I - Winsted

 

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Da ragazzo passavo sempre l’estate nella fattoria dei miei nonni materni, a Winsted, nel Connecticut, dove mia madre era nata e vissuta fino a quattordici anni. Il ricordo del periodo trascorso in campagna destava in lei emozioni contraddittorie, che affioravano ogni qualvolta parlava di Winsted: descriveva la tenuta come un piccolo paradiso terrestre, lontano dalla confusione e dalle complicazioni di New York, ma nello stesso tempo si lamentava di essere stata tagliata fuori dalla vita sociale. Diceva che quando era stata mandata in città, presso una zia, era una piccola selvaggia. In effetti non era stato facile per lei, abituata ad una grande libertà, adattarsi alle rigide regole dell’alta società di New York. Mio padre, che ben di rado manifestava i suoi sentimenti, una volta si lasciò sfuggire che mia madre l’aveva colpito proprio per quella sua aria da uccellino selvatico chiuso in gabbia, desideroso di volare via.

I genitori di mia madre erano rimasti a Winsted: mio nonno aveva accumulato nel tempo una grande fortuna, ma non aveva mai voluto lasciare la campagna e continuava ad occuparsi personalmente della conduzione della tenuta. Per quanto molto anziano, godeva di ottima salute ed era sempre attivo: nei periodi che trascorrevo da loro, vedevo che quando io mi alzavo dal letto, il nonno era già fuori da tempo, a seguire i lavori nei campi o ad occuparsi del bestiame. Mia madre temeva che si stancasse troppo, ma Raymond Denkel era una testa dura. L’alleanza tra il dottore e mia madre, che abitava in città e quindi andava solo di rado a Winsted, si rivelò del tutto inutile e mio nonno non si lasciò mai convincere a rallentare il ritmo di lavoro.

Io trascorrevo tutte le estati alla fattoria: mio padre riteneva che la vita in campagna fortificasse il corpo e temprasse lo spirito e, pur non lasciando quasi mai New York, mandava i figli a Winsted; mia madre era ben contenta che potessimo assaporare la libertà della campagna e sperava sempre che in qualche modo convincessimo il nonno a riguardarsi un po’. Ovviamente né io, né mio fratello Henry ci provammo mai. Solo Edith qualche volta affrontò il discorso, senza ottenere nessun risultato.

Per me l’estate a Winsted era una gioia sconfinata. Amavo tutto della campagna: la sensazione dell’erba sotto i piedi nudi; il movimento continuo del cavallo che trottava; il profumo del fieno appena tagliato; il ruminare tranquillo delle mucche; il canto degli uccelli nei boschi; le nuvole che correvano in cielo, assumendo mille forme; il freddo dell’acqua del torrente in cui mi immergevo; l’odore intenso della scuderia; lo stormire delle fronde che il vento agitava. Assaporavo la libertà delle lunghe ore passate a leggere nel fienile e lo sforzo dei lavori agricoli, le corse nei prati e le cavalcate.

E poi c’era la magia delle notti. Mia nonna conosceva le costellazioni e quando il cielo era limpido e la luce lunare non offuscava le stelle, ci sedevamo in un prato ad osservarle. Mia nonna mi parlava della bellissima Andromeda, destinata a morire per la superbia della madre, Cassiopea, e di Perseo che uccidendo il mostro la salvò e l’ottenne in sposa. Dell’orgoglioso Orione, che fu accecato e ritrovò la vista, ma venne poi ucciso da Diana cacciatrice. Del possente Ercole e delle immani fatiche che dovette affrontare, per volontà della spietata Era. Della splendida regina Berenice, che sacrificò i suoi lunghi capelli per amore dello sposo. Io guardavo le costellazioni ed ascoltavo rapito quelle storie fantastiche, che più tardi avrei ritrovato nei libri. E mai avrei dimenticato le lacrime di luce della notte di San Lorenzo, quando il cielo sembrava piangere sul santo martirizzato.

Anche quando mia nonna, ritenendomi ormai troppo cresciuto, non mi raccontava più gli antichi miti, trascorrevo ore a guardare il cielo, a distinguere tutte le Pleiadi, a ritrovare la Corona Boreale e il Capricorno, l’Aquila ed il Cigno.

A Winsted leggevo anche molto e guardavo per ore i libri illustrati che mia nonna aveva acquistato nel corso degli anni, alcuni per sé, altri per i figli e i nipoti. Lei aveva seguito un percorso opposto a quello di mia madre: era nata e vissuta a Boston, ma quando si era sposata, aveva lasciato la città e si era trasferita a Winsted, senza nessun rimpianto. Acquistava però volentieri libri ed il nonno la prendeva in giro, dicendo che ogni volta che si recava dalla sorella a Boston, spendeva in libri il valore di dieci ettari di terreno coltivati a granoturco.

Alcuni di quei volumi avevano accompagnato la mia infanzia, ma crescendo li avevo accantonati, considerandomi ormai troppo grande. Qualche anno dopo, in un periodo di pioggia incessante, la noia mi aveva portato a riprenderli in mano. In quell’occasione li avevo riscoperti, non per i testi, ma per le immagini, che erano spesso piccoli capolavori. Da allora non passò un’estate senza che io mi immergessi per lunghe ore nella contemplazione delle illustrazioni, che mi portavano in mondi lontani, facendomi dimenticare completamente la realtà: ero un sognatore, come diceva mio fratello Henry, scuotendo la testa.

 

A Winsted mio nonno non mi imponeva vincoli: potevo lavorare con lui, cosa che amavo molto, o trascorrere la giornata per conto mio, magari leggendo e lasciandomi trasportare dalla fantasia. Non mi dispiaceva vivere a New York, ma di certo in città non provavo sensazioni così intense e non godevo della stessa indipendenza. Ero anch’io, come mia madre, un animale selvatico, poco adatto a vivere in gabbia.

Quando ero più piccolo, mio fratello Henry e mia sorella Edith trascorrevano anche loro lunghi periodi a Winsted, ma poi, con il passare del tempo, la loro presenza divenne sempre più sporadica: avevano tutti e due parecchi anni in più di me e, man mano che si inserivano a pieno titolo nella vita sociale, i loro impegni mondani li occupavano sempre di più. Se lasciavano New York era per andare ospiti di altre famiglie dell’alta società o per la villa di mio padre a Long Island, dove c’erano spesso molti invitati, non certo per la fattoria di Winsted.

D’altronde Edith non amava la campagna, preferendo la vita della città, ed Henry lavorava nella banca di mio padre: anche se, come la maggior parte dei giovani della sua generazione, non si dedicava al lavoro con grande assiduità, non poteva più pensare di trascorrere un mese o due in campagna. Non credo nemmeno che gli interessasse ormai: a New York c’erano i suoi amici, le donne che corteggiava, la società a cui apparteneva.

A me l’idea di dovere un giorno rinunciare alle estati a Winsted appariva terribile, ma mi sembrava che quel momento fosse ancora molto lontano. Avevo quattordici anni e nessuna propensione ad una vita sociale che mi sembrava soffocante.

 

Una volta l’anno Henry veniva ancora con alcuni amici a trascorrere qualche giorno in campagna, non più di una settimana. Gli amici non erano gli stessi tutti gli anni, anche se alcuni, come nostro cugino Newland, erano quasi sempre presenti; ma erano tutti volti noti, in quanto l’alta società di New York era un mondo abbastanza ristretto.

Henry aveva otto anni in più di me, per cui io non avevo mai modo di frequentare i suoi amici in città, anche se li vedevo quando venivano a casa nostra o durante i pranzi di famiglia, a cui ormai partecipavo. In campagna i rapporti erano diversi e spesso mi univo a loro nelle escursioni. Stavo molto bene con questi giovani, che badavano poco a me, ma mi trattavano con gentilezza. Ammiravo la loro forza, la loro bellezza, la sicurezza che dimostravano. Amavo sentire anche le loro confidenze, quando si raccontavano le loro avventure, a volte con una franchezza che a casa i nostri genitori non avrebbero mai tollerato. Lontano dall’occhio vigile della società, essi godevano di una completa libertà e, forse anche per reazione alle convenzioni a cui si sottomettevano quotidianamente, facevano mostra di un linguaggio scurrile e di una sfrontatezza che a New York sarebbero stati impossibili. Credo che questa fosse la reale attrazione di Winsted: i fine settimana trascorsi nella villa di campagna di qualche famiglia benestante imponevano gli stessi vincoli della vita in città, anche se le gite in barca o la caccia prendevano il posto delle serate al club o all’opera. Winsted era invece un terreno franco, in cui un piccolo gruppo di giovani poteva muoversi in assoluta libertà, dimenticando le convenzioni sociali.

Inizialmente si frenavano un po’ davanti a me, ma io avevo imparato presto che, se non intervenivo e fingevo di non badare a quello che dicevano, finivano per dimenticarsi della mia presenza. Dovevo solo fare attenzione a non fare mai riferimento a quanto avevo sentito.

Stare in loro compagnia mi piaceva moltissimo, ma mi turbava anche. Quando le loro confidenze erano molto esplicite, suscitavano in me pensieri torbidi. Per diversi giorni dopo la loro partenza, mi capitava di ripensare a quanto avevo sentito e li immaginavo, nitidi nella mia mente, mentre stringevano le donne di cui avevano parlato: prostitute, giovani delle classi inferiori, talvolta donne dell’alta società. Nella mia mente vedevo queste scene distintamente, perché conoscevo i loro corpi, avendo modo di vederli nudi: nelle giornate più calde non era raro che ci bagnassimo tutti in uno dei torrenti ed io, mentre ascoltavo le loro battute, osservavo curioso, cercando di non farlo notare, la loro nudità. Quando parlavano di donne, io dovevo fare uno sforzo per immaginarmi quei corpi femminili, di cui descrivevano dettagli che neppure comprendevo appieno: non avevo mai visto una donna nuda. Ma loro mi erano ben noti e vedevo le mani dalle lunghe dita affusolate di Cecil stringere un corpo, i fianchi robusti di William muoversi ritmicamente, la barba bionda di Abraham accarezzata da una mano ingioiellata. E osservando gli animali della fattoria, mi ero fatto un’idea precisa, anche se magari non sempre esatta, di quegli accoppiamenti che loro descrivevano.

A New York mi capitava di vederli sempre inappuntabili negli abiti eleganti, attenti ad ogni dettaglio del loro abbigliamento. A Winsted, come guerrieri medioevali che si sfilavano l’armatura, rivelavano i loro corpi ed io non mi saziavo di guardarli. Mi parevano tutti belli, forti, virili, ognuno a modo suo.

