IV – New York

 

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Ad accogliermi a New York c’erano mia madre ed Edith, con i miei due (quasi tre, ebbi modo di notare) nipoti. A casa, la sera, rividi mio padre e Henry.

Mi stupii di ritrovarli identici a quando li avevo lasciati: io ero cambiato così profondamente, che avevo la sensazione di essere un altro Roger. Ma loro erano rimasti a casa, avevano proseguito le loro vite senza grandi scosse e, se erano avvenute trasformazioni, i segni non erano esteriormente visibili. Solo i miei nipoti erano cresciuti e i loro lineamenti si erano modificati: a quell’età un anno è già un periodo lungo.

Loro mi trovarono molto cambiato: ero abbronzato e la barba, per quanto la tenessi corta, dava alla mia faccia un altro aspetto. A casa mia nessuno portava la barba e Henry mi chiese se intendevo diventare un artista, oltre che un medico. Il suo tono era aspro e vi lessi un’ostilità che mi stupì, tanto più che il fatto in sé era insignificante: erano in molti a portare la barba, anche tra gli uomini di stato e tra le nostre conoscenze.

Edith passò da casa a lasciare i figli e cenammo insieme. Risposi alle prime domande e davvero, vedendoli tutti insieme, mi sembrava che il tempo si fosse fermato per loro, come in quei racconti in cui una fata getta un incantesimo. In realtà ero io che ero stato colpito da un incantesimo di segno opposto.

Nessuno fu molto insistente: ero appena arrivato e non volevano stancarmi.

Coricarmi nel mio letto mi provocò una sensazione molto strana, che facevo fatica a definire. Sapevo che il Roger che per l’ultima volta aveva dormito in quella camera oltre un anno prima, non esisteva più. Ma chi era l’uomo che ora vi si coricava? Non avevo risposte.

Passai il giorno seguente a sistemare bagagli e ricordi. Eravamo invitati a cena da Lionel ed Edith e l’idea mi turbava: avrei rivisto Bruce, perché sicuramente era stato invitato anche lui. Non me la sentivo di incontrarlo così presto, ma mi dissi che tutto sommato andava bene: avrei potuto raccontare del viaggio, mantenendo in qualche modo la mia promessa, senza dover andare a trovarlo.

Con mio stupore, scoprii che Bruce non c’era. Eppure sapevo, da una frase che mia madre aveva detto, che era a New York. Pensai che avesse un impegno e non diedi peso alla faccenda. Ma nel corso della serata, mi resi progressivamente conto che nell’aria c’era una certa tensione. Ogni volta che domandavo notizie di conoscenti di New York, Edith e mia madre rispondevano con una prontezza che mi stupiva: sembrava quasi che volessero evitare una risposta da parte di qualcuno degli altri. Lionel interveniva ogni tanto, con la sua consueta serenità e arguzia, ma dava l’impressione di controllarsi molto. Mio padre, che non era mai stato un gran conversatore, faceva la sua parte. Henry invece rimase muto quasi tutto il tempo e intuii che era da lui che si temevano polemiche.  

Non volevo certo creare tensioni, per cui mi rassegnai al mio ruolo di protagonista e narrai il mio viaggio a grandi linee, inserendo alcuni aneddoti che pensavo potessero interessarli o divertirli. Avrei chiesto più tardi spiegazioni.

Il giorno dopo mi occupai ancora dei bagagli e ripresi i contatti con due medici che conoscevo. Volevo incominciare a lavorare il più presto possibile, avevo bisogno di gettarmi in un’attività che restituisse un senso alla mia vita e, soprattutto, mi aiutasse a tenere a freno un desiderio che premeva, ma che io ricacciavo indietro con forza.

La sera non avevamo ospiti e l’atmosfera mi parve più rilassata.

A un certo punto mio padre disse che aveva incontrato per strada Lizze Hazeldean, che lo aveva pregato di portare i suoi saluti a mia madre.

Prima che mia madre potesse intervenire, Henry esclamò:

- Quella! Con quel che si dice di lei, ha l’impudenza…

Mia madre cercò di calmarlo:

- Henry, sono soltanto voci. Nessuno ha mai visto nulla di preciso.

Mia madre non dava mai credito ai pettegolezzi che circolavano su diverse persone dell’alta società.

Ma Henry sembrava furibondo.

- L’hanno vista uscire dall’albergo della Quinta Strada con Henry Prest, quella. Una camera d’albergo, come una sgualdrina! Gente così dovrebbe essere messa al bando dalla società, non gli si dovrebbe nemmeno rivolgere la parola. Sono feccia, quelli come lei o Bruce McGregor.

Pronunciò il nome di Bruce con un tale disprezzo, che mi parve di aver ricevuto una frustata in pieno volto. Sentii una violenta fitta di dolore e mi sfuggì:

- Bruce?

Henry mi guardò, con una smorfia di rabbia in volto:

- Sì, proprio lui. Non ne sai niente? Ne parla tutta New York!

Era naturale che non ne sapessi niente: ero tornato due giorni prima, avevo visto solo qualche collega e compagno di studi, per parlare di lavoro.

Non sapevo che cosa potesse aver fatto Bruce per essere oggetto di tanto odio, perché Henry pareva davvero odiarlo. Devo dire che pensai a una relazione che dava scandalo, ma non con una donna: immaginai invece che avesse un rapporto con un uomo e che in qualche modo si fosse risaputo. L’idea mi paralizzò. Scossi la testa, cercando di non far vedere quanto la notizia mi sconvolgesse.

- Bruce McGregor è un bastardo, ecco quello che è.

Non avevo mai sentito nessuno a casa nostra usare un’espressione del genere quando eravamo tutti insieme: Henry e, molto di rado, mio padre potevano fare un commento pesante in un dialogo a due, ma in presenza di mia madre non era mai successo.

Anche la durezza con cui intervenne mia madre era qualche cosa di completamente nuovo:

- Henry, Bruce è il cognato di Edith e sei pregato di esprimerti in altro modo.

- Cognato! Non è…

Mio padre lo interruppe, ribadendo:

- Sì, Henry, tua madre ha ragione. Bruce si sta comportando in un modo inqualificabile, ma è legato alla nostra famiglia e non puoi usare certi termini nei suoi confronti.

