stesso tempo padrone e
schiavo. Ferdinando
entra dentro Adham, dolore e piacere si mescolano. Le sue mani accarezzano la
pelle scura, indugiano sui capezzoli, li stringono con forza, mentre il cazzo
affonda, fino a che i coglioni del conte sbattono contro il culo del nero. Adham
poggia le mani sulla schiena di Ferdinando, le fa scivolare fino al culo,
stringe con forza, quasi volesse tenere dentro di sé l’arma che lo trafigge.
Ferdinando si china, lo bacia, poi incomincia a muovere il culo, in un
movimento prima lento, che va progressivamente accelerando. Le
mani di Ferdinando scorrono sul corpo del nero, stringono i capezzoli,
accarezzano il viso, sfiorano il cazzo, schiacciato sotto il ventre del
conte. Ferdinando fotte con l’energia che lo contraddistingue e Adham si
abbandona completamente a questo padrone che lo ha soggiogato. Si offre,
preda consenziente, al cacciatore che affonda la sua arma e la ritrae,
dilatando sofferenza e godimento. Ferdinando continua e Adham si rende conto
che nuovamente il cazzo gli si tende, anche se è venuto da poco. Le
spinte di Ferdinando diventano ancora più vigorose. Il dolore cresce, ma
quando Ferdinando viene, con le ultime spinte brutali, anche Adham viene. Ferdinando
si abbandona sul corpo di Adham. Gli accarezza il viso. -
Quanto mi hai fatto penare, stronzo! Adham
ride. Rimangono
abbracciati, finché Adham spezza il silenzio. - Se
il mio padrone sapesse che scopo nella biblioteca… -
Credo che lo sospetti. Mi conosce bene. Adham
ride. - Sa
che sei un porco. - Un
porco fottuto. Ora
è più facile parlare. Ferdinando va subito al dunque: -
Allora, hai deciso, testa di cazzo? Ferdinando
non ha detto che cosa, ma è chiaro a tutti e due. - Verrò
con te, Ferdinando, se il duca me lo permette. Ma non voglio essere il tuo
schiavo. -
Neanch’io ti voglio come schiavo. Voglio che tu possa decidere liberamente se
succhiarmi il cazzo o prendertelo in culo o farmi una sega. Adham
ride. - Mi
lasci scegliere? Troppo buono. A
Denis basta un’occhiata per capire che Ferdinando e Adham si sono parlati. O
almeno: si sono intesi, magari senza usare tanto le parole. Conoscendo
Ferdinando, sa che probabilmente l’amico ha usato altri sistemi per
intendersi. Ferdinando
si rivolge a Denis: -
Adham ha qualche cosa da dirti. Adham
guarda il conte e ride. Poi si rivolge al duca, serio. -
Duca, tu mi hai chiesto che cosa vorrei fare. Tu sei il mio padrone e tocca a
te decidere, ma io vorrei poter andare con il conte Ferdinando. Denis
annuisce. - Va
bene, Adham. Rimarrai al mio servizio, ma sarai libero di rimanere con il
conte finché vorrai. Se deciderai che non sopporti più questo bestemmiatore,
tornerai da me e deciderò il da farsi. Ferdinando
sorride. -
Grazie, Denis, sei un amico. E mi scuso de l’altro giorno ti ho risposto
malamente. Ma sai che sono alquanto rozzo. Anche
Denis sorride e risponde: -
Di’ pure che sei un cazzone, Ferdinando. Ridono
tutti e due. A Ferdinando non sembra vero che Adham venga con lui. * Il
tentativo di uccidere Ferdinando è fallito. Ramzi è irritato. Renaud di certo
non andrà a raccontare in giro di aver cercato di far uccidere il conte, ma
lo smacco pesa a Ramzi. Dovrà rimediare: nessuno può sfuggire alla morte se Ramzi
ha decretato la sua condanna. Ferdinando
starà in guardia. Per il momento è più saggio aspettare. È ora invece di
spegnere un’altra vita, quella di Denis d’Aguilard, duca di Rougegarde, il
Cane dagli occhi azzurri. Un uomo più pericoloso di Ferdinando. Ramzi lo farà
uccidere perché Renaud lo ha pagato per questo, altrimenti non oserebbe
prendere un’iniziativa del genere senza avvisare lo sceicco Sinan. Ma è
contento di spegnere la vita di quest’uomo che nei suoi possedimenti accoglie
tutti e che è rispettato da cristiani, ebrei e musulmani. Sopprimere
il signore di al-Hamra non sarà facile. Bisogna scegliere bene chi eseguirà
il compito. Ramzi preferisce non servirsi del fratello: se Usama venisse
scoperto e arrestato, prima o dopo aver ucciso il duca, lo sceicco Sinan
capirebbe subito che è stato Ramzi a mandarlo. E se lo sceicco scoprisse che
Ramzi si permette di far uccidere uno dei più importanti signori cristiani
senza chiedergli l’autorizzazione, la vita di Ramzi varrebbe molto poco. Qualcun
altro ucciderà il duca. Ma come? Ramzi
invia due uomini ad al-Hamra. In città non può contare su molti appoggi,
soprattutto contro il duca: troppi uomini, anche tra i seguaci della vera
fede, vedono in Denis d’Aguilard un uomo giusto e saggio. Ma i suoi uomini
cercheranno di prendere contatto con le persone giuste. Ad al-Hamra andranno
Faaris e Maazin. Faaris
è un mercante, che solo recentemente ha aderito alla setta degli ismailiti.
Ha tutto lo zelo di chi ha da poco abbracciato una nuova fede e si dichiara pronto
a subire il martirio, se questa è la volontà divina. Ramzi non è sicuro che
l’entusiasmo di Faaris regga di fronte al rischio concreto di essere messo a
morte, ma intende servirsi di lui. Non è l’uomo adatto a uccidere il duca, ma
può sondare il terreno all’interno della comunità musulmana di al-Hamra. Se
riuscirà a trovare qualcuno disposto ad agire contro il signore della città,
ben venga. Se sarà scoperto, non sarà una grave perdita. Sarebbe comunque
preferibile che non venisse arrestato, perché potrebbe rivelare che è stato
Ramzi ad affidargli l’incarico. Durante
l’ultimo colloquio, dopo avergli dato tutte le istruzioni, Ramzi porge a
Faaris una fialetta. -
Questa è per te. Faaris
la prende, senza capire. -
Che cos’è? - Un
veleno potente, in grado di uccidere un uomo in pochi minuti. Faaris
guarda il piccolo recipiente. Sembra affascinato. -
Per il duca? Pensi che riuscirò… Ramzi
lo interrompe: -
Escludo che tu possa trovare l’occasione per somministrarlo al duca. Se ne
avessi davvero la possibilità, sarebbe un segno del favore divino. Ma se non
sarà così, il veleno può servire a te. Faaris
lo guarda, stupefatto. - A
me? -
Nel caso venissi scoperto. Non devi rivelare chi ti manda, altrimenti il duca
starà in guardia. Faaris
fissa di nuova la fiala. Respira a fondo. Poi annuisce. - Se
sarò scoperto, berrò il veleno. Ramzi
congeda Faaris. Non è per niente convinto che il mercante sia disposto a
uccidersi se venisse arrestato. Maazin
lavora per Ramzi da più tempo. È un ladro e un assassino e stava per essere
crocifisso, ma Ramzi lo ha salvato, perché ha capito il suo valore. È un uomo
abile e deciso, che è utile avere al proprio servizio. La sua fede è debole e
Ramzi sa benissimo che non cercherebbe il martirio, ma è l’uomo adatto per
procurargli le informazioni di cui ha bisogno per poter colpire il duca. E,
se si presenterà l’opportunità, sarà lui stesso a colpire, perché sa che
riceverebbe una lauta ricompensa. Faaris non è un uomo d’azione e al massino
potrebbe usare un veleno, ma Ramzi non conta su di lui per uccidere il duca:
gli serve per prendere contatti con le persone giuste. Maazin invece potrebbe
davvero portare a termine il compito, se le circostanze glielo permetteranno. Faaris
si muoverà tra i mercanti e gli artigiani, nella comunità musulmana di
al-Hamra. Maazin agirà nei bassifondi, l’ambiente che gli è più congeniale. Nessuno
dei due è informato della presenza di un secondo inviato: Ramzi vuole evitare
che un passo falso di uno porti alla scoperta anche dell’altro. Faaris si reca a Rougegarde come se
fosse in viaggio d’affari. Porta con sé alcune merci, perché nessuno possa
sospettare, e si occupa di piazzarle. Ma il secondo giorno, seguendo le
istruzioni ricevute, si presenta da uno dei notabili della città, Kaarem ibn
Umar, anche lui ismailita. Kaarem gli fa conoscere altri commercianti ed
artigiani, in modo da introdurlo nell’ambiente. Quando parla del duca, Faaris non
incontra tra i suoi interlocutori nessuna reazione ostile nei confronti del
signore della città, come in parte aveva previsto. Se prova a osservare che è
un peccato che la perla della Palestina sia nelle mani di un infedele, i suoi
interlocutori gli rispondono che questo è stato il volere di Allah. Nei rari
casi in cui Faaris si spinge un po’ oltre, perché gli sembra che il terreno
sia più favorevole, si accorge di suscitare diffidenza: non pare esserci
nessuna disponibilità a collaborare. Un’unica volta Faaris accenna alla
possibilità che il duca possa morire per mano di qualche credente disposto al
martirio. Il calderaio a cui parla si limita a una risposta generica sul
volere di Allah e cambia rapidamente discorso. Quando Faaris torna per
parlargli, un garzone gli risponde che l’artigiano non è nella sua bottega.
Faaris è sicuro che si tratta di una menzogna, ma insistere non avrebbe
nessun senso. A quanto pare tra i bravi musulmani di
al-Hamra, nessuno sembra intenzionato a raggiungere il paradiso prima del
tempo: il martirio non ha fascino per questi mercanti e artigiani, più
interessati ai propri affari che a guadagnarsi gloria eterna. Faaris non demorde, anche se si rende
conto che gli altri mercanti sono diventati diffidenti nei suoi confronti e
lo tengono a distanza. Sul letto, Solomon è disteso sulla
schiena, la testa su un cuscino. Morqos è steso su di lui. Solomon gli
accarezza il capo, in silenzio. Morqos sta bene tra le braccia di Solomon. Il
culo gli fa un po’ male, ma stare su questo corpo è bello. Morqos ama Mariette, ma gli piacciono
sia gli uomini, sia le donne. E questo maschio lo attrae. Quando Morqos si alza per andare,
Solomon dice: - Morqos, volevo dirti una cosa. - Dimmi. - C’è un mercante di Homs, un certo
Faaris, che è in città da due settimane. È entrato in contatto con molti
artigiani e commercianti. È molto critico nei confronti del duca e sembra
quasi cercare altre persone che la pensino come lui. E che non si limitino a
pensare, ma intendano agire. - Intendi dire che… Morqos non completa la frase. - Credo che lui, o chi lo manda, miri a
uccidere il duca. - Bisogna avvisare il duca. - Per questo te ne ho parlato. Morqos pone la domanda che gli è subito
venuta in mente: - Perché l’hai raccontato a me, Solomon?
Sai benissimo che Pierre è al servizio del duca. - Perché preferisco parlarne a te, che
conosco. Con Pierre ho poche occasioni di scambiare due parole. È meglio che
glielo dica tu. Morqos non obietta. Si limita a
chiedere: - Come fai a sapere di questo Faaris,
Solomon? - Chiacchiere. Cose che ho sentito. Morqos ha forti dubbi che la risposta
di Solomon sia sincera: l’ebreo non è tipo da perdere tempo ad ascoltare
chiacchiere. Ma se non vuole dirgli come ha scoperto di questo Faaris, non è
un problema. Quello che conta è l’informazione. Bisogna verificare se le cose
stanno davvero così. Poi il duca deciderà il da farsi anche con Solomon. Se
vorrà saperne di più, lo interrogherà. Faaris si reca regolarmente nel bagno
turco. Parla anche qui con chi gli si avvicina, ma non si espone troppo: è un
ambiente in cui facilmente ci sono spie, proprio perché la gente chiacchiera
volentieri con sconosciuti. Di fianco a lui si siede un uomo che
deve aver superato i trent’anni. Come tutti, porta un telo attorno alla vita. L’uomo gli sorride e gli dice: - Sei un forestiero? Non ti ho mai
visto qui. - Sì, vengo da Homs. Ma sono già venuto
altre volte. Sono ad al-Hamra da qualche settimana. - Al-Hamra! Fa piacere sentirla
chiamare con il suo nome e non Rougegarde. Se penso che la più bella delle
città è in mano a un infedele… Faaris annuisce. - Credo che per tutti noi sia un
tormento sapere che un miscredente è signore di questa città. - Purtroppo è così e non cambierà, se
nessuno si decide… L’uomo si interrompe: evidentemente si
è reso conto di essersi esposto. Dice, ridacchiando: - Parlo troppo, non dare peso alle mie
parole. - Non devi preoccuparti, anch’io la
penso come te. Tu vivi qui ad al-Hamra? - Sì. Sono nato in un villaggio qui
vicino, ma mi sono trasferito in città molti anni fa, ben prima che gli
infedeli conquistassero al-Hamra. - Bisognerebbe fare qualche cosa, ma mi
sembra che nessuno abbia intenzione di agire. - Sì, hanno tutti paura. Gente senza
coglioni, scusa la franchezza. - La penso come te. Gente senza
coglioni, che accetta di avere per signore un infedele, un uomo che dovrebbe
morire. L’uomo si guarda intorno, poi annuisce,
lentamente. - Parla piano. Faaris ha parlato sottovoce, per essere
certo che nessun altro potesse sentirlo. - Sì, certo. - Ci sono alcuni che vorrebbero agire,
ma entrare a palazzo è impossibile e non si riesce a corrompere qualche uomo
del duca. Alcuni darebbero volentieri una mano, ma non sono forti e decisi a
sufficienza per… portare a termine l’impresa. Non ci si improvvisa guerrieri
o sicari. - Tu conosci… Io saprei trovare persone
esperte e decise, che però avrebbero bisogno di un aiuto, per poter agire. L’uomo annuisce lentamente. Appoggia la
schiena contro la parete, controllando che nessuno si avvicini. - Che cosa intendi per aiuto? Faaris sente che il cuore batte più in
fretta. Sa che si sta esponendo e si accorge di essere agitato. Anche se il
calore nella stanza è soffocante, sente un brivido. Risponde: - Informazioni su come e dove colpire, magari
un nascondiglio e quello che può servire per portare a termine l’azione. L’uomo rimane in silenzio. Si guarda
ancora intorno. Poi chiede, a bruciapelo: - Non sei una spia del duca? - No, no, che dici? - Sanno che sono contro il duca, io.