Tra loro mi colpiva soprattutto Chris Sanford, che era bellissimo: un viso di forma allungata dai tratti molto regolari, occhi di un azzurro quasi grigio e un corpo snello e vigoroso. Venne per due anni di seguito e fu il primo uomo che capii di desiderare, anche se non me lo dicevo chiaramente. Avevo quattordici anni quando lo vidi per la prima volta: Henry lo aveva conosciuto durante il suo soggiorno a Firenze - Henry aveva avuto i suoi due anni in Europa, visitando il vecchio continente, come molti giovani delle famiglie più ricche di New York - e aveva fatto amicizia con lui, anche se la sua famiglia non era ancora considerata parte dell’aristocrazia cittadina.

Quando vidi quel corpo splendido emergere dagli abiti, ebbi un’erezione. Per fortuna non mi ero ancora tolto i vestiti, per cui rimasi disteso sull’erba a osservare Chris e gli altri che si bagnavano.

La settimana che Henry trascorreva con gli amici dava a Winsted un altro sapore. In loro presenza i miei pensieri divenivano meno limpidi e acquistavano consistenza i desideri oscuri che si agitavano dentro di me, turbandomi, e che diventavano sempre più forti con il passare degli anni. A New York lo studio mi impediva di abbandonarmi troppo spesso a questi pensieri e quando arrivavo a Winsted, nei primi giorni mi immergevo completamente nella libertà inebriante. Ma poi l’idea che Henry sarebbe arrivato presto creava in me una tensione. Aspettavo i suoi amici e in me si ridestavano sogni di cui mi vergognavo, ma che mi visitavano di giorno e di notte.

 

Il secondo anno che Chris venne a Winsted, quando avevo ormai compiuto quindici anni, lo seguii come un’ombra. Arrivai a spiarlo di nascosto. Mi dicevo che era un gioco, ma ero troppo grande per giochi di questo tipo. Vicino a lui ero spesso eccitato e non mi bagnai mai nel torrente con loro, anche se, magari fingendo di dormicchiare con gli occhi socchiusi, non perdevo di vista Chris.

Dopo che se ne fu andato, pensai spesso a lui. Sapevo che mi piaceva, ma da questa semplice constatazione non traevo le logiche conseguenze: rimaneva una sensazione confusa, che preferivo non definire. Quell’estate leggevo Tom Jones – mio padre riteneva che a quindici anni io potessi leggere tutto quello che c’era in casa – e per me Tom ebbe il volto di Chris.

Chris non partì davvero: rimase nella mia mente, come non mi era mai successo prima. L’immagine del suo corpo ritornava in modo ossessivo, ma a essa si mescolavano altre immagini: il suo viso, dallo sguardo così dolce, la sua voce, il suo sorriso. Chris divenne il personaggio ricorrente delle mie fantasie. E alcune di queste fantasie erano ormai chiaramente erotiche. Chris fu il primo uomo con cui feci l’amore: non nella realtà, perché altri mi guidarono alla scoperta dei miei desideri, ma nella mia mente.

Quando tornai a New York, ebbi di rado occasione di vedere Chris, che a casa nostra non era mai invitato. Ma ogni volta che mi capitò di incontrarlo, la sua bellezza abbagliante mi turbò profondamente. Mi sembrava che tutti, uomini e donne, dovessero desiderarlo e mi sentivo privilegiato all’idea che lo avevo visto nudo, che conoscevo il suo corpo.

Quell’inverno compii sedici anni ed incominciai ad affacciarmi al mondo adulto. Una volta chiesi a Henry chi fossero le amanti dei giovani che avevo avuto modo di conoscere a Winsted. Henry rise della mia domanda indiscreta, ma, forse perché aveva bevuto alquanto – io avevo scelto con cura il momento – mi rispose. Chris non fu il primo di cui chiesi: sapevo dissimulare. Quando parlammo di lui, mi disse che aveva una relazione con un’attrice, ma si diceva che anche una donna dell’alta società avesse ceduto al suo fascino. Non mi stupii.

 

Quell’estate Chris non venne a Winsted e per me fu una sofferenza: prima di lasciare New York, avevo chiesto a Henry chi sarebbe venuto e lui mi aveva detto che Chris e un altro forse non ci sarebbero stati. Io però avevo sperato fino all’ultimo di rivederlo.

Tra gli amici di Henry venne invece, per la prima volta, Bruce McGregor, che aveva un anno in meno di mio fratello. A New York mi era capitato molto di rado di vederlo: non frequentava casa nostra e le nostre famiglie non erano molto legate, anche perché i McGregor venivano da Baltimora e si erano stabiliti a New York solo al termine della Guerra di Secessione, quando il padre di Bruce aveva approfittato della crisi, acquistando a basso prezzo moltissimi terreni e due tra le principali fabbriche della città. Come ebbi poi modo di scoprire, Bruce partecipava poco alla vita sociale, non frequentava i club dove si ritrovavano tutti i giovani della sua età, non aveva studiato all’università.

Era l’unico che non avevo visto negli anni precedenti, perciò lo osservai con attenzione. Non era un bell’uomo o almeno non era bello di faccia. I lineamenti del viso non erano armoniosi, ma erano soprattutto le due cicatrici ad alterarne i tratti: una, più piccola, alla tempia sinistra, quasi verticale, ed una molto grande, tra il mento e la guancia, in parte coperta dalla barba. Bruce era il solo tra gli amici di Henry a portare la barba e a me sembrava fuori posto, quasi un segno di trasandatezza, anche se sospettai che lo facesse per nascondere la cicatrice più estesa. In quel volto, interessante ed espressivo, ma di certo non attraente, solo gli occhi scuri avevano un certo fascino. Era alto e dava un’impressione di grande forza, pur avendo un fisico asciutto.

A colpirmi furono soprattutto le cicatrici, ma non sentii mai Bruce o Henry parlarne. Mi chiedevo come potesse essersele procurate. Che avesse partecipato alla guerra di secessione, mi sembrava improbabile: si era conclusa quando Henry aveva appena compiuto diciannove anni. Poi, una volta scoprii che Bruce era rimasto coinvolto in un grave incidente ferroviario e si era salvato quasi per caso: attribuii a quell’episodio le due cicatrici.

I primi tre giorni furono caratterizzati da un cielo molto nuvoloso e frequenti piogge, per cui uscimmo di meno rispetto al solito. Non essendoci Chris, passai parecchio tempo da solo, a leggere, ma la compagnia degli amici di Henry mi attraeva comunque.

Fu soprattutto Bruce a colpirmi, non perché si mettesse in mostra: al contrario, sembrava sempre leggermente defilato, raccontava pochissimo di sé e ascoltava molto più di quanto parlasse.

Mi accorsi in fretta che c’era una dissonanza tra Bruce e gli altri, come c’era tra la sua faccia barbuta, segnata dalle cicatrici e le loro, glabre, simpatiche e sane: in quella compagnia sembrava il brutto anatroccolo. Anche il suo linguaggio, per quanto non castigato, non sembrava accordarsi con quello degli altri, non era ugualmente sboccato, soprattutto quando si parlava di rapporti tra le persone e di sessualità. A me sembrava assurdo che non approfittasse come tutti della libertà di Winsted. Ma nulla in Bruce pareva essere in sintonia con gli altri: per quanto fosse sempre gentile, era l’unico che a volte criticava ciò che un altro diceva. Quando Lawrence Jackson si vantò di aver sedotto la giovane May Hardford, Bruce lo rimproverò duramente, dicendogli senza mezzi termini che era meschino vantarsi delle proprie conquiste, mettendo in cattiva luce una ragazza la cui unica colpa era stata quella di avere fiducia in lui.

Lawrence si irritò, ma cercò di nasconderlo con una mezza risata, mentre diceva:

- E che cazzo! Non l’ho mica violentata!

Bruce rispose, serio:

- No, ma adesso che lo racconti, è come se la costringessi a stare nuda tra di noi. Lei si è data a te, non a tutti i tuoi amici.

Avvertii la tensione che le parole di Bruce avevano creato e mi sembrava che si stesse comportando in modo assurdo, dando a ciò che veniva detto un peso eccessivo. Gli altri erano a disagio: la franchezza spensierata con cui si erano confidati lasciava il posto a sensazioni ambigue. Mi resi conto più tardi, riflettendoci, che le parole di Bruce li costringevano a confrontarsi con un codice di valori a cui, in misura diversa, magari anche solo a parole, tutti aderivano. Bruce era il classico guastafeste che impediva loro di essere, almeno per un qualche giorno, liberi. In quel momento io, che godevo della libertà sconfinata della campagna, davo ragione a loro e torto a Bruce: mi sembrava che li privasse di un diritto.

Bruce non c’entrava con gli altri: era uno strumento che stonava, aggiunto per errore ad una piccola orchestra perfettamente accordata. Più volte mi chiesi che cosa ci facesse, perché Henry lo avesse invitato.

Più tardi, in un momento in cui Bruce si era allontanato per parlare con mio nonno, sentii Lawrence dire:

- Che stronzo! Ma chi si crede di essere, quello?

Nessuno disse nulla, né per difendere Bruce, né per sostenere Lawrence. Avvertivo ancora il loro disagio. Fu Henry ad intervenire, dicendo:

- Lascia perdere. Andiamo piuttosto a pescare al torrente.

La proposta fu accolta immediatamente: tutti avevano voglia di occuparsi d’altro, di dimenticare il piccolo incidente provocato dalla reazione di Bruce.

 

Il giorno successivo finalmente il sole ritornò a splendere e potemmo andare a bagnarci al torrente. Quell’anno Chris non c’era ed io mi spogliai senza preoccupazioni. Ma quando vidi Bruce nudo, mi sentii profondamente turbato. Aveva un bel corpo, muscoloso ed armonioso, con una peluria sul torace e sul ventre un po’ più fitta rispetto agli altri ed un sesso robusto che non riuscii ad impedirmi di fissare. Bruce se ne accorse, lo capii dal suo sguardo.

Mi tuffai rapidamente nel torrente, in modo da nascondere la mia improvvisa erezione.

Ero spaventato ed agitato. Bruce mi aveva visto, io ero eccitato e se mi fossi voltato, se ne sarebbero accorti tutti. Una parola di Bruce sarebbe bastata a perdermi, a trasformarmi in oggetto di scherno. Ma mentre me lo dicevo, mi resi conto che Bruce non avrebbe detto quella parola. Non era il tipo.