Henry rispose, in tono di sfida:

- Va bene se dico che Bruce McGregor è un pazzo, un pazzo criminale?

Io deglutii e attesi una spiegazione, che non ero in grado di chiedere. Henry si rivolse a me, con un tono molto aggressivo:

- Non ne sai niente, tu?

Henry sembrava quasi farmi una colpa della mia ignoranza della situazione. Lo vedevo esasperato e furente. Scossi la testa e attesi il colpo. Avevo la sensazione di essere un condannato a morte davanti al plotone. Era assurdo, ma l’angoscia che mi cresceva dentro era troppo forte, non riuscivo a contenerla.

Henry respirò a fondo e poi si lanciò:

- Suo padre è morto oltre un anno fa, poco dopo la tua partenza. E lui ha ereditato le fabbriche, ovviamente. E sai quel che ha fatto? Sai quel che ha fatto quel figlio di

- Henry! Se non sei in grado di esprimerti come una persona civile, puoi lasciare questa tavola.

Mio padre era furente. Mia madre scuoteva la testa, chiaramente infastidita. Discussioni di quel tipo dovevano già essere avvenute, più volte, nel periodo che avevo trascorso all’estero.

Io non capivo, ma in qualche modo mi sentivo sollevato all’idea che il problema non riguardasse la vita privata di Bruce.

- Ha aumentato le paghe agli operai, ha ridotto gli orari, ha fatto installare meccanismi di sicurezza, ha aperto un asilo per i figli degli operai. Quel… Ma ti rendi conto?

Fui sul punto di scoppiare a ridere, cosa che, nella situazione di tensione che si era creata, avrebbe scatenato una tempesta. A tutto avevo pensato, fuorché al fatto più ovvio: che Bruce avesse deciso di mettere in pratica le sue idee. Avrei potuto prevederlo, perché conoscevo quanto coerente fosse Bruce, ma la furia di Henry mi aveva fatto balenare in mente scenari di tutt’altro genere.

- Un pazzo criminale. Le sue non sono le uniche fabbriche della città e le sue decisioni hanno avuto una serie di ripercussioni. La marmaglia ha alzato la testa e adesso chiede aumenti di salario, miglioramenti nelle condizioni di lavoro. E lui va avanti per la sua strada, indifferente.

Pensai che Bruce McGregor aveva fegato e che quello che faceva era bellissimo. Ma non dissi niente: Henry non avrebbe accettato la mia posizione e ci sarebbe stato uno scontro. Anche mio padre di certo condivideva la visione di Henry, pur non volendo attaccare apertamente il cognato di sua figlia.

Quella sera capii le tensioni durante la cena a casa di Edith e il motivo dell’assenza di Bruce. Di certo i rapporti tra Lionel e Henry dovevano essere pessimi e gli altri temevano uno scontro.

 

Nei giorni successivi ebbi modo di frequentare molte persone, anche se non avevo voglia di incontrare gente: i miei non avrebbero accettato che, dopo una lunga assenza, io non riprendessi almeno in parte i contatti sociali. Io non volevo contrariarli anche in questo, tanto più che le tensioni esistenti in casa erano piuttosto forti.

Non vidi mai Bruce: aveva scelto di non frequentare più la società dei suoi pari, tra cui la sua presenza avrebbe provocato discussioni e malumori. Ma sentivo parlare di lui quasi tutti i giorni. Era l’argomento del momento: il suo comportamento suscitava reazioni scandalizzate, spesso furenti, e i giudizi erano di solito quelli che avevo sentito a casa mia, anche se c’era chi lo difendeva, soprattutto tra le donne. L’anziana Lady Burton esprimeva ad alta voce tutta la sua ammirazione per quell’uomo coraggioso e saggio, provocando le proteste di molti dei presenti. Anch’io difesi le sue posizioni, con maggiore cautela, senza rivelare quanto apprezzassi le sue scelte. Non so perché mi trattenessi: quando parlavo di lui, mi sentivo sempre a disagio, come se avessi avuto qualche cosa da nascondere.

Bruce McGregor, così schivo e discreto, che non aveva mai fatto parlare di sé, era divenuto il centro di infinite conversazioni. Sentivo citare le cose che aveva detto, le idee che sosteneva. Mi colpì soprattutto una frase che mi riferirono, di cui colsi appieno il significato solo qualche sera dopo:

- Abbiamo combattuto per cancellare la schiavitù e teniamo i nostri operai come schiavi!

Più spesso ancora, gli venivano attribuite, spacciandole come sicure, idee ed azioni che erano mere ipotesi: se qualcuno diceva di averlo visto dai Burrage, ad una serata in cui una giovane di Boston aveva tenuto un discorso sui diritti delle donne, allora veniva accusato di essere favorevole al suffragio femminile; se aveva incontrato un esponente della nuova Unione Internazionale del Lavoro, di sicuro finanziava in segreto i sindacati per odio nei confronti degli altri proprietari e mirava a diffondere le idee socialiste. Difficile distinguere il vero dal falso in queste affermazioni. Alcune mi sembravano plausibili: ero convinto che Bruce credesse nella parità tra uomini e donne. Altre mi parevano assurde: non riuscivo di certo a immaginarlo fomentare l’odio tra le classi sociali, il suo approccio era completamente diverso. 

Pensavo spesso alla conversazione che avevamo avuto, prima della nostra partenza. Bruce stava realizzando i suoi progetti, io stavo appena incominciando a farlo. Certo, ero più giovane, ma mi sembrava che la distanza tra di noi fosse infinita. E mentre lo pensavo, mi assalì uno scoramento, tanto forte che un mio conoscente, vedendo l’espressione del mio viso, mi chiese se stessi male.

Henry venne a sapere che in società difendevo Bruce e mi attaccò con rabbia. Il suo atteggiamento mi amareggiò molto. Già prima del mio viaggio in Europa, avevo assistito ad un notevole cambiamento nel carattere di Henry, ma adesso vedevo in lui un livore ed un’immensa acredine nei confronti degli altri: non avrei mai creduto che sarebbe diventato così. Non sapevo quali esperienze lo avessero reso tanto meschino e rancoroso, ma ormai cercavo di evitarlo e lui faceva altrettanto. Mi rendevo conto che anche con i nostri genitori aveva rapporti tesi e quando, meno di un mese dopo il mio arrivo, annunciò che sarebbe andato a vivere per conto proprio, tirai un sospiro di sollievo, come credo che facessero anche mio padre e mia madre.

