II – I fuochi di San Giacomo d’Afrin A
San Giacomo d’Afrin non si parla d’altro: il Saladino ha attaccato il regno
di Gerusalemme dall’Egitto. Il re si è diretto verso Ascalona, per affrontare
le truppe nemiche. Pare che il Saladino abbia radunato un esercito immenso,
mentre il re può contare su un numero esiguo di cavalieri e fanti. Il
barone Renaud, signore della città, sa benissimo
che la lealtà nei confronti del suo sovrano gli imporrebbe di partire immediatamente.
Sa che Denis di Rougegarde e Ferdinando dell’Arram
si sono già messi in marcia: a loro la notizia è arrivata prima, perché i
loro domini sono meno lontani dalla capitale. San Giacomo è agli estremi
confini orientali del regno. Renaud non ha nessuna intenzione di radunare
in fretta i suoi uomini e lasciare sguarnita la città, troppo esposta agli
attacchi da oriente, tanto più che la sproporzione di forze lo rende
pessimista sull’esito della guerra. Non sarebbero certo le truppe che
potrebbe raccogliere a rovesciare la situazione e allora è meglio mantenere
tutte le forze in città e prepararsi alla difesa, se ci fossero attacchi da
occidente o se il Saladino invadesse tutto il regno. Renaud scrive una lettera in cui comunica a
Baldovino IV che ci sono movimenti di truppe saracene al confine orientale e
che teme un attacco, probabilmente concertato con il Saladino, per cui non
può partire in suo soccorso. In realtà non c’è nessuna minaccia da oriente,
ma la scusa è buona. Affida la lettera a un messaggero, che raggiungerà il re
in viaggio. Dopo
aver consegnato la missiva, Renaud si avvicina alla
finestra e guarda Philippe, il figlio maggiore, che si esercita nel cortile
con la spada, sotto la guida di un maestro d’armi. La lezione viene
interrotta spesso. Philippe si stanca in fretta e deve riposarsi, anche se
l’arma che ha in mano è molto leggera: il bambino ha otto anni e sembra
essere di costituzione fragile. Renaud è
preoccupato, perché non ha altri figli maschi: dalla seconda moglie ha avuto
solo due femmine. Se Philippe dovesse morire, a ereditare San Giacomo d’Afrin
sarebbe il fratello di Renaud, Charles, e poi il
suo figlio maschio, Jacques, che in realtà è figlio di Olivier. Renaud freme al pensiero: quel finocchio di
suo fratello, impotente con le donne, erede della città di cui lui è divenuto
signore! E dopo di lui un bastardo! Non è possibile. Merda! Proprio
mentre pensa a Charles, Renaud vede il fratello
uscire dal palazzo a piedi: evidentemente non intende fare molta strada.
Andrà a farsi inculare? Da diversi anni Charles non corre dietro a tutti i
maschi come un tempo, quando era davvero una troia in calore. Ma di certo non
ha cambiato gusti: ha solo imparato a dissimulare, preferisce evitare che si
sparli di lui. È diventato anche lui ambizioso, come Olivier, e sa di essere
l’erede di Renaud, nel caso Philippe morisse.
Merda! Appena
uscito dal palazzo, Charles alza il cappuccio, in modo da coprire parte del
viso e non essere riconoscibile. Chi lo incontra per strada, può pensare che
si tratti di uno dei tanti ricchi borghesi che vivono in città. Difficile
riconoscere in quest’uomo che si muove a piedi e da solo il fratello del
barone signore della città, lui stesso barone, poiché re Amalrico concesse il
titolo ai tre fratelli. Charles
raggiunge un appartamento non lontano dal palazzo. Non vi abita nessuno: il
barone lo tiene a disposizione per i suoi incontri. Perciò le due piccole
stanze sono spoglie e l’unico mobile importante è il grande letto. Un
servitore è passato ad accendere il fuoco nel camino: l’inverno è alle porte
e ormai fa freddo. Charles
entra e si toglie il mantello. Poco dopo qualcuno bussa alla porta. Due
colpi, una pausa, tre colpi: il segnale convenuto. Charles apre. L’uomo
che entra è alto, un po’ più di Charles, ha occhi chiari, capelli di un
castano scuro e una barba corta. Ha un corpo forte: spalle larghe, torace
muscoloso, braccia e gambe robuste. Il fisico è quello di un guerriero. -
Vieni avanti, Solomon. Come
sempre vedere Solomon desta in Charles il desiderio. Non è certo innamorato
di questo ebreo: l’amore è un sentimento che gli è estraneo. Ma ci sono
uomini che esercitano su di lui un’attrazione molto forte. Quelli a cui si
offre più volentieri sono di solito maschi vigorosi e Solomon lo è. Tra tutti
gli uomini che ha incontrato, Solomon è forse quello che lo attrae di più. Non
è solo la prestanza fisica, la forza, la sicurezza con cui si muove. Non è
neanche la buona dotazione, che pure fa la sua parte. Tutti questi elementi
contano, ma più di tutto, a far fremere Charles, a fargli tendere il cazzo
alla sola vista di Solomon, è il fatto che l’ebreo è bravo a letto. Questo
fottuto ebreo è davvero bravo. Le sue mani sanno accarezzare, stringere,
pizzicare, tormentare, forzare, stuzzicare. Sono diavoli quelle mani, che si
infilano dappertutto, che non conoscono limiti, sicure del fatto loro, abili,
esperte, sfacciate. Solomon
sorride ed entra. Chiude la porta dietro di sé, senza voltarsi, e incomincia
a spogliare Charles. Non ha chiesto nulla: non ne ha bisogno. Charles lascia
che Solomon gli tolga il mantello e lo faccia scivolare a terra. Le mani che
ora scorrono sul suo corpo gli trasmettono brividi. Accarezzano il collo,
scendono sulla camicia, afferrano il petto in una morsa che fa male, lo
lasciano e scivolano ancora più in basso, raggiungono i pantaloni e
attraverso la stoffa stringono il cazzo e i coglioni. Non sono delicate: è
una stretta energica, che fa sussultare Charles. Poi la destra si stacca e
scivola dietro. Si infila nei pantaloni, scende lungo il solco, raggiunge il
buco, preme. Solomon
ghigna, mentre Charles chiude gli occhi. Gli sembra di non essere ben fermo
sulle gambe. Anche
la sinistra si sposta sulla schiena, si infila sotto la camicia, risale,
scivolando lungo la colonna vertebrale, fino alla nuca, in una carezza un po’
ruvida. Charles si appoggia a Solomon. Gli piace sentire il calore di questo
corpo, l’odore, la forza. Un
dito ha forzato l’apertura e si è infilato dentro senza cerimonie. Charles
sussulta. Solomon sa essere brutale e tenero, una mescolanza che Charles
apprezza. Ora, tra le sue braccia, Charles si abbandona completamente.
Solomon stringe Charles, poi incomincia a spogliarlo, con movimenti lenti.
Quando gli solleva la camicia, affonda il viso sul petto di Charles, gli morde
leggermente i capezzoli, li succhia un momento. Charles
si è dato a moltissimi uomini, ma con Solomon sembra rinnovarsi il miracolo
delle prime volte, quando Charles provava sensazioni fortissime. Le
mani di Solomon lo stanno spogliando e gli abiti cadono a terra, in
disordine. Ora Charles è nudo e sono le sue mani, impazienti, a infilarsi tra
le vesti di Solomon e a toglierle. Le sue dita avvertono che il cazzo di
Solomon è teso, rigido, caldo e Charles lo avvolge con la mano, sentendo
contro il palmo, sotto la brachetta, la sua consistenza, il suo calore. Vuole
sentirne l’odore, il gusto. Charles scivola in ginocchio, cala l’indumento
che ancora copre il cazzo di Solomon e infila la testa sotto la camicia.
Inspira, per sentire l’odore forte di maschio, poi la sua bocca avvolge la
cappella e Charles incomincia a succhiare. Chiude gli occhi e assapora. Gli
piace rimanere così, la camicia di Solomon che gli copre il capo, le mani di
Solomon che gli accarezzano la testa attraverso la stoffa, il cazzo poderoso di
Solomon nella sua bocca, le sue dita che stringono il culo di Solomon, ne
sentono il calore e la consistenza, la peluria leggera che lo copre. Solomon,
Solomon, Solomon. Solomon è un vino che dà l’ebbrezza. Dopo che hanno
scopato, Charles recupera la sua lucidità e Solomon gli appare più distante,
ma quando i loro corpi si incontrano, non esiste nient’altro. Ora
Charles gioca con i coglioni d Solomon, li accarezza, li stringe. Poi si
stacca, appoggia la testa contro il ventre dell’ebreo e rimane un momento
così. Solo quando Solomon si sfila la camicia, Charles si scuote. Si alza,
sorride e si stende a pancia in giù sul letto, le gambe ben divaricate. Solomon
si stende su di lui. Gli morde il culo, più volte, le sue dita giocano con
l’apertura, stuzzicandola. Poi Solomon si stende su di lui, gli morde il lobo
di un orecchio, gli passa le dita tra i capelli, gli morde una spalla e in
quel momento Charles sente l’arma poderosa premere e forzare l’apertura.
Solomon è alquanto dotato, ma l’ingresso non è doloroso: Charles si è dato a
moltissimi uomini. Solomon
fa avanzare il cazzo, fino a che è tutto dentro e i coglioni battono contro
il culo del barone. Poi incomincia la sua cavalcata, affondando ogni volta
l’uccello e poi ritraendolo, prima lentamente, e poi a un ritmo via via più
intenso. Charles geme e i gemiti diventano grida, perché il piacere che gli
trasmetto questo cazzo vigoroso cresce e si dilata. -
Sì! Sì! Sì! Poi
Charles emette un grido strozzato e viene. Con poche spinte vigorose, Solomon
viene dentro di lui. Solomon
non si ritrae. Lentamente accarezza Charles. Rimangono un buon momento così.