In effetti Bruce non disse nulla, non fece nessuna allusione a quanto era successo, né allora, né in momenti successivi. Ebbi soltanto la sensazione che una volta o due mi guardasse, ma quando ebbe occasione di parlarmi, dimostrò la stessa gentilezza di sempre e non fece nessuna allusione all’accaduto.

Non riuscivo a capire perché vedere Bruce mi avesse turbato così tanto. In qualche modo sembrava più vecchio degli altri, forse più maschio. Era questo ad attrarmi? Ma la sola domanda mi sembrava ridicola. Bruce non mi attraeva, se lo confrontavo con Chris mi sembrava ripugnante. Però pensavo spesso a lui.

Come l’estate precedente, trascorsi quasi tutto il mio tempo con Henry ed i suoi amici, ma questa volta concentrai la mia attenzione su Bruce. La sua presenza mi infastidiva e mi metteva a disagio, spesso mi dicevo che avrebbe fatto bene a partire, che era solo uno stupido guastafeste. Quando però non lo vedevo con gli altri, partivo alla sua ricerca, sperando di sorprenderlo, magari nel fienile a fare l’amore con una ragazza, così Henry avrebbe dovuto mandarlo via. Una cosa del genere era successa, tre anni prima. Io non avevo visto niente, ma il nonno se n’era accorto – o qualcuno glielo avevo riferito – ed aveva detto a Henry che Darrow doveva partire quel giorno stesso. Henry si era trovato in una situazione molto imbarazzante, ma il nonno aveva aggiunto che se non glielo avesse detto Henry, glielo avrebbe detto lui. Era finita che erano partiti tutti.

Vagamente speravo che si ripetesse una situazione del genere, che Bruce si levasse dai piedi – dai coglioni, mi dicevo, ripetendo un’espressione che avevo sentito dire a Lawrence, riferita proprio a Bruce. Ma quando trovavo Bruce, stava parlando con mio nonno oppure leggeva sotto un albero. Due volte lo vidi fermo a fissare nel vuoto. Mi accorsi che spiavo Bruce come avevo fatto con Chris, anche se con sensazioni diverse, più confuse.

Mi dicevo che con il passare dei giorni Bruce sarebbe riuscito a prendere il ritmo giusto, mettendosi all’unisono con gli altri, ma la sua voce continuava a stonare.

Un giorno si parlava del matrimonio. Sembravano tutti considerarlo come un vincolo da non prendere troppo sul serio: nel clima di libertà di quei giorni a Winsted, Henry ed i suoi amici sostenevano posizioni che a New York probabilmente avrebbero stigmatizzato o almeno non avrebbero formulato.

Bart Stevens disse che una donna doveva essere fedele, ma che era logico che un uomo si divertisse un po’, salvando le apparenze. Di nuovo Bruce intervenne pesantemente:

- Che razza di matrimonio è, se te ne vai a divertirti con qualcun’altra? Meglio non sposarsi, se uno la pensa così.

Lawrence intervenne, un po’ sarcastico:

- Mi sa che non ti sposerai mai.

La battuta sembrava suggerire che Bruce non avrebbe mai trovato una donna disposta a sposarlo, ma Bruce non colse la provocazione o, piuttosto, decise di ignorarla, pur avendola colta.

- Può darsi. Di certo non prometterò fedeltà se non sarò convinto di quello che faccio.

- Già, magari quando ti impegni sei convinto di quello che dici, ma poi? Se cambi idea?

Bruce sembrò riflettere e questo mi sorprese: anche in questo era fuori tono, perché  sembrava dare alla discussione un peso che gli altri di certo non davano.

- Meglio separarsi, quando il matrimonio è diventato pura abitudine, quando cerchi altrove ciò che dovresti avere a casa.

Henry scosse la testa.

- Una separazione, salvo casi estremi, non è auspicabile. Non è… decente.

Mi stupì questo improvviso ossequio alle convenienze da parte di mio fratello. Bruce annuì:

- Sì, tutti sembrano stimare la decenza più del coraggio delle proprie azioni. È un modo per svuotare la vita di ogni senso, per uccidere senza spargere sangue.

A me sembrava che Bruce esagerasse, come sempre.

Bart intervenne di nuovo:

- Non ha senso non sposarsi. Un uomo deve avere una famiglia. Tutti ce l’hanno.

Nuovamente, di fronte alle argomentazioni di Bruce, gli altri sembravano ergersi a difensori delle convenienze.

- È dignitoso sposarsi solo perché lo fanno tutti? Se tu vuoi inchinarti alle pretese della società, va bene. Ma con che diritto coinvolgi un altro essere umano, vincolandolo a vita, solo perché così chiede la società? Perché fai pagare a tua moglie un’esigenza che è solo tua?

- Anche le donne hanno l’esigenza di sposarsi. Una donna che non si sposa ha fallito la sua vita.

Bruce stava per replicare, ma Henry interruppe la discussione, che metteva a disagio tutti.

 

Quando Henry ed i suoi amici furono sul punto di partire, chiesi a Henry:

- Perché hai invitato quel rompicoglioni di Bruce McGregor?

Henry rise. Sogghignò e rispose:

- Perché quel “rompicoglioni” sta per entrare nella nostra famiglia. E sarà meglio che tu eviti di chiamarlo così.

Le parole di Henry alludevano chiaramente ad un matrimonio e, da alcune allusioni colte a casa, doveva trattarsi di Edith: Henry non sembrava avere nessun progetto matrimoniale e comunque tra i McGregor non mi risultava ci fossero giovani donne nubili.

- Vuoi dire… intendi dire che quello sposerà Edith?

L’idea mi sembrava orribile. Ma Henry scoppiò a ridere:

- No, santo cielo, no! Ma a settembre verrà annunciato il fidanzamento di Edith e Lionel McGregor. E tu sai che Lionel e Bruce sono praticamente fratelli.

Sapevo vagamente che Lionel McGregor aveva perso entrambi i genitori quando aveva dodici anni ed era stato accolto in casa dal padre di Bruce. In effetti lui e Bruce erano come fratelli, anche se Lionel conduceva una normale vita sociale, mentre Bruce viveva molto più appartato.

- E ce lo ritroveremo sempre tra i piedi?

- Un po’ sì, ma non tanto spesso. Non è che sia molto socievole, ma questo lo avrai notato anche tu. Comunque non potevo non invitarlo. Quando l’ho detto a Newland, era presente anche lui e sta per diventare il cognato di Edith. Non mi aspettavo che accettasse, devo dire…

Annuii. Mi dava fastidio l’idea che avrei visto spesso Bruce anche a New York: nonostante quel che diceva Henry, Bruce non poteva esimersi da alcuni obblighi sociali ed il matrimonio di Lionel ed Edith lo avrebbe inevitabilmente portato a contatto con noi.

Henry e i suoi amici partirono ed io rimasi a Winsted. Chris, il cui pensiero era stato un po’ accantonato durante il soggiorno degli altri, ritornò ad essere una presenza costante nella mia mente, ma mi accorsi, con fastidio, che anche Bruce occupava uno spazio che non volevo riconoscergli. E se di giorno le mie fantasie avevano spesso Chris per protagonista, di notte i miei sogni mi restituivano l’immagine di Bruce.

Avevo le idee molto confuse.

 

Il fidanzamento di Edith fu annunciato a settembre ed il matrimonio avvenne a giugno. Bruce fu il testimone dello sposo. Il legame che si era creato tra le due famiglie mi portò a vedere più spesso Bruce a New York, ma Henry aveva sostanzialmente ragione: Bruce declinava ogni invito, se solo gli era possibile. Si muoveva sul limite delle convenienze, evitando di apparire eccessivamente scortese. I miei non si offendevano, perché era noto a tutti che Bruce McGregor frequentava poco la società a cui apparteneva. Era fatto così, dicevano. Nonostante la sua scarsa socievolezza, non sentivo mai parlare male di lui: nelle rare occasioni in cui compariva, era sempre corretto e cortese, si diceva che in alcune occasioni aveva dato prova di grande generosità. Era uno di quei personaggi un po’ eccentrici, che però non sfidavano apertamente le convenzioni ed a cui nessuno aveva da rimproverare gravi mancanze: perciò i suoi comportamenti non erano oggetto di particolari critiche.

Lionel era molto diverso sia nell’aspetto, sia nel comportamento. Era un bell’uomo, biondo e con gli occhi chiari, un fisico snello e uno sguardo sognante: credo che se non fosse stato il fidanzato di Edith, la mia fantasia si sarebbe impadronita di lui, ma l’idea che sarebbe diventato mio cognato mi impediva di abbandonarmi a certi sogni. In società Lionel era un uomo affascinante: arguto e colto, spiritoso e attento, era l’ospite ideale, in grado di animare una serata senza soffocare gli altri. Non era strano che Edith si fosse innamorata di lui. Non riuscivo invece a capire i suoi rapporti con Bruce, che chiamava “mio fratello” (e la stessa espressione usava Bruce nei suoi confronti): mostrava per lui un affetto profondo, che era comprensibile, e un’ammirazione sconfinata, che mi sembrava irragionevole.

 

Il matrimonio ebbe luogo nella Grace Church. In quanto membri della famiglia della sposa, entrammo per ultimi, poco prima di Edith. Ricordo Lionel e Bruce in fondo alla navata, vicino all’altare. Lionel trasalì, vedendoci entrare. Appariva molto agitato, continuava a infilare una mano in tasca, evidentemente per controllare di avere l’anello. Bruce era perfettamente a suo agio. A un certo punto lo vidi posare una mano su quella del fratello e stringerla. Lionel sussultò e si voltò verso di lui. Il viso di Lionel si aprì immediatamente in un sorriso e lo vidi rilassarsi. C’era qualche cosa di commovente nella fiducia che aveva in Bruce.

Infine, come previsto dal protocollo, arrivò Edith. Era splendida nel suo abito bianco e davvero lei e Lionel formavano la più bella coppia di sposi che avessi mai visto.

Da quel momento la mia attenzione fu concentrata su di loro e mi dimenticai completamente di Bruce, se non nel momento in cui Lionel, conclusa la cerimonia, lo guardò sorridendo. C’era una gioia infinita nei suoi occhi e sembrava volerla donare a Bruce, che appariva anche lui felice. In quel momento pensai che era un bell’uomo. Un pensiero assurdo, ma forse lo vedevo con gli occhi di Lionel.