Speravo che avrei recuperato un rapporto più sereno con lui, ma non fu così: di fatto finimmo per diventare due perfetti estranei.

 

Una settimana dopo il mio ritorno, scoprii su Bruce qualche cosa che non avevo mai sospettato. A rivelarlo fu il generale Royall. Era un vecchio militare che si era distinto nella guerra di Secessione e che sembrava vivere del ricordo della gloria di quegli anni: per me quegli eventi della mia infanzia erano indissolubilmente legati a figure come Royall, che negli anni immediatamente successivi al conflitto godevano di una fama e di un prestigio immensi, ma che in seguito avevano finito per divenire relitti del passato, ascoltati con deferenza e mal repressa noia.

Qualcuno, credo Albert Winters, aveva appena detto:

 - Dite quel che volete, McGregor è un vigliacco. Ha ceduto su tutto il fronte ai suoi operai perché ha paura di loro. Questa è la verità!

Royall scattò come se fosse stato morso da un serpente.

- McGregor potrà essere anche un imbecille, ma nessuno mi venga a dire che quell’uomo ha paura di qualche cosa, perché gli do del bugiardo davanti a tutti. Io l’ho visto combattere e non sarebbe diventato il più giovane colonnello del nostro esercito se non avesse dimostrato in mille occasioni un coraggio da leone. Come credete che si sia procurato le cicatrici che ha in faccia? Giocando con i soldatini di piombo?

Rimanemmo tutti senza parole. Nessuno di noi associava McGregor alla guerra, nessuno sapeva che avesse combattuto. Chiedemmo spiegazioni e Royall ci raccontò quello che sapeva.

McGregor si era arruolato un anno dopo lo scoppio della guerra, mentendo sulla sua data di nascita, perché era troppo giovane per entrare nell’esercito. Nel primo anno di guerra era diventato caporale, ma nei due anni successivi si era distinto in una serie di azioni e aveva fatto una rapida carriera, congedandosi al termine del conflitto.

- E devo dire che, benché ritenga il suo attuale comportamento condannabile, quando penso a quello che l’ho visto fare sul campo di battaglia, non posso che dire: tanto di cappello a uomini così, sono quelli che hanno fatto grande questo Paese.

Lady Burton annuì:

- Sì, tanto di cappello a uomini così, che non hanno paura né dei proiettili, né delle critiche degli altri. Uomini che agiscono in base ai propri principi morali e non agli interessi personali.

L’intervento suscitò ovviamente un coro di proteste, rianimando la discussione che il racconto di Royall aveva interrotto.

Io mi allontanai. Le rivelazioni di Royall mi avevano turbato. Bruce aveva combattuto per tre anni, esponendo ogni giorno la sua vita e venendo colpito due volte. Quando si era arruolato, aveva l’età in cui io ero ancora un ragazzo che sognava di Chris a Winsted. Aveva visto la morte e la sofferenza. Aveva lottato. Di certo aveva sopportato ogni sorta di privazioni.

Capivo perché quando l’avevo visto per la prima volta mi era apparso così diverso dai suoi coetanei. Capivo perché era in ritardo negli studi. Capivo perché mi aveva sempre attratto tanto. C’era in lui qualche cosa che non c’era in nessun altro uomo che avessi mai incontrato.

Non l’avevo rivisto. Non ero passato a trovarlo, come gli avevo promesso. A casa nostra non veniva, come mi confermò mia madre, per evitare tensioni con Henry, come Henry non andava da Edith: l’aveva fatto in occasione del mio ritorno, ma era stato un evento eccezionale.

Ero invitato da Edith la sera seguente e sospettavo che ci sarebbe stato Bruce. Sapevo, da quel che mi diceva mia madre, che Bruce andava spesso a cena da loro: ora che era vittima dell’ostracismo sociale, Lionel, Edith e i nipoti erano tutto il suo mondo affettivo.

Non me la sentivo di vederlo. Non ero pronto.

Mi era sempre piaciuto moltissimo, avevo spesso sognato di lui. Ero già innamorato di lui prima di partire. Quell’amore, a cui allora non avevo saputo dare il suo nome, aveva continuato ad esistere, come un fiume sotterraneo, ed era riemerso a Stambul, cosciente di sé. Tutti i discorsi che in quei giorni sentivo su Bruce l’avevano alimentato, fino a farne una cascata impetuosa, a cui nessuna forza poteva opporsi.

Non me la sentivo di vederlo: temevo di non riuscire a nascondere ciò che provavo, di soffrire di nuovo. Mi ero rassegnato a rimanere per sempre un essere incompleto, che sarebbe vissuto del suo lavoro e non avrebbe mai conosciuto l’amore. Incontrare Bruce mi avrebbe ricordato che nella mia vita c’era un vuoto enorme.

Mandai un biglietto a Edith per dire che non potevo andare da lei, per impegni di lavoro. 

 

Non potevo continuare a evitarlo: prima o poi ci saremmo incrociati. Accettai un secondo invito, la settimana successiva. Quando arrivai, scoprii che Bruce non sarebbe stato presente: provai un forte senso di sollievo, ma con un retrogusto amaro, come se in qualche modo fossi rimasto deluso.

Parlammo ancora del mio viaggio, dei miei progetti di lavoro. E, naturalmente, di Bruce.

Lionel era amareggiato.

- Bruce sapeva benissimo che avrebbe incontrato l’ostilità di molti. Non credo che ne patisca. Ma di certo ha sofferto perché alcune persone che riteneva più vicine a lui non hanno fatto il minimo sforzo per capire quello che sta facendo.

Lionel disse quelle parole senza guardarmi ed io pensai che si riferisse a Henry e ad altri, non certo a me che in società difendevo le sue posizioni. Ma avvertii un senso di disagio, profondo. Forse Lionel non stava accusando me, ma io mi accusavo, mi sentivo in colpa: non mi ero più fatto vivo con lui, avevo tradito la mia promessa.