Poi Solomon si stacca e si stende sul letto di fianco a Charles, che lo
guarda e sorride. Il barone fissa a lungo il cazzo di Solomon, non più teso,
ma ancora gonfio di sangue. Con la mano lo sfiora, poi lo stringe tra le
dita. Infine, spinto dal desiderio, si sposta per prenderlo in bocca. Passa
la lingua lungo l’asta, dai coglioni alla cappella, poi l’avvolge con le
labbra. Solomon sussulta. -
Aspetta. Charles
ride, si sposta, mordicchia un capezzolo di Solomon, poi l’altro. Ritorna al
cazzo e riprende a succhiare. Lo sente irrigidirsi e crescere nella sua
bocca. Le sue mani percorrono il corpo di Solomon, stringono i coglioni, un
po’ troppo. -
Ehi! Charles
allenta la presa. Gli piace stringere i coglioni di Solomon, gli piace
gustarne il cazzo, gli piace accarezzarlo. Gli piace quando questo maschio lo
fotte. Gli piace sentire il gusto del suo sborro. Gli piace anche bere il suo
piscio. Ma questo dopo, dopo che lo avrà fatto venire una seconda volta. Ora
il cazzo di Solomon è di nuovo teso. Charles lavora a lungo, leccando e
succhiando, finché Solomon non viene. Charles assapora ogni goccia del suo
sborro. Poi appoggia la testa sul ventre di Solomon e rimangono così. Solomon
gli accarezza i capelli. Infine
Charles dice: -
Fammi bere, Solomon. Si
mette tra le gambe dell’ebreo e prende in bocca il cazzo, che è ancora un po’
gonfio. -
Ora. Il
getto scende in gola a Charles. Dopo
aver concluso i loro giochi, rimangono per un po’ a letto. Solomon ha
aggiunto un po’ di legna al fuoco che arde nel camino e sotto la coperta la
temperatura è piacevole. Mentre
sono stesi l’uno a fianco dell’altro, Charles pensa che quasi sicuramente è
stata l’ultima volta. Gli dà molto fastidio pensare che con ogni probabilità
non potrà più scopare con Solomon. L’ebreo sa trasmettergli piacere come
nessun altro maschio. E ha un’altra dote fondamentale: la discrezione. Un
tempo a Charles non importava che si sparlasse di lui, ma adesso la situazione
è cambiata e Charles non vuole esporsi a critiche: è diventato ambizioso e le
precarie condizioni di salute del figlio di Renaud
gli fanno sperare di poter diventare un giorno signore di San Giacomo
d’Afrin. Le voci che sono circolate abbondantemente a suo tempo non devono
più ricevere conferme: errori di gioventù, dimenticati con il passare degli
anni. Quel bastardo di Olivier sarebbe capace di giocare su quelle maldicenze
per escluderlo dalla successione. E quell’altro figlio di puttana del vescovo
gli darebbe una mano: Charles sa benissimo che Bohémond
non lo sopporta, perché non va a leccargli il culo come fa Renaud. Solomon
chiede dell’attacco del Saladino, poi del rischio di un assalto concertato da
oriente: gli argomenti di cui parla tutta la città. Charles non ha molto da
dire: non sa nulla di più di quello che sanno gli altri. -
Che cosa ne pensi? I nostri riusciranno a respingere il Saladino? -
Dicono che abbia un esercito immenso. Spero di sì. - Se
sconfiggesse il re e lo catturasse… potrebbe essere la fine del Regno di
Gerusalemme. -
Sì, il rischio c’è. Ma magari la guerra potrebbe concludersi con la cessione
di alcuni territori, senza la distruzione del regno. Il
dialogo prosegue per un po’, finché Charles dice: -
Adesso è ora che vada. - Va
bene. Solomon
fa scivolare la mano sul corpo di Charles, gli accarezza il cazzo, poi si
alza e incomincia a rivestirsi. Mentre si infila la camicia chiede: -
Sai qualche cosa di più sui problemi che ci saranno in città, quelli per cui
mi dicevi che farei meglio ad allontanarmi per qualche giorno? Charles
esita. Ne ha parlato l’ultima volta che si sono visti, è vero: aveva appena
sentito dire da Renaud che gli ebrei di San Giacomo
saranno attaccati dalla folla e ha deciso di avvisare Solomon. Ieri
però Renaud ha esposto compiutamente i suoi piani:
dopo il massacro, gli ebrei che riusciranno a sopravvivere dovranno pagare
per andarsene. Perciò anche Solomon, se non verrà ucciso, dovrà lasciare San
Giacomo. È un peccato rinunciare a questo magnifico stallone, ma non ci sono
alternative. Però, se si trasferisse non lontano, rimanendo nel regno, forse
Charles riuscirebbe a vederlo ancora ogni tanto. Charles
risponde: - Le
prossime domeniche in tutte le chiese ci saranno prediche contro gli ebrei. -
Non è una novità. È così da un po’ di tempo. -
Sì. Ma una di queste domeniche, non la prossima, quella dopo, verrà dato il
segnale. Nei giorni seguenti ci sarà qualche attacco: non so dirti se
domenica stessa o un altro giorno. Non so se Renaud
abbia già deciso. Faresti meglio a stare via per un po’. -
Grazie. Vedrò di organizzarmi. Charles
se ne va. Solomon aspetta un buon momento, come sono d’accordo, poi lascia
anche lui l’appartamento. Un servitore verrà tra non molto per mettere in
ordine. Solomon
si dirige verso casa. Tiene la testa china, immerso nei suoi pensieri. Quando
raggiunge la sua abitazione, dice al servitore di preparargli un bagno caldo.
Sente il bisogno di lavarsi: si sente sporco. Ancora una volta si è venduto,
possedendo un uomo che disprezza. Ha regalato carezze e baci che non avrebbe
voluto dare. Ma era necessario per sapere, per cercare di salvare gli altri.
Charles non è il primo uomo con cui si è servito del proprio corpo per
ottenere ciò che voleva, ma con lui è nata una relazione che a Solomon pesa
proseguire. Eppure non ci sono alternative: la vita di molti dipende da
questo rapporto. In
quest’ultimo anno da Charles ha ottenuto informazioni utili, che gli hanno
permesso di aiutare i suoi correligionari. Li ha avvisati del pericolo che
incombe ora e alcuni sono partiti, ma molti non vogliono o non possono
andarsene. Solomon deve parlare di nuovo con suo fratello, Amos, il rabbino
della piccola comunità. Solomon
si spoglia ed entra nella tinozza. Rimane a lungo nell’acqua calda, godendo
la sensazione di benessere e di pace. Fuori
dalla chiesa c’è una piccola folla che attende gli ebrei. Sono quasi tutti
uomini o ragazzi: solo ai margini ci sono alcune donne. Nei loro discorsi si
mescolano invettive e battute. Sghignazzano, ma la rabbia monta. Gli
ebrei di San Giacomo d’Afrin sono in chiesa: il barone Renaud,
su suggerimento del vescovo, ha stabilito che tutti gli ebrei devono recarsi
ad ascoltare le omelie con cui un sacerdote li esorta alla conversione. È un
obbligo a cui non possono sottrarsi. Vanno malvolentieri in chiesa, sia
perché il barone ha imposto l’obbligo per il sabato, loro giorno di festa,
sia perché nelle ultime settimane all’uscita dalla chiesa hanno spesso
trovato ad attenderli una folla ostile, che inveisce, li insulta e non di
rado lancia pietre contro di loro. Il vescovo ha definito questi attacchi la
“sassaiola sacra”, perché per lui è la vendetta dei cristiani contro il
popolo che ha lapidato santo Stefano. Gli ebrei si allontanano in fretta, ma
alcuni ragazzi li seguono, li deridono, lanciano oggetti. Ogni sabato è
peggio, ma chi non si presenta deve giustificare la sua assenza. Fortunatamente
quasi tutti gli ebrei vivono nello stesso quartiere, il quartiere ebraico,
per cui ritornano insieme e man mano che si avvicinano alle loro case, la
folla che li segue si dirada. Il
mercante Sharone abita invece in una casa nella
parte più vecchia della città, in un quartiere popolato un tempo quasi solo
da musulmani. Quando tutti escono, Sharone cerca di
rimanere tra gli ultimi, per potersi allontanare in direzione opposta agli
altri senza dare nell’occhio. La volta scorsa Solomon lo ha accompagnato:
Solomon è un uomo forte e la sua presenza incute un certo timore, per cui la
marmaglia si è limitata a qualche insulto. Oggi però Solomon non c’è: è
partito, pare per Amman. Solomon viaggia parecchio, i gioielli che produce
sono molto apprezzati dai signori saraceni. Prima di andarsene, gli ha
consigliato di unirsi agli altri e di tornare più tardi a casa propria, dopo
che la folla si è dispersa. Ma il quartiere ebraico si trova in direzione
opposta e Sharone non ha voglia di perdere un sacco
di tempo. La
folla che li attende all’uscita sembra più agitata del solito. Vengono
lanciati parecchi oggetti. Gli ebrei tacciono: preferiscono subire in
silenzio, per non peggiorare la situazione. Sharone approfitta di un momento in cui la
folla sembra avviarsi a seguire il gruppo degli ebrei per scivolare lungo la
facciata della chiesa. Prima che abbia fatto in tempo a svoltare, un ragazzo
lo vede e avvisa gli altri. Sette o otto giovani gli si avvicinano. Sharone accelera il passo, fingendo indifferenza, ma è
spaventato. -
Allora, giudeo di merda, l’hai ascoltata la predica? Sharone tace: sa che qualsiasi cosa dica, sarà
usata come pretesto per altri insulti. -
Non ti vuoi convertire, eh? Preferisci bruciare nell’inferno con Maometto. Sharone vorrebbe dire che gli ebrei non hanno
niente a che fare con Maometto, ma sarebbe inutile, se non dannoso. -
Non rispondi? Non ci senti? Uno
dei ragazzi gli strappa di testa il cappello e lo getta lontano, verso il
fondo della strada. Sharone procede. Ora ha paura.
Quando arriva al punto in cui è finito il cappello, si china per
raccoglierlo, ma un uomo ci mette il piede sopra e un ragazzo gli molla un
calcio, mentre lui è chinato, mandandolo a terra. Sharone cade malamente. -
Perché mi colpite? Non ho fatto niente. -
Niente, porco giudeo? Niente? Esisti, porco. La tua puzza ammorba l’aria che
respiriamo. Uno dei
ragazzi gli molla un calcio alle costole, un altro lo colpisce in faccia. Sharone intuisce che ora è la sua vita a essere in
pericolo. Si alza e vorrebbe mettersi a correre, ma un pugno allo stomaco lo
blocca e si ritrova nuovamente in terra, sotto una gragnuola di calci e
pugni. Cerca di riparare il capo con le mani, ma i colpi sono sempre di più.
Infine un calcio alla testa lo stordisce. Sharone
perde i sensi, ma i suoi assalitori non rinunciano a colpire. Questo corpo
indifeso, facile preda, eccita la loro furia. La
notizia della morte di Sharone si diffonde la sera
stessa. Dicono che Sharone abbia preso un bastone e
abbia percosso i giovani che lo seguivano. Sanno tutti che non è andata così.
Di certo Sharone è stato ferito e poi ferocemente
finito dalla folla, che si è accanita sul suo cadavere: il corpo del mercante
è stato martoriato, gli è stata strappata la lingua, rotti i denti e infine
lo hanno gettato in una fossa e bruciato. Il
giorno dopo le guardie del barono comunicano che si è trattato di una rapina,
di cui non sono stati identificati gli autori: spiegazione risibile, che
lascia liberi gli assassini. Solomon
viene a sapere dell’accaduto solo il martedì, in una locanda dove si ferma
lungo la strada del ritorno. Quando arriva in città, raggiunge il fratello,
Amos, rabbino della piccola comunità che non ha voluto lasciare San Giacomo
d’Afrin. Non
perde tempo: -
Amos, se non volete finire come Sharone, dovete
partire. Voi e tutti gli altri, il più presto possibile, senza dire niente. Amos
si torce le mani. - Ho
cercato di parlare con gli altri capifamiglia, Chlomo. Amos
chiama sempre Solomon con il suo nome ebraico, Chlomo,
anche se tutti lo conoscono come Solomon. - Ma
troppi sono rimasti. - Ho
parlato, Chlomo. Ho parlato! Amos
ha davvero parlato. Qualcuno è partito. Qualcuno ha fatto mettere al sicuro
alcuni beni. Ma una trentina di famiglie sono rimaste: alcuni sono poveri, la
casa è la loro unica proprietà e lasciandola si troverebbero senza niente;
altri sono ricchi e hanno diversi interessi a San Giacomo; parecchi sono
spaventati all’idea di lasciare la città dove sono sempre vissuti e
stabilirsi in luoghi che non conoscono. - Va
bene, allora partite voi. Se non hanno voluto ascoltare, purtroppo avranno
modo di capire presto l’errore. Ma voi dovete partire. -
Non posso abbandonare la comunità proprio ora. -
Forse vedendoti partire, gli altri capirebbero. Rimanendo metti in pericolo Elisheva e i vostri figli. Non
è la prima volta che Solomon affronta il discorso, ma adesso è chiaro che il
pericolo incombe su tutti loro. Solomon chiama anche la cognata, nonostante
l’opposizione di Amos, e le spiega la situazione. Elisheva è d’accordo con Solomon e vorrebbe
partire, ma non intende farlo senza il marito. - I
vostri figli sono in pericolo. Elisheva guarda Solomon e gli dice: -
Portali via tu, Solomon. Portali al sicuro. Solomon
scuote la testa. -
No, non posso. E anche loro non verrebbero, sapendovi in pericolo. Hanno la
testa dura come il loro padre. Solomon
aggiunge: -
Sapete quello che hanno fatto a Sharone. Amos
e Elisheva lo sanno, naturalmente: tutta la città
lo sa. -
Gli uomini del barone istigheranno la folla contro di noi alla messa di
domenica. Nei giorni successivi si organizzeranno i gruppi per l’attacco. Potrebbe
essere domenica stessa o uno dei primi giorni della settimana. Nei
giorni seguenti Amos prova ancora a parlare con alcune famiglie. Solomon
stesso contatta alcuni che pensa di poter convincere. Tre famiglie partono.
