II – Grand Tour

 

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Gli anni dell’università passarono senza troppi problemi, tra lo studio e il tirocinio. Molti nella cerchia di parenti e amici storcevano il naso all’idea che un Williams diventasse medico, ma la fama di eccentricità di cui godevamo in qualche modo spiegava la mia scelta. Quello che più di tutti sembrava infastidito era Henry. Con il passare del tempo, tendeva a diventare sempre più rigido nel seguire le convenienze. Facevo fatica a riconoscere nell’uomo un po’ arcigno, sempre pronto a criticare chiunque si allontanasse di un solo passo dal gregge, il ragazzo che a Winsted irrideva alle convenzioni sociali. Anche il suo aspetto stava cambiando: tendeva adingrassare, stava perdendo, molto precocemente, i capelli e a trent’anni sembrava aver superato i quaranta.

Nella mia scelta ebbi invece l’appoggio di Edith e Lionel, che erano le uniche persone che vedevo abbastanza spesso. Negli anni in cui frequentavo l’università, Edith ebbe due figli: il primo venne chiamato Bruce e ovviamente Bruce McGregor ne fu il padrino; il secondo portò il nome del padre di Lionel. Il loro era un matrimonio felice, ma Henry trovava da ridire anche su quello, sull’eccessiva libertà che Lionel concedeva a sua moglie, sul fatto che non imponesse la sua volontà. Io capivo sempre meno Henry, non riuscivo a spiegarmi perché fosse così critico nei confronti di tutti e di tutto.

A casa di Lionel ed Edith ebbi modo di vedere alcune volte Bruce. Incontrarlo mi procurava sempre un certo turbamento, anche se mi rendevo conto che l’infatuazione giovanile si stava spegnendo. Quando avevo occasione di parlargli un momento, trovavo sempre una conferma della sua grande umanità. Mi chiedeva dei miei studi e dei miei progetti e mi incoraggiava se attraversavo un periodo di dubbi. Rimaneva una persona che vedevo sempre volentieri, una delle pochissime con cui potessi aprirmi. E mi rendevo conto che invidiavo il sentimento, fortissimo, che lo univa a Lionel. Non avevo un amico come Bruce e mio fratello mi sembrava vivere in un altro mondo, la cui distanza dal mio andava crescendo di giorno in giorno.

Trascorsi alcuni anni di grande solitudine e nei brevi periodi di riposo che mi prendevo durante l’estate, dedicai molto tempo a camminare nei boschi, organizzando lunghe escursioni che mi tenevano lontano dalla città per alcuni giorni. Muovendomi per le foreste, mi sentivo in pace con me stesso. 

 

Ero ormai alla fine degli studi e del periodo di pratica. Intendevo davvero esercitare, nonostante la strenua opposizione di Henry, che giudicava il mio comportamento quasi una macchia sull’onore della nostra famiglia: una reazione che a me e ai miei genitori appariva del tutto sproporzionata.

Prima però di dedicarmi alla professione, sarei partito per un giro in Europa, come aveva fatto Henry diversi anni prima e come facevano quasi tutti i giovani delle famiglie più ricche di New York.

Anche se ero impaziente di incominciare ad esercitare, non volevo privarmi di questa esperienza: ero già stato tre volte in Europa, ma per brevi periodi e in compagnia dei miei genitori. Ora contavo di dedicare un lungo periodo alla visita e di spingermi fino in Egitto.

 

Pochi giorni prima della partenza, andai a mangiare al ristorante: avevo da fare diverse commissioni e volevo poter disporre della giornata in piena libertà, per cui avevo detto ai miei che mi sarei fermato fuori a pranzo. Ero appena entrato, quando sentii una voce familiare chiamarmi alle mie spalle. Mi voltai e mi ritrovai di fronte Bruce McGregor. Non mi stupii di vederlo: suo padre stava molto male e Bruce era ritornato a New York la settimana precedente per poterlo assistere. Non l’avevo però incontrato, perché non era venuto da noi e Lionel, vista la situazione, non aveva organizzato cene di famiglia: Herbert McGregor gli aveva fatto da padre, dopo la morte dei suoi genitori, e non era pensabile avere ospiti mentre stava morendo.

Era parecchio che non vedevo Bruce: almeno quattro mesi. Sapevo che era tornato più volte a New York, ma sempre per visite molto brevi.

- Roger! Sono contento di vederti.

- Oh, Bruce…

- Sei a pranzo con qualcuno?

- No. Sono da solo.

- Allora sei con me.

Sorrise e chiese al cameriere un tavolo per due.

Era la prima volta che pranzavamo a tu per tu e mi sentivo un po’ imbarazzato, anche se mi rendevo conto di quanto il mio disagio fosse assurdo: non ero più un ragazzo. Lui mi chiese subito dei miei progetti per il futuro, ora che avevo concluso gli studi: sapeva che avevo finito l’università. Io gli raccontai della mia decisione di cominciare ad esercitare. Bruce ne era a conoscenza, perché ne avevamo parlato più di una volta.

- Conti di aprire uno studio? O pensi di lavorare in ospedale? A New York o altrove, magari a Baltimora…?

Sorrise alla sua battuta. A me sarebbe piaciuto averlo vicino, avere con lui la stessa intimità che aveva Lionel. Mi mancava qualcuno con cui parlare dei miei progetti, dei miei dubbi. A Bruce potevo raccontare tutto, tranne ovviamente quei pensieri e desideri oscuri che negli anni di studio avevo sempre cercato di ignorare: pensavo che Bruce avrebbe capito anche quelli, che mi avrebbe forse aiutato, ma non me la sentivo veramente di aprirmi con lui. Ero sicuro che, se avessi parlato liberamente, avrebbe capito che ero stato attratto da lui, che ancora mi piaceva molto. Rispetto alla prima volta che lo avevo visto a Winsted, non era cambiato: quegli anni, che avevano così profondamente trasformato Henry, avevano soltanto reso più maturo quel viso segnato dalle cicatrici. Il corpo sembrava ugualmente forte e snello. D’altronde doveva avere appena compiuto trent’anni o forse trentuno. 

Mentre facevo queste considerazioni, mi resi conto di colpo che per me Bruce McGregor rimaneva l’uomo più affascinante che avessi mai conosciuto. Vinceva di parecchie lunghezze il confronto con tutti gli altri.