Il mio comportamento era assurdo.

Quella sera Edith e io ci trovammo un momento da soli, mentre Lionel parlava con un amico che era passato a chiedergli un favore. Edith parlò di Bruce:

- Bruce è molto amareggiato, in questo periodo.

Mi sentivo a disagio e cercai di deviare un po’ l’argomento.

- Capisco. Parlavano di lui qualche sera fa ed ho scoperto che ha partecipato alla guerra di Secessione. Non lo avrei mai sospettato: era così giovane, allora. Tu lo sapevi?

- Certo, non sai nulla delle famose lettere?

- Quali lettere?

- Quelle che Bruce scriveva a Lionel. Credo che in quegli anni Lionel abbia rischiato di impazzire per l’angoscia e Bruce si sentiva terribilmente in colpa. Gli scriveva praticamente ogni giorno. Lionel dice che quelle lettere sono il suo tesoro più prezioso.

- Gli scriveva ogni giorno?

- Sì, perfino a Gettysburg. Tre giorni di battaglia e ogni sera trovava modo di scrivere, portare la lettera alla tenda dove venivano raccolte, tornare al proprio posto e dormire poche ore prima di riprendere a combattere. Anche quando fu ferito, il primo pensiero fu sempre quello di scrivere a Lionel.

- Non è comune neanche tra fratelli un affetto così forte.

- No, ma né Bruce, né Lionel sono persone comuni.

In quel momento arrivò Lionel ed io ne approfittai per cambiare argomento. Parlare di Bruce mi pesava, perché ogni frase che sentivo rafforzava la mia ammirazione per lui e mi faceva avvertire quanto lo amassi.

 

Rividi Bruce il giorno dopo.

Ero andato nello studio di nostro cugino Abraham Fondler, che era avvocato, per una piccola questione legale che mia madre mi aveva chiesto di sistemare. Prima di uscire conversai un momento con Abraham e scoprii che mezz’ora dopo sarebbe arrivato Bruce. Dissi ad Abraham che avevo fretta e uscii, ma non appena fui in strada, mi fermai. Volevo vedere Bruce, avevo bisogno di vederlo, un bisogno disperato. Non di parlargli, non me la sentivo, ma volevo vederlo. Era un anno e mezzo che non vedevo l’uomo che amavo e sapere che poco dopo sarebbe passato di lì mi impediva di andarmene.

Entrai in un caffè dall’ampia vetrata. Scelsi un posto da cui potevo vedere la strada, senza essere facilmente scorto. Mi sedetti, ordinai da bere e mi misi a guardare la strada. Un dolore opprimente mi pesava sul petto e il respiro mi mancava. A tratti un’ondata di angoscia mi assaliva.

A ogni figura maschile che passava, avevo un sussulto e a un certo punto rovesciai il bicchiere che avevo sul tavolo.

Bruce arrivò all’ora prevista, puntuale come sempre. Lo vidi a pochi passi da me, oltre il vetro. Non era cambiato, per nulla. Solo l’espressione del suo viso mi parve meno serena di come me la ricordavo. In un attimo scomparve ed io mi resi conto che non vedevo più nulla: avevo incominciato a piangere.

 

Edith passò da noi qualche giorno dopo, un pomeriggio: per il momento il mio lavoro impiegava solo una parte del mio tempo, per cui non era raro che mi trovassi a casa. Pensavo che Edith sarebbe uscita con mia madre, come facevano spesso, ma Edith venne a trovarmi in biblioteca. Non mi stupii che desiderasse scambiare qualche parola con me, eravamo legati da un profondo affetto. 

- Come va con il lavoro, Roger?

- Sto incominciando a organizzarmi. Credo che mi ci vorrà un po’ di tempo. Andare a spasso per il mondo è una gran cosa, ma quando torni non è facile riprendere tutti i fili rimasti per aria.

Parlammo ancora un buon momento del mio lavoro, poi della gravidanza di Edith, ormai quasi giunta al termine. Avvertivo che c’era qualche cosa nell’aria: Edith non era lì per parlare del più e del meno. 

Non ci girò intorno. Lo disse molto chiaramente:

- Roger, c’è qualche problema con Bruce?

Mi parve di aver ricevuto un colpo.

- Con Bruce? Perché mai?

Mi stupii del tono neutro che ero riuscito a dare alla mia voce.

- Sei tornato da quasi due mesi e non l’hai mai visto. Non sei venuto a casa nostra quando sapevi che c’era. Non sei passato a salutarlo.

Biascicai:

- Ho avuto tante cose da fare.

Edith ignorò la mia risposta, troppo assurda per essere presa in considerazione.

- Sei anche tu tra quelli che lo criticano?

- Sai benissimo che non è così e che ho litigato con Henry per questo. Penso che faccia molto bene a migliorare le condizioni di lavoro nelle sue fabbriche. Lo ammiro e lo difendo quando si parla di lui.

- E allora perché lo eviti?

Non ero abituato a essere interrogato in quel modo: mio padre non si occupava dei miei rapporti sociali, convinto che fossero esclusivamente affari miei, almeno finché rimanevano nei limiti delle convenzioni; mia madre poteva fare qualche allusione, ma anche lei preferiva non interferire e, se fingevo di non cogliere, non insisteva. Edith era molto più diretta.

Abbassai la testa. Non ero in grado di rispondere.

- Roger, scusa se te lo dico. So che non sono affari miei. Bruce tiene molto a te e il tuo comportamento lo ha ferito, profondamente.

Alzai gli occhi su di lei e chiesi:

- Te lo ha detto lui?

Edith scosse il capo.

- No, di certo Bruce non lo farebbe. Ma lo conosco bene. Si aspettava che tu passassi da lui, glielo avevi promesso.

- Ti ha detto questo?

- Sì, quando arrivasti e veniste a cena da noi, Bruce non venne. Hai capito benissimo da te che è meglio che lui e Henry non si trovino allo stesso tavolo. Ma Bruce disse che gli avevi promesso di raccontargli del viaggio e quindi era sicuro che ti saresti fatto vivo. Era molto contento all’idea che ti avrebbe rivisto.

Annuii. Non riuscivo a parlare e non avrei saputo che cosa dire.