Qualcuno mi ha denunciato, quelle merde. Mi hanno interrogato, sono stato in
prigione due mesi, per poche parole che ho detto. - No, io la penso come te. Stai
tranquillo. L’uomo annuisce, ma tace. Dopo un
momento Faaris dice: - Come posso mettermi in contatto con
queste persone disposte a dare una mano? L’uomo gira la testa da una parte e
dall’altra, controllando che nessuno si sia avvicinato, poi dice: - Domani è giorno di mercato nel
quartiere che chiamano di San Pietro. Dalla piazza parte una strada che sale
verso il palazzo del duca. Sulla sinistra ci sono diversi negozi. Subito dopo
il primo passaggio coperto, c’è una bottega di spezie. L’uomo si ferma. È chiaramente agitato.
Per l’ennesima volta controlla che nessuno possa ascoltarli. Anche Faaris è
inquieto, ora: l’uomo gli ha trasmesso il suo nervosismo. - Vacci verso mezzogiorno, quello che
questi cani chiamano l’ora sesta, quando le campane delle loro fottute chiese
suonano. Chiederai al mercante se ha delle spezie della Nubia. Io l’avviserò
oggi stesso. - Qual è il tuo nome? - Faaris. - Bene, adesso è meglio che tu vada. Faaris annuisce. È contento di
andarsene, perché si sente a disagio, ma è molto soddisfatto dell’incontro: è
sicuro di aver trovato l’aggancio che cercava, qualcuno che gli permetterà di
entrare in contatto con le persone giuste. Non è stato un caso fortunato:
Allah ha premiato la sua perseveranza e la missione sarà coronata dal
successo. Faaris saluta e passa nell’altra sala,
per lavarsi e poi andarsene. Morqos lo guarda allontanarsi. Solomon
aveva ragione. Quest’uomo vuole uccidere il duca. Non direttamente: non è in
grado di usare un’arma, al massimo un veleno, ma forse neanche quello. A un
certo punto Morqos lo ha visto tremare. Questo però significa che c’è
qualcuno che gli sta dietro ed è ancora peggio. Le campane di San Pietro suonano.
Faaris si avvia lungo la strada che si inerpica sul fianco della collina. È
nervoso e man mano che si avvicina alla sua meta, deve frenare l’impulso di
voltarsi e tornare indietro. Sta rischiando e adesso, lontano dagli altri
veri credenti, senza nessuno che possa dirgli una parola di conforto, i dubbi
lo assalgono. Il suo passo rallenta, senza che se ne accorga. Quando vede la
bottega del mercante di spezie, oltre la viuzza che deve attraversare,
sussulta. Perché si è cacciato in questo guaio? A fatica Faaris avanza. Si ferma
davanti alla bottega del venditore di spezie e osserva le merci disposte
ordinatamente nei cesti. Il negoziante lo guarda, poi chiede: - Amico, dimmi di che cosa hai bisogno.
Qui puoi trovare tutto quello che ti serve. Faaris cerca di sorridere, per
nascondere il suo nervosismo, e dice, con una voce che cerca di rendere
tranquilla: - Cerco delle spezie della Nubia. L’uomo sorride. - Sei fortunato, amico. Le spezie della
Nubia sono rare, ma ne ho alcune: le tengo dentro la bottega, per evitare che
qualcuno me le rubi mentre io parlo con un altro cliente. Vieni dentro. Faaris annuisce. Ormai è fatta, non
avrebbe senso rinunciare ora, anche se la tentazione è forte. Segue il
mercante nella bottega, cercando di nascondere il suo nervosismo. - Siediti amico. Permettimi di offrirti
da bere. Mentre Faaris si siede, l’uomo versa da
una brocca un po’ di limonata e gliela passa. Faaris beve, sorridendo. È il mercante a parlare: - Come ti chiami, amico? - Faaris ibn Rayyan. Il mercante annuisce. Conosce il nome. - Sono contento che tu sia venuto a
trovarmi. C’è bisogno di qualcuno che abbia il coraggio di compiere il volere
dell’Onnipotente, di realizzare ciò che molti vorrebbero veder accadere. - Per agire bisogna avere informazioni,
sapere dove e come… intervenire. Faaris avrebbe voluto dire “colpire”,
ma ha preferito scegliere un termine più neutro. Gli sembra che per il
momento la loro conversazione sia molto generica e questo lo tranquillizza. - Sono in molti disposti ad aiutare.
Per i figli di Maometto è difficile tollerare che al-Hamra sia governata da
un miscredente. - Sì, lo capisco. Il mercante sorride senza rispondere.
Faaris prosegue: - Se il duca morisse, al-Hamra potrebbe
tornare sotto il dominio di un signore credente. - Sì, se il duca morisse, il re di
Gerusalemme non riuscirebbe a difenderla: è giovane, inesperto e Allah lo ha
punito con la lebbra. Solo il duca gli ha permesso di sconfiggere il grande
Salah ad-Din, che Iddio lo protegga. C’è di nuovo un silenzio. Il mercante
sorride, in attesa. Faaris osserva: - Bisognerebbe che il duca morisse. - Così avverrà, se c’è la volontà di
Allah. Faaris annuisce. - Se c’è la volontà di Allah, il duca
morirà. Di nuovo il mercante tace. Faaris si
rende conto che deve abbandonare la prudenza: non ha senso continuare a
girare intorno. - Ci sono uomini forti e coraggiosi,
disposti a sacrificare le loro vite, ma non è facile avvicinarsi al duca. - Sei sicuro della fede e del coraggio
di questi uomini? - Sì. - Essi sono qui, in città? - No, ma verranno quando l’impresa sarà
possibile. E questo dipende dall’aiuto che possono ricevere. - Uomini disposti a uccidere il duca. E
tu vuoi metterli in contatto con qualcuno qui che possa aiutarli. Faaris annuisce. È contento che sia
stato il mercante a formulare la frase, esplicitando ciò di cui hanno parlato
fino a ora senza esprimerlo direttamente. Il mercante sorride e dice: - Sì, direi che è sufficiente. La tenda si apre. Compaiono quattro
uomini armati. Faaris li guarda, poi guarda il mercante, che sorride. È
caduto in una trappola. La sua vita è finita. Un’ondata di terrore lo
investe. Si alza di scatto e si dirige di corsa verso la porta, in un inutile
tentativo di sfuggire ai soldati. In un attimo i quattro lo bloccano e lo
gettano a terra. Gli legano le mani e i piedi, poi lo sollevano. Non escono in strada. Scendono lungo
una scala a cui si accede dall’interno della bottega e raggiungono un
passaggio sotterraneo. Portato da due uomini, che lo tengono
per i piedi e le mani legate, Faaris guarda con terrore il soffitto del
corridoio lungo cui lo trascinano, debolmente illuminato dalla luce della
lanterna che uno dei soldati tiene davanti a sé. Non si accorge neppure di aver
perso il controllo della vescica. Mentre il piscio gli bagna i pantaloni e
poi scende sul pavimento, pensa che non rivedrà mai più la luce, se non,
forse, per morire. Grida, un urlo disperato, che gli uomini intorno a lui non
sembrano neppure sentire. Il suo “Noooooooo!” rimbomba nel buio del
sotterraneo. Il passaggio è chiuso da una porta. Uno degli uomini bussa. Si
apre uno spioncino, poi la porta viene spalancata e il gruppo entra. Dietro
di loro la porta viene di nuovo chiusa. Faaris ha trovato una via per entrare
nel palazzo ducale. Non avrà modo di raccontarlo. Il giorno seguente, Denis parla con
Pierre. Dopo aver dato alcune istruzioni, il duca conclude: - Pierre, dirai a Solomon che ho
piacere di parlargli. Se accetta di venire da me, gli dirai di chiedere di
Manrique: così nessuno saprà che è venuto a parlare con me. Se invece non
vuole, non è tenuto a farlo: non voglio obbligarlo. Pierre fa un cenno d’assenso. Visto che
è stato l’ebreo a informare il duca del piano, è naturale che il duca voglia
parlargli. Ma è anche comprensibile che non voglia forzare chi lo ha messo in
guardia contro una minaccia mortale. Solomon non si stupisce della
convocazione a palazzo. Si aspettava che il duca volesse sapere in che modo
ha scoperto il tentativo di ucciderlo e sospetta che non intenda
accontentarsi di qualche spiegazione generica. Si presenta a palazzo il mattino del
giorno seguente. Sa già che il mercante Faaris non è ritornato alla locanda
dove alloggiava ed è sicuro che sia stato arrestato. Solomon chiede di Manrique, che arriva
subito e lo accompagna dal duca. Denis non lo riceve nella sala delle
udienze, ma in una stanzetta a parte. Ci sono un tavolo e due poltrone. - Accomodatevi, Solomon. Vi ringrazio
di essere venuto. Solomon si siede. Sembra essere a suo
agio. Sorride mentre risponde: - Non potevo certo sottrarmi, duca. Anche Denis sorride. - Non era un obbligo, ma ero sicuro che
sareste venuto. E sono altrettanto sicuro che sappiate il motivo per cui vi
ho chiesto di venire. Ma prima voglio ringraziarvi: mi avete permesso di
sventare una minaccia e di scoprire un pericolo che mi sovrasta. - Purtroppo su di voi incombono tanti
pericoli. Avete nemici tra i franchi come tra i saraceni, ma è inutile che ve
lo dica, perché lo sapete benissimo. - Sì, so di avere tanti nemici e so
anche chi sono. Il problema è sapere di quali mezzi e di quali persone si
serviranno per colpire. Solomon annuisce, senza dire nulla. Denis riprende: - Solomon, siete un uomo troppo
intelligente perché sia necessario che io vi ponga la domanda che ho in
mente. Avete voglia di rispondermi? - Mi lasciate la libertà di non
rispondere? - Sì. Mi avete permesso di scoprire un
potenziale assassino. Non voglio forzarvi. - Vi ringrazio di questo. E vi parlerò francamente.
Vi conosco e so che posso fidarmi di voi. Forse vi parrà strano, dato che ci
siamo parlati un’unica volta, ma voi siete il signore di Rougegarde e di voi
si dicono molte cose. - E voi di certo sapete ascoltare. Denis vorrebbe aggiungere che anche lui
ha fiducia nell’uomo che gli sta davanti, ma preferisce non formulare il suo
pensiero. Solomon sorride e riprende: - Incomincerò da lontano, perché voi
non siete uomo da accontentarvi di frammenti di spiegazione. Forse potrei
offrirvi una parte della verità e voi ve ne accontentereste, perché non
volete forzarmi, ma preferisco dirvi tutto. - Vi ringrazio anche di questo. Solomon incomincia a parlare. Ha una
bella voce, profonda. - Conoscete la situazione di noi ebrei
tra gli arabi. Paghiamo un tributo, ma siamo tollerati. Arabi, curdi,
persiani sono abituati alla nostra presenza e di solito ci lasciano vivere in
pace. Con l’arrivo dei franchi in queste terre molte cose sono cambiate.
Tanti ebrei sono stati massacrati. Io sono stato concepito durante uno di
questi massacri: mia madre venne violentata da un soldato, suo marito e due
suoi fratelli furono uccisi. Mia madre, incinta di me, si trasferì con mio
fratello Amos ad Afrin, perché non se la sentiva di vivere tra i franchi che
aveva visto uccidere suo marito e tanti altri. Ad Afrin vivevano i suoi
fratelli, che ci presero sotto la loro protezione: non avevano figli e Amos e
io diventammo i loro figli. Uno di loro era il rabbino della comunità e Amos
gli successe alla sua morte, l’altro era un orafo e fu lui a insegnarmi il
mestiere. Non solo il mestiere: era un uomo molto deciso e coraggioso ed era
capace di difendersi all’occorrenza, cosa che per un orafo che viaggia può
risultare utile. Mi insegnò a maneggiare le armi e a lottare, in modo che fossi
in grado di reagire se qualcuno mi attaccava. Solomon si ferma un attimo, poi
riprende: - Vi chiederete perché vi racconto cose
personali, che nulla hanno a che vedere con quanto vi interessa. - Ciò che mi raccontate mi interessa
molto, invece. E sono sicuro che scoprirò qual è il legame con ciò che è
successo. Continuate, vi prego. È la verità: Denis è molto incuriosito
da Solomon ed è contento di scoprire qualche cosa di più di quest’uomo. - Avevo diciannove anni quando voi
conquistaste Afrin. Sapete ciò che successe. La città non si era consegnata e
ne pagammo tutti le conseguenze. Ma il saccheggio non fu accompagnato da
stupri e omicidi: eravamo convinti di essere scampati al peggio, anche se ci
trovavamo a vivere tra quei franchi che avevano fatto strage della famiglia.
Le nostre condizioni però peggiorarono in fretta, man mano che la popolazione
cristiana della città aumentava. Nei nostri confronti c’era un’ostilità
crescente e subivamo vessazioni di ogni tipo. Solomon fa una breve pausa, poi riprende: - Io ero a bottega presso mio zio e
viaggiavo molto con lui e talvolta anche da solo. Incontravo persone diverse
e parlavo con loro. Confrontavo situazioni. Con il tempo pensai che dovevamo
imparare a difenderci. Solomon fa un’altra pausa e tossisce leggermente. Denis si alza, raggiunge un armadio e
prende una brocca con del vino. - Volete bere del vino, Solomon? - Sì, grazie. Denis versa un po’ di vino in un
bicchiere. Solomon beve solo un sorso, poi riprende: - Approfittai dei miei viaggi per
stabilire contatti, raccogliere informazioni. Difendersi non significa solo
affrontare il nemico: per noi si tratta soprattutto di evitare il pericolo,
di prevenirlo. Come orafo ho contatti con molte persone diverse. Da ognuna
posso ottenere informazioni. E posso darne. Se dai un’informazione utile, ne
riceverai anche da chi magari non è convinto di quello che stai facendo, ma
ti aiuta perché sa che tu puoi aiutarlo ancora. Solomon si ferma. Denis prosegue per
lui: - Così in questi anni avete costruito
una rete di persone che forniscono informazioni, sui signori franchi, su
quelli arabi e così via. - Sì, e più la rete si allarga, più
facile è allargarla ancora, perché sai sempre di più e sei in grado di
aiutare sempre più persone. O anche, lo confesso, di carpire informazioni che
non ti darebbero. Noi ebrei siamo spesso odiati tra i cristiani, ma abbiamo
anche la proprietà di essere invisibili: non essere considerati uomini a
volte può presentare qualche vantaggio. - Non credo che questo compensi gli
svantaggi… - Ma aiuta a ridurli. - Senza dubbio. Solomon beve ancora un sorso di vino
dal bicchiere. - Ho contatti con persone lontane e di
certo vi stupireste se vi dicessi alcuni nomi, ma non è questo che vi
interessa, almeno in questo momento. Il mio lavoro mi permette di incontrare
gente di tutti i tipi, anche molto in alto. Avevo diversi contatti anche a
Rougegarde assai prima di stabilirmi qui: ci venivo spesso. E queste persone
mi hanno informato dell’arrivo di questo mercante, Faaris, e delle domande
che poneva. Preferirei non dirvi i nomi di chi mi ha informato. Non credo
siano importanti per voi. Denis annuisce. - No, non lo sono. Solomon rimane un momento in silenzio,
poi dice: - Ho risposto alla vostra domanda,
Duca? - Pienamente. Ma ve ne pongo ancora
una. - Ditemi. - Avete un’idea di chi l’ha mandato? - Dalle informazioni che mi sono
giunte, senza dubbio gli ismailiti di Qasr al-Hashim, il castello di Jibrin,
come lo chiamavate voi. Ma credo che lo sappiate già: Faaris non deve essere
il tipo da rifiutare di collaborare… Solomon sorride e anche il volto di
Denis si apre in un sorriso, mentre risponde: - In effetti ha collaborato, quasi
spontaneamente. E risulta essere come voi mi dite. In questo modo ha trovato
conferma anche il mio sospetto che chi ha tentato di uccidere il conte
Ferdinando sia stato inviato dal capo degli ismailiti di Jibrin, Ramzi. Solomon annuisce. - Ho sentito di questo tentativo di
omicidio e credo che sia come pensate. C’è di nuovo un momento di silenzio,
poi Solomon dice: - E adesso voi vi chiedete perché gli
ismailiti, fanatici che uccidono altri musulmani, abbiano deciso di
sopprimere voi e il conte. Non colpiscono signori cristiani, di solito. Denis guarda quest’uomo che sembra
leggergli nel pensiero. Ma dopo quello che gli ha raccontato Solomon, non si
stupisce: l’ebreo è troppo intelligente per non capire che Denis si pone la
domanda. - Avete una risposta, Solomon? Solomon tace un momento, poi dice. - Un’ipotesi. Credo che abbiamo pagato
noi i vostri assassini. - Voi chi? Gli ebrei? - Sì, gli ebrei di Afrin, permettetemi
di chiamarla con il suo vecchio nome, di quando era una città in cui potevamo
vivere. Abbiamo dovuto pagare una somma enorme per poter lasciare la città
senza essere uccisi. E quel denaro è partito per Qasr al-Hashim, questo lo so
con sicurezza. E quando l’ho saputo, ho pensato che fosse il prezzo di un
omicidio. O più d’uno. E allora ho chiesto ai miei… amici in città di stare
all’erta. Denis fissa Solomon senza dire nulla.