Le altre rimangono, spaventate, ma bloccate dai problemi pratici e dalla
paura del futuro. * I
ragazzini arrivano alla spicciolata. Passano davanti alla casa di Solomon
senza fermarsi, ma poi svoltano in un vicoletto che corre a fianco del
giardino. Controllano che nessuno possa vederli, poi spingono la porta ed
entrano nel piccolo spazio verde. Lo attraversano e raggiungono la casa. Si
sistemano nel laboratorio di Solomon, che ha spostato ciò che poteva dare
fastidio e ha portato sedie e sgabelli. Arrivano
tutti puntuali: sanno benissimo che non bisogna perdere tempo. Tra pochissimo
ritorneranno alle loro case o ai loro lavori e nessuno farà caso alla loro
breve assenza. Solomon
va subito al dunque: - Il
tempo si avvicina. Sarà una di queste notti. Domenica o una delle notti successive. -
Come lo sai, Solomon? È
stato Chmuel a parlare: non sa trattenere la
curiosità. Gli altri lo guardano male, ma Solomon gli sorride e dice: -
Non posso dirtelo, Chmuel. Se ne parlassi, metterei
in pericolo la vita di altri. Qualcuno di voi potrebbe essere catturato e
costretto a confessare. Non voglio che altri corrano rischi per averci
aiutato. Solomon
non intende fare riferimento a Charles, né ad alcuni altri da cui ha avuto
ulteriori informazioni. Il barone non correrebbe nessun rischio, ma se venisse
fatto il suo nome potrebbe diventare un nemico, per allontanare i sospetti da
sé. E gli altri, se si sapesse che hanno rivelato alcuni dettagli, verrebbero
puniti. Uno
dei giovani dice: -
Non diremmo nulla neanche se ci torturassero. - Se
dovesse succedere, se davvero capissero che ci siamo organizzati e qualcuno
di voi venisse catturato, dite senza esitare che sono stato io a guidarvi. Lo
scopriranno comunque. Ma spero proprio che non succeda niente del genere. Se
ognuno farà la sua parte, non ci saranno problemi di questo tipo: voi non
state facendo nulla di particolare. Siete rimasti separati dalle vostre
famiglie e vi siete nascosti. Solomon
fa una pausa, poi chiede. - È
tutto chiaro? Ognuno sa dove deve mettersi? Gli
risponde un coro di sì. -
Allora tenetevi pronti. Dovremo agire presto. Solomon
si mette davanti alla porta che dà sul vicolo. Quando è sicuro che nessuno
possa vederli, fa uscire i ragazzini uno dopo l’altro. Tornano alle loro
case, orgogliosi del compito che è stato affidato loro. Nella
notte arrivano altri giovani, con qualche anno in più: sono i fratelli
maggiori dei ragazzini che sono venuti nel pomeriggio. La riunione dura più a
lungo. La
domenica Solomon fa un ultimo tentativo di convincere il fratello. -
Partite anche voi. - No,
Chlomo. Finché gli altri rimangono qui, rimarrò
anch’io. Sono il rabbino della comunità. -
Forse se tu te ne andassi, altri seguirebbero il tuo esempio. -
Non vogliono, non possono. Ho fatto tutto quello che potevo, Chlomo. -
Manda almeno via Elisheva e i ragazzi. - Elisheva non vuole saperne. Solomon
scuote la testa e non dice più nulla. Sa che non riuscirà a far cambiare idea
ad Amos e a Elisheva, ma ha paura di ciò che
accadrà. La
domenica nelle chiese di San Giacomo d’Afrin la predica è centrata sulle
colpe degli Ebrei, il popolo maledetto. Si avvicina l’Avvento e come sempre
nelle ricorrenze religiose, legate alla nascita o alla passione del Cristo,
alla celebrazione della Vergine o di alcuni santi, il clima di esaltazione
favorisce lo scatenarsi di aggressioni contro gli ebrei. I
sacerdoti ricordano la morte cruenta di Cristo, causata dall’odio dei perfidi
giudei, e invitano il popolo alla vendetta contro i responsabili di quel
martirio. Gli ebrei negano la vera fede e si ostinano nella sacrilega offesa
a Cristo: attirano sulla città la collera divina e l’attacco che il Saladino
ha sferrato contro Gerusalemme è certo una punizione per l’eccessiva
tolleranza dei cristiani nei loro confronti. Sono diverse settimane che i
fedeli di San Giacomo ascoltano prediche di questo tenore. E la rabbia monta.
Persino mentre il sacerdote parla, alcuni si lasciano andare ad imprecazioni
ed insulti contro il popolo maledetto.
All’uscita
dalla chiesa, si formano capannelli di uomini, dove si ripetono le stesse
frasi: - È
ora di finirla! -
Bisogna sterminarli tutti. -
Non possiamo rimanere con le mani in mano. -
Attirano la collera di Dio su di noi, come ha detto il prete. -
Sono ricchi, ci succhiano il sangue, quei bastardi! -
Sono d’accordo con i saraceni: sono le loro spie. Gli passano informazioni,
non vedono l’ora che il Saladino riconquisti la città. La
paura dei saraceni è forte a San Giacomo, troppo vicina al confine con la
Siria musulmana per non essere continuamente minacciata. Ai timori suscitati
dall’avanzata del Saladino si aggiunge il malcontento per la situazione
economica: la città non è più un centro commerciale importante come un tempo,
molti hanno perso il lavoro e il numero dei poveri è aumentato. Ed è proprio
tra i poveri che la predicazione ha più effetto. Ma
la resa dei conti è vicina: gli ebrei di San Giacomo pagheranno per tutto. In
serata le bettole sono più frequentate del solito. Molti bevono in
abbondanza: è giorno di festa, anche la notte sarà di festa. * Sono
le grida a svegliarli. Grida ancora lontane, che si sentono appena, ma
sufficienti a destare chi non abbassa la guardia neanche dormendo. Amos si
alza in fretta, va alla finestra e la apre. Sporgendosi può vedere, in
lontananza, le fiamme che si levano alte. Potrebbe essere un incendio
accidentale, come ne avvengono spesso in questa città: San Giacomo d’Afrin ha
diverse case di legno, che bruciano facilmente. Ma Amos sa bene che quelle
fiamme hanno un altro significato: la grande festa è incominciata. Elisheva è già corsa a chiamare i tre figli.
Per fortuna anche il più giovane, Joshua, è ormai
abbastanza grande da capire e dare una mano. Tutto è già pronto: da tempo gli
ebrei di San Giacomo d’Afrin sanno che i loro giorni sono contati e anche chi
non ha seguito i consigli di Solomon si è preparato al peggio. Qualcuno si
illude ancora che la tempesta non si scatenerà. Le fiamme di questa notte
bruceranno le illusioni e lasceranno solo cenere. Per alcuni il problema del
domani non si porrà più. Nella
famiglia di Amos, ognuno sa che cosa deve prendere con sé. Escono tutti esce
dalla porta posteriore, attraversano il cortile e si allontanano lungo il
vicolo: gli assalitori arriveranno certamente dalla strada. Altri
stanno facendo come loro: sanno che è più saggio abbandonare alla furia degli
aggressori le case. Ogni resistenza non farebbe che aumentare la rabbia degli
assalitori, ebbri di vino e di Dio, pronti a scannare gli uomini che hanno
ucciso Gesù e a stuprare le donne della stirpe di Maria. Cercare di opporsi
significherebbe perdere la vita. Alcuni la perderanno in ogni caso. Una
donna esce dalla porta dell’ultima casa del vicolo e si avvicina al gruppo. È
Ester, il cui marito è in viaggio. Ha quattro figli, tutti piccoli. - Elisheva, Amos, aiutatemi. Non posso portare tutti i
bambini. In
un attimo tutti si organizzano: Elisheva e i
maggiori dei suoi figli, Judith e Michail, prendono in braccio o si mettono
in spalla tre dei bambini. Amos non si carica di un fardello: tiene il suo
pugnale in mano, bene in vista. Non è un guerriero e sa a malapena servirsi
di un’arma. Se verranno raggiunti da un gruppo di assalitori il suo pugnale
sarà del tutto inutile, ma contro un aggressore o due può servire, se non
altro per ritardare l’attacco e permettere a Elisheva
e ai ragazzi di mettersi in salvo. Michail non è armato: ha solo dodici anni
e Amos non ha voluto dargli un’arma. Le due famiglie si dirigono verso i
magazzini. Anche là ci saranno attacchi, ma un unico grande edificio ospita i
depositi degli ebrei e quelli dei cristiani e i mercanti di San Giacomo
d’Afrin non lasceranno che le loro proprietà siano incendiate. D’altronde
alcuni di loro sono tra i capi dei fanatici che questa notte hanno sete di
sangue: una buona occasione per liberarsi di concorrenti fastidiosi.
Distruggeranno il quartiere ebraico, ma non i magazzini. Altri
gruppi si muovono nella stessa direzione. Procedono in fretta, ma in perfetto
silenzio: è più saggio non attirare l’attenzione di nessuno. Dalle case
potrebbero segnalare la presenza di ebrei in fuga: c’è sempre qualche brava
persona pronta ad aiutare gli assassini. Judith
si ferma di colpo. - La
sacca. Ho posato la sacca quando ho preso il bambino e l’ho lasciata. Corro a
prenderla. È solo dietro l’angolo. Judith
posa il bambino, si volta e incomincia a correre in direzione della casa. Elisheva urla: -
No, ferma! Che
importa la sacca, quando è la vita che rischiano? Elisheva fa per lanciarsi dietro a Judith, ma
Amos la ferma. -
Andate avanti. Elisheva, fai da guida. Presto! L’urlo
di Elisheva ha svegliato qualcuno. Una finestra si
apre. Intanto la notte diventa sempre più chiara: il buio arretra di fronte a
una luce rossastra. Sembra quasi una grande festa e per molti lo è: il
quartiere ebraico brucia. Amos
torna indietro di corsa. Non ha ancora raggiunto l’angolo dietro al quale è
scomparsa Judith, quando un urlo gli raggela il sangue: è la voce della
figlia. Amos
volta l’angolo, il pugnale in mano. Ci sono tre uomini e una figura
femminile, di certo Judith. Un uomo è in ginocchio a terra e anche un secondo
sta cadendo. Amos non capisce. Corre verso Judith. -
Presto! Amos
conosce la voce dell’uomo che ha parlato e che ora spinge Judith verso di
lui. Ringrazia Dio di aver mandato Solomon sulla loro strada. Amos non dice
nulla: prende Judith per la mano e la trascina con sé. Anche Solomon non
parla. Li segue, voltandosi per controllare che nessuno si avvicini. Uno
degli aggressori è ancora in ginocchio, l’altro è steso a terra. Raggiungono
gli altri quando ormai sono vicino ai magazzini. Mentre Elisheva
abbraccia Judith, benedicendo Dio, Solomon dice: - Io
torno indietro. Voi proseguite: la strada è sgombra. Ma non uscite per nessun
motivo. È Elisheva a parlare, con la voce che le trema: -
Tornare indietro? Solomon! Perché? -
Altri hanno bisogno d’aiuto, Elisheva, come voi.