I miei pensieri mi avevano fatto perdere il filo. Bruce se ne accorse e rise.

- Che c’è, Roger? Ti sei perso?

- No, scusa, Bruce. Certo che Baltimora…

Mi scossi. Stavo mettendo il piede su un terreno scivoloso. Meglio correggere il tiro.

- Non so bene che cosa farò, Bruce. Devo capire che possibilità ci sono. Mi piacerebbe…

Esitai un attimo. Non ne avevo parlato con nessuno, nemmeno a casa: mi bastava l’acrimonia con cui Henry accoglieva qualunque riferimento al mio futuro professionale. Ma pensai che Bruce aveva fatto l’operaio e che voleva cambiare la realtà delle sue fabbriche.

- …mi piacerebbe lavorare in ospedale o comunque non dedicarmi ad assistere i malati immaginari della New York che conta… sempre che questi abbiano qualche intenzione di farsi curare da me. Credo che ci sia tanta di quella sofferenza, in questa città… Come medico forse potrei contribuire ad alleviarla un po’.

- Quindi intendi lavorare con gli operai, i proletari…

Annuii, ancora un po’ incerto della reazione di Bruce, ma le sue parole fugarono ogni dubbio:

- Mi sembra molto bello, Roger. Complimenti.

Quasi mi vergognai di fronte a questo elogio. La conversazione proseguì: Bruce mi pose molte domande, precise, a cui non era facile sottrarsi. Parlando con lui vedevo meglio i limiti dei miei sogni, gli aspetti che non avevo considerato. Sembrava davvero molto interessato e, incoraggiato dalla sua attenzione, finii per raccontargli molto più di quello che avrei voluto, comprese le mie idee sulla questione sociale, che chiunque, nell’ambiente che frequentavamo, avrebbe considerato folli. Conclusi con una specie di arringa, che avrebbe provocato una reazione scandalizzata in quasi tutti i nostri conoscenti:

- Non possiamo continuare a vivere facendo finta di non vedere, Bruce. Camminare per la strada come se ci fossimo soltanto noi, quelle poche famiglie della New York che conta, ciechi e sordi di fronte alla miseria che ci circonda, su cui è costruita la nostra ricchezza. Mi sembra un crimine contro l’umanità, un rinnegare l’uomo che è in ognuno di noi.

Mi ero infervorato e mi resi conto di aver esagerato: non stavo partecipando ad un comizio politico. Bruce non sembrò notarlo e concordò in pieno con me.

- Sì, Roger, credo che tu abbia ragione. Non penso che siano i singoli a dover risolvere il problema, ma ognuno di noi può portare il suo contributo. Complimenti per la tua scelta. Non demordere.

Il suo incoraggiamento mi fece molto piacere, ma più ci pensavo, più ero irritato con me stesso per la foga eccessiva che avevo messo nel mio discorso: ero sicuro di aver fatto la figura del giovane ingenuo e presuntuoso, convinto di poter riformare il mondo.

Bruce parve meditare un attimo, poi mi chiese:

- Intendi incominciare subito?

A quel punto mi sentii nuovamente imbarazzato, ma per motivi del tutto diversi. Avevo davanti a me un anno e mezzo di viaggio oltreoceano e dopo le mie affermazioni sui problemi sociali, mi sembrava di essere incoerente. Ma non volevo mentirgli.

- No. Mio padre insiste che faccia anch’io il Grand Tour e tutto sommato non mi spiace.

Sorrise.

- Tuo padre ha perfettamente ragione. Vedrai, è bellissimo. Credo che tutti, diciamo tutti coloro che ne hanno la possibilità, dovrebbero farlo. Allarga la mente, ti riempie gli occhi e il cuore di bellezza. Un’occasione unica.

Non avevamo mai parlato davvero del viaggio di Bruce: non avevo avuto l’occasione di chiedergli le sue impressioni quando era ritornato e poi c’erano stati solo accenni. Adesso però che stavo per partire anch’io, mille domande mi venivano alle labbra.

- È stata davvero una grande esperienza per te?

- Certo e devo dire che ad un certo punto quasi mi fermavo a Roma, per sempre, intendo. Ci ho pensato veramente. Il senso di libertà che ti dà… Forse perché sei lontano da tutti quelli che conosci.

- Davvero hai pensato di fermarti in Italia?

- Sì. È un paese splendido, paesaggi, arte, gente. Mi sono sentito davvero libero. Puoi essere te stesso.

Questa idea di libertà mi colpì molto, anche se non ero sicuro di capire esattamente che cosa intendesse Bruce. Parlammo a lungo dell’Italia e poi delle altre tappe del viaggio. Scoprii che aveva visitato posti per me del tutto sconosciuti, ma non altri che invece erano tappe quasi obbligate della visita in Europa.

- Ma davvero non sei stato a Versailles?

Io non avrei mancato Versailles per nulla al mondo: quella reggia, per quanto assai meno antica di altri monumenti, per me evocava tutta la storia della Francia e dei suoi sovrani. Era lo scenario in cui si muovevano personaggi che avevano colpito la mia fantasia, come il Re Sole e Maria Antonietta.

Bruce sorrise alla mia indignazione:

- Sapevo di non poter vedere tutto e ho viaggiato molto liberamente, senza farmi condizionare dalle guide. A volte, osservando le folle di turisti inglesi o americani, tutti a vedere le stesse cose, con la loro guida in mano, il Baedeker o il Murray… santo cielo! Cambiavo direzione.

- Ma le guide sono utili.

- Utilissime, le ho consultate anch’io, ma sono anche andato a vedere cose che nelle guide non risultavano e ho evitato come la peste la maggioranza degli alberghi per turisti stranieri. Che senso ha andare al Cairo e ritrovarsi in mezzo ad americani?

Le idee di Bruce mi disorientavano un po’. Mi rendevo conto di colpo che in effetti stavo programmando un viaggio che seguiva pedissequamente le orme dei viaggiatori precedenti. Proprio io, che amavo la libertà ed ero insofferente degli obblighi sociali! Ma ero stato troppo concentrato negli studi e nella pratica per dedicare molto tempo a studiare l’itinerario che avrei seguito. C’era stato persino un momento in cui avevo pensato di rinunciare all’Europa o di andare solo per un mese o due. Contavo di pensare all’itinerario durante la traversata e poi nei giorni che avrei trascorso a Londra e soprattutto a Parigi.