Non lo stupisce che sia Renaud il mandante: sa che il barone lo odia e lo
vorrebbe morto, perché spera di impadronirsi di Rougegarde. Ma che Solomon
sappia anche questo, davvero lo sorprende. - Non vi chiederò come lo sapete: se mi
dite che ne siete sicuro, non ho dubbi. - Vi ringrazio per la fiducia. - Posso dirvi una cosa? Solomon ride. Ha una bella risata,
calda. È piacevole vederlo ridere. - Certo! Qualsiasi cosa. Ditemi. - Siete un uomo temibile, Solomon. - Solo per coloro che considero nemici.
- E un uomo prezioso per i vostri amici. - Se è così, mi fa piacere. Spero di
esserlo ancora per voi, anche se preferirei che non ne aveste bisogno. - Anch’io lo preferirei, ma temo che
non sia possibile. Dopo un attimo di pausa, Solomon
aggiunge: - Adesso sono io che vorrei chiedervi
una cosa. - Ditemi. - Che cosa intendete fare di Faaris? - Cercava di organizzare il mio
omicidio. Sarà giustiziato. - Posso suggerirvi di tenerlo in vita?
Credo che, se certe cose stanno come penso io, potrà tornarvi utile per
sventare questa minaccia. Denis è sorpreso. - Non volete spiegarmi? Solomon esita un attimo, poi dice: - Qasr al-Hashim, o Jibrin, come
preferite chiamarlo, dipende dallo sceicco Rashid ad-Din Sinan, che è il capo
di tutti gli ismailiti. Non so se l’ordine di uccidervi sia partito da lui: ne
dubito, perché il denaro è andato a Qasr al-Hashim. E poi Sinan non ordina
omicidi perché lo pagano. Se è così, Ramzi ibn Qais, il capo degli ismailiti
di Qasr al-Hashim, ha commesso una violazione gravissima delle regole. E
allora possiamo intervenire, ma dobbiamo dimostrare a Sinan che l’ordine è
partito da Ramzi. Denis è molto dubbioso: lo sceicco gli
sembra irraggiungibile. - E chi mai potrebbe parlare con Rashid
ad-Din Sinan, Solomon? Con un uomo che molti temono più dello stesso
Saladino? E mentre formula la domanda, Denis
trova la risposta e la formula: - Voi, vero? - Ci potrei provare. Abbiamo conoscenze
comuni. Ma è presto. Escludo che un uomo astuto come Ramzi abbia puntato
tutto su una sola carta, soprattutto se questa carta è un Faaris. Fate attenzione,
duca, e cerchiamo di scoprire chi altri è coinvolto in questo piano. Denis guarda Solomon uscire dalla
stanza. Stupefacente, quest’uomo. Un alleato utilissimo. Una delle pochissime
persone con cui Denis sente di poter parlare alla pari, anche se Solomon non
ha nessuna carica e nessun potere. Ma ha comprensione e capacità di azione
come pochi altri. Denis si avvicina alla finestra e
guarda in basso. Solomon è appena uscito dalla porta interna e sta
attraversando il cortile a passo sicuro. È anche un bell’uomo. Denis scuote
la testa. Che cosa gli è passato per la testa? Eppure il pensiero gli è
venuto chiarissimo. È vero, Solomon è un bell’uomo, ma Denis vede spesso
uomini belli di aspetto e non ci bada. In qualche modo, a trentacinque anni,
Denis ha rinunciato a desiderare. Ad amare aveva già rinunciato prima, dopo
l’esperienza con Charles. Ma quest’uomo… Avrà modo di vederlo ancora. E sarà un
piacere poter parlare di nuovo con lui. Ma adesso deve scoprire chi è il
secondo uomo che vuole ucciderlo. Maazin
ha incominciato a muoversi qualche giorno dopo Faaris. Anche lui si è servito
di un intermediario, un ricettatore che lo ha messo in contatto con un gruppo
di ladri. Ha incontrato una certa diffidenza, perché i ladri temevano che
volesse far loro concorrenza. Ma Maazin ha distribuito qualche moneta e
chiarito che ha altri obiettivi. Non ha certo detto quali: la solidarietà tra
chi svolge lo stesso lavoro non esclude il tradimento e più d’uno sarebbe ben
contento di vendere Maazin, sapendo che riceverebbe una lauta ricompensa. I
ladri conoscono bene la città, sia la parte in cui si muovono gli altri
cittadini, sia la rete di passaggi segreti scavati sottoterra in passato per
garantire vie di fuga o per realizzare acquedotti e cisterne. Il duca ha
fatto costruire muri e bloccare alcuni passaggi, isolando l’area sotto il
palazzo dagli altri cunicoli. Ma forse in questo complesso sistema potrebbe
essere possibile scoprire qualche falla ed entrare nel palazzo. Solomon
ha chiesto di poter vedere il duca. Lo ha domandato attraverso Pierre, perché
non vuole presentarsi nei giorni di udienza: preferisce che nessuno noti la
sua presenza e vuole poter parlare tranquillamente, senza testimoni. Denis ha
subito fissato l’appuntamento, dicendogli di chiedere di Manrique, come la
volta scorsa. È contento di rivederlo: quest’uomo la ha incuriosito. -
Buongiorno, Solomon. Sono lieto di vedervi. - Lo
sono anch’io. Solomon
guarda Denis, sorridendo. Denis ricambia il sorriso, ma si sente turbato. Con
un gesto indica una sedia. -
Sedetevi. E ditemi. Solomon
si siede. -
Non ho grandi notizie, ma preferisco informarvi man mano che scopro qualche
cosa. Non si sa mai. Denis
aggrotta la fronte. -
Che cosa intendete? Voi… pensate che qualcuno possa colpirvi? Certo… se
scopriranno che voi interferite con i loro piani, per salvarmi… in questo
caso siete in pericolo. Denis
non aveva riflettuto su questo. L’idea che Solomon rischi la vita per lui lo
disturba. -
Sono molto prudente, duca. Conto di non commettere errori. - Ma
un margine di rischio c’è sempre. Non credo che voi commettiate spesso
errori. Non sareste qui a parlarmene. Ma non mi va che voi rischiate per
causa mia. -
Duca, sapete benissimo che l’esistenza degli ebrei nella cristiana Rougegarde
è resa possibile solo dalla vostra presenza. Anche soltanto per quello la
vostra vita è preziosa. Ma in ogni caso tengo a voi. Le
ultime parole di Solomon colpiscono Denis. Anche lui tiene a questo ebreo che
vede per la terza volta nella sua vita. È strano, ma è così. Denis non sa
come rispondere. Si limita a dire: -
Grazie. C’è
un attimo di silenzio e Denis si sente un po’ a disagio. Solomon sembra
tranquillo e sicuro. Denis
si siede davanti a Solomon. - Vi
ascolto. Solomon
lo fissa un momento in silenzio, poi incomincia a parlare: -
Adesso so con sicurezza che c’è un secondo uomo, che si muove in un ambiente
del tutto diverso. È senza dubbio molto più pericoloso e ha già ucciso. Non
so il suo nome e non posso descrivervelo, ma ha stabilito rapporti con ladri
e criminali, qui in città. Cerca di ottenere da loro qualche informazione per
sapere come arrivare fino a voi. Non so ancora quali idee abbia: è molto più
difficile seguirne le tracce. - E
molto più pericoloso. Non esponetevi troppo, Solomon. Solomon
alza le spalle. -
Conto di scoprire qualche cosa di più nei prossimi giorni. -
C’è altro che volete dirmi? -
No, per il momento no. -
Adesso vi vorrei chiedere io alcune cose. Sono mie curiosità. Non siete
tenuto a rispondermi. - Vi
risponderò volentieri, se mi è possibile. -
Voi avete una rete di relazioni molto ampia, che vi permette di ottenere le
informazioni che vi servono. La volta scorsa mi avete detto che essa si estende
anche qui a Rougegarde. -
Sì. - E
che avevate contatti già prima di trasferirvi qui. -
Esatto. Adesso, stando a Rougegarde, ho ampliato la rete, stabilendo più
relazioni. - E
vi servite di queste relazioni per proteggere i vostri correligionari. E me. Solomon
ride. -
Soprattutto per proteggere i miei correligionari, è vero. E adesso
soprattutto per proteggere voi. Ma anche per altri interventi. Diciamo che se
posso aiutare chi ne ha bisogno, lo faccio volentieri. -
Correndo anche dei rischi. -
Talvolta. Queste cose però le sapete già. Non sono domande. -
No, avete ragione. Le domande che volevo porvi sono altre. Prima di tutto una
cosa che mi è venuta in mente in questi giorni. Anni fa, venne in visita a
Rougegarde un principe nubiano. Era stato a San Giacomo d’Afrin e aveva
potuto evitare un’esperienza molto spiacevole grazie a un orafo ebreo che lo
aveva avvisato. Me lo raccontò, ma poi se ne pentì, dicendomi che si era
impegnato a non rivelarlo a nessuno: mi chiese di mantenere il segreto e io
glielo promisi. Una faccenda di alcuni anni fa, più o meno quando morì re
Amalrico. Quell’orafo ebreo eravate voi, Solomon. Solomon
sorride. -
Anche questa non è una domanda. Sì, ero io. Venni a sapere quanto sarebbe
successo da un soldato, capii quali sviluppi avrebbe avuto la faccenda e
allora avvisai il principe. Denis
annuisce. Era sicuro che fosse Solomon. -
Voi mi parlate di un soldato. Che non credo acquistasse gioielli. Com’è che
avete contatti con gente così diversa? Come riuscite a farvi raccontare certe
cose, anche da chi sa che deve tenerle segrete? Solomon
rimane un attimo pensieroso, poi dice: - Ho
sempre cercato di tenere contatti con persone diverse: emiri e sceicchi,
signori e ricchi mercanti possono fornire informazioni utili, ma anche
lavoranti e soldati, osti e contadini. Ci sono molti modi per entrare in
contatto con costoro e io confesso di averli usati un po’ tutti. Denis
vorrebbe chiedere quali sono questi modi, ma la domanda gli sembra
indiscreta. Accenna: -
Qualche moneta è sempre un buon modo per scucire bocche chiuse. Un uomo
intelligente sa far chiacchierare gli altri. Qualche piccolo favore viene
ricambiato. È così, no? -
Sì, tutto questo. E talvolta altro. Solomon
non dice che cos’è questo “altro”. Denis si chiede se Solomon non si serva
anche del proprio corpo per ottenere ciò che vuole: è un gran bell’uomo,
forte e di notevole fascino, un po’ impudente, ma anche questo contribuisce a
renderlo attraente. E non deve avere troppi scrupoli per quanto riguarda il
sesso. Ma non è una domanda che Denis possa porre senza apparire invadente,
per cui si tiene la propria curiosità. - E
adesso vorrei che mi raccontaste del massacro di San Giacomo d’Afrin e di ciò
che avete fatto. -
Come desiderate. Solomon
racconta. Non accenna a Charles: si limita a dire che ha avuto le
informazioni essenziali da alcune persone, di cui preferisce non fare il
nome. Spiega come ha organizzato i giovani e come hanno fatto per cercare di
ridurre i danni. Denis
ascolta con molta attenzione. Pone qualche domanda, per capire meglio il
ruolo di Solomon. Alla fine dice: - Vi
ammiro, Solomon. E mi scuso se vi ho sottoposto a un vero interrogatorio. Mi
incuriosite molto. -
Anche voi mi incuriosite molto. Denis
non si aspettava la risposta, che lo spiazza. Solomon ride: - Sono
un impertinente, duca. Scusatemi. -
Non avete motivo di scusarvi. Vi ho posto tante domande io. Siete libero di
farmene voi. Solomon
lo fissa un momento, Poi chiede: -
Dite davvero? Denis
annuisce, anche se non è così sicuro di volerlo. A quest’uomo molto sicuro di
sé è pericoloso lasciare troppo spazio. -
Certamente. -
Una domanda ce l’ho. Non vi sentite solo, duca? Denis
guarda Solomon, senza nascondere il suo stupore. Solomon sorride e dice: - Mi
avete autorizzato voi a porvi una domanda. Denis
scuote la testa. -
Avete ragione. E vi devo una risposta. -
Soltanto se non vi pesa. Sono sfacciato, lo so, me l’hanno detto diverse
persone, ma entro certi limiti. -
No, va bene. Denis
tace un attimo, poi dice. -
Sì, mi sento spesso solo. Ma credo che la solitudine sia un prezzo da pagare
quando si ha il potere. -
Non necessariamente. Mi rendo conto che in una posizione come la vostra è
difficile avere amici con cui riuscire a tenere i contatti, perché siete
troppo al di sopra di coloro che vi stanno vicino. Potreste avere amici tra
gli altri signori, ma credo che siate legato solo al conte Ferdinando e forse
più per una lunga frequentazione che per affinità. Denis
guarda Solomon e scuote la testa. Quest’uomo sembra sapere tutto. Solomon
continua: - So
che siete molto legato a Guillaume di Hautlieu, ma avete pochissime occasioni
di vederlo. Vostra moglie e vostro figlio sono lontano. Al vostro posto
sentirei molto la solitudine. - Le
circostanze mi hanno spinto a mandare mio figlio in Francia: conoscete troppo
bene la situazione per non sapere che il regno di Gerusalemme non potrà
reggere molto a lungo. Se il Saladino unirà la Siria e l’Egitto sotto il suo
comando, come sta facendo, saremo stretti in una morsa che ci stritolerà.