Edith e Lionel lasciarono New York la sera stessa e, dopo una settimana in campagna, partirono per il loro viaggio di nozze in Europa.

Io li salutai al porto, insieme ai miei genitori, Henry e Bruce. Nessun altro era a conoscenza della loro partenza, come di solito avveniva per le coppie appena sposate.

Vidi Lionel abbracciare stretto Bruce, con le lacrime agli occhi, e lo sentii sussurrare:

- Mi mancherai, Bruce. Mi mancherai da morire.

Bruce rispose, anche lui sottovoce:

- Credo che in compagnia di Edith non sentirai la mia mancanza. Ma tu mi mancherai molto.

Anche a lui luccicavano gli occhi.

Dopo la loro partenza, mi recai a Winsted.

 

Quell’anno mio nonno aveva assunto, poco prima del mio arrivo, un nuovo lavorante, il cui figlio, Aaron, aveva un anno in più di me. Era un bel ragazzo, con i capelli di un biondo scuro e gli occhi grigio-azzurri. Feci in fretta amicizia con lui. Suo padre, vedendolo in buoni rapporti con me, gli lasciava una maggiore libertà e lo esentava, con il consenso di mio nonno, da alcuni dei lavori di sua competenza.

Guidai Aaron ad esplorare i dintorni della fattoria e fui contento di avere qualcuno con cui condividere le mie avventure, anche se a Winsted non avevo mai patito la solitudine: in realtà la mancanza di legami in quei mesi contribuiva a farmi sentire completamente libero.

Aaron mi sembrava nettamente più grande di me, anche se ci separava un solo anno. Tra di noi c’era una notevole differenze fisica, perché Aaron aveva una corporatura molto più massiccia della mia, pur non essendo più alto. Ma era soprattutto il comportamento a darmi questa impressione: Aaron, ubbidiente e ben educato di fronte a suo padre o a mio nonno, si rivelava completamente diverso quando eravamo da soli. Non dimostrava nessun rispetto per suo padre, che spesso irrideva e talvolta malediceva; vantava le sue conquiste, non so quanto reali; faceva apprezzamenti pesanti sulle figlie dei lavoranti ed anche sulle loro mogli. Questo non mi stupiva: nella sicurezza con cui si muoveva, nell’impudicizia dei suoi discorsi, nel linguaggio sboccato, ritrovavo il comportamento degli amici di mio fratello. Avvertivo però una grana più grossolana: ciò che in Henry e negli altri era un transitorio venire meno alle rigide regole ed ai principi della società in cui vivevano, per Aaron era l’emergere del suo carattere.

Mi sentivo a disagio: gli amici di mio fratello non si rivolgevano a me, non mi coinvolgevano nei loro discorsi, non si aspettavano che io rispondessi, che approvassi ciò che dicevano. Di fatto mi ignoravano e questo mi permetteva di ascoltare senza compromettermi. Aaron era invece il mio interlocutore. In alcune situazione mi trovai molto a disagio: non me la sentivo di sparlare di mio nonno, che amavo moltissimo e che mi lasciava piena libertà; non avevo avventure da vantare; non ero abituato a parlare di sessualità. Questi suoi discorsi a volte mi infastidivano e spesso Aaron mi appariva volgare e limitato. Eppure non cercavo di porre degli argini, per timore di essere giudicato ancora bambino. Quando mi mostravo più reticente o non approvavo quello che diceva, Aaron mi rinfacciava di essere ancora un “moccioso a cui bisogna pulire il naso e il culo.” E comunque mi rendevo conto che i suoi discorsi mi incuriosivano e mi attraevano.

Un giorno, al torrente, Aaron propose di bagnarsi. Abituato a farlo, da solo o con gli amici di mio fratello, accolsi la proposta come un invito del tutto naturale. Aaron era tarchiato: non era alto, ma i lavori agricoli avevano sviluppato la sua muscolatura e quando si spogliò mise in mostra un bel corpo tornito. Non lo guardai troppo, temendo di non essere in grado di nascondere l’attrazione che provavo, e mi buttai rapidamente in acqua.

Quando uscimmo, Aaron mi chiese se volevo una mano ad asciugarmi. Io risi della proposta, che mi sembrava assurda. Ma Aaron si avvicinò e incominciò a strofinarmi la schiena, dicendomi:

- Qui non puoi asciugarti bene da solo.

Rise. Poi le sue mani, che reggevano sempre il tessuto, scesero sui miei fianchi.

- Ed anche qui, figurati. Qui bisogna asciugare bene.

Per un attimo la sensazione di quelle mani che affondavano nelle mie natiche e accarezzavano il solco mi stordì e rimasi incapace di parlare o di muovermi. Aaron interpretò il mio silenzio come un assenso e mi attirò a sé, avviluppandomi tra le sue braccia. Sentivo contro i fianchi la pressione del suo membro.

Mormorai:

- Aaron, lasciami.

Non era un ordine, era quasi una preghiera, che forse non voleva essere ascoltata. Credo che se Aaron fosse rimasto zitto ed avesse lasciato le sue mani parlare, forse avrebbe ottenuto quello che voleva. Ma Aaron, ormai sicuro di sé, disse:

- Adesso questa bella troietta se lo prende in culo…

La sua frase mi restituì il controllo che avevo perso. Reagii di scatto, cercando di liberarmi.

- Lasciami subito!

Questa volta era un ordine e la voce tradiva la mia irritazione. Aaron non capì immediatamente o, più probabilmente, non volle accettare una sconfitta inattesa. Cercò di stringere ancora di più, ma io urlai con rabbia, divincolandomi:

- Lasciami, Aaron, lasciami subito!

Aaron capì di aver fatto un errore. Tolse le mani e cercò di rimediare:

- Dai, Roger, che cazzo hai pensato? Stavo scherzando!

Era evidente che non era così. Io però preferivo evitare uno scontro, per cui mi limitai a dire, mentre mi rivestivo in fretta:

- Va bene, Aaron, non ne parliamo più. Adesso però preferisco rientrare.

Tornai a casa e rimasi in camera. Steso sul letto ripensai a quanto era accaduto. Ero contento di non aver ceduto, l’idea di darmi ad Aaron mi sembrava squallida. Ma le reazioni del mio corpo erano più complesse. Una parte di me rimpiangeva quello che avevo fatto. Mi chiedevo come avrei reagito se Aaron si fosse mosso in altro modo, se non fosse stato così brutale.

Quel giorno mi posi finalmente le domande che avevo sempre cercato di evitare. Non mi diedi risposte, ma ero spaventato.

Evitai il più possibile Aaron nei giorni successivi. Un’unica volta mi chiese se avevo voglia di fare una passeggiata fino al mulino, ma io dissi che volevo finire un libro. Capì che lo evitavo e non insistette, ma gli lessi spesso negli occhi un certo astio nei miei confronti. Sapevo benissimo che sparlava di me con gli altri.

Con il passare dei giorni pensai sempre di meno a lui, mentre cresceva l’attesa per l’arrivo di Henry e dei suoi amici. Mi chiedevo chi sarebbe venuto con mio fratello. Mi aspettavo che ci fosse Bruce, perché le nostre famiglie erano ormai legate. Speravo che ci fosse Chris.

 

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Quell’anno venne Chris. Guardandolo, mi dissi che era davvero di una bellezza abbagliante. Era un peccato che a New York lui non fosse invitato a casa nostra. Avrei voluto conoscerlo meglio.

Bruce non venne. Non chiesi come mai. Ora che c’era Chris, non mi importava nulla di lui.

Due giorni dopo il loro arrivo, Lawrence Jackson chiese a mio fratello:

- Quel simpaticone del tuo quasi cognato, Bruce McGregor, non è venuto. Ne sentiremo proprio la mancanza.

Lawrence non nascondeva la sua antipatia per Bruce, ma ora che in qualche modo era entrato a far parte della nostra famiglia, si moderava nei termini. David chiese:

- Come mai ha rinunciato alla campagna? Non per impegni sociali, suppongo.

Rise, subito imitato da Lawrence. Di certo Bruce non sembrava poter avere molti impegni in società.

La risposta di Henry stupì me e tutti gli altri.

- Ha deciso di fare l’operaio nella fabbrica di suo padre.

- L’operaio?

Michael McGregor, il padre di Bruce, era uno degli uomini più ricchi di New York, una città che già allora concentrava in sé una fetta significativa della ricchezza del pianeta. Era normale che i giovani delle famiglie più ricche facessero un periodo di apprendistato, prima di affiancare il padre nella direzione di una fabbrica, una banca o uno studio di avvocati. Ma non si partiva mai così in basso, dal livello inferiore: i figli degli industriali facevano pratica negli uffici delle fabbriche, quelli degli avvocati, negli studi dei padri. E poi per i giovani come mio fratello Henry, l’apprendistato non richiedeva un grande impegno. Che Bruce avesse incominciato facendo l’operaio sembrava assurdo. Bruce non solo avrebbe ereditato una fortuna immensa, ma era già di per sé molto ricco: diventato maggiorenne aveva preso possesso dei beni di sua madre, morta nel darlo alla luce.

Io avevo pensato a una decisione del padre, ma Henry aveva detto un’altra cosa, che non avevo colto. Newland chiese una conferma:

- Ha deciso lui?

Henry annuì.

Lawrence scoppiò a ridere:

- Bruce è pazzo. Sua madre era una Chivers, no?

Tra i Chivers di Albany c’era in effetti una vena di follia che riappariva periodicamente in alcuni membri della famiglia. Henry precisò:

- No, sua madre era una Welland. La madre di Lionel era una Chivers.

- Quindi tua sorella ha sposato uno che potrebbe dare segni di follia…

L’osservazione di Lawrence mi infastidì moltissimo e nella replica secca di Henry lessi la stessa irritazione:

- Lionel è sanissimo di mente.

Intanto gli altri chiesero di Bruce, ma Henry non sapeva molto. Bruce aveva scelto di lavorare come operaio, con i turni degli altri. Voleva fare tutto il percorso e sperimentare tutte le condizioni di lavoro.

Henry si strinse nelle spalle:

- Bruce è così, non è… prevedibile.

Sì, su questo eravamo tutti concordi. Una cosa del genere nessuno avrebbe potuto prevederla.