Bruce proseguì:

- Ma ognuno viaggia a modo suo, non credo che esista un modo di viaggiare che vada bene per tutti. Io avevo voglia di entrare un po’ di più in contatto con la realtà dei paesi in cui mi trovavo, di conoscere la gente, anche a costo di convivere qualche volta con le cimici o di dormire per terra.

Le parole di Bruce non mi stupivano. Corrispondevano all’immagine che mi ero fatto di lui. Mi spingevano però a chiedermi che cosa mi aspettavo io da questo viaggio, come volevo muovermi. Sapevo benissimo che non avrei sopportato di ritrovare in Italia o in Egitto tutti gli obblighi sociali di New York: volevo anch’io poter respirare liberamente.

Incominciai a tempestare Bruce di domande. Gli chiedevo come aveva scelto i luoghi da visitare, che cosa lo aveva colpito di più, come faceva a decidere dove dormire, dove mangiare. E poi le sue impressioni sulla gente.

Bruce rispondeva e mi esponeva il suo punto di vista, senza cercare di convincermi a seguire il suo esempio. Solo in alcune occasioni mi diede qualche consiglio, mettendomi in guardia da rischi come le truffe o il colera.

Finii per fargli un vero e proprio interrogatorio, che accettò di buon grado. Prendevo nota mentalmente di tutto ciò che diceva e mi rendevo conto che stavo modificando il mio itinerario per seguire le sue orme. Era assurdo: capivo benissimo che la sua esperienza era irripetibile, proprio perché modellata sul suo modo di essere. Anche il mio viaggio doveva basarsi su ciò che ero io.

Decisi però che avrei visitato il deserto egiziano, perché la descrizione che Bruce fece delle notti nelle oasi mi incendiarono l’anima. E deliberai di includere anche Costantinopoli: Bruce sembrava essere rimasto molto colpito dalla città, soprattutto da Stambul, che aveva girato di giorno e di notte.

Parlando con Bruce, scoprivo un modo di viaggiare del tutto diverso da quello degli altri con cui avevo parlato, molto più in sintonia con la mia natura. Cercavo di saperne di più e continuavo a chiedere, anche se mi rendevo conto di essere indiscreto. Bruce non me lo fece mai pesare.

Ad un certo punto però guardò l’ora e disse:

- Accidenti, ora devo andare. Devo dare il cambio a Lionel.

Guardai anch’io l’orologio e mi resi conto che eravamo stati a tavola oltre tre ore, a parlare. Ma per me il tempo era volato.

Ci salutammo e Bruce si congedò, dicendomi, mentre mi stringeva la mano:

- Goditi questo viaggio, Roger. Mi farebbe molto piacere se quando torni ti facessi vivo. Vorrei sentirti raccontare un po’ delle tue esperienze.

- Lo farò, senz’altro.

Mi tenne ancora la mano, mentre diceva:

- È una promessa?

- Lo è.

- Allora sono tranquillo. So che mantieni le promesse.

Era vero, era sempre stata una mia caratteristica, ma non so come potesse saperlo.

Mi lasciò la mano, mi guardò con affetto, mi salutò e se ne andò. Lo seguii con gli occhi mentre si allontanava tra la gente e provai il desiderio di raggiungerlo, di parlargli ancora. Era assurdo. Mi controllai e rimasi immobile. Lui si girò prima di voltare l’angolo, come se si aspettasse di vedermi fermo dove mi aveva lasciato, mi salutò con un cenno della mano e scomparve.

Rimasi ancora fermo. Ero turbato, più di quanto volessi ammettere. Credevo di essermi liberato dell’attrazione che provavo per Bruce McGregor, ma quell’unico incontro pareva essere stato sufficiente a ridestarla: non era morta e non doveva neanche dormire un sonno molto profondo.

Ripensai a lungo a quella conversazione. Mi sembrava che nelle parole di Bruce ci fosse più di quello che appariva.

 

Partii in piena estate. Sulla nave ritrovai inevitabilmente diverse persone che conoscevo. Cercai di tenermi in disparte, ma non era facile: i pasti riunivano i viaggiatori e la buona educazione richiedeva che dessi anch’io un contributo alla conversazione comune. Di per sé non era un grande problema: per quanto poco amante della vita sociale, non mi preoccupavo certo di dover scambiare qualche parola durante i pasti e d’altronde c’era chi provvedeva volentieri ad animare la conversazione. In particolare Bill Powell, che viaggiava con il fratello Stephen, raccontava in continuazione aneddoti sulle loro esperienze di viaggio: sembrava averne una riserva inesauribile. Più volte sospettai che inventasse o attribuisse a se stesso incidenti capitati ad altri. Ne ebbi la conferma quando Bill narrò un episodio che avevo già sentito raccontare, con gli stessi dettagli, da un amico di Henry. Se qualche altro viaggiatore parlava di un luogo da visitare, loro c’erano già stati o contavano di andarci e incominciavano immediatamente a parlarne, esaltando le meraviglie dei fiordi norvegesi, che avevano girato in lungo e in largo, o dei templi cinesi, dove non avevano mai messo piede, ma di cui sembravano conoscere tutto.

Cercai di evitarli il più possibile: erano mortalmente noiosi.

Mi accorsi però che la ristretta rappresentanza dell’alta società a bordo tendeva a fagocitare chiunque avesse le credenziali per entrarvi.