Pierre eredità la contea di Bellerivière, perché mio cugino è morto senza
avere figli e suo padre non ha altri eredi. Era necessario che Pierre vi si
recasse: il suo futuro è là. Rougegarde è troppo esposta. -
Sì, avete senza dubbio ragione. Ma in questo modo siete rimasto solo. Non vi
pesa? Denis
guarda Solomon negli occhi. Ha anche lui occhi chiari, azzurri. -
Sì, ve l’ho detto, ci sono dei momenti in cui mi pesa. Sono stato schiavo,
oltre un anno, vicino a Damasco. Non parlavo con nessuno. Ascoltavo ciò che
dicevano, ma tutti mi credevano muto. All’inizio ero sconvolto per la morte
di mio padre, ma poi… era un modo per scomparire. Avete detto che a volte voi
ebrei siete invisibili. Ecco, una cosa del genere. - Il
silenzio è un buon modo per rendersi invisibili. -
Allora ero completamente solo. Sono abituato alla solitudine. Denis
tace un attimo, poi aggiunge: -
Per questo apprezzo molto le occasioni di parlare con un uomo come voi,
Solomon. -
Grazie, duca. Anche a me fa piacere parlare con voi. -
Non credo che voi vi sentiate solo. Solomon
scuote la testa. -
No, faccio parte di una comunità al cui interno esistono legami stretti e ho
diversi amici, sparsi qua e là nel regno di Gerusalemme come in Siria. Non ho
con loro l’intimità che viene dal contatto quotidiano, ma ci sono affinità
profonde che permettono di ritrovarsi anche dopo una lunga separazione. -
Quello che mi succede con Guillaume. -
Sì, credo di sì. Rimangono
un attimo in silenzio, poi Solomon dice: - E
ora, se non avete altre domande, tolgo il disturbo. Vi ho rubato fin troppo
tempo. Denis
ride. -
Credo di avervene rubato molto di più io. - Ma
voi siete il duca e io solo… Denis
non lo lascia proseguire e completa al posto suo: -
…solo uno degli uomini più intelligenti e abili che io abbia mai conosciuto. -
Grazie, duca. -
Tornate a trovarmi quando volete, Solomon. Mi fa sempre piacere parlare con
voi. -
Grazie. A presto, allora. Denis
è contento di questo colloquio. Spera di avere presto occasione di parlare di
nuovo con Solomon. Con lui si trova davvero bene. Ed è proprio un bell’uomo.
Denis si rende conto di essere attratto da lui. Non farà nulla, ma l’idea di
rivederlo e parlargli gli fa davvero piacere. Nella
casa Solomon fa infine conoscenza con Emich: è Morqos a portarlo da lui, una
sera. Emich è prudente, perché sa che il vescovo cerca di perderlo, ma quando
Solomon gli parla delle loro conoscenze comuni, si rende conto di non aver
nulla da temere da questo ebreo. Chiacchierano
volentieri, a lungo: è l’inizio di una nuova amicizia. Morqos è molto
contento che Emich e Solomon si siano intesi subito: tiene molto ad entrambi.
Attraverso Emich, l’ebreo ha modo di conoscere meglio gli altri uomini della
casa, soprattutto il servitore Tristan. Intanto
prosegue con le sue indagini, ma ottiene ben poco. Si muove con prudenza,
conscio dei rischi che corre, e sa che non può esporsi troppo, perché molti
lo conoscono. Ma in questo modo non arriverà da nessuna parte. Decide perciò
di tornare dal duca, anche se ha fatto solo un piccolo passo avanti. Solomon
si presenta a palazzo e chiede di parlare con Manrique. L’ufficiale viene ad
accoglierlo. Davanti ai soldati di guardia sorride e stringe la mano
all’ospite, dicendo: -
Solomon, sono contento di vederti. Vieni. La
frase serve solo perché tutti credano che Solomon viene davvero per parlare
con Manrique: in realtà l’ufficiale conosce solo di vista l’orafo e sa che
quando si presenta, deve accompagnarlo dal duca, sincerandosi che nessuno
venga a saperlo. Non ha nessuna idea degli argomenti affrontati in queste
visite e dei motivi per cui devono rimanere segrete, ma è ovvio che deve
trattarsi di qualche cosa di molto importante. Il
duca è occupato, ma Manrique ha l’ordine di avvisarlo comunque. Entra e dice: - Mi
scusi, signor duca, ma devo dirle una cosa con la massima urgenza. Denis
ha capito. Si avvicina a Manrique, che è rimasto sulla porta, e gli dice,
pianissimo: -
Solomon? -
Sì. -
Digli che ne ho per qualche minuto. Rimani con lui fino a che ho concluso. Denis
ritorna per terminare il colloquio. Manrique
riferisce a Solomon che deve attendere un momento e si ferma con lui. Non sa
bene che dire, ma l’ebreo lo toglie dall’imbarazzo. -
Come ti trovi qui, Manrique? Manrique
è stupito della domanda diretta, ma Solomon gli ispira simpatia e non gli
dispiace scambiare due parole. -
Bene. Apprezzo molto il duca: devo dire che ogni giorno che passa, mi rendo
conto di quanto sia intelligente e giusto. Il suo valore, l’ho visto sul
campo di battaglia e non me lo scorderò mai. -
Sei contento di essere al suo servizio, allora. Non
è una vera domanda. Manrique risponde. -
Sì. Molto. -
Non ti pesa stare lontano dalla tua terra? Manrique
alza le spalle. - Ho
lasciato il mio paese tra i monti quando ero ragazzo. Non ho grandi legami. E
poi, ti dirò… Manrique
esita un momento. Solomon lo incoraggia: -
Dimmi. -
Non avevo piacere di tornare a Tarragona. Il conte mi aveva incaricato di
proteggere il figlio. Ma non pensava certo che si saremmo trovati ad
affrontare il Saladino. Guillem è morto, anche se abbiamo cercato di
difenderlo. Se… Manrique
vorrebbe dire che se Guillem non avesse cercato di fuggire, probabilmente il
duca sarebbe arrivato in tempo per salvare anche lui, ma non vuole parlare
male di colui che serviva. Prosegue: -
Insomma, non tornerei volentieri da suo padre, anche se non ho nessuna colpa. -
Capisco. Perciò rimarrai qui. È una buona cosa. Il duca ha bisogno di uomini
leali. - Mi
sembra che tutti abbiano nei suoi confronti una vera devozione. -
Sì, senz’altro, ma ha anche molti nemici potenti. E non solo tra i saraceni.
Occorre vegliare su di lui. -
Capisco che i saraceni lo possano odiare, anche se è un guerriero leale e
generoso. Ma che sia odiato anche da altri cristiani… so che il problema
esiste, mi hanno detto che è in conflitto con il vescovo… ma davvero, mi
sembra incredibile. -
Non ti stupire, Manrique. Rougegarde è davvero la perla del regno, ricca e
splendida. Il duca è un uomo molto potente, che gode, meritatamente, della
piena fiducia del re. Tutto questo suscita invidia in gente che non ha
neppure la metà della sua intelligenza e del suo coraggio. Manrique
non fa in tempo a rispondere: mentre stanno parlando, entra Denis.
L’ufficiale si congeda. -
Sono contento di vedervi, Solomon. Avete novità? - Ho
pochi elementi nuovi, ma devo porvi una domanda. -
Ditemi. -
Prima vi espongo quel poco che ho scoperto. In primo luogo so il nome di
colui che sta cercando una via per arrivare a voi e uccidervi: Maazin. -
Non l’ho mai sentito nominare. -
Non mi stupisce. È un ladro di professione e un assassino quando occorre, è
stato condannato a morte a Hama, ma liberato su pressione di Ramzi, che ne ha
intuito il valore. È qui in città e si sta dando da fare. Si muove tra quelli
come lui. Si è presentato con il suo vero nome per vincerne la diffidenza. Ma
non so dove si nasconda. E non è facile scoprirlo senza farsi scoprire. -
Non correte rischi per me, Solomon. Non lo voglio. Denis
sorride e aggiunge: - È
un ordine, non una preghiera. Anche
Solomon sorride. -
Duca, credo che abbiate capito benissimo che non sono così obbediente. Sono
sempre stato una testa calda, la disperazione di mia madre e soprattutto di
mio fratello, che ancora oggi mi sopporta a fatica. Mio zio usò la cinghia
molte volte. Il mio culo porta ancora i segni di una volta in cui lui perse
completamente la pazienza. Il
tono del loro colloquio è formale e l’ultima frase di Solomon appare una
stonatura. Per un attimo Denis prova l’impulso di scherzare e dire che vuole
vedere se è vero: un pensiero chiaramente assurdo, che non viene neanche
preso in considerazione. Il duca si limita a commentare: - Ma
le cinghiate non vi hanno reso più obbediente. -
No, per nulla. E in fondo neanche mio zio mi avrebbe voluto diverso. Però
cercava di insegnarmi i limiti. In questo credo che ci sia riuscito, a spese
del mio culo. Di
nuovo la parola che sembra in qualche modo voler rompere la gabbia di una
conversazione corretta e distaccata. Di nuovo una strana sensazione, che
Denis preferisce ignorare. Denis
scuote la testa. Poi dice, serio: -
Davvero, fate attenzione. Mi spiacerebbe molto se vi succedesse qualche cosa. - E
a me spiacerebbe se succedesse qualche cosa a voi. Denis
sorride. -
Temo che con voi sia difficile avere l’ultima parola. Ma ditemi qual è la
domanda che volete pormi. -
Questa, duca: posso giocare a carte scoperte con Morqos? Denis
non nasconde il suo stupore. Ha intuito, ma la sorpresa è stata troppo forte.
Si limita a una domanda generica: -
Che cosa intendete? -
Credo che lui lavori per voi. E adesso anch’io sto lavorando per voi, anche
se non in modo continuativo. Potrebbe essere utile unire le nostre forze, a
meno che voi abbiate qualche motivo per preferire che questo non avvenga. -
Potrei chiedervi che cosa vi fa pensare che lavori per me, ma sarebbe un
insulto alla vostra intelligenza. Vi chiedo allora come avete fatto a scoprirlo. -
L’ho intuito, da tante cose. Ha incominciato a interessarsi a me dopo che
siete stato informato del ruolo che ho svolto ad Afrin, a San Giacomo
d’Afrin, se preferite. Perché siete stato informato, da Pierre, suppongo. E
poi Morqos è una persona troppo intelligente per vivere di rendita perdendo
il suo tempo. Comunque vi ringrazio per avermi permesso di conoscerlo. Mi
piace molto. Denis
guarda Solomon, che sorride. Ha l’impressione che in quel sorriso ci sia un
che di ironico. Si chiede quanto vadano d’accordo l’orafo e l’informatore.
Morqos ha due figli, ma questo non vuol dire. Solomon è un uomo affascinante. - Ci
sono momenti in cui mi preoccupate, Solomon. Credo di avervelo già detto, ma
preferirei non avervi come nemico. -
Non credo che sarebbe possibile. Vi stimo e vi ammiro troppo. -
Grazie, Solomon. Comunque la risposta alla vostra domanda è positiva. Dirò a
Pierre di parlare con Morqos oggi stesso. -
Perfetto. Ora vi lascio. Non voglio rubarvi troppo tempo. A
Denis spiace che Solomon se ne vada, ma preferisce non mostrarlo. Nel
pomeriggio però il pensiero va spesso a lui. Solomon ha detto di essere un
impertinente. In fondo è vero, ma a Denis piace la sua sfacciataggine. Al
laboratorio di Solomon si accede da una porta sulla strada e da una interna,
che dà sul cortile: in questo modo l’orafo non deve uscire dalla casa per
raggiungere la bottega. Morqos passa dal cortile e bussa alla porta, che è
chiusa: Solomon lavora con materiali preziosi e l’uscio è sempre sbarrato. Solomon
gli apre, lo guarda, gli sorride e dice: -
Vedo che Pierre ti ha già parlato. Morqos
ride. -
Non so se me lo leggi in faccia o se semplicemente l’hai capito vedendomi
venire qui. Ma ero sicuro che non avrei avuto bisogno di dirti niente. -
Vieni dentro. Devo finire un lavoro. E in ogni caso parliamo dove nessuno ci
può ascoltare. Passano
nel laboratorio di Solomon. -
Scusa, ma non posso interrompere. Pazienta un momento. -
Nessun problema: ti guardo volentieri al lavoro. Però tu mi spieghi che cosa
stai facendo. È
vero. Morqos è curioso di vedere Solomon al lavoro: non ha mai avuto
l’occasione di seguire l’attività di un orafo. -
Sto finendo un champlevé. Sai che cos’è? - Ho
sentito questo termine. È un oggetto con una decorazione a smalto. -
Esatto. Può essere di metalli diversi e dorato. Oppure può essere interamente
d’oro, come in questo caso. Ho scavato alcune cavità, che poi ho riempito con
smalto vitreo. Poi l’ho cotto, in modo che lo smalto sciogliendosi riempisse
bene le cavità e adesso lo sto levigando e lucidando. Ma ho quasi finito. Solomon
riprende il lavoro. Morqos lo osserva, in silenzio: non vuole disturbare.
L’orafo passa un oggetto che sembra una lima in alcuni punti. Poi sparge una
specie di crema e la toglie con uno straccio. Pulisce ancora con un secondo
straccio e osserva il lavoro, annuendo. Morqos intuisce che Solomon ha
concluso e chiede: -
Posso vederlo? -
Certo. Solomon
gli porge l’oggetto, un ciondolo che raffigura un arabo: un uomo giovane, con
barba e fitti capelli ricci e neri, snello ed elegante. È vestito
sontuosamente, con un abito blu a ricami dorati, e ha un bracciale d’oro al
polso e diversi anelli alle dita. Morqos lo osserva con attenzione: è un
ritratto ricco di dettagli, di grande bellezza. È incredibile come Solomon
sia riuscito a creare in un ciondolo di ridotte dimensioni un ritratto tanto
preciso ed elegante. - È
una persona reale? -
Certo, l’emiro ‘Izz ibn Ashraf, di Jabal al-Jadid. -
Posso chiederti per chi è? -
Per lui. Credo che voglia donarlo a qualcuno. -
Una delle sue mogli? Solomon
scuote la testa. -
Non si è sposato. E preferisce i giovani maschi. -
Certo che ne sai di cose. -
Non è un segreto per nessuno, questo. -
Comunque è un oggetto splendido. -
Grazie. C’è
un attimo di silenzio, poi Morqos ride. - E
adesso mi dici come hai fatto a capire. Solomon
scuote la testa. -
Morqos, questa non è una casa qualunque. Il duca ha mandato qui prima Sarah e
suo fratello, poi… Mara con il figlio. Tuo fratello è uno dei medici del
duca. E qui c’è Emich, che il duca protegge e che il vescovo odia. Difficile
che non ci sia qualcuno a tenere sotto controllo la situazione. Certo, c’è
Pierre, ma lui rimane a palazzo gran parte del tempo e tutti sanno che lavora
per il duca. -
Tutto ciò l’hai saputo da Giovanni? -
Sì, certo. Ci conosciamo da diversi anni. Aveva già avuto qualche contatto
con mio zio. E ama chiacchierare. Racconta volentieri della casa e degli
ospiti. È un po’ più prudente su Emich, perché non vuole correre rischi. - E
hai individuato in me un uomo del duca. -
Sì. Un po’ perché ti sei avvicinato dopo che Pierre ha saputo del ruolo che
ho svolto a San Giacomo durante il massacro, un po’ perché ogni tanto esci
vestito come un poveraccio, con abiti che non ti vedo mai quando sei nella
casa. E soprattutto perché sei troppo intelligente per passare il tempo a
grattarti i coglioni. Solomon
ride. -
Non abbastanza intelligente per farla in barba a te. Ma va bene così e devo
dire che l’hai messo in un modo che lenisce la ferita al mio amor proprio.