Non abbiate paura. Tornerò. Elisheva vorrebbe fermare il cognato, ma sa che
non è possibile. Solomon si dirige correndo verso il gran fuoco che ormai
divora l’intero quartiere. Una
voce da vicino li incita: - Affrettatevi,
possono arrivare. Amos
ha riconosciuto la voce di Immanuel. Immanuel ha solo quattordici anni. Che
cosa ci fa, qui, da solo? È di nuovo Elisheva a
chiedere: - E
tu, perché non vieni? - Ho
da fare qui. - Da
fare? Il
ragazzo risponde, spazientito: -
Sbrigatevi. Non è saggio rimanere per strada. -
Andiamo, Elisheva. Raggiungono
i magazzini. I guardiani li lasciano entrare. Ci sono già altre famiglie nel
cortile. Il ritrovarsi dà un senso di sollievo. Qualcuno manca. Qualche
famiglia, che forse non arriverà più, diversi giovani. - E Chmuel? - È
con Solomon. Una
donna interviene: -
Anche Gavriel. Non ho potuto trattenerlo. Ho paura
che gli succeda qualche cosa… -
Non temere, H’ava: Solomon sa quello che fa. Amos
ci mette un momento a capire perché i ragazzi sono con suo fratello. Solomon
deve aver organizzato un gruppo di giovani, in previsione di quanto sarebbe
successo. Ognuno aveva un compito preciso e quando l’assalto è incominciato,
hanno accompagnato le loro famiglie in salvo e si sono dileguati. I più
giovani, come Immanuel, hanno l’incarico di sorvegliare le vie di accesso ai
magazzini, per instradare e assistere chi arriva, segnalando eventuali
pericoli. I più grandi sono con Solomon, per cercare di salvare chi viene
aggredito. Amos non ne sapeva niente: si sarebbe opposto. Come se opporsi a
Solomon servisse a qualche cosa. All’interno,
alla luce della lanterna, Amos osserva Judith. Ha l’abito strappato in due
punti e piange, ma non hanno fatto in tempo a farle altro. Altre
famiglie arrivano. Non tutte. Qualcuno manca all’appello. Gli ultimi ad
arrivare sono Yosseph e i suoi. Sono sconvolti e
sul momento non riescono neppure a parlare. Tutti si stringono intorno a
loro, desiderosi e timorosi di sapere. Lentamente le lacrime e i singhiozzi
si calmano e Yosseph inizia a raccontare. Hanno
visto massacrare i loro vicini, mentre le donne venivano stuprate. Hanno
temuto di subire la stessa sorte, ma l’intervento di Solomon e di un gruppo
di giovani li ha salvati. Un’ora
dopo arrivano Solomon e i giovani che erano con lui. Ci sono tutti. Molti
sono sporchi di fumo e di sangue e Solomon porta in braccio una bimba. I
giovani si riuniscono alle loro famiglie. Qualcuno sembra stanco, altri
invece paiono incapaci di stare fermi, ancora eccitati dall’azione. Solomon
si avvicina a Yoh’anan, che lo sta fissando senza
dire niente: nella bimba in braccio a Solomon ha riconosciuto la nipote. Yoh’anan ha capito, ma ancora la sua mente cerca di
negare. Yoh’anan si alza, barcollando. Solomon
gli dice: - Mi
spiace, Yoh’anan. Siamo arrivati troppo tardi. Yoh’anan impallidisce. Allunga le braccia per
prendere la nipote, ma scoppia a piangere a dirotto. Solomon lo abbraccia e
lascia che pianga sulla sua spalla. La bambina rimane silenziosa, lo sguardo
perso nel vuoto. È Elisheva a prenderla, a cercare
di destarla dal suo torpore. Allora Solomon stringe forte Yoh’anan,
senza dire nulla. Gli accarezza il capo. Lentamente Yoh’anan
si calma. Si avvinghia a Solomon e rimane immobile. Tutti
sanno che ora non arriverà più nessuno. Lentamente il gruppo si scioglie, una
alla volta le famiglie si ritirano ognuna nel proprio magazzino: sono una
serie di stanzoni, a volte condivisi da due proprietari, a cui si accede dai
corridoi interni, uno per piano. I magazzini degli ebrei sono tutti al
secondo piano. Sono edifici antichi, usati dai mercanti arabi per due secoli
e più volte risistemati. Molti
lasciano le porte aperte: la vicinanza degli altri dà un senso di sicurezza.
Uomini e donne si spostano tra i diversi magazzini, per parlare, confortare,
chiedere, cercare risposte alle domande che si pongono. Amos
ha una stanza non molto grande, in cui trovano posto tutti loro ed Ester con
i suoi bimbi. Solo
ora Amos si accorge che Solomon ha parecchio sangue sulle mani e sull’abito. - Chlomo! Sei ferito? -
No. Non è il mio sangue, questo. Non è facile colpire noi figli del demonio. “Figlio
del demonio” è un’espressione che Amos ha rivolto a suo fratello Solomon una
volta, non molto tempo fa, in un momento di collera. Solomon è nato da una
violenza che la loro madre ha subito a opera di un soldato franco, ma non è
quello il motivo per cui Amos considera il fratellastro un figlio del
demonio: Solomon non segue l’insegnamento della Torah, Solomon non rispetta
le regole della comunità, Solomon fa cose che Amos non capisce, che
preferisce non sapere. A volte Amos si chiede se suo fratello crede in Dio.
L’idea che proprio suo fratello sia un miscredente è fonte di sofferenza e di
imbarazzo di fronte alla comunità che vede in Amos una guida. Perché proprio
il fratello del rabbino si comporta così? Eppure
Amos sa che può contare su Solomon più che su chiunque altro. E anche questa
sera, quando ha capito ciò che stava succedendo, Solomon è venuto a cercarli,
per aiutarli, salvando Judith. Solomon ha salvato altri. Amos guarda la
figlia, che sembra aver superato lo spavento e ora accarezza la nipote di Yoh’anan, cerca di distrarla. Amos
esce nel corridoio e da una finestrella osserva la città. Verso est è un
unico grande bagliore. Amos ritorna a sedersi. Non ha sonno. Solo i bambini
riescono a dormire. A un
certo punto Ester formula la domanda che tutti hanno in testa: -
Dove andrete? Amos
non ha una risposta. È Solomon a dire: - Io
vado a Rougegarde. -
Rougegarde? È territorio dei baroni franchi. Anche lì ci attaccheranno, Chlomo. -
Non finché Denis d’Aguilard sarà signore della
città. Il duca protegge ebrei e seguaci di Maometto e nessuno ha subito
angherie e vessazioni come qui. Amos
è incerto. -
Denis d’Aguilard ha molti nemici. E il vescovo ci
odia. Cerca solo un’occasione per sbarazzarsi del duca. Solomon
annuisce. -
Per me è una ragione di più per andare a Rougegarde. Ma se ritieni che sarete
più sicuri a Jabal al-Jadid, anche là troverete
ospitalità: l’emiro non perseguita gli ebrei. Amos
è incerto, non sa che dire. Nei territori sotto i seguaci di Maometto gli
ebrei pagano una tassa, ma di solito sono tollerati. Qualche violenza nei
loro confronti si è verificata, ma si è trattato di episodi sporadici. I
signori franchi invece si sono spesso dimostrati intolleranti e quello che
sta succedendo a San Giacomo d’Afrin si è
verificato molte altre volte, in tante città. La spedizione con cui i cristiani
conquistarono Gerusalemme, quasi un secolo fa, fu accompagnato da terribili
bagni di sangue in tutta Europa e anche qui in Terrasanta: la comunità
ebraica ne conserva la memoria. Eppure
è vero che Denis d’Aguilard ha sempre impedito che
gli ebrei venissero perseguitati nel suo territorio. Ma se venisse ucciso? Il
figlio, che ora è in Francia, è molto giovane. Sarebbe in grado di opporsi al
vescovo? -
Perché dici che l’odio del vescovo è un motivo di più per andare a
Rougegarde, Solomon? È
stata Elisheva a parlare. Elisheva
ha molta fiducia nel cognato, una volta ha detto che Solomon porta
giustamente il nome del più saggio tra gli uomini. Ad Amos è parsa quasi una
bestemmia, eppure deve riconoscere che le scelte di Solomon si rivelano
sempre le migliori. Se avessero seguito i suoi consigli e fossero partiti
tutti… Solomon
risponde alla cognata: -
Perché tra i potenti Denis d’Aguilard ha troppi
nemici e pochi amici. Ha bisogno di qualcuno su cui contare. Amos
scuote la testa, incredulo: - E
come pensi che possa fidarsi di te, di un ebreo? Sai che cosa i cristiani
pensano di noi. Solomon
non dice nulla. È Elisheva a rispondere: -
Solomon sa quello che fa, Amos. Mentre
parlano, sulla porta appare Gavriel. Gavriel ha ventidue anni e di lui le donne dicono che
davvero ha il viso e il corpo di un angelo. È tanto bello che molte fanciulle
si vergognano a guardarlo. -
Posso parlarti, Solomon? Solomon
si alza. -
Certo. Amos
si chiede che cosa Gavriel voglia da suo fratello.
Vorrebbe dirgli di non uscire. Non gli piace che Solomon si isoli con quel
giovane, non gli piace l’ammirazione sconfinata che legge negli occhi di Gavriel. Intuisce qualche cosa, ma non trova le parole. E
anche se riuscisse a formulare il suo pensiero, Solomon non lo ascolterebbe.
Solomon non lo ascolta. No, questo non è giusto. Solomon lo ascolta, sempre,
ma non segue mai i suoi consigli. Solomon
e Gavriel escono nel corridoio. Solomon chiede: -
Dimmi, Gavriel. Che cosa c’è? -
Non qui, Solomon. Saliamo al piano superiore. Non voglio che qualcuno ci
senta. Al
piano superiore ci sono diversi magazzini vuoti. Gavriel accende una candela e sale. Solomon lo
segue, controvoglia. Ha intuito che cosa vuole Gavriel
e vorrebbe sottrarsi a ciò che anche il suo corpo desidera, ma la sua mente
respinge. Gavriel procede, senza fermarsi. Raggiunge uno
stanzone vuoto e vi entra. Quando anche Solomon varca la soglia, Gavriel chiude la porta. Poi posa la candela su un’asse e
abbraccia Solomon. Solomon
parla pianissimo: la sua voce è appena udibile. - Gavriel, sei pazzo. In questo vecchio edificio non puoi
mai sapere quante fessure ci sono. Ci potrebbero vedere e sentire. Gavriel prende la candela e la spegne
soffiandovi sopra, senza staccarsi da Solomon. Anche
la sua voce è un sussurro: -
Nessuno ci vedrà e non faremo rumore. Sono
nell’oscurità più completa, ora. Solomon alza le braccia e posa le mani sulle
guance di Gavriel. - Gavriel, ti voglio bene, ma non ti amo, lo sai. - Lo
so, non importa, Solomon, non importa. La
bocca di Gavriel cerca quella di Solomon in un
bacio che diventa ardente. Le mani di Gavriel
percorrono il corpo di Solomon. Solomon
non vorrebbe, come altre volte gli pare di approfittare del desiderio di Gavriel per saziare un bisogno, ma non è fatto di ferro e
le carezze del giovane accendono il suo corpo. Ha la pelle morbida, Gavriel, e il suo profumo di giovane maschio ora
nell’oscurità sembra ancora più forte. Sotto la pelle vibrano i muscoli di un
corpo armonioso, che Solomon ha ammirato molte volte. E mentre anche le sue
mani si muovono, quasi contro la volontà di Solomon, il desiderio si
tende. Ora Gavriel scivola in ginocchio. La sua testa si infila
sotto la tunica di Solomon e la sua bocca trova la preda che cerca, ormai
pronta. La lingua di Gavriel accarezza il cazzo di
Solomon, poi la bocca lo avvolge. Solomon chiude gli occhi. La lingua di Gavriel, le sue labbra, la sua bocca gli trasmettono
sensazioni fortissime. Il cazzo è gonfio di sangue e teso. Gavriel sussurra: -
Prendimi, Solomon. Gavriel si appoggia a una trave, allarga le
gambe e attende. Solomon gli accarezza il culo, poi lo morde. Le sue dita
bagnate scorrono lungo il solco, stuzzicano l’apertura che Solomon ha violato
per primo. Poi Solomon avvicina la cappella e la spinge dentro, piano, per
non fare male. Spinge
in avanti, finché il ventre non è contro il culo del giovane e il cazzo è
tutto dentro, poi si ritrae fin quasi a uscire. Spinge nuovamente, affondando
e poi ritirandosi. Procede a lungo e le sue mani accarezzano Gavriel, la testa, il petto, il ventre, stringono il
cazzo, giocherellano delicate con le palle. Mentre
il piacere cresce le dita di Solomon percorrono il cazzo del giovane, lo
stringono, lo stuzzicano. Solomon sente il piacere esplodere. Allora stringe
con forza e guida anche Gavriel a godere. Gavriel trattiene a stento il gemito che gli è
venuto alle labbra. Vorrebbe rimanere così per sempre, vorrebbe morire ora,
mentre il piacere lo travolge. Ama Solomon, nulla gli importa di tutti
coloro, uomini e donne, nei cui occhi legge il desiderio. Quest’uomo solo
desidera, quest’uomo che sa essere tenero e sa prenderlo con forza,
quest’uomo che non lo ama e non gli mente, che ora lo accarezza e lo
ringrazia di un piacere che Gavriel gli ha quasi
imposto. - Gavriel, Gavriel. Sentire