- Non voglio insistere, Roger. Fa’ quello che vuoi. Ma in questo anno Bruce è stato attaccato e criticato anche da molti da cui non se l’aspettava. E scoprire che anche tu lo eviti è stata una sofferenza. Mi spiace vederlo soffrire. Ha già abbastanza noie e problemi. Non è facile fare quello che sta facendo, solo contro tutti.

- Capisco.

Edith si alzò.

- Adesso ti lascio in pace. Ma mi sarei sentita in colpa se non ti avessi detto quello che pensavo.

Salutai Edith e quando fu uscita, mi accasciai sulla sedia, incapace di rimanere in piedi. Mi sentivo completamente svuotato.

Edith non mi aveva detto nulla che non sapessi già, perfettamente. Avevo preferito ignorarlo, ma ora non era più possibile e l’idea che stavo facendo soffrire Bruce mi faceva stare male. La mia sofferenza non contava: ero stato io stesso a impormela.

 

Le due fabbriche di Bruce erano nella parte Nord della città, l’una vicina all’altra.

Quando entrai nella prima e mi presentai, mi dissero che Bruce era nel suo ufficio e mi indicarono come arrivarci. Mi sentii prendere dal panico. Avevo sperato che non fosse presente: gli avrebbero detto che io ero passato e quindi avrebbe saputo che volevo vederlo, ma io avrei ancora avuto un momento di respiro. Speravo che fosse impegnato in una riunione, che avesse molto da fare. Ma questa volta il destino aveva spianato la strada.

La porta era aperta e mi affacciai. Bruce stava consultando delle carte e sollevò la testa. Quando mi vide, si alzò di scatto, dicendo:

- Roger! È successo qualche cosa?

Pareva spaventato. Non capii subito, ma la spiegazione era ovvia: visto che avevo chiaramente dimostrato di non volerlo rivedere, la mia improvvisa apparizione, in un orario in cui entrambi abitualmente lavoravamo, gli aveva fatto temere qualche brutta notizia, che io fossi stato mandato da Lionel perché Edith stava male, ad esempio. La sua reazione, perfettamente comprensibile, mi fece capire come avesse ormai perso ogni speranza nei miei confronti.

- No, Bruce, nulla. Ma ero libero ed ho deciso di mantenere, anche se con grande ritardo, una promessa.

Allora il volto gli si aprì in un sorriso. Si fece avanti e mi strinse entrambe le mani tra le sue, con un affetto che mi commosse.

- Come sono contento di vederti, Roger! Temevo che preferissi evitarmi anche tu…

Nuovamente mi sentii in colpa. Replicai con foga:

- No, di sicuro no. Apprezzo molto quello che stai facendo e lo sai. Ma ho avuto molte cose da fare, volevo incominciare subito a lavorare. Sono stato inattivo a sufficienza.

Accettò la mia spiegazione, per quanto risibile fosse, e rispose, sorridendo:

- E oggi lo sarai di nuovo. Mando a monte ogni impegno e mi racconti tutto del tuo viaggio e di te.

Ero venuto per parlare con lui e sapevo che mi avrebbe chiesto di raccontargli del mio viaggio, ma mi schermii, perché mi dispiaceva che annullasse degli impegni di lavoro. In qualche modo volevo rimandare ancora quel dialogo di cui avevo paura.

- Ah no! Non ti lascio mica andare via senza aver pagato lo scotto. Non c’è assolutamente nulla che non possa aspettare fino a domani: ordinaria amministrazione di cui Farrel, il mio vice, si occupa molto meglio, ma che mi intestardisco a voler seguire anch’io.

Sorrisi. Di certo voleva occuparsi di persona di tutto per capire meglio la situazione ed intervenire in modo più efficace: Bruce non era tipo da fare le cose a metà.

- Va bene, allora. Prima di parlare del viaggio, però…, visto che sono qui, tu mi racconti della nuova gestione delle tue fabbriche, di cui discute tutta New York.

Bruce sorrise.

- Lo so, lo so. Credo di essere uno degli uomini più detestati di questa città. Mi hanno voltato le spalle in molti, ma ho ottenuto anche rispetto e affetto da parte di altri e tutto sommato mi sembra di averci guadagnato, nel cambio, anche se a volte mi pesa l’ostilità nei miei confronti.

Bruce mi fece visitare la fabbrica e mi spiegò le innovazioni apportate, a vantaggio dei lavoratori, e i suoi progetti. Se ciò che aveva fatto fino ad allora aveva suscitato un’opposizione feroce, il futuro sarebbe stato molto peggiore, perché aveva molte altre idee in mente. Mi parlò a lungo di Owen, l’industriale scozzese che aveva creato un modello molto più umano di fabbrica e insediamenti operai: durante il suo viaggio in Europa era stato a New Lanark, la fabbrica di Owen. Anche se il progetto che Owen aveva cercato di realizzare negli Stati Uniti era fallito, Bruce ne seguiva le orme, apportando alcune correzioni. Era molto pragmatico, non accarezzava grandi sogni, non mirava a riformare il mondo: si limitava a dire che voleva svolgere nel modo migliore la sua parte. Voleva trasferire le fabbriche fuori dalla città, ma non molto lontano, in un ambiente più sano, e far costruire alloggi decenti per gli operai: sarebbe stata l’occasione per rinnovare le fabbriche, dotarle di tutte le misure di sicurezza necessarie e dei macchinari più moderni e creare condizioni di vita più accettabili per i lavoratori. Mi parlò anche dell’ambulatorio che intendeva aprire per gli operai e le loro famiglie. Stava cercando un medico che fosse la persona adatta, che lo facesse perché ci credeva. Lo disse guardandomi fisso ed io capii che stava pensando a me, che aveva in testa me da tempo, ma che aspettava che mi facessi vivo. Non dissi nulla, più per insicurezza che altro: non volevo dare l’impressione di volermi inserire a forza nei suoi progetti. Sapevo che ne avremmo parlato ancora. Mi rendevo conto che ora che avevo superato la distanza che avevo messo tra di noi, non sarei più riuscito a ricrearla: troppo forte era l’attrazione che Bruce esercitava su di me.