Ben presto mi trovai a dover scansare inviti a giocare a carte o a qualche altra occasione di incontro. Non riuscivo neppure a rimanere da solo sul ponte per dieci minuti, senza essere avvicinato dai fratelli Powell, sempre in cerca di un uditorio per le loro storie, o dalla signora Durham. Costei era una bella donna, che doveva aver superato i trenta, sposata a un uomo di parecchi anni più anziano di lei. Il signor Durham sembrava alquanto grossolano, mentre la moglie era una donna elegante, che soffriva della mancanza di raffinatezza del marito. Le vedevo fare certi piccoli gesti di impazienza, quando a tavola lui si lasciava sfuggire qualche battuta fuori posto o un gesto poco elegante. Mi faceva pena e fui molto cortese con lei, ma mi accorsi ben presto del mio errore. La signora Durham incominciò ad avvicinarsi spesso a me, vantandomi le bellezze della Spagna, che io non intendevo visitare, e consigliandomi di non trascurare quella terra splendida. Intanto Stephen e soprattutto Bill Powell, che intendevano spingersi anche loro fino in Egitto, mi facevano domande sul mio itinerario e mi dicevano che dovevo assolutamente andare in Germania, dove loro mi avrebbero fatto da guida, essendo già stati lungo il Reno tre anni prima. Gli uni e gli altri sembravano ansiosi di trovare compagnia per il giro che avevano progettato, ma io non intendevo né sostituire il marito della signora Durham, in uno scomodo terzetto, né sottostare alla noia della compagnia dei Powell.

Ringraziavo e cercavo di sottrarmi ai loro inviti. Rispondevo che non avevo ancora un itinerario preciso e che avrei dovuto fermarmi a Londra per un certo periodo e vedere alcuni parenti, prima di decidere come proseguire il viaggio. Non era comunque facile evitarli, in un ambiente ristretto come quello della nave, a meno di non rimanere chiusi in cabina. Ma io amavo il mare ed ero capace di trascorrere ore a guardare l’orizzonte. La cabina sarebbe stata una prigione.

A venirmi in soccorso fu il capitano della nave, un cinquantenne vigoroso e molto discreto. Rendendosi conto del mio desiderio di tranquillità, un giorno si avvicinò a me, dicendomi:

- Vedo che lei ama rimanere da solo. Se lo desidera, posso darle l’autorizzazione ad accedere all’area riservata all’equipaggio. I marinai eviteranno di parlarle, se lei non si rivolge a loro, per cui potrà godere della massima tranquillità.

Fui stupito della sua sensibilità e apprezzai molto la sua proposta. L’accettai subito e potei godermi il viaggio in pace. Agli altri passeggeri dissi che, pur non soffrendo di mal di mare, il continuo rollio della nave mi disturbava, per cui preferivo trascorrere molto tempo steso in cabina.

I marinai e gli ufficiali si limitavano a salutarmi, ignorandomi poi completamente, e io, che non cercavo compagnia, ricambiavo il saluto e rimanevo a leggere o a guardare il mare, fantasticando. Ogni tanto il pensiero andava a Bruce, ma evitavo di soffermarmi troppo a lungo sul ricordo dei nostri incontri o sulle fantasie di cui era il protagonista.

Approfittai della ritrovata libertà per definire meglio l’itinerario del mio viaggio, pur lasciandomi una certa libertà d’azione: volevo anch’io, come Bruce, poter decidere di giorno in giorno dove sarei andato e che cosa avrei fatto, anche se questo avrebbe comportato qualche disagio. Trascorsi molto tempo anche leggendo o guardando il mare, di cui mi stavo innamorando.

Un giorno un episodio mi turbò. Mentre camminavo nell’area riservata all’equipaggio, incontrai un marinaio che si lavava. Era a torso nudo e aveva un torace ampio e muscoloso. Sulla pelle color del miele scendevano rivoli d’acqua, che il sole faceva scintillare come strisce di diamanti.

Il mio sguardo si fermò più del dovuto sul quel corpo e l’uomo si accorse che lo stavo osservando. Mi sorrise e mi salutò. Mi parve di leggere in quel sorriso divertito e nel suo sguardo qualche cosa di più di un semplice saluto. Ebbi la conferma di questa impressione vedendolo indugiare a lungo nell’asciugarsi.

Io distolsi lo sguardo. Non sapevo esattamente che cosa si aspettasse da me: era anche lui mosso dal desiderio che in quel momento mi ardeva dentro o pensava semplicemente di poter guadagnare un po’ di soldi? Avevo sentito dire che talvolta qualche marinaio si vendeva ad un passeggero facoltoso. In ogni caso non volevo che l’episodio avesse un seguito: l’idea di pagare per un rapporto mi pareva degradante e mi sarebbe sembrato di tradire la fiducia del comandante.

Ignorai il marinaio e la faccenda si concluse così.

In realtà l’episodio ebbe delle ripercussioni non indifferenti sui miei pensieri. Da anni tenevo in scacco i miei desideri, ma ora che ero libero da impegni, essi riemergevano e ponevano domande, a cui continuavo a non voler dare risposte. E il marinaio venne a visitare i miei sogni.

All’arrivo i miei compagni di viaggio, nonostante avessi ridotto al minimo i rapporti negli ultimi giorni, mi diedero l’indirizzo del loro albergo e mi invitarono a far loro visita. Sapevo già che non sarei passato a trovarli e in fondo lo sapevano anche loro, ma, in attesa di trovare qualcun altro più disponibile, non volevano chiudere nessuna porta. Di certo sia la signora Durham, sia Stephen Powell non avrebbero perso occasione di criticare il passeggero molto scostante che avevano conosciuto durante la traversata e si sarebbero detti ben contenti di non aver più avuto occasione di rivederlo.

 

Trascorsi alcuni giorni a Londra, dove mi procurai l’occorrente per il viaggio. Conoscevo già la città e mi ci trovavo perfettamente a mio agio. Avevo alcuni lontani parenti, a cui feci una visita di cortesia, ma potevo disporre in assoluta libertà del mio tempo, senza obblighi sociali.

Dedicai poco tempo all’Inghilterra, che avevo già visitato in precedenza, e appena tutto fu pronto passai in Francia. Seguendo l’esempio di Bruce, scelsi un albergo non frequentato abitualmente da turisti americani o inglesi. Ebbi così per la prima volta la sensazione di essere uno straniero, anche se conoscevo il francese e a Parigi avevo alcuni punti di riferimento. Provai un senso di libertà inebriante.