Sarà un piacere collaborare con te, Solomon, davvero. Dimmi tutto. - Il
duca è minacciato. Faaris era uno degli uomini inviati dagli ismailiti, ma
non l’unico. L’altro si chiama Maazin, ladro e assassino. Un uomo molto
pericoloso, a differenza di quel coglione di Faaris. Perciò, te lo dico subito,
muoviti con cautela. -
Sono abituato a essere prudente. E credo che lo stesso valga per te, se sei
ancora vivo. -
Esatto. Ho bisogno di avere qualcuno che mi aiuti, ma non voglio mettere la
tua vita a rischio. - Me
l’hai detto. Che cosa posso fare? - Credo
che Maazin stia nel quartiere di quella che chiamano la terza moschea. -
Uno dei posti peggio frequentati della città. Adatto per un ladro e un
assassino. -
Sì. Sarebbe utile che tu ti aggirassi un po’ da quelle parti. Io non posso
fingermi un criminale, non qui a Rougegarde, dove molti sanno che sono un
orafo ebreo. -
Posso farlo. In fondo l’essere stato condannato alla lapidazione per
adulterio mi ha reso sospetto agli occhi di molti. E tutti sanno che
frequento gente poco raccomandabile. Morqos
ha raccontato a Solomon il suo passato e la condanna a cui è sfuggito solo
perché il duca ha conquistato la città prima che venisse eseguita la
sentenza. -
Dobbiamo capire come intende muoversi questo Maazin. -
Hai qualche idea? Potrei mettermi anch’io a cercare un assassino, con la
scusa di avere un conto da regolare, senza passare per la giustizia del duca,
ma non mi sembra che abbia senso. -
No, non ne ha, sono d’accordo. Perché non basta assoldare un assassino,
dobbiamo capire chi ha assoldato Maazin, che non agirà certo da solo, e
soprattutto come conta di agire, se pensa di entrare a palazzo o di tendere
un agguato fuori. -
Entrambe le vie mi sembrano difficili da percorrere. -
Incominciamo a vedere se è possibile introdursi a palazzo contro la volontà
del duca. - Se
provassi a dire che voglio vendicarmi di un soldato, che ha sedotto mia
moglie? Chi conosce la situazione potrebbe pensare a Pierre: sta nella stessa
casa dove abito io. Se scopasse con mia moglie, non potrei ammazzarlo a casa,
saprebbero subito che sono stato io. Allora voglio colpirlo a palazzo, perché
nessuno pensi a me. -
Non so quanto regga, ma potrebbe essere una via da percorrere. Anche se non
ti credono, l’importante è che non sospettino che vuoi ostacolare i progetti
di qualcun altro. Bada a come ti muovi, Morqos. Corri dei rischi. Al minimo
errore potresti ritrovarti la gola tagliata. - Me
l’hai già detto, sembra quasi che tu tenga a me. Solomon
sorride: -
Sai benissimo che tengo a te, realmente. E non solo perché mi piace scopare
con te ogni tanto. Direi che quello non è proprio l’elemento essenziale.
Anche se fa la sua parte. Solomon
si avvicina a Morqos, fino a che i loro visi si sfiorano. Poi lo bacia sulla
bocca. La
terza moschea si chiama così perché il signore di al-Hamra che la fece
costruire, un antenato dell’emiro Ashraf ibn Harun, aveva fatto voto di
innalzare tre moschee se avesse ottenuto un figlio maschio. Il suo desiderio
fu esaudito ed egli mantenne il voto. L’edificazione delle prime due moschee
comportò grandi spese, perché l’emiro le volle grandi e sontuose. Prima che
incominciassero i lavori per la terza moschea, scoppiò una guerra e vennero a
mancare i fondi per una costruzione al livello delle altre. Venne perciò
realizzata una piccola moschea nella parte alta della città. Il
quartiere è molto povero e viene scelto come rifugio da molti uomini che
vivono al margine della legge. Qui si trovano anche diverse case di
prostituzione, che Morqos talvolta frequenta, se pensa di potervi ottenere le
informazioni che cerca. Morqos
sa a chi rivolgersi per le sue indagini. Rimane molto sul vago per quanto
riguarda i motivi per cui vuole introdursi a palazzo. Spiega che è una
faccenda personale, che riguarda un soldato del duca, ma che vuole colpirlo
dove nessuno può pensare a lui. Due
giorni dopo, nel tardo pomeriggio, Morqos bussa di nuovo al laboratorio di
Solomon. -
Hai ottenuto qualche cosa, vero? Morqos
annuisce. -
Sì, ma poca roba e niente di certo. In primo luogo sembra che io non sia
l’unico che vuole entrare a palazzo di nascosto. Non ho chiesto chi altri
abbia la stessa intenzione, ma mi sembra probabile che sia il nostro amico. -
Direi di sì. -
Pare che l’unico modo per accedere siano i passaggi sotterranei. Ho scoperto
come entrare in uno di questi, ma secondo il tizio con cui ho parlato, non si
può più arrivare al palazzo, perché il corridoio è sbarrato da una porta, che
viene sorvegliata. Questo passaggio incrocia un canale, che passa sotto il
palazzo. Secondo il mio informatore, il canale non è percorribile, però è
l’unica via che lui conosce. -
Verificherò. -
Posso farlo io. -
No, ci dividiamo i compiti. Tu cerchi le informazioni e io le verifico. Morqos
annuisce. -
Come vuoi, ma fa’ attenzione. Il canale è sotterraneo ed è buio: quando sei
sott’acqua ci vuole un attimo a perdere l’orientamento e affogare prima di
trovare il modo di uscire. -
Vedo che anche tu ti preoccupi per me. Morqos
annuisce. Poi ghigna e dice: -
Sei bravo a scopare. Solo per quello. -
Stronzo! Solomon
segue le indicazioni ricevute. Al passaggio sotterraneo si accede dal cortile
di una casa. Bisogna scavalcare il muro esterno, ma non è un problema: ci
sono appigli e sporgenze ed è facile issarsi. Solomon studia la situazione di
giorno e ritorna la notte, con una lanterna. Conta di non incontrare nessuno,
perché ormai è tardi, ma proprio davanti al muro c’è una donna accovacciata a
terra. Solomon si chiede se tirare dritto e ripassare più tardi, ma
avvicinandosi si accorge che la donna geme e si torce le braccia. Si
avvicina: -
Avete bisogno d’aiuto? La
donna alza la testa, mostrando un viso scarno in cui brillano due grandi
occhi spiritati. -
Mio figlio… dov’è mio figlio? Solomon
capisce chi è la donna: una povera demente che da tempo si aggira nel
quartiere, alla ricerca di un figlio forse morto, forse lontano o forse del
tutto immaginario. -
Non so. Non lo conosco. Posso aiutarvi? La
donna scuote la testa. Solomon le porge una moneta: sa che la donna vive di
elemosina. Poi si allontana. Si
ferma in un angolo buio, dove nessuno può scorgerlo, ma da dove può vedere la
donna seduta a terra: prima o poi la poveretta se ne andrà. Passano circa
venti minuti e in cima al muro appare un’ombra: un uomo che con un salto
scende nella via, senza accorgersi della presenza della folle. La donna vede
quest’ombra comparirle di fronte di colpo, dall’alto, e lancia un grido: -
Figlio mio, figlio mio! Si
aggrappa all’uomo, ma lo lascia subito con un grido soffocato. Lo sconosciuto
si allontana rapidamente e la donna crolla a terra. Solomon si avvicina. Una
pozza di sangue si allarga sul selciato. Chinandosi su di lei, Solomon vede
la donna ha la gola tagliata: l’assassino l’ha colpita per liberarsene. L’ha
uccisa in un attimo, con un colpo solo, dato senza incertezze: è un uomo
abituato a uccidere e sa bene come fare. Deve trattarsi di Maazin. Se Solomon
non avesse incontrato la donna, se lo sarebbe trovato di fronte. La donna
forse gli ha salvato la vita, ma è stata uccisa. Per lei non c’è più niente
da fare. E
ora? Esplorare
il passaggio sotterraneo è rischioso: al ritorno Solomon potrebbe trovarsi di
fronte i soldati della ronda ed è meglio che nessuno sappia quello che sta
facendo. Solomon decide di ritornare verso il mattino. Il
buio è ancora molto fitto quando Solomon ripassa nella via. Il corpo non c’è
più: la ronda notturna l’ha trovato oppure l’ha visto qualche passante che ha
avvisato i soldati. Supera
il muro e si ritrova nel cortile. Lo attraversa, spinge un uscio e si trova
davanti una scala: una rampa sale al piano superiore, l’altra porta nei
sotterranei. Solomon scende e trova una porta sbarrata con alcune assi. Le
toglie e vede una seconda scala, a chiocciola, che cala fino a un corridoio.
Solomon riflette sulla posizione in cui si trova, per capire in quale
direzione il passaggio porta verso il palazzo ducale, poi incomincia ad
esplorarlo. Dopo
aver percorso una breve distanza, vede un canale che scorre parallelo al passaggio
per un tratto, poi se ne allontana. Dal punto in cui il canale si stacca dal
corridoio, il soffitto si abbassa e l’acqua sembra riempire tutto lo spazio.
Se è così, o ci sono dei tratti in cui è possibile emergere per respirare, o
non lo si può percorrere. Solomon
si spoglia. Lascia la lanterna sul bordo del canale. Si immerge nell’acqua e
il freddo gli trasmette un brivido. Il canale non è molto profondo e con i
piedi Solomon tocca il fondo. Giunto al punto in cui il canale abbandona il
passaggio, Solomon si immerge e avanza, tenendo una mano in alto, per
verificare se ci sono spazi in cui ci sia aria. La parete superiore non sale
mai, per cui l’acqua riempie davvero tutto il condotto. Quando si rende conto
che non può procedere molto oltre, Solomon si volta e, nuotando vigorosamente
sott’acqua, ritorna al punto di partenza. Decide
di procedere a un secondo tentativo: nuovamente si immerge e avanza, questa
volta nuotando, in modo da riuscire a spingersi più lontano. Non sembra
esserci nessun punto in cui il soffitto sia più alto, per cui Solomon deve
tornare indietro. Si rende conto che ha bisogno di respirare, ma non è ancora
arrivato a dove ha lasciato la lanterna e non può emergere. Spinge con più
forza e urta contro la parete. Tra poco incomincerà a inghiottire acqua. Deve
uscire dall’acqua in fretta. Spinge con forza, tocca ancora una volta un lato
del passaggio e quando teme ormai di essere perduto, vede la luce della
lanterna. Con un’ultima spinta riemerge e respira rumorosamente. L’ha scampata
per un pelo. Questa
via non è percorribile. Meglio così. Solomon
si asciuga alla bell’e meglio con la tunica. Poi risale, a torso nudo, e solo
dopo aver scavalcato il muro finisce di rivestirsi. La notte è fresca e
Solomon ogni tanto ha un brivido. Arrivato a casa, si asciuga per bene e si corica.
Rimane a letto tutto il mattino. Nel
pomeriggio si alza: non si sente perfettamente in forma, ma non è nulla di
grave. In
serata Morqos gli annuncia di aver fatto un notevole passo avanti. - Un
mio amico, chiamiamolo così, anche se mi fido di lui come la lepre della
volpe, conosce qualcuno che sa come entrare a palazzo. - In
che modo? -
Non lo so, ma il mio amico è sicuro che questo tizio sappia davvero come
arrivarci senza che nessuno se ne accorga. -
Ottimo. Verificheremo questa via. - E
non è tutto. Forse non è neanche la cosa più importante. - E
qual è allora la cosa più importante? Morqos
ghigna. -
Non so se te la dico… Solomon
ride. -
Cazzo! Morqos, mi pigli per il culo? Non mi tenere in sospeso. -
Qualcun altro si deve essere rivolto a questo tizio per conoscere la via. -
Maazin, quindi. -
Penso di sì. Il mio amico mi ha fissato un appuntamento con il tipo stanotte.
Dev’essere un delinquente, da quel che ho capito, e spero che non mi
accoltelli. Morqos
ride e aggiunge: - A
quanto pare dovrò pure pagare parecchio. - Va
bene, Morqos. Andrò io. -
Tu? Perché? -
Perché pago io. Morqos
ride. -
Paga il duca. Su quello non ci sono problemi. Solomon
scuote la testa. -
Andrò io. Dammi tutte le indicazioni. Morqos
è perplesso. Intuisce che l’amico non vuole che lui corra rischi e si pente
di avergli detto che il tizio potrebbe tirargli una coltellata. Non vuole che
Solomon si ficchi nei guai. Ma ormai è tardi: è Solomon a prendere le
decisioni, Pierre glielo ha detto ben chiaro. -
Solomon, fa’ attenzione. Solomon
ride: -
Continuiamo tutti e due a dirci di fare attenzione. Va bene, se siamo vissuti
fino ad ora, significa che siamo prudenti. Nella
via Solomon si muove senza fare rumore. Rimane rasente ai muri delle case,
dove la luce lunare non arriva e l’ombra è più fitta. C’è silenzio, perché
ormai è notte fonda e solo i soldati di ronda percorrono le vie della città.