Ascoltavo affascinato le sue idee e i suoi progetti, chiedendo ogni tanto spiegazioni. Lo avrei ascoltato all’infinito. Ma dopo due ore, quando gli sembrò di aver fatto un quadro esauriente della situazione, Bruce disse che l’orario di lavoro era finito e che adesso dovevamo cambiare argomento. Sarei stato suo ospite a cena ed avremmo parlato esclusivamente del mio viaggio.

- Mando solo un biglietto a Edith, per dirle che non sarò a cena da loro.

Esitò un attimo, poi aggiunse:

- Posso dirle che sono a cena con te?

Mi sembrò di arrossire, mentre gli dicevo:

- Certamente!

 

Mentre salivamo nella vettura che ci avrebbe portato al ristorante, guardando le cicatrici sul viso di Bruce, mi venne in mente quanto avevo sentito dire su di lui da Royall.

- Non sapevo che tu avessi combattuto. L’ho scoperto solo poco tempo fa.

Bruce annuì.

- Sì, è un periodo di cui non ho mai parlato volentieri…

Fece una pausa, poi proseguì:

- È stata una tale carneficina… Ho visto morire tanti di quegli uomini e poi, nel Sud, quanta miseria, quanta disperazione… No, non ricordo volentieri quegli anni.

Preferii non insistere e lasciai cadere l’argomento.

Raggiungemmo lo stesso ristorante in cui ci eravamo incontrati prima della mia partenza. Al momento di scendere, Bruce ebbe un ripensamento.

- Roger, ho pensato al Golden Fish perché ci eravamo trovati qui, prima che tu partissi, ma se ti vedono con me, potresti avere…

Non lo lasciai finire.

- Mi va benissimo qui, Bruce. Mi sembra il posto migliore.

Conservavo il ricordo della nostra conversazione precedente e quel ristorante, in cui non avevo avuto modo di rimettere piede, mi era diventato caro.

Certamente qualcuno avrebbe riferito a mio padre e a mio fratello di avermi visto con Bruce McGregor, ma non era davvero un problema: Henry mi avrebbe attaccato, ma poco m’importava; mio padre non avrebbe trovato niente da ridire, sia per il legame esistente tra le nostre famiglie, sia perché riteneva che i suoi figli fossero liberi di scegliersi le amicizie che volevano.

Quando entrammo alcuni ignorarono ostentatamente Bruce, rivolgendosi a me con un cenno, ma altri lo salutarono e due si alzarono per parlargli un momento.

Bruce chiese di poter cenare in una delle sale riservate, di solito usate da chi voleva discutere di affari o da gruppi numerosi, che preferivano avere uno spazio tutto per sé. C’era una saletta disponibile, in cui ci fecero accomodare.

- Così possiamo parlare in tutta tranquillità, senza essere disturbati.

Ci sedemmo e, dopo che avemmo ordinato, Bruce incominciò a chiedere:

- Adesso voglio che tu mi racconti tutto, da quando hai messo piede sulla nave a New York a quando sei sceso al ritorno.

Sorrisi:

- Sarà piuttosto lungo, allora…

- Puoi prenderti tutto il tempo che ti serve. Io sono qui.

Sì, Bruce era lì, davanti a me, a mia completa disposizione ed io mi sentivo felice, felice di potergli parlare, di poterlo guardare. Perché avevo rimandato quell’incontro per tanto tempo? Perché lo avevo ferito? Conoscevo la risposta, ma preferii non pensarci e iniziai a narrare.

Da New York a Torino non ci furono problemi. Poi, più volte, venne fuori il nome di Frederic. Sentivo risvegliarsi ricordi dolorosi, ma ormai distanti. Avevo amato, non profondamente; avevo sofferto, meno forse di quanto mi ero immaginato; era finita. Se in quel momento Frederic fosse entrato per dirmi che voleva vivere con me, che aveva capito di aver sbagliato tutto, gli avrei detto che era troppo tardi, che non m’importava più di lui. Eppure il raccontare del viaggio mi faceva ancora male.

Avevo la certezza che Bruce capisse perfettamente, ma non mi pose mai nessuna domanda indiscreta, non cercò di approfondire quell’aspetto del viaggio: mi chiese invece delle mie emozioni davanti ad alcuni luoghi, di ciò che avevo visto e che lui non aveva visitato, delle condizioni in cui avevo viaggiato.

Poi raccontai della Grecia e infine di Costantinopoli. Bruce era molto curioso di conoscere le mie impressioni su quella città che aveva amato moltissimo, ma io mi sentivo a disagio: i pensieri, le emozioni e le sensazioni che mi avevano accompagnato nella visita erano tutti strettamente legati a lui. Io non avevo visitato Stambul da solo, ma in compagnia del suo fantasma. Avevo quasi paura che potesse accorgersene, anche se mi rendevo conto che era una preoccupazione assurda.

Bruce mi ascoltò con grande attenzione. Poi mi domandò come valutavo l’esperienza che avevo fatto. Non fu facile rispondere, sia perché io stesso non ci avevo riflettuto abbastanza, sia perché nel viaggio c’era stato un aspetto di cui non gli avevo parlato, ma che per me era stato fondamentale. Qualche cosa venne fuori, comunque, attraverso mezze parole: mi capitò di parlare di consolazione e di distrazione dal dolore, di emozioni diverse che si sovrapponevano. Come ebbi modo di scoprire in seguito, Bruce aveva capito benissimo che Frederic ed io eravamo divenuti amanti a Torino e ci eravamo separati in Egitto: aveva saputo cogliere anche tutto ciò che non avevo detto.

Quando ebbi concluso, rimase un momento in silenzio e poi mi chiese, a bruciapelo:

- Hai sofferto molto, Roger?

Lo guardai, senza parole. Poi annuii e aggiunsi:

- Ma è passata. Non era… così profondo come pensavo.

- Mi spiace, Roger. Avrei voluto che anche per te il viaggio fosse stato una scoperta gioiosa e non dolorosa.

“Anche per te”. Quelle parole avevano un senso preciso.

- Anche tu…?

Non continuai la frase. Ci stavamo dicendo cose che mai avrei pensato di dire a nessuno, che mai avrei immaginato di sentirmi dire. Ce le stavamo dicendo con mezze parole, che valevano discorsi completi.