il suo nome pronunciato da Solomon gli trasmette un brivido di piacere lungo
tutto il corpo. E Gavriel si chiede perché
quest’uomo non lo ama, per quale atroce scherzo del destino, tra tutti gli
uomini che vorrebbero essere amati da lui, lui si è innamorato di quello che
non ricambia il suo sentimento. Ma
sono domande inutili. Gavriel e Solomon rimangono
abbracciati a lungo, in una stretta che lenisce la sofferenza di Gavriel. Poi il loro abbraccio si scioglie e al buio si
rivestono. Gavriel riaccende la lampada e Solomon
osserva con attenzione l’abito dell’amico alla ricerca di indizi che
potrebbero tradirli. Quando tutto è a posto, escono nel corridoio. Da una
delle finestrelle si scorgono gli incendi che ancora divampano. Dalle
finestre del palazzo baronale, Renaud di Soissons
guarda le fiamme che stanno divorando il quartiere ebraico. Domani
sequestrerà le case degli ebrei, quelle che si sono salvate, per indennizzare
la città dei danni subiti a causa loro. Olivier
di Soissons entra nella camera. Renaud gli ha
ordinato di mandare alcuni uomini a controllare la situazione. -
Allora, l’incendio è sotto controllo? Il
fratello allarga le braccia, le palme sollevate verso l’alto. -
Nessun incendio è mai sotto controllo in una città come questa, ma hanno
abbattuto alcune case e dovrebbero riuscire a isolarlo. - I
disordini sono finiti o continuano? - La
situazione sembra più tranquilla. Gli ebrei se lo aspettavano, hanno le loro
spie, quelli. Sono scappati in tanti. Quelli rimasti sono ormai morti, a
parte alcune donne con cui la plebaglia ancora si diverte. Ma sono morti
anche diversi degli assalitori. -
Cosa? -
Sì, nessuno sa bene che cosa sia successo, ma hanno ritrovato sei o sette
uomini pugnalati. – È
strano. Credi che gli ebrei abbiano reagito? -
Forse. Più probabilmente qualcuno ne ha approfittato per regolare vecchi
conti. O alcuni nostri correligionari si sono scannati tra di loro per una
donna o per due monete d’oro. In serata le taverne erano strapiene e molti si
sono mossi con tanto di quel vino in corpo… non mi stupisce che fossero
disponibili ad ammazzarsi a vicenda per il bottino. -
Domani espellerò tutti gli ebrei dalla città, ma per andarsene dovranno
pagare. - E
quelli che non pagano? - Pagheranno:
quelli hanno sempre del denaro nascosto da qualche parte, sono sanguisughe
sempre pronte a impadronirsi del denaro dei cristiani. Se qualcuno non paga
lo metteremo nelle prigioni e gli daremo trenta giorni di tempo, prima di
lasciare che se ne occupi il popolo. Olivier
china il capo in segno d’assenso. Non approva le scelte del fratello. Non che
gli importi degli ebrei, ma le persecuzioni finiscono per impoverire la
città, di questo Olivier si rende ben conto. A Rougegarde Denis d’Aguilard ha seguito una politica diversa e la città
prospera. Renaud è avido e pensa solo ad
arricchirsi: spera che le ricchezze gli consentano di soddisfare le sue
ambizioni. Ma, come dicono in Francia, tira il collo alla gallina che gli fa
le uova. Olivier
si ritira. Renaud rimane alla finestra, immerso nelle
sue riflessioni. Olivier non capisce, ma per il momento Renaud
preferisce non spiegargli i suoi piani, perché diffida di lui: suo fratello è
ambizioso e vorrebbe essere al suo posto. Renaud
perseguita gli ebrei, come ha fatto prima con i musulmani, per avere le loro
ricchezze e per ottenere l’appoggio del vescovo Bohémond
di Tours. San Giacomo è nella sua diocesi, come pure Rougegarde e i territori
del conte Ferdinando. Il vescovo abitualmente sta a Rougegarde, che è il
centro più importante della diocesi, la perla della Terrasanta, come la
chiamano, ma è in perenne conflitto con Denis d’Aguilard
e vorrebbe perderlo. Entrambi hanno lo stesso obiettivo e il vescovo sarebbe
contento di vedere Renaud signore di Rougegarde. Renaud pensa che avrebbe bisogno di molto più
denaro, per i suoi progetti. San Giacomo d’Afrin è
una piccola città, da cui non è possibile ricavare grandi ricchezze, e questo
è un limite di cui Renaud è sempre stato amaramente
cosciente. Renaud non è a capo di un vasto
territorio, non governa una città prospera come Rougegarde. Se
fosse signore di Rougegarde, avrebbe un grande potere e immense ricchezze a
disposizione, con cui potrebbe cercare di realizzare i suoi piani, allargando
i suoi domini. Ma il signore di Rougegarde è Denis d’Aguilard,
che in battaglia salvò la vita al re di Gerusalemme e ottenne come ricompensa
il titolo di duca e la signoria sulla città. Se
Denis d’Aguilard morisse, con l’appoggio del
vescovo forse Renaud potrebbe ottenere dal re il
dominio su Rougegarde. Il figlio di Denis d’Aguilard
è giovane ed è lontano, in Provenza. Gli manca l’esperienza per governare un
territorio così vicino al confine e così esposto ad attacchi. E in ogni caso
impiegherebbe mesi per arrivare in Terrasanta. Renaud
l’ha pensato spesso, lo pensa anche ora, mentre il chiarore delle fiamme
illumina il cielo. Se il duca d’Aguilard morisse,
forse Rougegarde potrebbe cadere nelle mani di Renaud.
Certo, Ferdinando da Siracusa cercherebbe di difendere i diritti del figlio
di Denis, per cui sarebbe utile eliminare anche lui. Il
duca e Ferdinando – Renaud si rifiuta di pensare a
lui come il conte: è solo un siciliano pezzente – sono partiti per affrontare
il Saladino che ha invaso il regno dall’Egitto. Se dovessero morire in
battaglia sarebbe una gran cosa. Altrimenti… Da tempo Renaud
accarezza un progetto. Ha sentito parlare degli Hashishiyya, gli Assassini,
questa setta di fanatici che uccidono su ordine dei loro capi. Non se ne è
mai occupato, perché non hanno mai colpito i signori cristiani: sono
regolamenti di conti tra infedeli. Ma di recente i suoi informatori gli hanno
dato un’informazione importante. Il capo di coloro che stanno nel castello di
Jibrin, Ramzi, è molto
avido e talvolta i signori saraceni si rivolgono a lui per far eliminare
qualche rivale. Gli Assassini hanno cercato perfino di uccidere il Saladino.
Potrebbero riuscire a colpire Denis d’Aguilard? Il
duca è prudente e i suoi uomini gli sono fedeli, ma gli Assassini sono
fanatici e sono disposti al martirio pur di raggiungere il loro scopo.
Qualcuno di loro potrebbe riuscire ad avvicinarsi al duca e ucciderlo. Ci
vorrà molto denaro per convincere Ramzi: saranno
gli ebrei a pagarlo. * -
Hanno sterminato tre famiglie, stuprato le donne, incendiato le nostre case,
saccheggiato la sinagoga e ora dobbiamo anche pagare una multa. Come se la
colpa fosse nostra. -
Non possiamo nemmeno vendere le case che non sono bruciate: le hanno
sequestrate. - E
se saremo costretti a vendere adesso le merci, le venderemo in perdita: sanno
che abbiamo bisogno di soldi. -
Non abbiamo tutti quei soldi! Non possiamo cercare di trattare? C’è
molto nervosismo tra gli ebrei riuniti nel magazzino. In mattinata alcuni
hanno cercato di ritornare a casa, per vedere se qualche cosa era sfuggito al
saccheggio, ma si sono trovati gli ingressi sbarrati e le guardie davanti
agli usci. A metà giornata è arrivata la decisione del barone: ordine di
lasciare la città, dopo aver pagato una multa consistente per aver provocato
i disordini. Le
proteste continuerebbero, ma Solomon interviene. Ha una voce forte, che
impone il silenzio. -
Non c’è nessuna possibilità di trattare. Dobbiamo pagare. E dobbiamo
andarcene al più presto, prima che il popolo venga di nuovo aizzato contro di
noi. C’è
un momento di silenzio, poi qualcuno chiede, sgomento: - Tu
dici che il rischio è così forte, Solomon? Non ci hanno già fatto abbastanza
male? -
No, non ne hanno fatto abbastanza. Se rimaniamo qui, ne faranno ancora.
Dobbiamo pagare e andarcene. In fretta. Amos
vorrebbe intervenire: è il rabbino, la guida della comunità. Ma gli altri si
rivolgono a Solomon: non è una questione religiosa, questa; è un problema di
sopravvivenza. E per questo Solomon è più adatto a rispondere. -
Potrebbero… ancora… Solomon
guarda la donna che ha parlato e risponde: -
Potrebbero farci tutto il male che possiamo immaginare e anche di più. È
inutile discutere. Dobbiamo trovare tutto il denaro necessario e lasciare la
città al più presto. - È
una grossa somma! L’uomo
che ha parlato è ricco. Solomon risponde, con un tono aspro: - Le
vite dei tuoi figli non valgono tanto? Puoi pagare solo per te, allora. L’uomo
apre la bocca per rispondere, poi la richiude, senza dire una parola. China
il capo. Nella stanza scende il silenzio. Ester
è rimasta a testa china. Poi la solleva e guarda Solomon. Dice, cercando di
frenare le lacrime: -
Noi non abbiamo denaro per pagare. La multa è troppo alta. La casa non è
stata distrutta, ma non possiamo venderla, ce l’hanno presa. Non ce la facciamo. Solomon
si rivolge ad Amos: -
Fratello, nessuno di noi ha piacere di mettere in piazza i suoi affari. Io
suggerirei che tu, come rabbino, parlassi con tutti i capifamiglia e sentissi
qual è la situazione: chi può pagare la quota per sé e per la famiglia; chi
può pagare solo una parte; chi non può pagare nulla. Dopo
una breve pausa, Solomon prosegue: - E
chi è disposto ad aiutare quelli che non possono pagare. In qualche modo quei
soldi dobbiamo raccoglierli per tutti. C’è
un mormorio, ma nessuno protesta ad alta voce. Immanuel,
uno degli uomini più ricchi della comunità, si alza e dice. -
Solomon ha ragione, come sempre. Giustamente ha ricevuto il nome del più
saggio degli uomini. Amos
guarda Immanuel. È la stessa frase che ha detto Elisheva,
tempo fa. E anche ora gli sembra quasi una bestemmia. Immanuel
continua: - Ci
aveva avvisati, ma non l’abbiamo ascoltato. Amos, incominciamo. Non c’è tempo
da perdere, non ripetiamo l’errore che abbiamo fatto rifiutandoci di partire.
Prendi l’occorrente e diamoci da fare. Non ci devono essere altri morti. In
un magazzino non manca certo quello che serve per scrivere. Amos si mette in
una stanzetta e incomincia a sentire tutti i capifamiglia. Quando
l’ultimo ha concluso, Solomon raggiunge il fratello. -
Manca parecchio, Solomon. Immanuel ha offerto una grossa somma, ma non basta.
Amos dice la cifra mancante: è davvero molto. Solomon risponde, senza
esitare. - Li
metto io. -
Tu? Amos
è allibito. La cifra è consistente. Solomon possiede tanto denaro? È un
orafo, maneggia oro e pietre preziose, i suoi gioielli sono richiesti in
tante città, ma Amos non pensava che avesse tutti questi soldi. E si stupisce
che sia disposto a spenderli così. - È
una questione di vita o di morte, Amos. Non lo capisci? Ma perché, cazzo! Perché
non avete voluto capire, perché vi ostinate a non capire? Amos
china il capo, ferito. Si sente in colpa per le morti avvenute, per non
essere riuscito a convincere tutti a partire. - Mi
spiace, Solomon. Avrei dovuto insistere perché partissimo tutti, non sono
stato un buon rabbino. Solomon
scuote la testa: -
No, Amos, non è colpa tua. Hai fatto il possibile. Non è facile lasciare la
città in cui si è sempre vissuti e cercarsi una nuova patria. Soprattutto per
noi. C’è un
momento di silenzio, poi Solomon continua: -
Scusami, sono esasperato. Ho visto arrivare la tempesta, ma non sono riuscito
a convincervi a fuggire per tempo. Non volevo scattare. Scusami, sono stanco,
Amos. Amos
guarda il fratello. Sente un moto d’affetto per lui. - Da
quante notti non dormi, Solomon, per vegliare su di noi? Solomon
sorride. - Ho
dormito molto poco, è vero. Ma dormirò a Rougegarde. Passerò la prima
settimana a dormire. * Il
denaro è stato raccolto. Quei fottuti giudei sono riusciti a pagare per
tutti. Meglio così. Il popolo si è già divertito l’altra notte, farà a meno
di scannare qualche altro ebreo: tanti avrebbero preferito potersi divertire
ancora, ma per Renaud è più importante avere i
soldi. Adesso
il barone è pronto ad attuare il suo piano. Manderà un uomo dagli
Hashishiyya. La persona più adatta è Joscelin. È un
uomo di Olivier, a cui Renaud affida volentieri
queste missioni delicate, proprio perché non è alle sue dirette dipendenze.