Ai cittadini non è vietato muoversi: le guardie si limitano a controllare le
persone che incontrano e a chiedere i motivi per cui sono in giro. Solomon
preferisce evitare di incontrare i soldati. Ha un appuntamento, in un vicolo,
sotto un arco, dove il buio è completo. Anche adesso che i suoi occhi si sono
abituati all’oscurità, Solomon riesce a malapena a distinguere i contorni
delle cose. La sua mano stringe il manico del pugnale: sa benissimo che se
Maazin e i suoi complici sospettassero le sue intenzioni, cercherebbero di
ucciderlo. Se lo trovassero scannato, tutti crederebbero a una rapina: ogni tanto
succede, anche se in città i controlli sono molto rigorosi e gli omicidi
rari. Qualcuno
si avvicina. Si ferma a pochi passi, in un punto in cui l’oscurità è meno
fitta. L’uomo tossisce tre volte: il segnale convenuto. Poi avanza in
direzione di Solomon. Solomon
si schiarisce la gola, per segnalare la propria presenza. È teso. Ha l’arma
in mano, ma un colpo di daga arriva in fretta. L’uomo
parla pianissimo. - Tu
vuoi conoscere una via, mi dicono. -
Sì. -
Pochissimi la conoscono. È una merce che costa cara. Senza
lasciare il pugnale, che tiene nella sinistra, con la destra Solomon porge
all’uomo la borsa. Le mani dell’informatore si stringono avide alla tela. Le
ha usate entrambe: non ha un’arma in mano. -
Pago bene, come vedi. L’uomo
ride, una risata un po’ roca. -
Che cazzo vuoi vedere, in questo buio? Ma il peso mi dice che se non ci hai
messo del ferro, va bene. - Se
tocchi, ti accorgi che sono monete. -
Sì, mi fido. Chi mi ha parlato, mi ha detto che sei uno di cui ci si può
fidare. In ogni caso non dire che mi hai parlato. - Lo
so. Lo stesso vale per me. Hanno
entrambi interesse a tacere e lo sanno bene. -
Allora, ascoltami. I tuoi amici intendono passare di sotto. - La
rete di canali e passaggi sotterranei? Solomon
ha già verificato che non è possibile percorrere il canale sotterraneo. Se
questa è la via che conosce l’uomo, le sue informazioni non valgono nulla, a
meno che l’uomo non conosca un altro passaggio. -
Sì, esatto. Ti spiego come si entra e da che parte bisogna andare. - Dimmi. - Di
fianco al palazzo ducale, dove c’è la moschea al-Kabir, c’è la bottega di
coltelli. Sul retro della bottega c’è una porta, che conduce al cortile di
una casa abbandonata. C’è un pozzo nel cortile e una scala che scende,
all’interno del pozzo. Al fondo passa il canale che porta l’acqua alla
cisterna sotto il palazzo. Non
si tratta dello stesso passaggio, quindi. Buono. -
Allora devo passare dal venditore di coltelli. Ci si può fidare di lui? -
Venderebbe la propria madre a Satanasso, se il diavolo fosse disposto a
pagare per quella vecchia puttana. Ma se paghi bene, non ti tradirà. - Va
bene, ti ringrazio. - Io
non ti ho detto niente. - E
io non ho incontrato nessuno, anche se qualcuno deve avermi preso una borsa
di monete, questa notte. Pazienza. L’uomo
ride di nuovo. -
Guai che succedono. Non è prudente girare da soli di notte. Solomon
ha avuto l’informazione che cercava. Conosce la via che gli assassini contano
di seguire, ma deve verificare che sia in effetti percorribile, poi ne
parlerà al duca. Al
pensiero di Denis di Rougegarde, gli sfugge un sorriso. Denis gli piace,
moltissimo. Non è bello, per nulla, ma
è un uomo affascinante, più di tutti quelli che Solomon ha conosciuto
nella sua vita. E l’ebreo ha l’impressione di piacergli. Non sa nulla dei
gusti del duca, ma Pierre d’Aguilard è in realtà figlio di re Amalrico. E
dopo Pierre la principessa Maria non ha più avuto figli. Troppo poco per
arrivare a conclusioni certe, ma qualche spiraglio sembra esserci. Solomon
cammina per le vie del quartiere come se non avesse nessuna meta precisa. Si
ferma ad osservare un gruppo di bambini intenti a giocare: recitano la storia
di un eroe che difende una città, ma il comandante nemico lo fa strangolare
nel sonno con un laccio di seta. Il laccio di seta è in realtà un lembo di
stoffa, ma i bambini si immedesimano molto nella scena, quasi fossero su un
palcoscenico. Non fanno caso a Solomon, il loro unico pubblico, e dopo un
momento l’ebreo si allontana, salendo verso la bottega che cerca. Il
venditore di coltelli è sulla soglia. Solomon si avvicina e osserva la merce.
Il mercante si accosta a lui e gli dice: -
Serve un coltello, amico? Ne ho di tutti i tipi. Ha
un alito molto pesante e mentre parla goccioline di saliva schizzano dalla
sua bocca. - Mi
serve un buon coltello, che vorrei donare: non un coltello raffinato, ma una
lama affilata. Hai qualche cosa di meglio di questi che vedo qui? -
Questi sono tutti buoni coltelli, ma se vuoi merce di valore, vieni dentro:
sulla strada preferisco non esporre i coltelli migliori. Non voglio che me li
rubino. All’interno
della bottega il venditore mostra a Solomon diversi coltelli. L’orafo ne
sceglie uno, con una buona lama e un manico comodo da impugnare. Nel pagare
fa in modo di mostrare il contenuto della borsa, che è piuttosto piena. Negli
occhi del venditore si accende una scintilla di avidità. - Se
hai bisogno di altra merce, amico… - Ho
bisogno d’altro, in effetti. Il
tono di Solomon lascia intendere che non si tratta di un coltello. Il
venditore ha capito benissimo che ora si parlerà di una merce diversa e che
le possibilità di guadagno saranno maggiori. Sorride e dice: -
Siediti e dimmi, amico. Solomon
si siede su un cuscino. - Ho
bisogno di tre cose. Posso pagarle tutte e tre e posso farlo in due modi
diversi. L’uomo
aggrotta la fronte. -
Che intendi, amico? -
Posso pagarle con monete d’oro, come quelle che hai visto. Pago bene e
subito. Ma se mi prometti di darmi ciò che ti chiedo e poi non mantieni, pago
con la lama di questo coltello. Il
venditore annuisce. Sa che l’uomo che ha davanti non scherza: non è tipo da
lasciarsi imbrogliare e un coltello sa usarlo benissimo, basta vedere come lo
impugna. -
Dimmi che cosa vuoi. - La
prima cosa che voglio è passare oltre quella porta. Solomon
indica la porta sul retro del negozio. L’uomo annuisce. -
Costa. Solomon
mette due monete sul tavolo. L’uomo allunga la mano, ma Solomon lo ferma. -
Compro tre cose insieme o non compro nulla. -
Dimmi le altre due cose. Solomon
mette quattro monete accanto alle altre due. È una grossa somma. Gli sembra
che il mercante trattenga il fiato. - La
seconda cosa è sapere chi e quando è passato o passerà per quella porta. -
Corro dei rischi. Grossi. -
Nessuno lo saprà mai e credo che il prezzo sia buono. Lo
è, chiaramente: Solomon lo legge negli occhi del mercante. - Mi
assicuri il tuo silenzio? -
Nessuno lo saprà mai. - Va
bene, dimmi la terza cosa. Solomon
mette altre quattro monete. Il venditore le guarda, senza riuscire a
nascondere la propria cupidigia. Non ha mai ricevuto una simile somma in una
volta sola. - Il
tuo silenzio. Completo. Solomon
mette di fianco alle monete il coltello che ha appena comprato: un monito
chiarissimo. L’uomo
guarda le monete, poi guarda Solomon. Annuisce. Allunga una mano. Solomon lo
ferma. -
Quando sono venuti? -
Ieri, nel pomeriggio. -
Quanto sono stati via? -
Forse un’ora. - Va
bene. Le monete sono tue. Ma bada a quello che fai. Anche se mi uccidessero,
qualcun altro ti farebbe conoscere il sapore del ferro, ricordatelo. -
Non ti tradirò, amico: ho una parola sola. Solomon
ha forti dubbi sull’onestà del mercante, ma ha pagato davvero tanto: è
abbastanza sicuro di aver portato l’uomo dalla sua parte. Solomon
si alza e attraversa la bottega. La vecchia porta di legno ha un fermo, che
Solomon toglie. Spinge il battente e passa in un piccolo cortile, occupato in
parte da un pozzo che appare troppo grande per quello spazio angusto. Solomon
si sporge. Il pozzo è molto profondo e al suo interno ci sono alcuni mattoni
sporgenti disposti lungo la parete, che permettono di scendere. Solomon si
spoglia, tenendo addosso solo i pantaloni leggeri che ha indossato prima di
uscire. Li rimbocca fino al ginocchio, in modo che non gli siano d’impaccio.
Dalla sacca prende la lanterna, la accende e la fissa al collo con una
cordicella. Poi entra nel pozzo e, poggiando i piedi sui mattoni sporgenti e
aiutandosi con le mani, scende. In fondo l’acqua scorre. Solomon
rabbrividisce. Non sta del tutto bene, non si è ancora completamente ripreso
dal freddo dell’esplorazione precedente. Ma non ha importanza. Vincendo la
repulsione istintiva, entra nel canale sotterraneo che attraversa il pozzo.
L’acqua gli arriva alla vita, ma il cunicolo è basso e per procedere Solomon
deve chinarsi. Se il livello dell’acqua crescesse, Solomon si troverebbe
sommerso, senza nessuna possibilità di salvarsi. Ma l’acquedotto sotterraneo
passa sotto al palazzo e sembra essere l’unica via per introdursi di
nascosto: altri passaggi, costruiti per gli uomini e in alcuni casi anche per
i carri, sono stati sbarrati e non è possibile accedere all’area del palazzo.
Solomon procede con cautela: l’acquedotto ha una leggerissima pendenza,
appena percepibile, che permette all’acqua di scorrere. Il soffitto però va
abbassandosi e presto Solomon riesce a malapena a tenere la lampada e parte
della testa fuori. A un
certo punto c’è un ulteriore abbassamento del soffitto. Procedere è
impossibile senza immergersi completamente. Il rischio è enorme: se l’altezza
del cunicolo non aumenta andando oltre, proseguire significa morire. Solomon
non può portare con sé la lanterna: questo significa che non sarà più in
grado di vedere dove va. Torna
indietro, finché non trova una nicchia su cui la appoggia. Poi riprende a
procedere fino al punto in cui deve immergersi. Respira a fondo e si lancia
sott’acqua, spingendosi in avanti con forza, finché si rende conto che deve
emergere o tornare indietro. Con cautela si avvicina alla superficie. La
testa urta contro la volta, ma c’è un po’ di spazio tra il soffitto e la
superficie dell’acqua. Solomon riesce a respirare. Ora che può tenere fuori
la testa, riprende a camminare e procede lentamente, tenendo il capo
inclinato all’indietro, in modo da non urtare la volta. Avanza fino a che, di
colpo, il terreno sotto di lui precipita. Solomon finisce sott’acqua e muove
le braccia rapidamente per ritornare a galla. Riemergendo, si rende conto che
la spinta energica che si è dato lo porterà a sbattere contro la volta, ma
non è così: la testa può stare completamente fuori dall’acqua senza sfiorare
la volta. Allora alza il braccio e si accorge che non raggiunge il soffitto.
Non è più in un cunicolo. Ha raggiunto la grande cisterna: è sotto il palazzo
ducale. Ha
sentito parlare di questo grande locale sotterraneo e sa che il duca ama
bagnarvisi. Non è un segreto per nessuno: alcuni soldati montano la guardia
alla porta che conduce alla cisterna e uno di loro deve averlo raccontato in
giro, senza pensare che qualcuno avrebbe potuto approfittare dell’informazione
per colpire il duca. Infatti dalla primavera all’autunno il signore di
Rougegarde scende spesso qui, da solo. Un posto ideale per un agguato: basta
appostarsi e attendere; prima o poi il duca scenderà, senza sospettare che è
possibile accedere alla cisterna attraverso il canale sotterraneo. Solomon
raggiunge la parete e si sposta senza staccarsene. Non si vede nulla: la
cisterna è immersa nel buio più completo. Solomon nuota lentamente,
spingendosi con le gambe e il braccio sinistro, mentre tiene la mano destra
contro il muro. A un certo punto gli sembra di scorgere un chiarore. In
effetti c’è un piccolo cunicolo, sopra il livello dell’acqua, da cui arriva
una luce molto tenue: un passaggio di aerazione, che però deve avere un
gomito, per cui la luce non arriva direttamente. Poco oltre, la cisterna è
nuovamente immersa nel buio. Solomon
prosegue con la sua esplorazione. Trova un altro canale di aerazione, poi la
parete gira ad angolo retto. Ora Solomon è lungo un lato su cui la parete è
molto bassa: ci si può facilmente issare, ma procedendo Solomon trova anche
una scala, che permette di uscire senza sforzo. Solomon sale. Su questo lato
di fronte alla cisterna c’è una superficie piatta. I passaggi che scendono
dal palazzo finiscono certamente qui, ma sono bloccati da porte. Solomon non
può fermarsi a lungo: si accorge di avere freddo. Deve muoversi. Farebbe
meglio a tornare indietro, ma vuole verificare che non esistano altri
ingressi o uscire. Si immerge e procede nella sua esplorazione, facendo il
giro completo della cisterna. Non trova il canale di uscita, che certamente
esiste, né quelli che portano ai due pozzi presenti nei cortili del palazzo:
evidentemente sono molto sotto il livello dell’acqua e non possono essere
percorsi. L’unico modo per entrare è seguire la via che ha scelto Solomon. Quando
ha completato il giro, Solomon riprende il passaggio che lo ha condotto alla
cisterna. Adesso ha molto freddo e il suo corpo è percorso da brividi.
Raggiunge senza difficoltà la lanterna che ha lasciato. La riprende e ritrova
il punto in cui può uscire dal canale e passare nel pozzo. Risale a fatica
aggrappandosi ai mattoni sporgenti: gli mancano le forze. Uscito dal pozzo si
riveste e ripassa dalla bottega. Il
negoziante non chiede nulla. Solomon si limita a dire: -
Hai ricevuto il prezzo del silenzio. Sai qual è il prezzo del tradimento. - Lo
so. Non dovrò pagarlo. L’orafo
esce. Si sente stanco e ha freddo. A
casa si asciuga bene. Dovrebbe andare dal duca a riferire, ma è troppo debole
e ha i brividi. Ha bisogno riposarsi un po’, prima di uscire per informare
Denis. Si stende sui cuscini, ma presto si rende conto di fare fatica anche a
stare seduto e si mette a letto. In
serata Morqos, non vedendo Solomon, passa a trovarlo e lo trova coricato.
Pare addormentato, ma il respiro è affannoso. Morqos si spaventa: -
Solomon! Che ti è successo? Solomon
si sveglia. Vede l’amico e cerca di parlare, ma ha la lingua impastata e gli
costa fatica articolare una frase. Risponde: -
Preso freddo… non sto… bene… brividi… Non è niente. Poi
tace: le poche parole sono già state uno sforzo. Morqos
tocca la fronte di Solomon e gli pare che scotti. Gli occhi sono lucidi e a
tratti l’ebreo sembra non riuscire a respirare. -
Chiamo subito Istfan. Per fortuna è qui. Istfan
è il fratello di Morqos. È medico e vive nella stessa casa, insieme al
servitore Tristan. Istfan
arriva dopo pochi minuti. Controlla le condizioni di Solomon: il respiro, il
battito cardiaco, la temperatura. I risultati del suo esame lo preoccupano.