- Sì, Roger. Ma fu solo gioia. Una festa della carne e dei sensi. Non dei sentimenti, ma in quel momento non era importante.

- Avrei voluto viaggiare con te, Bruce.

E di colpo mi sentii avvampare, perché la mia frase era una dichiarazione, che forse nessun altro avrebbe capito, ma che Bruce era perfettamente in grado di intendere.

Abbassai lo sguardo, vergognandomi. Bruce rimase in silenzio. C’era qualche cosa di innaturale in quel vuoto di parole che di colpo si era creato tra noi. Alzai gli occhi su Bruce. Mi parve che fosse pallido, che respirasse a fatica. Pensai che stesse male, ma prima che potessi chiedergli se non si sentiva bene, Bruce parlò. Non c’era traccia della serenità e della sicurezza di cui dava sempre prova: sembrava sconvolto. Faticava a trovare le parole.

- Anch’io… avrei voluto viaggiare con te, Roger… anch’io… Potremo viaggiare insieme, in futuro… se lo vorrai… se lo vorrai io lo vorrei.

Ci fu un silenzio, lungo. Il cuore batteva all’impazzata. Mi chiedevo come fosse possibile: io ero sempre stato innamorato di Bruce, anche se non me ne ero reso conto che molto dopo averlo conosciuto; ma Bruce? Come poteva provare qualche cosa per me? Mi conosceva pochissimo. Non stavo immaginando cose che non esistevano, dando alle sue parole il significato che avrei voluto che avessero?

In viaggio avevamo conosciuto entrambi la gioia dei sensi. Ma nulla di quanto aveva detto Bruce giustificava l’idea che le sue esperienze fossero avvenute con uomini.

La risposta che mi aveva dato sul viaggiare insieme era troppo vaga, anche se il suo pallore e lo sbigottimento che gli leggevo in volto parevano confermare le mie impressioni. Ma temevo di sbagliarmi, temevo che fosse solo un’illusione nata dal sentimento che provavo per lui, dal mio bisogno disperato di essere amato dall’unico uomo che avessi mai davvero amato.

Avevo bisogno di sapere, ma non trovavo né il coraggio, né le parole per chiedere. Non ne ebbi bisogno. Bruce rispose alle domande che mi ponevo. Sembrava avere recuperato il controllo, anche se le sue mani appallottolavano inquiete il tovagliolo:

- Roger, non so se ho capito… Roger, io non ho molto da offrire. Come ben sai, sono uno degli uomini più odiati di New York. In tanti sarebbero ben felici di scoprire come colpirmi e farmi mettere al bando dalla società. Per quanto prudenti siano, due uomini che si amano non hanno comunque una vita facile, se vogliono vivere insieme e non solo… scopare ogni tanto, a meno che non decidano di lasciarsi alle spalle tutto e trasferirsi in qualche paese lontano. Io non voglio farlo, ho tanto da fare qui. Ho le spalle larghe e se avessi te al mio fianco credo che potrei affrontare di tutto, ma voglio che tu conosca i rischi. Quello che posso offrirti sono due sole cose. Una l’hai già ed è il mio cuore. L’altra è il mio corpo.

Attesi un attimo che il battito del mio cuore si calmasse. Non sarei riuscito a parlare subito.

- Anche tu hai già il mio cuore.

Lo vidi cambiare espressione e impallidire tanto che mi spaventai. L’intensità dell’emozione che provava mi sconvolse. Allora aggiunsi:

- Ma… come è possibile, Bruce? Ci siamo frequentati così poco. Come hai potuto innamorarti di me?

Bruce sorrise. Annuì, senza parlare. Chiuse gli occhi e per un momento parve isolarsi completamente dal mondo. Quando mi guardò nuovamente, sorridendo, vidi che aveva recuperato un certo autocontrollo. Mi prese una mano, stringendomela tanto forte da farmi male. Poi parlò. La sua voce era tornata quella di sempre, con solo una sfumatura di tensione in più.

- Voglio essere sincero con te, Roger, anche se non depone a mio favore… A colpirmi di te è stata in primo luogo la bellezza. Solo più tardi ho incominciato a conoscerti e ad apprezzare altri aspetti di te. Ho capito di essermi innamorato un po’ per volta. Sospettavo che ti piacessero gli uomini e sapevo che provavi simpatia per me. Ma questo non significava nulla. Il giorno in cui ci incontrammo prima della tua partenza, fu allora che mi dissi che forse… Ma stavi per partire. Avrei dovuto aspettare il tuo ritorno. Pensavo a tutto ciò che sarebbe potuto succederti in viaggio… agli uomini che avresti incontrato… perché ero sicuro che ne avresti incontrati, che avresti ricevuto delle proposte. Ed ero geloso… Roger, mi vergogno, ma ero geloso Mi immaginavo… Scusami.

Abbassò il capo, mortificato. Aggiunse, senza alzare gli occhi:

- Sei stato un pensiero fisso, Roger: la lontananza lo ingigantiva e ci sono stati giorni in cui il desiderio di te era tanto forte che… Scusami. Mi sembrava di impazzire dal desiderio… Io…

Bruce si interruppe e non riprese la frase. Allora gli dissi:

- Ho visitato Costantinopoli con te, Bruce. Sei stato la mia ossessione, un chiodo piantato nella mente e nella carne.

Bruce parve sospirare di sollievo. Mi guardò negli occhi e chiese:

- Per questo non ti sei fatto vivo al ritorno?

Annuii.

- Sì, Bruce. Scusami. Non sospettavo che ti stavo facendo soffrire.

- Ora quel dolore non ha più importanza.

Ci guardavamo negli occhi. Io ero smarrito, felice, incredulo.

La voce di Bruce mi riscosse.

- Venendo qui pensavo che ti avrei chiesto se volevi diventare il medico del mio ambulatorio, Roger. Era il massimo che pensavo di poterti chiedere…

Scosse la testa. Esitò un attimo, poi aggiunse:

- Roger, ti desidero, ti... Vuoi venire da me?

- Sì, Bruce, sì.