Non si parlò più di Bruce ed io avevo altri pensieri per la testa. Dopo l’episodio con Aaron, avevo maggiore coscienza dei miei desideri. Ero stato attratto da Chris fin dal primo momento in cui l’avevo visto. Mi sarebbe piaciuto che fosse diventato amico mio. Avrei voluto parlare, giocare, lottare con lui. Avrei voluto toccarlo, accarezzarlo, baciarlo, amarlo. Questo l’avevo sempre saputo, ma se qualcuno mi avesse chiesto che cosa intendevo per “amarlo”, non avrei saputo rispondere. Nella mia immaginazione era un abbracciarsi, nudi, e questo immaginavo quando cedevo ai miei desideri e lasciavo che la mia mano mi guidasse al piacere.

Ma quell’estate, dopo l’episodio con Aaron, i miei desideri acquistarono contorni più precisi. Più di una volta mi trovai a chiedermi che cosa avrei fatto se Chris fosse stato al posto di Aaron. Sentivo che avrei ceduto. E desideravo, pur temendolo, di trovarmi davvero nella stessa situazione. È vero che gli amici di mio fratello si muovevano sempre insieme, ma speravo, contro ogni speranza, che Chris si staccasse dagli altri. Mi dicevo che avrei dovuto provocarlo, fargli capire in qualche modo che lui mi piaceva molto e magari, anche solo per curiosità o per soddisfare un bisogno, lui ci sarebbe stato. Poi fantasticavo che Chris avesse un legame sentimentale con alcuni degli altri. Osservavo qualche sguardo o sorriso di complicità che si scambiavano e mi sentivo sicuro che Newland e Chris fossero amanti o almeno avessero avuto un’esperienza insieme. Ma nulla confermava le mie ipotesi ed allora passavo dall’uno all’altro, cercando un improbabile amante, finché non mi venne in mente Bruce McGregor: era lui l’uomo con cui Chris aveva avuto un rapporto, no, molti rapporti. In qualche modo Chris amava Bruce, era attratto da quell’uomo così diverso dagli altri, brutto, ma capace di fargli provare sensazioni violentissime. Bruce aveva fatto con Chris ciò che Aaron avrebbe voluto fare con me. Fantasticavo a lungo, immaginandoli insieme. Poi, dopo aver speso ore a creare fantasie prive di senso, ma estremamente vivide, ritornavo a terra di colpo, certo che Chris aveva altri gusti, che avrebbe ignorato una mia richiesta o magari mi avrebbe schernito.

Avevo coscienza di muovermi sull’orlo di un abisso: se si fosse saputo che cosa desideravo, sarei stato oggetto di disprezzo. In realtà non mi muovevo per nulla: rimanevo perfettamente fermo, incapace di alzare un dito per manifestare i desideri ossessivi ed i pensieri deliranti che mi agitavano.

Chris non badava a me: sembrava non accorgersi neanche della mia esistenza. Se ne andò dopo una settimana, insieme agli altri, lasciandomi solo con i miei sogni ad occhi aperti.

Dopo la loro partenza, mi resi conto che mi tornava in mente in modo assillante e che, man mano che mi abbandonavo a questi pensieri, perdevo ogni contatto con la realtà. Passavo ore disteso in un prato, un filo d’erba in bocca, a immaginare Chris che faceva l’amore con Bruce. Vedevo ogni dettaglio, mi chiedevo come si incontravano, dove, che cosa facevano. Sapendo che Bruce lavorava come operaio, me lo vedevo uscire dalla fabbrica tutto sporco di carbone, anche se le industrie di suo padre erano tessili e quindi non si maneggiava carbone. Ad aspettarlo c’era Chris, bellissimo, in un abito simile a quello che Bruce aveva indossato il giorno del matrimonio di Lionel. Gli operai guardavano quello splendido giovane fermo davanti ai cancelli e si scostavano per non sporcarlo con i loro vestiti sudici. Quando Bruce arrivava, lo guardava e sogghignava. Si avviavano insieme, fino a casa di Chris, dove Bruce, irruente, gli toglieva gli indumenti con le mani unte. Vedevo nitidamente quelle grosse dita, scurite dal grasso degli ingranaggi e dalla fuliggine, che spogliavano Chris e gli accarezzavano la pelle, lasciando un segno nero. Vedevo Bruce possedere Chris e farlo gemere di dolore e piacere. 

 

Lentamente, le fantasie divennero meno frequenti e la mia vita a Winsted riprese il ritmo abituale. Scoprii nella fattoria alcuni volumi di racconti illustrati da Eugénie di Sommervieux, una francese che si era stabilita negli Stati Uniti negli anni ’30 del secolo. Mi immersi nel mondo incantato di quelle immagini e mi sforzai di accantonare le altre fantasie.

Tornai a New York, dove dovevo incominciare gli studi universitari. Avevo scelto medicina e non legge, suscitando un certo scalpore: nella cerchia in cui vivevo, nessun giovane avrebbe pensato di dedicarsi alla professione medica. Ma la mia decisione, per quanto insolita e perciò oggetto di disapprovazione, non costituiva una grave violazione dei codici di comportamento: semplicemente mi collocavo anch’io tra gli eccentrici inoffensivi, guardati con una certa diffidenza, ma non soggetti a una condanna morale. D’altronde, come ebbi modo di scoprire in seguito, noi Williams eravamo considerati un po’ bizzarri. I nostri genitori, per quanto persone rispettabili e perfettamente inserite nell’alta società, amavano un po’ troppo la libertà e avevano impartito ai loro figli un’educazione per certi aspetti poco convenzionale.

In effetti i miei genitori non si opposero in nessun modo alla mia scelta, tanto più che Henry aveva già incominciato a lavorare nella banca di mio padre ed appariva chiaramente intenzionato a proseguire.

 

Nei mesi trascorsi a New York, ebbi modo di vedere saltuariamente Bruce. Continuava a lavorare in fabbrica, ma veniva a cena da noi in alcune occasioni. Non si presentava come io me lo immaginavo in certe fantasie, ma sempre vestito in modo accurato ed adeguato all’occasione. Un giorno arrivò un po’ in ritardo, cosa per lui assolutamente insolita, e con una mano fasciata: disse che aveva avuto un piccolo incidente, ma che non valeva neanche la pena di parlarne. A tavola vidi spesso Lionel guardare verso Bruce, irritato e preoccupato. Dopo cena, quando gli uomini passarono nella sala, Lionel si appartò con Bruce. Io mi avvicinai, in modo da sentire ciò che si dicevano.

Lionel era agitato e la sua ansia trapelava nel tono quasi aggressivo con cui chiese:

- Bruce, quando finirai di giocare a fare l’operaio?

Bruce sorrise.

- Non sto giocando, Lionel, lo sai benissimo. Devo vedere come vivono gli operai di queste fabbriche che un giorno saranno mie.

- Ma puoi vederlo senza metterti anche tu a lavorare con loro, rischiando di farti male.

- No, Lionel, non è la stessa cosa.

Lionel si portò una mano alla fronte e mi parve di vedergli luccicare gli occhi.

- Bruce, santo cielo! Smettila! Non vivo più…

Bruce ebbe allora lo stesso gesto che gli avevo visto fare in chiesa il giorno del matrimonio: mise la mano non fasciata su quella di Lionel e la strinse. Poi disse:

- Non mi farò più male, Lionel, te lo prometto. Sono andato fino in fondo, ma non correrò più rischi.

Lionel chiuse gli occhi per un momento. Poi annuì, sollevato.

- Scusa, Bruce, scusami. Ho una paura dannata.

- Non devi aver paura. Te l’ho promesso: non mi farò più male.

Sapevo che il legame che esisteva tra loro era fortissimo, ma in quel momento il vedere questo rapporto così intenso mi sorprese e mi turbò. Per un attimo mi chiesi se non ci fosse altro, ma poi mi resi conto di quanto indegno fosse il mio pensiero: giocare con la fantasia mettendo insieme Chris e Bruce era già di per sé discutibile, ma pensare a un legame di quel genere tra mio cognato e Bruce era davvero assurdo, lo sapevo. Mi tornarono in mente le parole di Bruce sul matrimonio e mi vergognai di quello che per un attimo avevo pensato.

Più tardi, quando le signore ci raggiunsero, osservai Edith parlare con Bruce. Era perfettamente a suo agio con lui ed era evidente che tra loro esisteva un rapporto molto cordiale. Ad un certo punto guardarono entrambi verso Lionel, sorridendo, e lessi in quello sguardo una complicità affettuosa.

 

Ora che avevo diciotto anni, anche la vita sociale mi imponeva una serie di obblighi: man mano che le occasioni mondane si moltiplicavano e non erano più un’interruzione della quotidianità, ma tendevano a diventare la vita di ogni giorno, mi scoprivo sempre più recalcitrante a partecipare. Non ero tagliato per i pranzi, le serate di gala, le visite di cortesia, la cura ossessiva dell’apparenza. Mi trovavo, con mia grande confusione, a reagire come Bruce McGregor, a defilarmi il più possibile. Henry non riusciva a capirmi, gli sembrava assurdo che io cercassi, ostinatamente, di sottrarmi ai miei obblighi mondani.

Una sera in cui c’erano a cena da noi Edith e Lionel, Henry si arrabbiò molto perché io non volevo andare al ballo dai Beaufort. A venire in mio soccorso fu Edith, che pure viveva una vita sociale molto intensa e si trovava a suo agio nel bel mondo.

- Henry! Se Roger non ha voglia di venire, lascia che stia a casa. È in grado di decidere da solo quello che vuole.

Henry reagì duramente. Quasi ringhiò:

- Che cosa vuoi? Che diventi uno che vive fuori dal mondo, che non è in grado di stare in società, come… certe persone.

La pausa nelle parole di Henry mi fece sospettare che gli fosse venuto in mente come esempio negativo Bruce McGregor. Ma un tale riferimento in presenza di Lionel sarebbe stato gravemente scorretto ed avrebbe provocato una reazione indignata.

Edith sorrise. La sua serenità contrastava con la rabbia di Henry.

- Roger sa benissimo stare in società, ma probabilmente preferisce vivere appartato. Come tu dici, ci sono tanti che dedicano poco tempo alle serate mondane, ma non per questo non sanno stare al mondo.

Mia madre mise fine alla discussione riaffermando quel principio di libertà di scelta che aveva sempre seguito nella nostra educazione, ma Henry si alzò da tavola di pessimo umore.

La mia avversione alla mondanità non diminuì, ma piuttosto si accrebbe. Io accampavo ogni pretesto, a partire ovviamente dallo studio. In qualche occasione arrivai a fingere malesseri a cui nessuno credeva, ma che tutti fingevano di prendere sul serio: soltanto Henry aveva un ghigno di derisione quando dicevo di non sentirmi molto bene.