Il mio interesse per il disegno e la pittura mi portò ad esplorare il mondo dell’arte della capitale e scoprii una realtà in profonda trasformazione. Rimasi molto perplesso di fronte alle opere di certi nuovi autori che scandalizzavano il pubblico borghese, ma alcuni di questi quadri mi affascinarono. Un cugino che viveva a Parigi mi presentò lo scrittore Pierre Sandoz, che aveva contatti con diversi di questi pittori. Era una persona molto disponibile e fu ben felice di farmi conoscere alcuni artisti. Conversando con loro riuscii a comprendere il paziente lavoro di ricerca che stava alla base delle loro opere e finii per entusiasmarmi. Acquistai parecchi quadri e risi immaginando la reazione tra il desolato e il furibondo di Henry, che durante il suo viaggio in Europa aveva comprato alcune opere di autori settecenteschi e vantava un ritratto femminile opera di Reynolds come se fosse stato un Raffaello. Sapevo che anche Bruce McGregor aveva acquistato alcune opere di autori contemporanei e un solo quadro antico, forse un Caravaggio, su cui lui e Lionel scherzavano, ma che Bruce non aveva fatto vedere a nessun altro.

Durante il mio soggiorno frequentai molto Pierre e gli parlai del mio viaggio. Quando seppe che contavo di andare in Egitto, mi parlò di un suo amico, il medico Paul Cabrera, il cui fratello era archeologo e conduceva in quegli anni una campagna di scavi a Luxor. Pierre mi propose di farmi conoscere Paul e l’idea mi piacque subito: avrei potuto ottenere una lettera di presentazione che mi avrebbe dato modo di seguire da vicino una campagna di scavi. Era un modo per visitare ed entrare in contatto con la realtà del luogo, senza seguire i percorsi turistici abituali.

Pierre organizzò una cena a casa sua e mi presentò Paul Cabrera. Ci intendemmo immediatamente, nonostante Paul avesse dieci anni in più di me, perché avevamo molte cose in comune. La scelta di diventare medico era stata, per lui come per me, una rottura con le tradizioni del suo ambiente, in quanto Paul apparteneva ad una famiglia nobile, di antica origine, anche se non molto ricca. Curava i poveri e aveva imparato a conoscere quartieri e ambienti in cui gli uomini della sua condizione sociale di solito non mettevano mai piede. Per certi versi Paul mi sembrava incarnare ciò che io avrei voluto diventare. Parlammo poco del viaggio, ma molto del lavoro di medico. Alla fine della serata Paul mi fece una lettera di presentazione per suo fratello Philippe e mi disse che gli avrebbe scritto per annunciargli una mia visita, in un periodo che io stesso avrei precisato in seguito. 

 

Lasciai Parigi e mi diressi verso l’Italia. Trascurai la Francia, che in parte avevo già visitato. Mi interessava raggiungere le città d’arte, che avevo spesso sognato, ma dove non avevo mai messo piede. Mentre attraversavo la Svizzera, sotto un cielo perennemente nuvoloso e una pioggia che pareva autunnale, pregustavo il sole dell’Italia, immaginavo Firenze e Roma, Venezia e Napoli, i templi di Agrigento e le cittadine umbre.

Benché avessi sentito alcuni viaggiatori esaltare la bellezza delle Alpi, non ero minimamente preparato a ciò che mi aspettava. Molti avevano parlato di splendidi laghi e di cime innevate, ma il paesaggio svizzero che potevo vedere era grigio e opprimente e dopo aver visto le grandi foreste del Maine e le cascate del Niagara, non pensavo che le Alpi potessero riservarmi grandi emozioni.

La salita verso il colle del Gran San Bernardo fu faticosa e il cocchiere espresse il timore di rimanere bloccati dalla neve, benché fosse appena l’inizio di settembre. Nella carrozza cercai di recuperare il sonno perso durante la notte precedente, quando lo scoppio di un incendio nel paese dove alloggiavo mi aveva impedito di dormire.

Mi svegliai quando giungemmo al colle. Scesi con gli altri passeggeri e rimasi senza fiato. Il cielo era quasi completamente sgombro e sotto il sole le montagne innevate avevano un candore abbagliante. Mi sentii sgomento.

Chiesi e ottenni di salire accanto al conducente e scendendo ad Aosta fui completamente soggiogato dalla vertigine dei precipizi che vedevo aprirsi ai miei piedi e dalle cime innevate che incombevano su di me.

Decisi di fermarmi ad Aosta per esplorare queste montagne immense che mi affascinavano e mi regalavano emozioni nuove: non conoscevo i paesaggi di alta montagna, negli Stati Uniti non mi ero mai spinto oltre i grandi laghi e nei viaggi in Europa non avevo mai raggiunto le Alpi. 

Da Aosta raggiunsi le valli vicine, pernottando in locande. Assumevo una guida e mi facevo condurre lungo i sentieri che salivano sui fianchi delle montagne, offrendomi paesaggi che contemplavo sbigottito. Vissi per un mese in uno stato di esaltazione continua. Salivo per sentieri e mulattiere, attraversando prima i boschi e poi raggiungendo i prati, dove incominciava a depositarsi la prima neve autunnale. Qui trovavo le mandrie, che sulle Alpi i pastori portano a pascolare ad alta quota per tutta l’estate. I campanacci delle mucche mi accompagnavano fino a che non lasciavo i pascoli e allora erano solo più lo scrosciare dei torrenti e i fischi delle marmotte a rompere il silenzio. Mi sembrava di muovermi in un’altra realtà, completamente diversa dai boschi che ben conoscevo.

A volte potevo ammirare gli stambecchi che brucavano tranquilli o i camosci, che guizzavano veloci, scomparendo in un batter d’occhio. Seguivo a distanza gli ampi cerchi descritti dall’aquila che si librava in alto o l’improvviso volo di una pernice sorpresa dal mio arrivo.

Il sole e la pioggia si alternavano e in alto più di una volta fui sorpreso dalla neve, ma non rinunciai mai alle mie escursioni.

Giorno dopo giorno in alta quota le montagne si coprivano di neve e le mandrie venivano ricondotte nel fondovalle: l’inverno si avvicinava, ma io faticavo a staccarmi da quei paesaggi incantati.

Tre volte pernottai in alto, nelle baite dove i mandriani soggiornavano in estate. Poco mi importavano la sporcizia, l’odore intenso, l’aria greve. Quando la sera mi allontanavo di pochi passi da quelle costruzioni, che scomparivano inghiottite nel buio, avevo davanti a me un mondo magico. Mai avevo visto il cielo così limpido e le stelle tanto numerose e brillanti. Le cupe sagome delle cime formavano una cornice in cui si stagliava il cielo luminoso. Il mattino bevevo il latte appena munto e mi pareva di non aver mai assaggiato nulla di così buono.