Ha già dato buona prova di sé facendo fuori quell’altro coglione, Philippe di
Cesarea, a Damasco. Il piano per mettere le mani su Cesarea è andato a monte,
ma Joscelin si è mosso con abilità in tutte le
fasi. Renaud intende farlo partire subito. Se Denis
dovesse morire in guerra, il contatto si rivelerebbe inutile. Ma se invece
dovesse tornare indenne, è bene concludere le trattative il più presto
possibile. Renaud fa chiamare Olivier e gli espone il
suo piano: quando è necessario l’intervento di Joscelin,
deve parlare con il fratello. Con Charles no, quel finocchio è meglio che non
ne sappia niente. Olivier
ascolta attentamente. L’idea è senz’altro buona, anche se ottenere Rougegarde
non sarà così facile, nonostante l’appoggio del vescovo. Dopo che hanno
discusso alcuni dettagli, Olivier conclude: - Mi
sembra un ottimo piano, fratello. Charles
è nel suo appartamento quando un servitore gli comunica che il mercante
Giovanni chiede di parlargli. Charles conosce bene Giovanni Micheles da Verona: è uno dei più ricchi mercanti del
regno e, soprattutto nella parte settentrionale del regno, chi cerca stoffe
di qualità superiore, prodotte a Rougegarde o importate dai domini saraceni,
si rivolge a lui. Charles ha acquistato più volte tessuti pregiati. Il
barone non ha chiamato Giovanni: non sapeva neanche che fosse di passaggio a
San Giacomo. Da un po’ di anni Giovanni si sposta poco: da quando si è
sposato, preferisce mandare in giro il nipote, Riccardo. Questa volta però si
è mosso lui. Charles
è contento di vedere la merce che il mercante ha da offrire. Se troverà
qualche cosa di suo gusto, lo comprerà, altrimenti sarà comunque un
diversivo, che gli impedirà di pensare a Solomon: sono alcuni giorni che non
scopa e il desiderio è molto forte. Giovanni
Micheles si presenta con un servitore, che porta
due involti. Si inchina, saluta e chiede al barone come sta. Dopo i soliti
convenevoli, chiede a Charles se ha piacere di vedere la merce. Ottenuta una
risposta positiva, ordina al servitore di aprire i pacchi e srotolare le
stoffe. Non ne ha portate molte: Giovanni sa benissimo a chi si rivolge ed è
inutile mostrare merci che non siano eccellenti. Due
stoffe sono prodotte nel laboratorio del mercante a Rougegarde, due
provengono da Venezia e due dai territori saraceni. C’è un tessuto prodotto a
Bagdad, di un’eleganza incredibile. - E
questo azzurro si accorda perfettamente al colore dei vostri occhi, barone. I
ricami d’oro ne mettono in risalto lo splendore. È una stoffa degna di un re. Il
mercante sa vendere bene le sue merci, Charles ne è consapevole, ma di certo questa
stoffa non sfigurerebbe addosso a un re, è vero. Charles chiede il prezzo,
che è molto alto. L’eleganza del disegno però lo tenta e davvero, in mano a
un abile sarto, il tessuto si trasformerà in un abito regale. Il
barone contratta un po’ e, dopo le inevitabili schermaglie, Giovanni conclude
con la formula abituale di tutti i mercanti: - Ve
la vendo a questo prezzo perché siete voi, ma davvero, ci rimetto. Charles
sa benissimo che Giovanni ci guadagna, ma non dice nulla: fa parte della
normale contrattazione. Charles
chiama uno schiavo che prende in consegna la stoffa. Giovanni congeda il
proprio servitore e attende che esca. Il barone non capisce perché non se ne
vada anche lui. Non
appena nella stanza non è rimasto nessun altro, Giovanni prende un astuccio
dalla borsa e lo porge al barone. -
C’è un dono per voi, da parte di qualcuno che conoscete. Charles
è molto perplesso. Apre l’astuccio e trova un bracciale d’oro. L’eleganza del
monile non lascia nessun dubbio: c’è un solo orafo in tutto il regno o forse
in tutta la Siria in grado di creare gioielli di questa raffinatezza. Charles
guarda Giovanni, in attesa di una spiegazione. - Il
dono mi è stato dato perché lo consegnassi a voi. Non so chi l’abbia mandato:
il servitore che me l’ha portato mi ha solo detto che voi lo conoscete.
Questa persona chiede se può vedervi, in un luogo che voi sapete. Charles
fissa Giovanni. Che cosa sa quest’uomo? Niente, probabilmente. Può darsi che
conosca Solomon e che sia stato l’ebreo a dargli direttamente il gioiello:
gli artigiani e i mercanti che trattano merci di lusso si conoscono tutti.
Per quale motivo Solomon chieda un incontro, Charles non lo sa. Gli ebrei
sono nei magazzini e devono lasciare la città entro una settimana. Pochi si
aggirano per le strade, timorosi di incontrare i loro carnefici. Ma Solomon
non è uomo da aver paura. L’idea
di vederlo ancora una volta accende immediatamente il desiderio di Charles. -
Ditegli che mi può trovare oggi pomeriggio, ai Vespri. - Vi
ringrazio, barone. Giovanni
si inchina e saluta. Il
pomeriggio passa in un’attesa febbrile. Charles desidera Solomon. Il pensiero
va in continuazione al corpo forte dell’ebreo, alle sue mani vigorose, al suo
cazzo. Il desiderio è tanto forte che Charles vorrebbe farsi una sega, ma non
ha senso: rivedrà Solomon, che lo farà godere come nessun altro maschio sa
fare. Giovanni
è soddisfatto del risultato della sua visita: ha venduto la stoffa a un buon
prezzo e questo è già un ottimo risultato, perché tessuti di gran pregio come
quello che ha portato da Bagdad non hanno molti acquirenti; ha consegnato il
bracciale che gli ha dato Solomon e ottenuto l’appuntamento. Giovanni
non sa perché Solomon voglia parlare con il barone e non gli importa. Gli fa
molto volentieri un favore: dall’ebreo ne ha ricevuti parecchi. Si conoscono
da alcuni anni e Solomon gli ha permesso di contattare alcuni clienti molto
ricchi, con cui adesso fa ottimi affari. Gli ha anche fornito in più
d’un’occasione qualche indicazione che lo ha aiutato a evitare guai. Giovanni
si chiede spesso come quest’uomo, che ha pochi anni in più di suo nipote
Riccardo, sia così esperto del mondo e sappia tante cose, di certo molte di
più di quelle che dice. Giovanni
raggiunge Solomon e gli riferisce quanto gli ha detto il barone. Poi chiama
Riccardo e i servitori che li accompagnano e insieme si dirigono ai
magazzini, dove ritira le merci degli ebrei: sarà lui a portarle fuori dalla
città, come se fossero mercanzie di sua proprietà, così si eviterà il rischio
che vengano sequestrate quando gli ultimi ebrei di San Giacomo lasceranno la
città. In previsione degli attacchi, i mercanti avevano già fatto portare
altrove diverse merci, per cui ciò che rimane può essere trasportato dalla
carovana di Giovanni e dei suoi servitori senza problemi. Partiranno il
giorno dopo. Charles
lascia il palazzo poco prima che le campane annuncino i Vespri. Raggiunge
l’appartamento. È impaziente. Solomon
arriva puntuale. Charles
si aspetta che Solomon lo abbracci, lo stringa, lo prenda, ma l’ebreo non si
avvicina. Charles non capisce. -
Sono contento di vederti, Solomon. Solomon
lo guarda in silenzio, poi dice: - È
stato un massacro, un infame massacro. E i soldati aiutavano gli assassini. Charles
è a disagio, ora. Solomon gli ha chiesto di venire per questo? - Ti
avevo avvisato che ci sarebbero stati disordini, attacchi. -
Sì, ma non che ci fosse un massacro organizzato. E poi il sequestro delle
case. E il tributo da pagare per sopravvivere. In
realtà Solomon aveva previsto quanto è successo: le informazioni fornite da
Charles e da due soldati gli avevano permesso di farsi un quadro molto chiaro
della situazione. Ma adesso finge di essere stato colto di sorpresa, per
ottenere ciò che vuole. -
Sono decisioni che ha preso Renaud. Spesso non mi
informa neppure. È lui a comandare. Charles
si avvicina. - Mi
spiace, Solomon, per quello che è successo. Tu te ne dovrai andare e questo
mi spiace davvero molto. Non so quando potremo vederci ancora. Possiamo
passare il tempo meglio, no? Recriminare non serve a nulla. Solomon
vorrebbe dire a Charles quello che davvero pensa di lui, ma prosegue nella linea
d’azione che ha deciso di tenere. Scuote la testa e dice: -
No, non serve. Anch’io ho voglia… Ma prima devi promettermi di aiutarci. -
Aiutarvi? E che cosa potrei fare? Non sono io a decidere. -
Ascoltami, Charles. Noi partiamo domani mattina. Se ci vedranno caricare quel
poco che abbiamo salvato, si radunerà di nuovo una folla e saremo ancora
attaccati. - E
come potrei impedirlo? -
Da’ ordine che domani aprano la porta occidentale prima dell’alba, solo per
il tempo necessario a far uscire noi. Charles
è perplesso: non si aspettava la richiesta. Solomon insiste: -
Non rischi nulla e noi potremo prepararci la notte e partire prima che ci sia
gente per le strade. Un ufficiale può scortarci fino alla porta, nel caso
incontrassimo i soldati di ronda. Charles
annuisce: in effetti non ci sono problemi a ordinare a un ufficiale di
accompagnare gli ebrei fino alla porta e di farli uscire prima dell’alba. La
porta verrà richiusa non appena gli ebrei saranno usciti. - Va
bene, lo farò. Solomon
sorride. -
Grazie, Charles. Solomon
abbraccia Charles, poi si stacca e si spoglia con gesti rapidi, sorridendo.
Pensa che è l’ultima volta che si prostituisce a quest’uomo che disprezza e
il pensiero lo fa sorridere. Charles legge nel sorriso un desiderio che
Solomon non prova. Quando sono entrambi nudi, Solomon forza Charles ad
inginocchiarsi, gli avvicina la faccia al cazzo e glielo mette in bocca quasi
a forza: se che al barone non spiace questa brutalità. Poi lascia che sia
Charles a fare quello che vuole: che la lingua di Charles scorra sulla
cappella, che le labbra l’avvolgano, mentre le mani stuzzicano i coglioni.