Prepara una pozione che fa bollire e la dà da bere ancora molto calda al
malato. Solomon inghiotte a fatica. Istfan
fa accendere un fuoco nel camino, anche se non fa più così freddo, e ordina a
Solomon di rimanere ben coperto. Poi si rivolge a Morqos: -
Bisogna vegliarlo. Molto
piano, perché Solomon non senta, aggiunge: - È
una situazione disperata, Morqos. Morqos
si sente gelare. È profondamente affezionato a Solomon e l’idea che sia in
pericolo di vita lo angoscia. Solomon
sente freddo, nonostante il fuoco nel camino, le coperte e la bevanda calda.
Ha i brividi e non riesce a controllare il tremito del suo corpo. Ha
l’impressione che gli manchi l’aria e al petto sento un dolore forte, che va
crescendo. Si rende conto di essere a un passo dalla morte. Vorrebbe avvisare
Morqos del passaggio sotterraneo, perché possa riferirlo al duca, ma non
riesce più a formulare una frase coerente e anche le idee si confondono, fino
a svanire. Quando ha gli occhi aperti, vede solo più forme indefinite
passargli davanti. Chiude gli occhi. Morqos
decide di trascorrere la notte al capezzale. Il
mattino dopo Solomon è incosciente e non c’è modo di comunicare con lui. A
tratti delira: dice frasi senza senso, in cui talvolta ricorrono nomi.
Respira con grande fatica. Morqos
dice a Pierre di informare il duca della malattia di Solomon. La notizia
coglie di sorpresa Denis, che si preoccupa. Chiede: - Ma
che cosa dice Istfan? - È
molto pessimista. -
Senti, mando anche Nabih. Nabih
è il medico personale di Denis. Pierre
accompagna Nabih da Solomon. A Istfan non spiace potersi consultare con un
collega molto in gamba: Nabih è considerato il miglior medico del Regno. Il
medico esamina con attenzione il malato e ascolta la relazione sul decorso
della malattia. Scuote la testa e anche lui è chiaramente pessimista, ma
dice: - Ha
una fibra molto robusta. Può farcela. -
C’è qualche cos’altro che posso fare? -
No, hai fatto tutto quanto potevi. Adesso possiamo solo sperare che sia più
forte della malattia. Nabih
torna a palazzo e relaziona al duca. - Le
condizioni del malato sono molto gravi e rischia di morire. Ma è un uomo
robusto e non è detto che non riesca a sopravvivere. Denis
è angosciato. L’orafo lo ha colpito molto già al loro primo incontro e i
colloqui successivi hanno creato tra loro un forte legame. In lui Denis ha
trovato qualcuno con cui può sempre parlare. Gli piace la sicurezza di
Solomon, gli piacciono la sua irriverente sfacciataggine, la sua generosità.
Tiene moltissimo a lui. Denis
chiede a Pierre di portargli regolarmente notizie. Nel pomeriggio Pierre
ripassa da Solomon e informa Denis che c’è stato un ulteriore peggioramento.
Le possibilità di guarigione appaiono minime. Denis manda nuovamente Nabih. L’ebreo
è assistito tutto il giorno. Sono in molti a darsi il cambio per seguirlo,
soprattutto Morqos, insieme a Emich, e le donne, che si aiutano a vicenda,
per cui quando una assiste Solomon, le altre le tengono i bambini. Mariette,
la compagna di Morqos, è meno presente perché deve gestire la locanda, ma
anche lei fa brevi turni, come Tristan. Istfan passa più volte al giorno, ma
Solomon sembra sprofondare in un abisso, da cui il medico teme di non
riuscire a tirarlo fuori. Nabih
passa ogni mattina ed è lui il primo a manifestare un cauto ottimismo il
quarto giorno: - Ha
retto per tre giorni, se regge ancora un giorno o due, se la caverà. In
effetti la febbre incomincia a calare e anche Istfan diventa meno pessimista.
Molto lentamente Solomon riemerge dall’abisso. Denis
deve partire per Cesarea, dove lo chiama il suo ruolo di tutore dell’erede
della città: ha rimandato il viaggio per le condizioni di Solomon, ma ora che
l’ebreo è fuori pericolo e migliora di giorno in giorno, decide di partire.
Al suo ritorno lo convocherà, perché ha piacere di parlargli. Quando
Solomon recupera la lucidità, chiede del duca. Gli rispondono che Denis è
appena partito: starà via almeno due settimane, forse di più. Solomon si
tranquillizza: se il duca è assente, ha tempo per organizzarsi e per
avvisarlo. Quando avrà ripreso le forze, farà un controllo della situazione e
poi aspetterà il ritorno di Denis per comunicargli ciò che ha scoperto. Superata
la fase acuta, Solomon si rimette in fretta. Per tutti nella casa è una gioia
vederlo migliorare costantemente. Ora che sta meglio, non ha più voglia di
rimanere a letto, ma Istfan lo costringe a riguardarsi e Morqos lo sorveglia
“peggio di un carceriere”, come dice Solomon. Quando
infine è perfettamente guarito, Solomon riprende a lavorare e a uscire.
L’assenza del duca si prolunga e, in attesa che Pierre gli comunichi il suo
ritorno, Solomon decide di tornare dal negoziante di coltelli, per sapere se
i sicari sono ripassati. Probabilmente no, visto che il duca non è in città. Ha
quasi raggiunto la bottega quando casualmente scopre che il duca è rientrato
in città in mattinata. Deve avvisarlo subito, prima che i sicari raggiungano
la cisterna. Fa per avviarsi a palazzo, quando un dubbio lo assale. Si
dirige alla bottega. Il mercante sussulta vedendolo e il suo sguardo va alla
porta sul retro. Solomon intuisce: -
Sono là? L’uomo
annuisce. - Da
questa mattina. Denis
è rientrato, accaldato per il viaggio. Ha avuto conferma che Solomon sta bene
e che ha già ripreso a uscire di casa. La notizia lo rallegra. È contento al
pensiero che presto lo rivedrà: lo farà chiamare nel pomeriggio. Dopo
aver parlato brevemente con Luc, Denis decide di scendere nella grande
cisterna sotterranea per bagnarsi: nelle giornate già molto calde della
primavera mediterranea, questo ambiente fresco lo attrae e vi si reca con
frequenza. Il
locale è molto vasto, ma buio: dalle piccole aperture praticate lungo una
delle pareti, subito sotto il soffitto, filtra pochissima luce, appena
visibile per chi è nelle vicinanze. Per chi arriva dalle scale, la cisterna è
immersa nell’oscurità più completa. Denis
ha portato una torcia, con cui ne accende una seconda, infilando entrambe
negli anelli alla parete. Non gli dispiace nuotare al buio, ma ama anche
vedere l’immensa sala, con le alte colonne che reggono il soffitto: questo
locale è davvero un capolavoro di ingegneria, che la luce delle torce
illumina solo in parte. Denis
si spoglia. Si toglie le vesti e rimane nudo. Guarda l’acqua scura e scende i
gradini. Si immerge completamente e si mette a nuotare, allontanandosi dal
bordo. Scivola tra le colonne, verso l’area dove la luce delle torce arriva
appena. Nuota
un buon momento, godendosi il piacere che gli trasmettono la frescura
dell’acqua e la sensazione di leggerezza del rimanere a galla. Poi si dirige
verso la scala che scende nella cisterna, per uscire, asciugarsi, rivestirsi
e risalire. Ma mentre si avvicina nuotando lentamente, si accorge che la sua
spada non c’è più. Invece di salire e uscire, arretra velocemente. Il suo
movimento è stato notato e da dietro le colonne spuntano tre uomini armati di
pugnale. Sono riusciti a infilarsi nel palazzo. Come? Denis non lo sa, ma non
è questo il problema, ora. Denis arretra, ma la cisterna non ha altre vie di
uscita e i suoi assalitori non gli permetteranno di raggiungere la porta del
passaggio che conduce al palazzo. I
tre uomini lo guardano, tranquilli: sanno che non può sfuggire loro. I loro
pugnali avranno infine ragione del Cane dagli occhi azzurri. Denis
si allontana nuotando, fino a raggiungere la parte dove la luce delle torce
arriva appena. I tre assassini sono rimasti fermi e fissano l’oscurità.
Probabilmente riescono appena a intravederlo. Denis potrebbe arretrare
ancora, ma lo farà solo se i tre scenderanno in acqua. Per raggiungerlo
dovranno immergersi e nuotare e questo ridurrà il loro vantaggio, ma sono in
tre e sono armati. E Denis non può nascondersi a lungo, né rimanere per
sempre in acqua. Gli
uomini si guardano, poi, dopo un cenno d’intesa, due di loro avanzano. Si
infilano il coltello tra i denti e scendono i tre gradini che portano in
acqua. Denis sa che non ha scampo. Anche se in qualche modo riuscisse a
raggiungere il bordo, magari nuotando sott’acqua in modo da non essere visto
dai due che si sono immersi, troverebbe il terzo uomo che lo aspetta. E non
può pensare di riuscire a sfuggire a lungo ai due che lo cercano. Denis
ha coscienza di essere perduto, ma intende lottare fino all’ultimo. I
due stanno nuotando lentamente verso di lui: non vogliono perderlo di vista.
Denis si immerge e si allontana, fino a raggiungere un’area dove il buio è
quasi completo. I suoi assassini si fermano, guardandosi intorno. Non possono
vederlo, perché dove si trova l’oscurità è troppo densa, mentre il duca può
scorgerli, perché la luce delle torce giunge fino al punto dove si trovano. In
quel momento l’acqua poco lontano da lui si muove e una testa emerge. Per un
attimo Denis pensa che uno degli assassini lo abbia raggiunto, ma la voce
sussurra: -
Duca. Denis
riconosce la voce. Allibito, risponde: -
Solomon! Solomon
si avvicina e gli porge un coltello, senza dire nulla. -
Fatevi vedere da loro. Denis
non sa che cos’abbia in mente Solomon, ma non c’è il tempo per discutere.
Avanza un po’, in modo che ora i due assassini possano scorgerlo. Solomon si
immerge e scompare. I
due uomini avanzano. Non sanno che il duca ora è armato. Quando ormai sono
vicini, alle spalle di uno dei due emerge Solomon, che afferra l’uomo per i
capelli e gli recide la gola. L’altro sente il grido soffocato e si volta.
Subito Denis gli è addosso, lo afferra e prima che possa reagire gli immerge
il pugnale nel cuore. I
due sono morti. In un attimo la situazione si è rovesciata. Solomon dice: -
Non lasciatelo affondare. Ci servono. E poi se affondano, l’acqua non sarà
più utilizzabile. Denis
annuisce. Gli sembra tutto incredibile, ma non è il momento delle
spiegazioni, questo. Solomon prosegue: -
Avviciniamoci al bordo, portando i cadaveri con noi, in modo che Maazin si
accorga solo all’ultimo momento di ciò che è successo. Denis
annuisce. Evidentemente Maazin è l’uomo che aspetta sul bordo della cisterna. Maazin
non può sospettare che i suoi due complici siano morti. Vede nella penombra
avanzare due nuotatori. C’è qualche cosa di strano nei loro movimenti… già,
uno porta il corpo del duca, per questo nuota così. Ma… Solo
quando i due sono quasi a riva e anche Solomon, che nell’ultimo tratto ha
tenuto la testa sott’acqua, emerge, Maazin capisce che i due nuotatori sono
il duca e qualcuno che lo ha aiutato. I sicari sono solo cadaveri, che ora
vengono trascinati fino alla scalinata. È
Solomon a parlare, mentre emerge dall’acqua, il pugnale in mano: - Arrenditi,
Maazin. Non hai nessuna speranza di cavartela. Maazin
arretra. È armato, ma i suoi avversari sono in due e gli bloccano l’unica via
di fuga percorribile. Non può pensare di ucciderli entrambi e riuscire a
fuggire. Si
scaglia contro Solomon, nella speranza di colpirlo o almeno costringerlo ad
arretrare, per potersi lanciare in acqua e raggiungere il canale sotterraneo
da cui è entrato. Ma Solomon gli getta contro il cadavere che ha sollevato e
poi, prima che Maazin abbia recuperato l’equilibrio, gli salta addosso.
Maazin cade a terra e batte la testa. Solomon è forte e già gli sta torcendo
un braccio dietro la schiena, bloccandolo completamente. -
Merda! Maazin
è costretto a lasciare il coltello. Denis
d’Aguilard guarda ancora il cadavere ai suoi piedi, poi l’altro corpo,
disteso a terra. Poi fissa Solomon, che rimane in silenzio davanti a lui,
bloccando Maazin. -
Come hai saputo? Come hai fatto a sapere che mi avrebbero ucciso oggi? Perché
lo sapevi, vero? -
Sospettavo che avrebbero agito al tuo ritorno. Ma… forse non è il momento per
spiegare. Ci sono cose più urgenti. Le
parole di Solomon riportano Denis alla realtà. -
No, di certo. Denis
prende la corda che uno dei sicari portava alla vita e con l’aiuto di Solomon
lega le mani di Maazin saldamente dietro la schiena, poi con la sua cintura
gli blocca anche i piedi. Prende
il telo che ha portato per asciugarsi e lo lancia a Solomon. -
Adesso asciugati, subito, sei appena uscito dal letto e rischi di ammalarti
di nuovo. Solomon
sorride e si asciuga vigorosamente. -
Boh, non è così facile farmi ammalare. Denis
aggiunge: - È
meglio che tu ti tolga quei pantaloni bagnati. E
mentre lo dice, Denis si pente della sua frase. Perché Solomon obbedisce e il
corpo che ora si scopre completamente provoca in lui una reazione tanto forte
quanto improvvisa, che la sua nudità impedisce di nascondere. È
davvero un bell’uomo, Solomon, di una bellezza guerriera: spalle larghe,
petto possente, gambe e braccia robuste, una peluria diffusa che copre il
corpo, un bel cazzo circonciso, i coglioni voluminosi. Solomon
sta finendo di asciugarsi, un po’ voltato. Finge di non aver notato che il
cazzo di Denis si sta rapidamente irrigidendo. Quando ha finito, gli getta il
telo, girandosi appena un po’. -
Eccoti, duca. Asciugati anche tu, che la tua vita è ben più preziosa della
mia. Solo
ora, che Solomon gli risponde con il tu, Denis si rende conto di aver usato
anche lui il tu. Denis
si volta, dando le spalle a Solomon, e si asciuga, poi rapidamente si
riveste, rimanendo voltato. -
Andiamo su. -
Su? Così, nudo? Denis
si volta. Ed è come se qualcuno gli avesse tirato un pugno nello stomaco: la
tranquilla nudità di Solomon gli toglie il fiato. Il cazzo non è a riposo, non
completamente, almeno. Un po’ gonfio, proteso in avanti, sembra sfidare
Denis. Denis
deglutisce. Cerca di non lasciar trapelare il suo turbamento mentre risponde: -
Vorrai mica tornare da dove sei venuto? Rischiare la pelle ancora? Mi farò
portare un mantello dai soldati di guardia alla porta. Dai, vieni. Che
importanza ha? Oltre ai soldati, non c’è nessun altro. Salgono
la lunga scala e poi percorrono un breve corridoio. Solomon rimane dietro a
Denis, che è conscio della sua presenza, della sua nudità. Ci
sono due soldati di guardia. -
Baudouin, va’ subito a prendere una tunica, un mantello, perché Solomon possa
coprirsi. Foucher, chiama subito Heinrich, che
venga con otto uomini. Poco
dopo Solomon può infilarsi una tunica e avvolgersi in un mantello, mentre
l’ufficiale Heinrich si occupa di far portare in superficie i cadaveri e in
prigione Maazin. I soldati rimangono a sorvegliare l’ingresso: fino a che
l’apertura dell’acquedotto non verrà protetta con una grata, la porta dovrà
essere tenuta sotto controllo giorno e notte. Ora
Solomon e Denis sono in una saletta dell’appartamento ducale. Non fa freddo e
sono entrambi ben asciutti, ma Denis ha fatto accendere un fuoco nel camino.