La terza volta che mi fermai, nel pomeriggio si mise a nevicare. La notte però vidi filtrare una luce intensa e uscii. Il cielo era limpido e una grande luna, bianchissima, illuminava le montagne innevate. La luce riflessa dalla neve era tanto forte, che potevo distinguere ogni dettaglio. Rimasi a lungo immobile ad osservare quel prodigio, insensibile al freddo pungente, fino a che uno dei pastori, accortosi del prolungarsi della mia assenza, mi venne a chiamare e quasi mi forzò a rientrare. Solo quando mi stesi sul giaciglio, sotto la coperta, sentii i brividi del freddo.

 

Non mi capitava quasi mai di incontrare altri visitatori inglesi o americani: la stagione turistica si avviava alla fine e io sceglievo deliberatamente le valli meno frequentate. Alcuni locali parlavano il francese, ma i nostri dialoghi erano sempre brevi e finalizzati ad un obiettivo pratico. Avevo perciò rarissime occasioni di conversare e il mio isolamento contribuiva a farmi vivere in modo ancora più intenso la natura: non ero distratto dalle chiacchiere, le mie emozioni non erano condizionate da aspettative create da altri, non dovevo confrontare ciò che provavo con le sensazioni altrui. Vivevo da solo su quei monti.

Un giorno salii fino a una valletta sospesa, sulle cui pareti si era già depositata molta neve. Quando giungemmo sull’orlo della valle, mi fermai e mi voltai per ammirare il panorama, mentre la guida proseguiva. Improvvisamente una valanga si staccò da un lato. Il rumore mi fece voltare e vidi, ammutolito, il paesaggio davanti a me scomparire in una nuvola bianca e poi ricomporsi nuovamente, mentre le pareti ancora restituivano l’eco di quel fragore. Mi accorsi che non vedevo più la guida.

Mi lanciai in avanti, angosciato all’idea che potesse essere morto per causa mia, ma fortunatamente lo vidi immediatamente riemergere, bianco di neve e pallido in volto: la quantità di neve precipitata non era grande e l’uomo era stato gettato a terra, ma non completamente sepolto. Si fece il segno della croce e mi fece capire che dovevamo scendere immediatamente. Lo seguii, non volendo certo mettere nuovamente in pericolo la sua vita. Ma mentre scendevamo, mi voltai spesso a guardare l’imbocco della piccola valle sopra di noi. Provavo una sensazione che non sapevo definire, quasi di rimpianto: forse avrei voluto rimanere per sempre in quell’angolo lontano dal mondo, lasciando che la neve mi coprisse.

Il piccolo episodio calmò l’esaltazione che avevo provato e i tre giorni di intense nevicate che seguirono mi convinsero infine a lasciare le Alpi per continuare il mio viaggio in Italia. Dall’inverno precoce dei monti scesi ad Aosta, per partire il mattino seguente alla volta di Torino. L’albergo in cui avevo pernottato al mio arrivo era completo e io lasciai che mi indirizzassero ad un altro, senza pormi problemi: avrei dormito soltanto una notte, per cui non mi preoccupava l’idea di trovarmi tra altri viaggiatori. E poi si era ormai in autunno e sapevo che i turisti cercavano regioni dal clima più favorevole.

Quando scesi a cena, fui avvicinato da un giovane, che doveva avere qualche anno in più di me. Era alto e snello e vestito con molta cura: accanto a lui dovevo apparire piuttosto trasandato, ma il periodo trascorso a camminare in montagna mi aveva reso ancora meno attento di quanto non fossi di solito al mio abbigliamento. Ormai badavo a presentarmi in modo corretto, ma senza nessuna ricerca di eleganza. Lo sconosciuto invece era elegante, forse fin troppo, considerando l’ambiente in cui ci trovavamo. Aveva un viso interessante, affilato, ma con il mento squadrato, che creava un singolare contrasto. Il naso leggermente aquilino contribuiva a dare forza al volto e gli occhi, scuri come i capelli, mi colpirono per la loro bellezza.

- Buonasera, sono Frederic Jones e vengo da Manchester. Spero di non essere importuno, ma mi hanno detto che era arrivato un americano e mi farebbe piacere poter scambiare due parole con qualcuno: qui nessuno parla inglese.

Non avevo motivo di sottrarmi alla sua richiesta, formulata con molta cortesia. A mia volta mi presentai e incominciammo a conversare, in attesa del cibo.

Frederic era il figlio di un industriale di Manchester. Non aveva nessun interesse per le fabbriche e amava invece viaggiare. Quasi ogni anno trascorreva alcuni mesi all’estero: oltre alla sua patria, aveva girato in lungo e in largo la Scozia e l’Irlanda e era stato diverse volte in Francia, in Germania, in Austria, in Italia; si era spinto fino in Russia e in Spagna, in Grecia e in Norvegia, e aveva visitato anche gli Stati Uniti. Non era mai stato invece in Africa e in Asia, perché amava le comodità e preferiva evitare i disagi legati ai lunghi viaggi in paesi poveri, ma contava di andare in Egitto e in futuro non escludeva di visitare l’India o la Turchia.

Il suo viaggio prevedeva un lungo periodo in Italia e poi in Egitto, per cui coincideva in parte con il mio itinerario. Non prevedeva di andare in Grecia, che già conosceva bene, né a Costantinopoli, che non aveva mai visitato: gli avevano descritto la città come molto sporca e poco attraente, nonostante alcuni monumenti interessanti.

Parlammo dei nostri viaggi precedenti. Frederic aveva viaggiato molto più di me, ma si limitò a narrare qualche episodio curioso a cui aveva assistito e alcuni incidenti di viaggio, senza cercare di monopolizzare la conversazione, e questo mi piacque.