Gli accarezza la testa, le spalle, gli passa le dita dietro le orecchie, gli
tira i capelli, simulando i gesti di un desiderio che non prova, vincendo la
propria repulsione. Non parlano, non dicono nulla. Solomon grugnisce, geme,
mugola, emette versi appena udibili, che accendono il desiderio di Charles. Il
piacere di Solomon esplode e Charles inghiotte il seme. Solomon chiude gli
occhi e reclina la testa all’indietro. Mormora: - Ci
sai fare, Charles! Charles
ride. -
Dovresti saperlo! Charles
appoggia la testa contro il ventre di Solomon e rimane così, a lungo. Le mani
di Charles accarezzano il corpo di Solomon, il culo, la schiena, i coglioni. - Ho
sete, Solomon, dammi da bere. Solomon
annuisce e quando Charles avvolge la cappella con le labbra, incomincia a
pisciare. Charles beve, poi riprende a passare la lingua sul cazzo di
Solomon, avvolge la cappella, la succhia, finché il cazzo non si irrigidisce
di nuovo. Charles
lascia la preda e si alza, guarda Solomon, sorride e gli dice. -
Adesso mi spacchi il culo, così mi ricorderò a lungo di te! Solomon
annuisce e risponde: -
Accomodati, barone. Charles
appoggia il torace sul letto e divarica bene le gambe. Solomon
inumidisce con due dita bagnate l’apertura e poi entra senza tanti
complimenti. Charles sussulta e Solomon ha una risata roca. Solomon spinge e
rapidamente arriva in fondo, ora il suo cazzo è tutto dentro il culo di
Charles ed i suoi coglioni premono contro quelli del barone. E
poi Solomon incomincia il suo lavoro, ritraendo il cazzo e poi spingendolo
ben in fondo al culo di Charles, infinite volte: deve pagare il prezzo
dell’aiuto che ha ottenuto. L’indomani,
prima che spunti l’alba, un ufficiale si presenta davanti ai magazzini. Le
famiglie sono tutte pronte: nel cortile sono stati caricati i cavalli e gli
asini e la carovana si mette in moto. Si muovono per le vie della città,
completamente deserte e ancora immerse nell’oscurità. Nessuno parla: non è il
caso di svegliare chi dorme e attirare l’attenzione. Giungono
alla porta, che viene aperta. Infine possono lasciare la città. Poco
dopo, la carovana si divide. Due famiglie si dirigono verso Damasco, dove
pensano di correre meno rischi. I genitori di Gavriel
hanno fatto questa scelta anche perché sospettano che il forte legame che
unisce Gavriel a Solomon non sia soltanto
l’ammirazione sconfinata di un giovane per un adulto che considera un modello
e preferiscono allontanare il figlio dai rischi che potrebbe correre. Gavriel soffre di questa separazione. Se Solomon
ricambiasse il suo amore, lascerebbe la famiglia per seguirlo, ma sa che
Solomon stesso non lo accetterebbe. A
Solomon spiace che Gavriel soffra, ma è convinto
che per lui sia la soluzione migliore: il loro rapporto non ha senso. Solomon
non può ricambiare l’amore del ragazzo. Al
momento della separazione non c’è la possibilità di parlarsi a lungo. Solomon
si limita a dire, piano, in modo che gli altri non sentano: - So
che soffri, ma credo che sia meglio così, Gavriel. Gavriel annuisce. Poi dice: -
Solomon, promettimi che quando verrai a Damasco, passerai a trovarmi. Almeno
questo. Solomon
sorride. - Va
bene. Gavriel. Te lo prometto. Il
resto della comunità di San Giacomo segue Solomon e si trasferisce a
Rougegarde: sono in molti a dovergli la vita e si fidano delle sue scelte.
Amos non è molto convinto e ha optato anche lui per la città del duca solo
perché la decisione di Solomon ha convinto a trasferirsi lì le altre
famiglie. Non vuole separarsi dalla piccola comunità che ha guidato per anni.
Il
viaggio si svolge senza problemi. Molti temevano che la loro partenza in
gruppo sarebbe stata accompagnata da attacchi, ma Solomon è riuscito a farli
uscire di notte. Come l’abbia ottenuto, nessuno lo sa. Sono tutti un po’
stupiti che il barone, dopo aver permesso il massacro, si sia dimostrato così
attento nei loro confronti, ma ben venga. O forse non è stato il barone a
mandare l’ufficiale e a far aprire la porta: può darsi che Solomon abbia unto
un po’ di mani. In ogni caso bisogna ancora una volta ringraziare lui. Fuori
città si uniscono a un’altra carovana, quella del mercante Giovanni e del
nipote Riccardo, che si è attardata in un caravanserraglio ancora in funzione
nei pressi di San Giacomo. Proseguire insieme dà sicurezza a tutti. La
sera del secondo giorno, dopo aver consumato la cena insieme agli altri,
Solomon sale in cima a una collina. Ha bisogno di stare un po’ da solo. Non
vuole riflettere sul da farsi: ha invece bisogno di non pensare, di riposare
la mente. Il
cielo è coperto e solo a nord sono visibili alcune stelle, tra brandelli di
nuvole. Solomon chiude gli occhi e lascia che il mondo svanisca, mentre sente
su di sé la carezza del vento. Rimane a lungo immobile, la mente svuotata
completamente Dopo
un’ora, Solomon riapre gli occhi. Il cielo si è in gran parte scoperto ed è
apparsa la luna. Solomon si alza e scende verso l’accampamento. La luce
lunare rende più facile seguire il sentiero. A metà strada Solomon vede
un’ombra. Si ferma di scatto e porta la mano al pugnale da cui non si separa
mai. Ma
la voce che sente gli dice che non c’è nessun pericolo: -
Solomon? Sono io, Riccardo. Spero di non averti spaventato. Solomon
e Riccardo si conoscono da tempo: avendo contatti con Giovanni, Solomon ha
avuto modo in più occasioni di vedere anche Riccardo. Si danno del tu:
Solomon ha solo tre anni in più di Riccardo. Eppure a Riccardo sembra che
Solomon sia molto più vecchio. Riccardo ha viaggiato molto: fin da ragazzo ha
accompagnato il padre nei suoi viaggi d’affari nel regno di Gerusalemme e in
Siria. Ha conosciuto gente di ogni tipo e avuto tante esperienze. Parla
correntemente l’arabo e la lingua dei franchi, oltre al lombardo che usa con
lo zio. Eppure di fronte a Solomon gli sembra di essere ancora un ragazzo. A
Riccardo Solomon piace moltissimo, come tutti gli uomini forti e sicuri. A
trent’anni Riccardo non ha cambiato gusti e un uomo come Solomon non poteva
non colpire la sua attenzione. In passato Riccardo ha fatto in modo di
scambiare qualche parola con lui in alcune occasioni. Non vuole scoprirsi
troppo con uno sconosciuto che ha legami d’affari con lo zio, ma Solomon ha
colto le sue intenzioni: è abituato a essere desiderato, a leggere negli
occhi degli altri l’attrazione che provano. Talvolta si è servito del suo
corpo per raggiungere i suoi obiettivi, come ha fatto con Charles: non è una
cosa che ama fare, ma se è necessario, non si tira indietro. Altre volte
asseconda il desiderio di qualcun altro, perché non è avaro di sé: regala
volentieri piacere, perché è nella sua natura generosa. Non ama nessuno e
prende volentieri ciò che gli viene offerto. E ora è sicuro che Riccardo non
sia per caso sul sentiero. Solomon
ride. -
Spaventato no, ma hai rischiato di beccarti una coltellata. Riccardo
ride: -
Ammazzi chi incontri senza neanche sapere chi è e che cosa vuole? -
Certe volte, se aspetti di scoprire che cosa vuole, rischi che sia l’ultima
cosa che scopri. -
Non credo che tu sia così feroce. -
No, ma sono prudente. Se non lo fossi, sarei da tempo a vedere l’erba dalla
parte delle radici. Riccardo
annuisce. Solomon non sta scherzando. -
Hai davvero ucciso qualcuno? Riccardo
si pente della domanda che ha formulato: si rende conto di essere stato
indiscreto. -
Solo per difendermi, Riccardo. Ma lasciamo perdere questi argomenti. C’è
un momento di silenzio. Riccardo si pente di aver condotto la conversazione
nella direzione sbagliata. Cerca di rimediare: -
Hai ragione. In ogni caso non mi aspettavo che tu mi pugnalassi. Solomon
potrebbe rispondere in modo generico e poi salutare per tornare
all’accampamento. Ma vuole lasciare a Riccardo uno spiraglio: -
Che cosa ti aspettavi, invece? -
Magari scambiare due chiacchiere, ma ormai è tardi. -
Sì, è tardi, Riccardo. Ho bisogno di dormire, perché abbiamo dormito tutti
molto poco in queste ultime notti. Ma a Rougegarde avremo modo di vederci
spesso. - Tu
dici? Mi farebbe molto piacere. -
Tuo zio non ti ha detto niente, vero? -
Che cosa avrebbe dovuto dirmi? -
Verrò ad abitare nella vostra casa. Prenderò in affitto l’appartamento
libero. E anche la mia bottega sarà nella casa. -
Davvero? - Te
lo assicuro. E avremo modo di… conoscerci meglio. - Lo
spero. Solomon
si avvicina, prende la testa di Riccardo tra le mani e lo bacia sulla bocca. - Questo
è un pegno. Ma adesso scusami: ho bisogno di riposare. Tornano
all’accampamento in silenzio. Riccardo è contento. Non ha scopato, ma a
Rougegarde avranno modo di farlo. Joscelin cavalca verso la fortezza di Jibrin, in territorio saraceno. È vestito come un arabo,
per non dare nell’occhio. Arriva
al castello a metà giornata. Non è mai stato a Jibrin,
ma ne ha sentito spesso parlare. La fortezza è davvero imponente e la sua
posizione a strapiombo su un baratro rende difficilissimo espugnarla. Joscelin si avvicina all’ingresso, dove vi è un
drappello di guardie armate. Smonta da cavallo e si presenta. - Mi
chiamo Raoul e ho bisogno di parlare con lo sceicco Ramzi,
per una richiesta importante. Joscelin preferisce non dare il suo vero nome:
non devono essere in grado di risalire a lui o al barone. A Ramzi dovrà dire chi lo manda, ma meno persone lo sanno,
meglio è. Non ha dato un nome arabo, perché, per quanto parli la lingua
abbastanza bene, è evidente che non è un saraceno. Le
guardie sono molto diffidenti. Una di loro va a chiamare un uomo, che deve
avere un grado superiore. Alle sue domande Joscelin
risponde che è venuto a chiedere l’aiuto di Ramzi
da parte di un signore cristiano, ma che potrà spiegare di che cosa si tratta
solo allo sceicco. Joscelin viene fatto entrare nel castello e
condotto in una stanza dove gli ingiungono di spogliarsi completamente. Joscelin esegue senza discutere: ormai si è messo nelle
loro mani. Porge anche la catena d’oro che ha con sé, chiarendo che è un
omaggio per lo sceicco: non vuole che qualcuno se ne impadronisca. I
suoi abiti gli vengono resi dopo mezz’ora, insieme alla catena. Joscelin rimane nella stanza a lungo.