Solomon si è tolto il mantello e indossa solo la tunica che Denis gli ha fatto
portare; si scalda davanti al fuoco, come Denis gli ha ordinato di fare. - Mi
vuoi far arrostire, duca? In effetti sono abbastanza grosso da fare un buon
pasto. Il cuoco non avrebbe neanche bisogno di spennarmi. Mi potrebbe
infilare uno spiedo dalla bocca al culo… o viceversa, su per il culo. Il
sorriso di Solomon è sornione. Denis si rende conto che quel sorriso lo
turba. Decide di ignorarlo. -
Adesso voglio che tu mi dica tutto, Solomon. Come hai fatto a sapere? E a
trovarti nella cisterna al momento giusto? Perché non mi hai detto niente
prima? Solomon
annuisce. Il sorriso scompare. -
Nelle mie indagini avevo scoperto che Maazin cercava una via per introdursi
nella fortezza attraverso i canali sotterranei, ma il primo canale che aveva
percorso non permetteva di raggiungere il palazzo. -
Non me ne avevi parlato. -
Avevo verificato subito e, visto che di lì non si poteva passare, non me ne
sono preoccupato. Pensavo di riferirtelo in seguito, al colloquio successivo.
Ma il giorno dopo Morqos mi ha messo in contatto con un altro uomo e lui mi
ha indicato un secondo passaggio, quello che porta alla cisterna. Solomon
sorride e aggiunge: -
Per fortuna c’è gente disponibile a vendere anche la propria madre per due
monete. Denis
sorride: -
Hai pure dovuto pagare. Dovrò rimborsarti… Solomon
annuisce, fingendo di essere serio. - Ci
conto, duca. Non mi sei costato poco, te lo garantisco. Due monete era solo
un modo di dire. Solomon
scoppia a ridere, poi riprende il racconto: - Ho
deciso di verificare, con l’intenzione poi di raccontarti. In effetti
attraverso il ramo dell’acquedotto ho raggiunto la cisterna. Ma l’acqua era
molto fredda, io sono rimasto troppo a lungo e quando sono tornato a casa,
stavo male. - Ti
sei ammalato per questo! - Credo
di sì. E a letto ho perso il senso del tempo. Stavo troppo male. Alla fine
però sono riemerso e ho capito che erano passati diversi giorni. A quel punto
mi sono preoccupato, ma mi hanno detto che eri via. Ho deciso di controllare
la situazione e poi di venire a parlarti, non appena tu fossi tornato. Ma in
giro per la città mi hanno detto che eri rientrato in mattinata e quando ho
parlato con il mio informatore, ho scoperto che Maazin e due altri si erano
già avviati, proprio oggi. Se tu non ti bagnavi, avevo tutto il tempo, ma se
dopo il viaggio avevi deciso di rinfrescarti? Correre a palazzo, riuscire a
entrare, far capire a qualcuno il pericolo… mi sembrava tutto troppo
complicato. Avvisare Morqos, Pierre… potevo non trovarli in casa… anche
quella mi pareva una perdita di tempo e io non ne avevo, di tempo da perdere.
Ero a due passi dal luogo in cui si scende. Allora ho ripercorso la strada
della volta precedente… e sono arrivato in tempo. -
Rischiando di lasciarci le penne, tra il freddo e i coltelli. Solomon
alza le spalle. -
L’importante era far fallire il loro piano. Si
volta verso Denis, dando la schiena al fuoco. Sorride. C’è un lungo momento
di silenzio. A
Denis sembra che la tunica si stia tendendo davanti al basso ventre di
Solomon. Denis è in imbarazzo, mentre Solomon sembra del tutto a suo agio. Denis
si accorge che anche il suo corpo sta reagendo e allora si volta e guarda
dalla finestra. Sente che Solomon si sta avvicinando alle sue spalle. Ora è
dietro di lui e lo abbraccia. Denis si tende. Sa che dovrebbe dire qualche
cosa, fermare Solomon, ma non riesce a parlare. Solomon appoggia la bocca sul
collo di Denis e lo bacia. Denis
mormora: -
No. Ma
Solomon non ascolta le parole. Solomon ascolta ciò che sta gridando il corpo
di Denis, forte, molto più forte di quanto potrebbe urlare la sua bocca. Le
mani di Salomon risalgono fino ad accarezzare le guance di Denis, con
delicatezza, come se ci fosse una ferita aperta. E intanto la sua bocca bacia
ancora il collo. Denis
mormora ancora: -
No. Ma
tutto il suo corpo sta dicendo un sì che sembra riempire la stanza e Solomon
sente solo quel sì. Le mani di Solomon si staccano e poi fanno ruotare Denis
su se stesso, senza incontrare nessuna resistenza. Ora Denis e Solomon sono
uno di fronte all’altro e mentre il viso di Solomon si avvicina al suo, Denis
mormora: -
No. Tutto
in lui sta smentendo la sua bocca e Solomon appoggia le labbra su quelle del
duca, mentre le sue mani si posano di nuovo sulle guance e le accarezzano,
piano. È un bacio delicato, appena uno sfiorarsi delle labbra. Poi Solomon si
stacca e fissa Denis negli occhi. Gli sorride. E di nuovo lo bacia, con più
forza. Quando
le loro labbra si separano, Denis ripete: -
No. Ma
Denis stesso non sa se ha parlato o no. Il suono si è perso e ora la bocca di
Solomon preme sulla sua, con forza, e la sua lingua si spinge tra i denti.
Mai nessuno lo ha baciato così. È una sensazione nuova e Denis non saprebbe
dire se gli piace o no. Sa solo che le mani che poggiano sulle sue gote gli
trasmettono una pace infinita, più forte dell’incendio che divampa nel suo
corpo. Solomon si stacca di nuovo, lo guarda e gli sorride. Quando Denis sta
per aprire la bocca per dire un’altra parola inutile, Solomon lo bacia di
nuovo. Poi le sue mani incominciano a spogliare Denis. Denis
non vuole, rifiuta questo abbandono totale, questa resa incondizionata,
eppure non riesce a parlare e il suo corpo lo tradisce, asseconda ogni gesto
di Solomon, lo anticipa. Le mani di Solomon gli hanno sfilato la tunica e ora
Denis è nudo. Solomon si inginocchia davanti a lui e gli sfila le scarpe. Poi
appoggia la sua testa contro il ventre del duca, mentre le sue mani risalgono
lungo i fianchi, verso il torace. Solomon gli bacia il ventre, poi la sua
bocca scende fino al sesso, che ormai sta riempiendosi di sangue, e depone un
altro bacio. Le labbra avvolgono la cappella e Denis geme. Trova ancora la
voce per dire: -
No. Le
mani di Solomon percorrono il suo corpo con lentezza, stringono i capezzoli,
facendogli male, scivolano di lato, scendono ad afferrare il culo e a
stringere con forza. La bocca avvolge e Denis sente che il piacere cresce e
lo avvolge. Lentamente sprofonda in un’oscurità in cui c’è solo più il
piacere che sale da tutto il suo corpo, dalle dita vigorose di Solomon che
stringono o accarezzano, dalla bocca che avvolge il suo membro, dal viso che
preme contro il suo ventre. Il
desiderio si tende allo spasimo. Le sue mani accarezzano le spalle di
Solomon, i suoi capelli, la sua nuca. E ancora Denis riesce a dire: -
No. Denis
ha chiuso gli occhi e rovesciato indietro la testa. Ha la sensazione che solo
le mani di Solomon lo sostengano. Il desiderio ancora cresce, in cerchi
sempre più vasti, mentre Denis precipita nel buio accecante di un piacere
troppo forte per essere contenuto ancora. Infine la tensione esplode e si
scioglie in una serie di scariche violente. Denis barcolla, mentre le mani di
Solomon gli impediscono di cadere. Solomon
beve ogni goccia del seme. Poi la sua bocca lascia la cappella. Solleva Denis
tra le braccia e lo porta oltre la soglia della camera del duca, fino al
letto. Lo stende a faccia in giù. Denis intuisce che la via che ha
incominciato a percorrere lo porterà ancora più lontano, dove non è mai
giunto, e nuovamente prova paura. Solomon è su di lui, il suo corpo preme, le
sue mani accarezzano, la sua bocca bacia. Tra i fianchi Denis sente la
pressione e il calore di un uccello vigoroso. Denis
mormora: -
No. Solomon
si stacca. Denis sente un morso al culo, che lo fa sussultare. Poi un secondo,
un terzo. Morsi lievi, quasi baci. Morsi forti. Piccoli baci. E poi la lingua
scorre lungo il solco. Altri baci, altri morsi. Ancora la lingua. Solomon
si stende di nuovo su Denis. Sta per accadere, Denis lo sa. Per l’ultima
volta dice: -
No. Ma Solomon
ascolta solo il sì che sale da tutto il corpo di Denis, ciò che la sua bocca
può dire non ha importanza, la bocca mente. Solomon
preme piano e lentamente il suo uccello si fa strada, forzando l’apertura.
Denis sussulta. Solomon si ferma un momento, gli dà il tempo di abituarsi
alla pressione, al dolore che è anche piacere. Poi Solomon avanza, con grande
lentezza, mentre le sue labbra baciano, le sue mani accarezzano e stringono.
E Denis sente lo sperone avanzare, più a fondo, sempre più a fondo. Denis si
abbandona completamente. Non sa più dov’è, chi è. Non sa più nulla. E Solomon
si ritrae e nuovamente avanza, inesorabile, senza dare tregua. Denis
sprofonda sempre più. Gli sfugge un gemito, poi un altro. Geme ancora più
forte. Solomon lo accarezza e prosegue con vigore la sua opera. E
infine una rapida successione di spinte violente strappa un grido a Denis e
Solomon si abbandona su di lui. Sono venuti insieme. Solo
adesso Solomon parla: solo adesso che la sua voce risuona, Denis capisce che
fino a ora Solomon non ha detto una parola. -
Amore mio. Denis
chiude gli occhi. Gli sembra che non riuscirà mai più a ritornare in
superficie. Solomon
rimane dentro di lui, ma si volta di lato. Lo abbraccia e lo bacia ancora,
più volte. Lentamente,
con una fatica infinita, Denis riesce a scuotersi dal torpore che lo ha
invaso. Si stacca da Solomon, con uno sforzo, con sofferenza, contro la
volontà del suo corpo. Si
alza e guarda Solomon, che si è girato sulla schiena. Guarda il corpo
dell’uomo che lo ha posseduto, l’uccello del maschio che lo ha penetrato. Scuote
la testa. Mormora: -
Dovrei ucciderti, Solomon. Solomon
gli sorride. - E
perché mai, duca? Perché ti ho dato ciò che il tuo corpo chiedeva? Perché ti
ho regalato piacere come tu lo hai regalato a me? -
Nessuno mi aveva mai preso, Solomon. -
Forse nessuno ti aveva mai amato, duca, prima d’ora. Denis
è disorientato. Sa che quello che dice Solomon è vero. Denis è stato amato da
sua madre, morta troppo presto. È stato amato da suo padre, che ha visto
morire. È amato da suo figlio. È stato talvolta desiderato da altri uomini e
da donne. Ma nessuno lo ha mai veramente amato dell’amore di Solomon, l’amore
che è anche desiderio. Non certo la donna che il re Amalrico I gli assegnò
per sposa, la madre di Pierre. Né Charles di Soissons, che si dava a lui come
ad altri. Né Nicolas, con cui pure ha condiviso i giochi del letto per anni. - Tu
mi ami, Solomon? Mi hai visto poche volte in vita tua e mi ami? Denis
lo dice per difendersi, perché sa benissimo che anche in lui è nato un
sentimento, di cui non è così sicuro come Solomon, ma che non può negare. E
vuole sentirsi dire ciò che desidera. - Ti
amo. Vieni qui. Solomon
gli tende le mani. Denis alza le braccia e ora le loro dita si toccano, si
intrecciano. Solomon lo guida a ritornare sul letto. Le
mani di Solomon percorrono il corpo di Denis, lo accarezzano, lo stringono. E
ora è Denis ad avvicinare la bocca a quella di Solomon e a baciarlo. Gli
sembra di vivere in un sogno, ma va bene così. È tarda
sera quando Solomon lascia il palazzo ducale. Sarebbe rimasto volentieri a
dormire con Denis, ma ha preferito non chiederlo: Denis ha bisogno di tempo
per accettare questo rapporto fino in fondo. Il valoroso duca, che sul campo
di battaglia sa prendere la decisione giusta in un attimo, deve ancora
imparare a fare i conti con un sentimento nuovo. Ma Solomon è sicuro che il
suo amore è ricambiato. Hanno
parlato a lungo del da farsi. La minaccia che grava su Denis è stata sventata
per il momento, ma occorre agire perché non ritorni. La via proposta da
Solomon appare folle al duca di Rougegarde, ma probabilmente è l’unica. E in
questa faccenda Solomon sembra sapere come muoversi. Quando
riceve notizie da Rougegarde, Ramzi è furente. Maazin è scomparso nel nulla,
come Faaris. Ucciso? Arrestato? Fuggito? Nessuno lo sa. I due sicari che
dovevano uccidere Denis di Rougegarde insieme a Maazin hanno fallito e sono
morti, come Fahd, che avrebbe dovuto colpire Ferdinando. Un altro insuccesso,
un altro smacco. Deve trovare il modo di rimediare, ma come? Inviare Usama?
Se Maazin e Faaris sono stati scoperti, il duca di certo starà in guardia e
un altro tentativo andrebbe quasi sicuramente incontro a un ulteriore
fallimento. Se Faaris è stato catturato vivo, il duca sa che è stato Ramzi a
ordinare di ucciderlo e di sicuro sarà molto difficile per un musulmano
sconosciuto avvicinarsi a lui. Non è certo il caso di sacrificare Usama per
niente. Ramzi
decide di aspettare. Di sicuro il barone Renaud non verrà a chiedergli conto
del fallimento. |