Ci alzammo di scatto, entrambi ansiosi di uscire dal ristorante. Ma quando ci avvicinammo alla porta che conduceva nella sala principale, i nostri corpi si sfiorarono. Ci guardammo negli occhi. Bruce mi prese la testa tra le mani e mi baciò. Un bacio molto leggero, che divenne intenso. Io mi abbandonai completamente a quella stretta, a quelle labbra. Poi, quasi a fatica, Bruce si staccò da me e mi accarezzò le guance con molta dolcezza, sussurrandomi:

- Stai benissimo con la barba.

D’impulso mi baciò nuovamente e mi spinse contro la porta. La sua lingua premeva contro i miei denti ed io aprii la bocca accogliendola. Con le mani strinsi il suo corpo, che ora schiacciava il mio. Mi mancava il fiato. Le mani di Bruce scesero sul mio torace, una si infilò sotto la camicia, accarezzando la pelle. L’altra scivolò sui fianchi e mi strinse una natica.

Anche le mie mani non rimanevano inoperose: sfioravano ed afferravano, salivano e scendevano, in un movimento frenetico.

Ora eravamo entrambi eccitati, il desiderio bruciava dentro di noi, incontenibile. Mentre una mano di Bruce mi accarezzava il ventre e poi stringeva brutalmente il sesso ormai teso, mi chiesi se sarebbe successo lì, in quella saletta appartata. Bruce ansimava ed io percepivo la violenza del suo desiderio. Ma Bruce si staccò da me e disse:

- Andiamo via. Qui ci sono troppe cose a cui dovremmo fare attenzione…

Ma appena aveva finito di dirlo, mi baciò di nuovo, continuando a premere con il suo corpo contro il mio, afferrandomi nuovamente il sesso, mentre l’altra mano armeggiava con la fibbia della mia cintura.

Credo davvero che sarebbe successo lì, in quella sala, se la voce di un cameriere, oltre la porta, non ci avesse restituito coscienza del luogo in cui eravamo.

Bruce si staccò da me.

- Scusami… è che… ti desidero troppo.

Mi aiutò a rimettere a posto gli abiti ed io feci lo stesso con lui. La tenerezza di quel nostro sistemarci a vicenda mi fece salire le lacrime agli occhi. Mi sfuggì un:

- Ti amo, Bruce.

E nuovamente lo vidi impallidire, come se le mie parole fossero state un colpo vibrato con grande forza.

- Anch’io ti amo, Roger.

Mi baciò ancora, sulla bocca, poi aprì la porta e raggiungemmo l’uscita del ristorante.

 

Bruce viveva nella casa che era stata dei suoi genitori. Salimmo nella sua camera da letto. Lì rimanemmo un momento immobili, uno di fronte all’altro. Io ero spaventato e vedevo che anche Bruce lo era. Avevamo amato, posseduto, stretto altri corpi, ma per entrambi quello che stava per succedere era qualche cosa di diverso, che andava molto oltre.

Bruce disse, guardandomi fisso:

- In questo letto non ha mai dormito nessun altro, a parte Lionel, quando eravamo ragazzi e avevamo bisogno l’uno dell’altro.

Annuii.

- Lionel… Sono stato geloso dell’intimità che ho sempre visto tra di voi.

Bruce sorrise.

- È un’altra cosa, Roger.

Annuii.

- Lui sa? Che… tu…

Mi vergognavo di dire “che tu mi ami”. Bruce sorrise.

- Lionel sa tutto di me. Sa che ti amo.

- Quindi adesso, dopo il biglietto che hai scritto, penserà che magari io e te…

Non completai la frase.

- Di sicuro spera che sia così, che tu sia qui, davanti a me, che io possa realizzare il più bello dei miei sogni.

Mi guardò, poi aggiunse:

- Non mi sembra possibile. Davvero tu…

Annuii:

- Sono anni che lo desidero, Bruce…

Si avvicinò e ci baciammo di nuovo, con molta dolcezza. Poi si staccò. Mi sfilò la giacca, sciolse il nodo della cravatta e incominciò a sbottonare la camicia. Mi accorsi che le mani gli tremavano e questa ulteriore conferma dei suoi sentimenti mi turbò. Avevo desiderato Bruce con tale intensità da stare male, ma non avevo mai pensato che lui potesse desiderarmi altrettanto. Mi dissi che avevo buttato via interi anni della mia vita, che se quella notte in cui avevo trovato Bruce seduto sullo steccato a guardare le stelle avessi trovato il coraggio di parlare… Ma i pensieri svanivano, perché le mani di Bruce percorrevano il mio corpo e mi resi conto che le mie avevano incominciato a spogliarlo.

Alla luce incerta della lampada, rividi il corpo di Bruce, quel corpo che avevo scoperto quasi dieci anni prima e che dopo le estati a Winsted non avevo mai più rivisto. Non era molto cambiato da allora: sembrava aver acquisito forza e maturità, ma senza appesantirsi. Lo guardai in volto e passai un dito lungo le sue cicatrici.

Bruce mormorò, sorridendo:

- Già non ero bello prima…

- Sei bellissimo, Bruce, sei bellissimo.

Era vero, per me era vero. Lo baciai ancora, poi passai una mano sul suo torace, accarezzando la peluria che copriva l’area intorno ai capezzoli. Avevo a lungo desiderato di farlo. L’avevo sognato. Ora potevo davvero toccarlo.

Scivolai in ginocchio davanti a lui. Gli appoggiai la testa sul ventre e chiusi gli occhi, cercando di calmare il battito folle del mio cuore. Bruce mi accarezzava i capelli ed io tenevo le braccia intorno alle sue gambe. Rimasi a lungo così, poi lasciai che mi sollevasse e finisse di togliermi gli indumenti. Avrei voluto spogliarlo, ma ora erano le mie mani a tremare.

Fu Bruce a finire di svestirsi. Ci guardammo. Percorsi con gli occhi quel corpo che avevo desiderato fino all’ossessione, poi lo guardai in viso. Bruce sorrideva, ma vedevo quanto emozionato fosse: per tutti e due stava accadendo qualche cosa a lungo sognato, ma ormai considerato impossibile.

E poi incertezze e timori svanirono, di fronte al desiderio che cresceva impetuoso e ci travolse entrambi.

 

Quella notte seppi che non sarei rimasto per sempre un essere incompleto.

 

 

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II

III

IV