Incomincia a chiedersi se Ramzi lo riceverà. Se il
loro incontro avverrà solo la sera, lo lasceranno dormire al castello o lo
costringeranno ad andarsene di notte? Viene
infine chiamato. Due guardie lo accompagnano in una stanza e rimangono di
fianco a lui. Ramzi è seduto su una stuoia. Joscelin si inchina e saluta. Ramzi
risponde con un cenno. Non gli dice di sedersi. Joscelin
rimane in piedi. - Mi
hanno detto che vuoi parlare con me. Che cosa hai da dirmi? - Il
mio signore ti manda questa catena come modesto dono. Joscelin porge la catena. Ramzi
la prende e la posa, dando appena un’occhiata. Joscelin
è sicuro che i suoi uomini gliel’abbiano già fatta vedere. -
Chi è il tuo signore? Joscelin lancia un’occhiata ai due uomini al
suo fianco. Ramzi capisce benissimo il senso di
quello sguardo. -
Puoi parlare liberamente. Nessun altro lo saprà. - Il
mio signore è il barone Renaud di Afrin. Ramzi non sembra stupito. Si limita a
chiedere: -
Perché il tuo signore mi manda un dono? Io non lo conosco. - Il
barone ha sentito parlare di te e della tua potenza. Sa che nella tua
misericordia proteggi gli uomini giusti e punisci chi non segue giustizia. Sono
solo formule di cortesia, in cui nessuno dei due crede, ma fanno parte del
gioco. -
Ringrazia il barone per il suo dono. Se un giorno potrò fare qualche cosa per
lui, ne sarò lieto. Ramzi è disponibile a intervenire, se ne
vale la pena. Bene. Joscelin lancia ancora
un’occhiata ai due uomini che gli stanno a fianco, ma Ramzi
non dice nulla. Allora Joscelin prosegue: -
Purtroppo il barone ha molti nemici e tra questi due sono i più feroci: il
conte Ferdinando e soprattutto il duca Denis, che ha conquistato al-Hamra. Ramzi mostra sempre la stessa indifferenza
alle parole di Joscelin, come se l’implicita
richiesta di uccidere due signori cristiani per conto di un altro non lo
stupisse minimamente. -
Due nemici potenti. -
Sì, due nemici molto potenti. Il barone ha bisogno di aiuto. La sua vita è
minacciata. -
Certo, se ha per nemici due uomini così potenti. Joscelin è convinto di aver capito dove vuole arrivare
Ramzi. - Il
mio signore è in pericolo e ha bisogno d’aiuto. Ha pensato di rivolgersi a
te, perché sei un uomo potente, più di loro, e puoi rendergli giustizia. Sa
bene che l’impresa è difficile. Per questo ti chiede di aiutarlo e ti
assicura che farà tutto quello che è in suo potere. Ramzi ripete: -
Sono due uomini molto potenti. Questo
significa che il prezzo da pagare è alto, come Renaud
aveva previsto: l’avidità di Ramzi non è un
segreto. - Il
mio signore farà ciò che è in suo potere e ti sarà grato di ciò che vorrai
fare. -
Per arrivare a loro occorrerebbe molto oro. Molto. Ramzi fa un cenno di congedo con la mano. Joscelin sa che non può insistere. Si inchina e viene
accompagnato fuori. Lo conducono in cortile, dove ritrova il cavallo. È ormai
quasi sera, ma è chiaro che non intendono ospitarlo per la notte. Joscelin sale a cavallo e si allontana. Dormirà lungo la
via, cercando un posto isolato dove fermarsi. Ramzi ha preso il regalo, ma non ha detto
una cifra. Bisognerà dare molto oro. E se non sarà abbastanza, Ramzi non farà nulla. Il barone non sarà soddisfatto. La
carovana degli ebrei arriva a Rougegarde. Come già si sapeva, il duca è
assente: si è diretto verso l’Egitto, perché il Saladino ha attaccato il
regno. Solomon
trova una sistemazione per tutti, molto in fretta. Alcuni si stupiscono di
quanto rapidamente il fratello del rabbino riesca a trovare un’abitazione per
le famiglie, ma Solomon sembra conoscere le persone giuste. Si stabiliscono
quasi tutti nel quartiere ebraico, che
ha conservato il nome arabo, Harat al-Yahud: situato all’estremità occidentale della città, sul
fianco scosceso della collina, è un quartiere di case in pietra rossastra,
come quasi tutta la città, con vie che lo attraversano quasi in piano,
seguendo l’andamento del rilievo, e vicoli, scalinate e passaggi coperti che
si inerpicano, incrociando le strade principali. In basso, dove il terreno è
meno scosceso, c’è la grande sinagoga, una delle più vaste della regione.
Altre due sinagoghe più piccole si trovano invece in alto. Solomon
trova una casa accogliente per Amos, a metà strada tra le due sinagoghe
minori. Elisheva e i figli ne sono entusiasti,
tanto più che sono vicini ad altre famiglie che conoscono. Anche Amos è
soddisfatto. L’atmosfera in città è tranquilla: non si sentono minacciati
come a San Giacomo d’Afrin. Solomon ha fatto la
scelta giusta, come sempre. Amos lo ammette a malincuore: nei confronti di
questo fratello su cui può sempre contare, ma che fa sempre di testa propria,
Amos ha sentimenti ambivalenti e fa fatica a riconoscerne le tante qualità.
Sa di essergli profondamente affezionato, ma non sono rare le occasioni in
cui vorrebbe che scomparisse, andando a vivere da un’altra parte. Dopo
averli aiutati a sistemarsi, Solomon saluta Amos e la famiglia, tra i
ringraziamenti di Elisheva e dei figli, e lascia la
loro casa: è stato con loro per i primi giorni, per dare una mano, ma intanto
si è trovato un appartamento altrove. Amos non si è opposto. Da una parte
preferirebbe che Chlomo rimanesse con loro, per
tenerlo sotto controllo e perché sa che la sua presenza dà sicurezza a tutti,
Amos compreso. Dall’altra preferisce non sapere troppo di ciò che Chlomo fa: occhio non vede, cuore non duole. E in ogni
caso, qualunque cosa lui possa dire, Chlomo farà di
testa propria, come ha sempre fatto. Solomon
si dirige verso la sua nuova casa. Non si è stabilito nel quartiere ebraico:
preferisce avere una maggiore libertà d’azione. Perciò, come ha anticipato a
Riccardo, ha affittato un appartamento nella casa del mercante Giovanni e una
bottega al piano terra dello stesso edificio. La casa è molto vasta. Un’ala è
occupata dal mercante, che vi sta con la moglie e i figli, e dal nipote
Riccardo. Un’altra ala ha ai piani inferiori una locanda e a quelli superiori
alcuni appartamenti. Uno di questi è libero da qualche tempo: Giovanni non ha
voluto affittarlo, anche se glielo hanno chiesto. Solomon però l’ha ottenuto
insieme a una delle botteghe sul retro. Qualcuno sospetta che Giovanni
l’abbia tenuto libero per questo ebreo. Sospetto fondato. Solomon
non ha scelto casualmente la propria dimora: conosce la casa del mercante da
tempo, anche se non vi è mai stato. Conosce anche alcuni dei suoi abitanti,
prima di averli mai visti. Solomon sa molte cose. Questa
casa e i suoi abitanti lo incuriosiscono: è un piccolo mondo in cui convivono
cristiani, musulmani, ebrei, arabi e franchi. Una mescolanza che riflette la
composizione mista della città, ma che è difficile, per non dire impossibile
trovare in una singola casa nel Regno di Gerusalemme, ad eccezione di alcune
dimore nobiliari, in cui però arabi ed ebrei sono al servizio dei padroni. Solomon
è un uomo riservato e cordiale. Si limita a salutare gli altri abitanti della
casa, quando li incontra, e a scambiare due parole con loro, senza mai porre
domande: non è curioso. O forse sa già molto di ciò che gli interessa sapere
e non ha fretta di scoprire il resto. In
cima alla casa c’è un’ampia terrazza, dove è bello godersi il fresco della
sera, tra le grida dei bambini che giocano. Gli abitanti della casa si
trovano spesso lì e il dialogo si intreccia facilmente. Riccardo
è impaziente di approfondire la conoscenza di Solomon, per cui la prima volta
che lo vede sulla terrazza, poco dopo pranzo, gli si rivolge: -
Come ti trovi a Rougegarde, Solomon? -
Benissimo, Riccardo. - Ti
piace il tuo appartamento? -
Molto. Riccardo
si guarda intorno e poi dice, piano: -
Sono contento che tu sia venuto ad abitare qui. Solomon
ride. - E
sei ansioso che io mantenga una promessa. Solomon
non ha fatto una vera promessa, ma sanno tutti e due di che cosa stanno
parlando. - Ci
conto. -
Quando? - Io
adesso devo scendere nel magazzino. Abbiamo l’inventario e non finiremo prima
dei Vespri. Vuoi venire a cercarmi allora? O sei occupato? -
No, posso venire. Solomon
sorride. Riccardo
scende. È impaziente e nel pomeriggio spesso il pensiero va al bell’ebreo. Quando
le campane annunciano i Vespri, i lavoranti lasciano il magazzino. Riccardo
rimane da solo. Si sta chiedendo se Solomon verrà, quando lo vede entrare.
Gli sorride. Anche
Solomon sorride, il suo sorriso un po’ sornione. Chiede: -
Allora mi fai visitare il magazzino? Riccardo
è preso di sorpresa. Ma perché no? Oltre tutto il magazzino ha diversi angoli
bui, adatti allo scopo. Il deposito
è costituito da diverse stanze di grandi dimensioni. Solomon si guarda
intorno e osserva: - Io
con la mia merce non riuscirei a riempire neanche un angolo di una di queste
stanze. -
Sì, ma con quello che vale la tua merce, mastro orafo, potresti comprare
l’intero magazzino. -
Non credo, mastro mercante. Hanno
raggiunto l’ultima stanza. Riccardo chiude la porta e posa la lanterna su uno
scaffale. Solomon sorride e chiede: - E
adesso, che cosa desidera il mercante padrone di casa? Riccardo
ride e dice: -
Adesso il mercante vorrebbe che l’orafo si spogliasse. Gli piacerebbe vederlo
nudo. Il mercante è sicuro che sia una bella vista. Solomon
sorride. - L’orafo
spera che il mercante non rimanga deluso. Comunque gli sembra una bella idea.
Oppure… che ne dici se ci spogliamo a vicenda, Riccardo? Riccardo
fa un cenno d’assenso. È
bello sentire le mani forti di Solomon che gli accarezzano il viso, prima di
scivolare sul petto e sbottonare la camicia. È bello guardare quelle mani che
aprono la fibbia della cintura, sbottonano i pantaloni e glieli calano.
Riccardo non rimane inoperoso: sbottona la camicia di Solomon, poi gli
accarezza la leggera peluria del petto con la mano. Infine slaccia la cintura
e gli cala i pantaloni e le mutande, afferra le natiche e le stringe con
forza. Riccardo
sente la bocca di Solomon, che gli mordicchia un capezzolo, mentre le mani
gli abbassano le mutande. Ora
sono nudi, uno di fronte all’altro, e Solomon gli prende il viso tra le mani
e lo bacia sulla bocca. Si
baciano di nuovo e questa volta le lingue non stanno al loro posto. E poi
incomincia un gioco di carezze, baci, abbracci, mani che strizzano i
capezzoli o le palle, dita che stringono cazzi o si infilano in culo, tutto
un abbracciarsi, leccarsi, succhiarsi, mordersi, in cui Riccardo si perde e
Solomon si perde con lui. Riccardo
si stacca e contempla Solomon: il corpo robusto, le braccia vigorose, il
petto largo, la peluria leggera che lo ricopre, il cazzo ormai teso, i
coglioni. -
L’orafo è un gran bel maschio. - E
il mercante di tessuti è un bel maialino. Solomon
si avvicina a Riccardo, lo prende tra le braccia e lo solleva. Il mercante si
ritrova disteso su una pila di tessuti e la lingua dell’orafo lavora a lungo
il suo buco, spingendosi fin dentro, poi la parola passa alle dita, che
entrano, escono, carezzano, premono, divaricano. Riccardo mugola di piacere. E
infine l’orafo si stende sul mercante e la festa incomincia. Riccardo è
abituato ad accogliere cazzi e sentire quello di Solomon dentro di sé è piacevole.
Solomon si muove con lentezza, si ritrae e poi avanza, piano. Nonostante un
po’ di dolore, la sensazione è grandiosa. Di rado Riccardo ha sentito un
cazzo così grosso e duro nel suo culo e le spinte che si succedono senza fine
accendono in lui lampi di piacere. E
quando, dopo un tempo che a Riccardo pare interminabile, Solomon viene dentro
di lui e la sua mano guida al piacere Riccardo, il mercante ha l’impressione
di svenire, tanto forte è il piacere. Riccardo
pensa che è stata una delle migliori scopate della sua vita. Spera che ci
saranno altre occasioni. Solomon
lo tiene a lungo tra le braccia e a Riccardo sembra di essere in paradiso.
Nel suo culo sente il cazzo dell’orafo, non più rigido, ma ancora grosso e la
sensazione di pienezza è piacevole, senza la punta di dolore di quando l’arma
era in tiro. Riccardo
si è dato a molti uomini, un po’ perché gli piace variare, un po’ perché non
ha mai stabilito un legame fisso e si è sempre lasciato guidare dal desiderio
del momento. Con uno come Solomon non gli spiacerebbe avere una relazione
duratura. In quest’uomo c’è una forza che lo attrae. Renaud non si mostra stupito di quanto Joscelin gli riferisce. Si aspettava che Ramzi non indicasse una cifra precisa. Le informazioni
che ha raccolto concordano sull’avidità dello sceicco e in ogni caso se Ramzi riuscirà a uccidere Denis, sarà stato un buon
affare. Rougegarde vale molto di più di tutto ciò che Renaud
ha a disposizione. Adesso
occorre solo attendere l’esito della guerra in corso. Forse la guerra è stata
persa e il Saladino sta invadendo il regno di Gerusalemme: in questo caso le
priorità sono altre e l’unica cosa da fare probabilmente è raggiungere una
delle città costiere con le ricchezze accumulate, in modo che non cadano in
mano ai saraceni. Forse Denis di Rougegarde è morto in battaglia e questa
sarebbe comunque un’ottima notizia. Forse la guerra è stata vinta e allora
bisogna procedere con il piano. |