Io gli esposi i miei progetti ma feci anche in modo di aggiungere che contavo di muovermi molto liberamente, seguendo il desiderio del momento: dopo oltre due mesi in cui viaggiavo da solo e soprattutto dopo la profonda solitudine dei monti, non mi spiaceva l’idea di avere compagnia per un po’ di tempo, ma volevo assolutamente evitare di trovarmi obbligato a proseguire il mio itinerario con uno sconosciuto. Frederic colse il significato della mia affermazione e si limitò a dire che sarebbe partito il giorno seguente per Torino. Avremmo quindi viaggiato insieme fino alla prima capitale del regno d’Italia.

Frederic arrivava dalla Germania, dove aveva navigato sul Reno fino alla Svizzera, per poi raggiungere direttamente Aosta. A quel punto Frederic, guardandomi in volto, mi disse:

- Vedo che lei invece ha trascorso un po’ di tempo in montagna: ha preso molto sole.

In effetti le giornate trascorse ad alta quota avevano dato al mio viso una tonalità abbastanza scura, che contrastava con l’abituale chiarore del mio colorito.

Parlammo a lungo della montagna. Inizialmente ero reticente a raccontare a quell’uomo che non conoscevo le mie emozioni, ma, man mano che acquistavo maggiore confidenza, mi aprii di più e, pur senza esprimere completamente quanto avevo provato, mi infervorai: forse perché mi capitava di rado di parlare a lungo di me e delle mie idee, quando lo facevo mi succedeva di farmi un po’ prendere la mano, come era accaduto anche con Bruce prima della mia partenza.

Frederic aveva amato molto lo spettacolo delle Alpi, ma non le aveva esplorate. L’arte e la storia lo attraevano più della natura, i paesaggi grandiosi gli incutevano un certo timore e non si sentiva a suo agio in alta montagna.

- Per questo ho scelto l’Italia e l’Egitto. Uno ha davanti millenni di storia, capolavori d’arte.

Gli chiesi della Grecia e la nostra conversazione proseguì a lungo, anche dopo la conclusione del pasto.

Rientrai in camera contento della serata: nell’ultimo mese non avevo avuto occasione di parlare davvero con nessuno.

 

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L’indomani nella carrozza per Ivrea c’erano alcuni locali e due signore francesi, che però non conoscevano l’inglese. Frederic, che parlava un po’ di francese, fu molto cortese con loro e mi coinvolse in una conversazione di cui poco mi importava. Ad Ivrea prendemmo il treno, mentre le due signore si fermarono, intendendo proseguire per Milano il giorno seguente.

Nel nostro scompartimento non c’erano turisti e potemmo parlare in libertà. Frederic mi chiese della mia vita a New York ed io gli parlai dei miei studi e della mia famiglia, senza entrare in troppi dettagli. Mostrò apprezzamento per la mia scelta di diventare medico, ma non mi chiese come intendessi esercitare la mia professione. Sembrava invece più interessato alla società statunitense, che gli appariva meno rigidamente divisa in classi rispetto a quella europea. Gli dissi che in realtà New York aveva una sua aristocrazia, anche se priva di solito di titoli nobiliari, e che essa tendeva ad escludere chi non ne faceva parte.

La discussione proseguì e Frederic mi parlò del clima pesante dell’Inghilterra sotto la regina Vittoria, del perbenismo imperante, che nascondeva una realtà torbida: all’apparenza di moralità corrispondeva un proliferare di vizi che si nascondevano; Londra ospitava bordelli di ogni tipo, femminili e maschili, e molti uomini stimati da tutti e considerati esempi di moralità, si dedicavano in segreto alle loro depravazioni.

Parlammo a lungo di virtù e vizio, di libertà e morale cristiana. Ancora una volta finii per infervorarmi e difendere il diritto di ogni persona a vivere liberamente la propria vita, in base alle proprie inclinazioni, avendo solo cura di non fare male ad altri. E mentre lo dicevo guardavo Frederic e d’improvviso mi sentii in imbarazzo, come se avessi detto troppo, come se mi fossi scoperto. Frederic non aveva obiezioni: condivideva il mio pensiero, anche se sembrava prestare maggiore attenzione di me alle richieste della società.

Il viaggio creò tra noi una notevole familiarità e a Torino cercammo un albergo, dando entrambi per scontato che avremmo alloggiato insieme.

Frederic conosceva già la città, che non amava: la gente gli sembrava meschina e bigotta, l’architettura fredda e rigida, il tempo inclemente. Erano ben altre le città italiane che gli interessavano: Firenze, Roma e Napoli in primo luogo, più di Venezia, che gli metteva malinconia.

Io trovai affascinante la geometria rigorosa delle vie e delle grandi piazze, le prospettive che si aprivano di colpo su un palazzo o sulle colline rigogliose.

La sera, dopo cena, facemmo ancora un breve giro, poi Frederic mi invitò in camera sua, dicendo che avremmo potuto parlare tranquilli, senza timore di essere disturbati. Accettai volentieri. Frederic si sedette sul letto, la schiena contro la testata, ed io su una sedia. Parlammo a lungo, alla fiamma vacillante delle candele: Frederic non aveva acceso il lume a petrolio e per conversare non era necessario avere una luce forte. Stavo bene in quella penombra accogliente, era piacevole conversare così. Dopo un po’ alcune candele si spensero, ma Frederic non si alzò per sostituirle ed io non me ne preoccupai.

Ad un certo punto Frederic mi chiese se intendevo sposarmi.

- No, per il momento conto di pensare alla mia professione.

- Fai bene, se non ti interessa sposarti. Ci sono tante donne disponibili. E poi ci sono le puttane.

Frederic rise, una risata che mi parve un po’ forzata. Io incominciavo a sentirmi a disagio, non ero abituato a mentire e non mi piaceva neanche rivelare che non avevo mai avuto rapporti. Non risposi.

- Vuoi che andiamo a puttane adesso, Roger? Ci sono alcuni locali, anche qui a Torino…

C’erano solo più due candele accese e nella luce fioca potevo vedere Frederic che mi fissava. Mi sembrava di leggere molta ironia nel suo sorriso.

Io deglutii e risposi.

- No, Frederic, non mi piace l’idea di approfittare della miseria di qualche povera ragazza per soddisfare i miei bisogni.

E mentre lo dicevo avvertivo quanto falsa fosse la mia risposta: anche se corrispondeva al mio pensiero, non era quello il motivo principale per cui non frequentavo prostitute.

Frederic annuì, sempre sorridendo ironico.