Di tutta la vita mondana, due soli momenti mi attraevano: l’opera e i balli.

L’opera veniva messa in scena all’Accademia di Musica, perché il Metropolitan doveva ancora essere costruito. La musica mi rapiva e partecipavo con tutto me stesso al dramma che vedevo svolgersi in scena, per quanto la trama potesse essere artificiosa e la recitazione fasulla.

Il ballo era la mia passione. Avevo un grande senso del ritmo, la danza mi prendeva e finivo per dimenticarmi della fanciulla che guidavo nella danza. Perciò, per quanto la mia bravura come cavaliere venisse riconosciuta da tutti, non ero molto apprezzato dalle dame.

Non facevo la corte a nessuna donna. Quando Henry mi stuzzicava, gli rispondevo che ero troppo giovane per questo. Henry mi prendeva in giro, dicendo che alla mia età lui aveva già conquistato diversi cuori. Ma a me tornavano alla mente le parole di Bruce McGregor sul non far pagare agli altri la propria esigenza di inchinarsi alle convenienze.

Vedevo pochissimo Bruce, dato che entrambi cercavamo di evitare gli impegni sociali, ma il mio pensiero andava sempre più spesso a lui. Riflettevo sulle conversazioni sentite nella settimana che aveva trascorso a Winsted e mi accorgevo che il mio punto di vista era del tutto cambiato. Mi sembrava che avesse ragione, perfettamente ragione, e che la leggerezza con cui gli altri affrontavano certi argomenti fosse spesso imperdonabile. Avrei dovuto capirlo prima, ma in campagna Bruce mi era sembrato soltanto il classico guastafeste saccente. 

E mentre riflettevo, mi rendevo conto che Bruce mi attraeva moltissimo. Bastava la sua presenza a trasformare una di quelle serate a cui non ero riuscito a sottrarmi. E se, come di rado accadeva, scoprivo in anticipo che Bruce sarebbe stato presente, tutti i miei impegni di studio ed i miei malesseri sparivano miracolosamente.

Incominciavo a pormi altre domande, che mi facevano male. Ero attratto dagli uomini, questo non potevo negarlo. Le donne non mi interessavano minimamente. Che cosa significava? Non avrei mai avuto una famiglia, sarei stato destinato ad una vita di clandestinità oppure sarei stato oggetto di scandalo, messo al bando dalla società? Sarei vissuto sempre da solo? Avrei mai conosciuto una reale intimità con un altro uomo o solo il fugace piacere del momento, magari con uomini come Aaron? Dovevo rinunciare a ciò che ero, dedicarmi solo al lavoro?

Era una massa di pensieri disturbanti, a cui si aggiungeva quello del mio rapporto con Bruce. Stavo innamorandomi di lui?

Ero molto in soggezione nei suoi confronti, ma cercavo di avvicinarmi a lui, di rimanere nel gruppo di persone in cui si trovava durante la serata. Io partecipavo pochissimo alla conversazione comune, com’era logico, vista la mia giovane età, e non osavo rivolgermi direttamente a lui. Due volte, vedendolo da solo, provai l’impulso di avvicinarmi e parlargli, ma non me la sentii. Di che cosa avrei potuto parlare? Gli argomenti non mancavano. In primo luogo mi sarebbe piaciuto sapere qualche cosa di più dell’anno trascorso in fabbrica. Avrei potuto chiedergli se contava di venire a Winsted, se era mai stato in Italia, se aveva sentito Christine Nilsson cantare Margherita nel Faust, se aveva mai visto i libri illustrati da Eugénie di Sommervieux. Ma mi scoprivo improvvisamente timido, pensavo alle scene che immaginavo nella mia mente e quasi temevo che mi potesse leggere negli occhi le mie fantasie assurde.

Poi, a primavera, una sera in cui era da solo, vicino al caminetto, un bicchiere in mano e lo sguardo assente, mi feci coraggio e mi avvicinai. Quasi balbettando gli chiesi della sua esperienza di operaio. Mi raccontò che aveva scelto di farlo per capire le reali condizioni di vita in una fabbrica. Gli posi qualche domanda e mi accorsi, quasi con stupore, che rispondeva volentieri, trattandomi come un adulto e non come un ragazzo. Era bellissimo parlare con lui, poter fissare quel viso, quegli occhi dallo sguardo così vigoroso, ascoltare le sue riflessioni, i suoi dubbi. Man mano che acquistavo sicurezza, gli chiesi se intendeva apportare delle modifiche alla conduzione delle fabbriche.

Bruce annuì, senza rispondere immediatamente. Poi disse:

- Le fabbriche sono di mio padre, Roger, e lui non vuole sentire ragione. Io non posso fare nulla.

- E allora?

Bruce sorrise.

- E allora voglio finire questa esperienza e poi vedremo. Credo che in autunno partirò per l’Europa. Il Grand Tour mi attende.

Di solito i giovani dell’età di Bruce avevano già girato l’Europa: Henry c’era stato cinque anni prima. Ma Bruce sembrava fare tutto in ritardo.

- Il Grand Tour? Ma… non sei mai stato in Europa?

- Sì, a Parigi e Londra, con un po’ di Inghilterra e Francia, un mese in tutto. Ma questa volta intendo stare via a lungo.

L’idea che non avrei visto Bruce per molto tempo mi sembrò intollerabile. Sentii un’ondata di panico e mi dissi che ero pazzo. Era la prima volta che avevo modo di parlare a lungo con Bruce, lo incontravo ben di rado, eppure il solo pensiero di rimanere per molti mesi senza nessuna possibilità di vederlo mi sconvolgeva.

In quel momento la conversazione fu interrotta dall’avvicinarsi di Henry, che fece una battuta sull’incontro tra i due orsi (me e Bruce, ovviamente, entrambi noti per la scarsa inclinazione alla vita sociale) e poi mi comunicò che mia madre mi voleva parlare. Mandai mentalmente Henry a farsi fottere, esattamente in questi termini, e, non sentendomi di fare lo stesso con mia madre, ubbidii, senza nessuna voglia, e mi staccai da Bruce. Mia madre mi chiese di riaccompagnare a casa una cugina, per cui dovetti congedarmi senza poter riparlare con Bruce.

Trascorsi diverse ore, quella sera, a ripensare a Bruce ed al suo viaggio in Europa, a cercare di capire ciò che sentivo dentro di me. Quanto ero attratto da Bruce? Che cosa provavo davvero per lui?

Per qualche settimana fui molto più presente alle riunioni mondane, con grande stupore dei miei familiari: in particolare Henry cercava invano di scoprire chi fosse la donna che aveva provocato questo improvviso cambiamento. Io cercavo solo Bruce, che però non veniva quasi mai.

La prima volta che lo vidi dopo il nostro incontro, fu lui ad avvicinarsi e l’agitazione che mi prese era una risposta piuttosto chiara a tutte le mie domande.

Bruce mi chiese dei miei studi e dei miei progetti dopo la laurea. Parlammo a lungo: Bruce sapeva ascoltare e le sue domande mi aiutavano a chiarirmi le idee. Dopo aver parlato di me, io gli chiesi se aveva sempre intenzione di partire in autunno. Speravo che avesse cambiato idea, ma Bruce mi confermò la sua decisione. Mi sentii morire. Allora gli dissi:

- Almeno verrai quest’estate a Winsted?

Bruce mi guardò e mi sembrò che leggesse dentro di me.

- Verrò volentieri, se Henry ci va...

Henry avrebbe potuto non venire a Winsted o anche solo non invitarlo. Ma quanto a questo, sapevo come provvedere. Qualche tempo dopo, parlando a tavola, dissi che Bruce contava di partire per l’Europa in autunno. Henry lo sapeva. Io aggiunsi:

- Gli ho chiesto se sarebbe venuto a Winsted con te quest’estate e lui ha detto che l’avrebbe fatto volentieri. Ricordati di invitarlo.

Henry disse che l’avrebbe fatto senz’altro: di fronte ai nostri genitori non poteva rispondere in altro modo. Ormai era cosa fatta: essendo Bruce un parente, Henry non poteva accampare nessuna scusa per non includerlo tra i suoi ospiti estivi.

Ebbi ancora modo di parlare con Bruce, due volte, poi partii per Winsted.

Non potevo prevedere che sarebbe stata l’ultima estate che avrei trascorso nella fattoria, anche se sapevo che la prosecuzione degli studi universitari avrebbe limitato la mia libertà di movimento.

Vissi un mese nell’attesa di Bruce, in preda ad emozioni contraddittorie: temevo che cambiasse idea all’ultimo momento e che non venisse; temevo che invece arrivasse, creando una situazione che non ero sicuro di riuscire ad affrontare. Immaginavo che in quella settimana alla fattoria i nostri corpi si sarebbero incontrati, al torrente, nel fienile, nei boschi. Trascorsi gli ultimi giorni primi dell’arrivo di Henry in uno stato di agitazione febbrile.

Infine Henry ed i suoi amici arrivarono e tra loro anche Bruce, che mi salutò con molta cordialità.

Il rivederlo mi turbò moltissimo e mi trovai paralizzato da una serie di paure ed incertezze. Non lo perdevo d’occhio, ma il primo giorno mi tenni a distanza. Bruce parlava molto poco e credo che più di uno degli altri si chiedesse perché Henry lo avesse invitato. Anche questa volta colsi immediatamente quanto lui fosse diverso dagli altri, quanto discordanti fossero i suoi interventi, il suo modo di muoversi, i suoi silenzi: mi parve che la distanza tra di loro si fosse accentuata. Ma mi resi conto velocemente che la mia percezione di tutti loro era mutata. Mi sembrava che la presenza di Bruce ricacciasse Henry e gli altri in una situazione indefinita, tra la fanciullezza e l’età adulta. Bruce sembrava appartenere ad un’altra generazione, era un uomo, che aveva il coraggio delle sue idee.

E davanti a quest’uomo, io mi sentivo smarrito. Mi vergognavo delle fantasie che avevo accarezzato. Avevo avuto modo di parlare con lui, a New York, ma, dopo aver atteso con ansia spasmodica il suo arrivo, la sua presenza mi intimidiva ed ero incapace di scambiare due parole con lui.

 

Il secondo giorno, il mattino molto presto, vidi in cortile Bruce che conversava con mio nonno. Mi venne in mente che li avevo già visti discorrere due anni prima. Il nonno era un padrone di casa cortese, ma si intratteneva poco con gli amici di Henry. Si limitava a salutarli e a fornire loro tutto ciò di cui potevano avere bisogno. Non aveva nulla da dire a quei giovani, che a loro volta non avrebbero saputo di che cosa parlare con lui.

Sembrava invece trovarsi benissimo con Bruce, che in quel momento lo aiutava a sistemare un recinto. Allora non capivo perché il nonno non lasciasse questi lavori a qualcuno dei giovani alle sue dipendenze. Lo vedevo sempre indaffarato e mi chiedevo perché non si riposasse un po’, come gli raccomandava mia madre, visto che ormai aveva superato gli ottant’anni.

Quel pomeriggio ero in cortile quando vidi Bruce uscire di casa. Speravo di incontrarlo, mi ero seduto vicino alla porta proprio nella speranza che lui arrivasse. Ma quando me lo vidi davanti, tutto quello che avrei voluto dirgli divenne una massa confusa. Gli inviti, gli ammiccamenti, le allusioni che mi ero immaginato rivelarono la loro vera natura: sciocchi espedienti che non avrei mai potuto usare. Mi sentii irritato con me stesso e con Bruce, che in qualche modo consideravo responsabile delle stupidaggini che mi passavano per la testa.

Allora, pensando a quanto avevo visto il mattino, dissi:

- Ti ho visto sistemare il recinto con il nonno.

- Sì, non era soddisfatto di come Bart aveva riparato lo steccato, così gli ho dato una mano.

Mi dava fastidio che Bruce assecondasse il nonno, mi tornavano in mente le raccomandazioni, mai ascoltate, di mia madre.

- Secondo me dovrebbe riposarsi, ha ottantadue anni!

Bruce mi guardò, perplesso.

- Che cosa intendi per riposarsi?

La sua domanda mi sembrò stupida: riposarsi significa riposarsi. Cercai di spiegare:

- Passeggiare, leggere, giocare a carte.

Bruce annuì, ma replicò:

- Smettere di vivere, insomma, ed aspettare di morire. No, tuo nonno è molto più saggio.

Le parole di Bruce mi disorientarono.

- Ha lavorato per tutta la vita…

- È un buon motivo per rinunciare a fare ciò che desidera?

Non volevo darmi per vinto, anche se avevo la sensazione di rendermi ridicolo.

- Leggere non è rinunciare a vivere. Il nonno potrebbe lavorare un po’ di meno, leggere di più. La nonna ha dei libri illustrati che sono una meraviglia: io non mi stancherei mai di guardarli. Sono sicuro che anche il nonno li apprezzerebbe.

Mi rendevo conto che le mie argomentazioni erano futili, che dicevo cose senza fondamento e che questo doveva essere evidente anche a Bruce. Tutto ciò mi irritava, per cui aggiunsi, con un tono di sfida:

- A te non piace leggere?

Attaccavo, piccolo Don Chisciotte contro i mulini a vento. Ma Bruce non sorrideva, non mi prendeva in giro, non ascoltava con sufficienza. E il suo atteggiamento mi faceva sentire paurosamente infantile.

- Sì, certo. Tuo nonno legge il giornale e qualche libro, anche se gli affatica gli occhi.

Sembrava che sapesse su mio nonno più di quel che sapessi io. E, con un certo smarrimento, mi resi conto che di mio nonno sapevo poco, anche se da molti anni passavo due mesi da lui ogni estate. Gli volevo molto bene, ma lo davo per scontato. Da bambino avevo parlato con lui, da ragazzo non mi capitava quasi mai. Ci salutavamo, gli chiedevo come stava, scambiavamo qualche parola sul tempo, sui lavori della fattoria, sui programmi per la giornata, ma non ci parlavamo davvero.

Bruce continuò:

- Però ama questa fattoria e vuole continuare a occuparsene, fino all’ultimo. Gli auguro di poterlo fare.

- Anche a costo di morire prima?

Bruce mi guardò, diritto negli occhi, e disse:

- Sì, tiene davvero alla vita e vuole viverla fino in fondo, non guardarla scorrere.

Chinai la testa, confuso, non del tutto convinto e irritato con me stesso e con Bruce, perché mi sembrava di aver fatto la figura dello stupido.

Ed in effetti più tardi, mentre sfogliavo uno dei volumi illustrati da Eugénie de Sommervieux, mi dissi che ero stato proprio sciocco. Il nonno avrebbe probabilmente apprezzato quelle immagini, ma la vita che aveva scelto di fare era un’altra.

 

Nella settimana in cui Henry ed i suoi amici rimasero alla fattoria, vidi spesso Bruce con il nonno. A volte mi sembrava che passasse quasi più tempo con lui che con gli altri: era un’esagerazione, ma mi colpiva perché era insolito.

Con gli amici di Henry Bruce rimaneva abbastanza, ma partecipava poco alle discussioni ed evitava di porsi in conflitto. Avevo l’impressione che anche gli altri, quando Bruce era presente, si moderassero. Forse non era solo la presenza di Bruce: avevano due anni in più rispetto all’ultima volta in cui li avevo visti tutti insieme. Le convenzioni pesavano di più su tutti loro ed il tempo in cui la fattoria poteva essere considerata una parentesi di assoluta libertà si stava ormai concludendo.

Bruce non sembrava avere molti legami con nessuno degli altri, nemmeno con Henry. Fui perciò stupito quando sorpresi una conversazione tra lui e Peter Camden. Era il terzo giorno che erano alla fattoria ed il tempo era stato in prevalenza molto incerto. Mi ero rifugiato nel fienile a leggere, quando vidi Bruce e Peter entrare insieme. Ero sul piano superiore, per cui non mi videro ed io non rivelai la mia presenza: scorgendoli, avevo capito che erano entrati per poter parlare liberamente. Si sedettero sulla paglia. Peter incominciò a raccontare di sé. Viveva una situazione difficile in famiglia, tra una madre alcolizzata, che il padre teneva segregata per evitare lo scandalo, ed un fratello minore, che dava segni di squilibrio mentale. Io ascoltavo le parole di Peter, coinvolto nel suo dramma personale. Inizialmente non feci caso a Bruce, che parlava pochissimo, ma poi mi resi conto di quanto i suoi interventi aiutassero Peter a chiarirsi le idee, di quanta profonda empatia ci fosse da parte sua. Quando finirono, Peter ringraziò Bruce e mi parve molto più sollevato.

Quando uscii anch’io, mezz’ora dopo, Bruce era nel cortile. Mi si avvicinò e mi disse:

- Roger, so che eri nel fienile.

Non potevo negare: mi aveva visto uscire. Non aspettò che parlassi e proseguì:

- Ciò che Peter mi ha raccontato è qualche cosa di molto personale, che appartiene soltanto a lui, e che nessun altro deve sapere. Posso contare sulla tua discrezione?

Rimasi sorpreso dal tono con cui Bruce mi si rivolgeva, come se io fossi un suo coetaneo. Davanti a lui mi sentivo quasi bambino, nonostante i miei diciotto anni. Spiegai:

- Sì, certamente. Ti assicuro che non volevo origliare. Quando mi sono reso conto che stavate parlando di… cose personali, non sapevo bene che cosa fare…

Mi fermai, non sapendo come continuare.

- Non ha importanza, Roger. Mi sono accorto di te solo quando siamo usciti. Ti ho aspettato perché una tua indiscrezione potrebbe provocare altro dolore a Peter. Ne ha già a sufficienza.

- Te lo prometto, Bruce. Non dirò nulla a nessuno.

- Grazie.

Questa brevissima conversazione mi turbò molto ed a lungo la sera, nel mio letto, rividi il viso serio di Bruce che mi parlava. Se l’attesa di Bruce aveva esasperato i miei desideri e scatenato le mie fantasie, il suo arrivo mi ricacciava in un limbo di dubbi ed incertezze. Avevo la sensazione, disperante, di perdere un tempo prezioso, un’occasione unica. Ma sentivo perfettamente che i miei vaghi progetti erano insensati.

Il mattino del quarto giorno incominciò a piovere: una di quelle piogge più autunnali che estive, non violente, ma continue, che sembravano non dover smettere mai. Gli amici di mio fratello avevano progettato un’escursione nei boschi, ma dovettero rinunciare. Si trascinavano senza saper bene che fare, annoiati. Per loro la campagna aveva senso se si poteva cavalcare, camminare, praticare qualche sport. Io amavo passare le ore a leggere e la pioggia non mi disturbava. Amavo mettermi nel fienile e divorare libri, mentre il rumore della pioggia sul tetto mi cullava.

Eravamo tutti nella fattoria, quando Bruce disse che aveva voglia di camminare un po’ sotto la pioggia. Gli altri risero. Bruce non invitò nessuno ad accompagnarlo e, dalle sue parole, era evidente che aveva deciso di fare un giro da solo. Uscì, dirigendosi di buon passo verso il bosco.

Lo vidi scomparire. Mi allontanai dalla stanza e, tagliando dal retro per non farmi vedere da nessuno, raggiunsi il sentiero che aveva preso Bruce. Lo seguii a distanza, con il cuore che mi batteva forte. Speravo che non si voltasse: mi dicevo che non stavo facendo nulla di male, che stavo soltanto percorrendo lo stesso sentiero che aveva preso lui. Se si fosse accorto di me, avrei potuto dire che lo avevo visto camminare e avevo deciso di raggiungerlo. Ma sapevo benissimo che stavo commettendo un’indiscrezione, che lo stavo spiando. E una parte di me voleva che lui si voltasse, per potergli parlare.

Bruce camminò una ventina di minuti, poi si fermò al centro di una radura, vicino al tronco di un albero abbattuto. La pioggia aveva perso intensità e ora scendeva finissima. Bruce si tolse il cappello e alzò il viso verso il cielo. Lasciò che l’acqua gli bagnasse il viso e i capelli. Poi si tolse la giacca e la lasciò cadere a terra. Chinò la testa e, con movimenti lentissimi, si tolse la camicia, rimanendo a torso nudo.

Rimase a lungo così, mentre l’umidità si depositava sul suo corpo e gli inzuppava i capelli.

Poi si tolse gli stivali, si calò i pantaloni e le mutande e rimase, completamente nudo, in mezzo alla radura. Potevo vederlo di schiena, le braccia e le gambe muscolose, la schiena forte, i fianchi. Bruce alzò le braccia al cielo e accolse la pioggia sul viso e su tutto il corpo. Con un movimento che a me parve lentissimo, si lasciò cadere in ginocchio e si distese a faccia in giù sul suolo inzuppato. Affondò la testa nell’erba fradicia, poi si voltò, rimanendo a terra, gli occhi fissi verso il cielo.

Ora potevo vederne il torace su cui i peli bagnati tracciavano volute irregolari, il ventre macchiato di terra, il sesso leggermente inturgidito.

Bruce rimase a lungo disteso. E mentre lo spiavo intuivo confusamente che Bruce era in perfetta armonia con quella radura, il bosco, la pioggia, il mondo. Bruce era intero, mentre tutti noi altri eravamo creature incomplete, a cui mancava qualche cosa.

Non attesi che Bruce si alzasse. Mi allontanai rapidamente, profondamente turbato. Sentivo confusamente che avevo commesso un’indiscrezione, che avevo spiato Bruce in un momento assolutamente personale.

Quella notte il desiderio, tenuto a freno durante il giorno, riemerse prepotentemente. Mi dissi che il giorno seguente avrei fatto in modo di rimanere da solo con Bruce. Ma il mattino mi vergognai dei miei pensieri e rimasi sempre con gli altri, anche quando Bruce si allontanò.

Henry ed i suoi amici si bagnarono al torrente, due volte. Io non mi spogliai, ben sapendo che non avrei potuto controllare le reazioni del mio corpo. Cercai di non guardare troppo dalla parte di Bruce, ricordando che due anni prima si era accorto che lo osservavo. Ma la notte nuovamente sentii tutto il mio corpo avvampare.

Una sera in cui il cielo era limpido, uscii per osservare le stelle. Mi diressi oltre il fienile, per immergermi nel buio più completo, e vidi una figura seduta su uno steccato, ai margini di un campo. Pensai che potesse essere uno dei lavoranti di mio padre, ma quando fui più vicino, mi resi conto che si trattava di Bruce. Non mi ero accorto che fosse uscito e non mi aspettavo di trovarlo lì. Poteva essere l’occasione che avevo tanto cercato, ma il mio primo impulso fu quello di scappare via. Non lo feci solo perché ormai mi aveva visto ed infatti mi salutò.

- Ciao, Roger.

- Ciao. Che fai, qui?

Mi parve di aver formulato la domanda in modo alquanto sgarbato. Bruce mi rispose:

- Osservo le stelle. È una serata magnifica.

Avrei potuto dirgli che anch’io ero uscito per guardare il cielo, avrei potuto raccontargli che sapevo riconoscere molte costellazioni. Ma non trovai le parole. Mi limitai a dire:

- È un bello spettacolo.

Mi sentii molto stupido, per quell’osservazione che nulla esprimeva delle mie emozioni. Allora lo salutai e tornai indietro, certo di aver di nuovo fatto la figura dell’idiota.

Quando arrivò il giorno della partenza, mi sentii sollevato e mortalmente triste. Mi pareva di aver buttato via l’ultima occasione.

Bruce si congedò da me dicendomi che sarebbe partito una settimana dopo. Contava di tornare a primavera.

 

Quell’anno mi dedicai interamente allo studio, disertando tutti gli impegni sociali con una tale ostinazione che mia madre, per quanto tollerante, mi rimproverò. Ma non mi sentivo di frequentare le serate mondane, sapendo che non avrei avuto nessuna possibilità di vedere Bruce.

Quando Edith e Lionel venivano da noi, chiedevo a Lionel notizie di Bruce e lui mi rispondeva, felice di poter raccontare a qualcuno le lettere che riceveva regolarmente. Anche lui sentiva molto la mancanza del fratello e questo me lo faceva sentire più vicino. Bruce era stato in Francia, poi in Italia, molto a lungo. Era passato in Egitto, in Grecia e infine a Costantinopoli. Mi chiedevo se sarebbe mai tornato. Aveva parlato di primavera, ma ormai stava arrivando l’estate.

Lo pensavo ancora a Costantinopoli quando mia nonna morì, all’inizio di giugno, improvvisamente: un mattino non si svegliò più. Ci recammo tutti a Winsted, per il funerale. E poche ore dopo di noi, del tutto inaspettatamente, giunse Bruce. Rimasi senza parole.

Bruce era appena arrivato a New York quando gli avevano detto della morte di mia nonna ed era subito ripartito per Winsted, giungendo appena in tempo per il funerale: una decisione che nessuna regola sociale gli avrebbe imposto e che comunque lui non avrebbe preso per rispettare l’etichetta. Vidi Lionel abbracciarlo, nascondendo a fatica la gioia che provava e le lacrime di commozione che gli riempivano gli occhi. Lionel non voleva certo far sfoggio di esultanza in un giorno così triste per la nostra famiglia, ma era evidente che era al settimo cielo. Bruce seguì il funerale e più tardi parlò un buon momento con il nonno.

Dopo il funerale, mia madre cercò di convincere il nonno a venire a stare da noi. Era una richiesta assurda, anche mia madre se ne rendeva conto: se avesse lasciato il paese dove era sepolta la nonna e la fattoria dove avevano condiviso ogni giorno della loro vita, il nonno sarebbe vissuto in esilio, per lui la Quinta Strada sarebbe stata una prigione. Ma a mia madre pesava l’idea di lasciarlo da solo a Winsted.

Io ero impegnato con lo studio, ma a metà luglio avrei potuto raggiungerlo e rimanere con lui per l’estate. Poi si sarebbe visto il da farsi.

Quando ci salutammo per tornare a New York, tre giorni dopo il funerale, ebbi il presentimento che non lo avrei più rivisto.

Mia madre tornò da lui due settimane dopo. Al ritorno, durante la cena, disse a Henry:

- So che stasera sei a cena da Edith. Credo che ci sia anche Bruce McGregor. È stato a trovare il nonno. Ringrazialo da parte mia.

Rimasi senza parole. Bruce era andato a trovare il nonno?! Mi sembrava stranissimo. Si conoscevano appena, si erano visti due settimane in tutto. Bruce era tornato da poco dall’altra sponda dell’oceano ed aveva trovato il tempo di passare dal nonno? Ma anche questo rientrava nel modo di vivere di Bruce, il cui comportamento non era prevedibile.

 

Stavo per partire per Winsted, a metà luglio, quando mio nonno morì di polmonite. Sapevo benissimo, lo sapevamo tutti, che aveva cercato la morte. Lui e la nonna erano vissuti insieme cinquantadue anni e non voleva tardare a raggiungere la donna che aveva amato.

Bruce venne anche al funerale di mio nonno e questa volta non rimasi sorpreso: me lo aspettavo. Non lo avevo più rivisto dalla morte della nonna: dopo il suo ritorno sembrava vivere ancora più isolato. Avrei voluto chiedergli mille cose del suo viaggio, ma non era il momento. Mi dissi che avrei avuto l’occasione in seguito.

 

Winsted fu ereditato da mio zio Gregor, che decise di vendere la proprietà.

Soffrii molto per la cessione della fattoria, ma sapevo che, dopo la morte dei miei nonni, non avrei potuto ritrovarvi la stessa gioia delle estati passate. Era una fase della mia vita che si chiudeva. Ebbi la sensazione precisa che non avrei mai più ritrovato la pienezza e la perfezione che avevo vissuto a Winsted, che sarei rimasto per sempre un essere incompleto.

 

Alla fine del mese, fui invitato a cena da Lionel ed Edith, insieme ai miei genitori e a Henry. Bruce era di partenza per Baltimora, dove intendeva stabilirsi, e la cena era un congedo.

Dopo cena, Bruce mi invitò ad accompagnarlo nella libreria, dove mi diede tre libri.

- Li ho presi per te a Parigi.

Rimasi stupito del regalo, del tutto inaspettato. Ringraziai, poi guardai i libri. Due volumi, di grandi dimensioni, erano un’edizione illustrata delle Favole di La Fontaine. Per un attimo mi sembrò un regalo infantile, ma le parole di Bruce diedero al dono il suo esatto significato:

- Li ho presi per le illustrazioni. Sono di Jean Guyère. Non lo conoscevo, ma quando l’ho scoperto, ho comprato tutti i volumi che ha illustrato. Non ho mai visto nulla di simile.

In effetti, come mi accorsi subito sfogliandoli, ogni immagine era un piccolo gioiello. Mi venne in mente la discussione che avevo avuto con Bruce a proposito del nonno: in quell’occasione avevo parlato di libri illustrati. Mi chiesi se Bruce potesse essersi rammentato di quel dialogo e aver scelto quei due volumi perché sapeva che amavo le illustrazioni d’autore. Mi sembrava impossibile, ma Bruce era capacissimo di essersene davvero ricordato. Poteva anche avermi visto qualche volta a Winsted guardare libri di questo tipo. Era in ogni caso un esempio della sua grande attenzione agli altri.

L’altro volume era un romanzo, intitolato L’ombra. Il cognome dell’autore era identico a quello dell’illustratore e per un attimo pensai che si trattasse della stessa persona, ma vidi che il nome era diverso e Bruce mi spiegò che i due erano cugini.

- Così avrai modo di ripassare il tuo francese.

Ero molto curioso di leggere il libro che Bruce aveva scelto per me. Non sapevo di stare per scoprire un romanzo che mi avrebbe accompagnato per tutta la vita, che avrei riletto più volte e sempre amato profondamente.

Avrei voluto chiedere a Bruce del suo viaggio, ma dovevamo tornare con gli altri: prolungare la nostra assenza sarebbe stato poco cortese. Finì che del Grand Tour di Bruce parlammo davvero solo diversi anni dopo.

 

Bruce si stabilì a Baltimora, dove aveva diverse proprietà. Veniva ancora abbastanza spesso a New York, a trovare Lionel e suo padre, ma io avevo di rado occasione di vederlo. Sapevo che anche a Baltimora frequentava molto poco la società di cui faceva parte per nascita. Qualcuno diceva che aveva deciso di iscriversi all’università, ad un’età in cui gli altri giovani avevano già concluso gli studi.

La sua partenza mi fece soffrire, ma mi aiutò a concentrarmi sugli studi e ad accantonare i desideri e i problemi che mi assillavano. Non più incarnati in un uomo preciso, che rischiavo di incontrare ogni volta che uscivo e persino a casa mia, essi sembrarono perdere consistenza. Mi dicevo che sarei vissuto dedicandomi alla mia professione, accettando una vita incompleta.

 

 

I

II

III

IV