- Oppure

Si interruppe. Lasciò che il silenzio riempisse la stanza, che la tensione salisse.

- Oppure potremmo fare altro… L’hai mai fatto con un uomo, Roger?

Scossi la testa. Non l’avevo mai fatto, né con un uomo, né con una donna. Il fiato mi mancava.

Frederic si alzò. Senza dire una parola si tolse la giacca, poi la camicia. Aveva un bel corpo, forte, quasi completamente glabro.

Rimasi immobile, incapace di aprire bocca. Mi sembrava che se avessi cercato di dire una sola parola, il mondo intero sarebbe crollato.

Frederic mi si avvicinò.

- Alzati, Roger.

Obbedii, il vuoto totale nella mia mente.

Frederic mi baciò sulla bocca. Schiusi le labbra, in un gemito, e sentii la sua lingua spingersi fino a raggiungere la mia.

Poi Frederic si staccò e le sue mani presero a spogliarmi, con molta lentezza. Ogni tanto mi baciava di nuovo.

Frederic si inginocchiò per togliermi le scarpe, poi mi calò i pantaloni e le mutande, rimanendo in ginocchio davanti a me. Avvicinò il suo viso ed aprì la bocca. Io sussultai quando sentii la carezza umida delle sue labbra, della sua lingua.

Dopo, quando la tensione era ormai cresciuta fino a diventare intollerabile, Frederic mi guidò fino al letto, come si conduce un cieco. Si stese a pancia in giù ed attese.

Mi pareva che la camera fluttuasse come una giostra, ma i fianchi che mi si offrivano, alla luce incerta della candela, mi attraevano irresistibilmente. Da lontano, guardai un altro Roger avvicinarsi al letto, stendersi su Frederic e, seguendo le istruzioni che sentiva, prendere possesso di quel corpo.

 

Dopo rimanemmo entrambi distesi sul letto. La candela si era spenta e nella stanza l’oscurità era completa. Fuori c’era silenzio. Mi sembrava di essere fuori dal mondo, sospeso in un nulla senza tempo. Anche nella mia mente c’era un vuoto completo.

La voce di Frederic mi riscosse:

- Era la prima volta, vero, Roger?

Non era davvero una domanda. Annuii, senza rendermi conto che nel buio Frederic non poteva di certo vedermi.

- Vuoi dormire con me, Roger?

Scossi la testa, poi mi resi conto della situazione e risposi:

- No, Frederic, ho bisogno di stare solo.

Frederic non disse nulla. Dopo un po’ lo sentii muoversi. Accese una candela.

Mi guardava e sorrideva.

Io mi rivestii. Quando fui pronto, Frederic, ancora nudo, si avvicinò a me e mi baciò. Poi, aprì la porta e mi lasciò uscire.

Raggiunsi camera mia e mi stesi sul letto, ancora vestito. Avevo una immensa confusione in testa. Avevo conosciuto il corpo di un uomo, lo avevo posseduto. Era stata un’esperienza forte, del tutto nuova. Quando Frederic aveva parlato, avevo pensato che volesse fare ciò che aveva cercato di fare Aaron, ma era stato il contrario. Questo era il piacere. Ciò che era successo mi aveva colpito profondamente, ma mi pareva di non riuscire a comprenderlo appieno. Ripensavo a quello che avevo fatto.

Non mi resi conto che mi stavo addormentando. Mi risvegliai il mattino dopo, presto, e scoprii di avere ancora addosso gli abiti del giorno prima. Lentamente mi spogliai e mi misi sotto le coperte. Rimasi a fissare il soffitto.

Avevo fatto l’amore. Avevo conosciuto un uomo. Era quello che avevo desiderato. Forse era quello che sognavo, al momento di partire. Essere davvero libero, essere me stesso. Bruce McGregor aveva pronunciato quelle parole. Il pensiero mi diede una sensazione dolorosa, che non riuscii a spiegarmi. Era questo ciò che aveva in mente Bruce? Rivedevo il volto di Bruce e provavo una sensazione confusa, quasi come se lo avessi tradito. Non aveva senso, nessun senso. Tra di noi non c’era un legame. E Frederic? Anche con Frederic non c’era un legame. L’avevo conosciuto due sere prima. I nostri corpi si erano incontrati una notte. E poi? Che ne sarebbe stato di noi? Ci saremmo separati in mattinata? Che cosa voleva Frederic? Che cosa si aspettava?

Che cosa desideravo io? La mia mente non riusciva a ragionare. Nel mio corpo il desiderio si riaccendeva. Lui sapeva che cosa voleva. Dovevo parlare con Frederic, capire. Non sapevo quali parole avrei potuto usare, ma dovevo farlo.

Mi alzai e mi preparai.

Quando scesi a colazione, Frederic mi accolse sorridente e tranquillo.

- Hai dormito bene?

- Sì, grazie. E tu?

E di colpo quel dialogo mi sembrò assurdo, una recita priva di senso, come se non fosse successo nulla, come se la sera prima ci fossimo lasciati dopo una normale conversazione.

- Io benissimo. Dopo dormo sempre benissimo.

E scoppiò in una risata. Preferivo quella risata impudente alla finzione di una normalità che non esisteva più, che era stata cancellata la notte precedente. Riconosceva un posto a ciò che era successo. Non ne definiva i limiti o il senso, ma prendeva atto dell’accaduto. Ci sarebbe stato il tempo per parlarne.

Di certo il “sempre” pronunciato da Frederic mi diceva che non ero stato il primo, ma questo l’avevo capito già la sera precedente, vedendo Frederic muoversi senza incertezze. Sospettavo che avesse una vasta esperienza, ma non mi parve il caso di porre domande indiscrete. Non avevo nessun diritto da vantare.

A colazione parlammo del programma della giornata. Frederic non fece nessun altro cenno alla serata, ma più volte nei suoi discorsi sembrava dare per scontato che avremmo proseguito il viaggio insieme. Durante la visita alla collezione egizia, parlò del nostro viaggio in Egitto e delle cose che avremmo dovuto vedere. Io lo lasciai dire, alquanto dubbioso, combattuto da impulsi diversi. C’erano momenti in cui avevo voglia di andarmene, fare le valigie e dirigermi verso qualche altra città in cui sarei stato sicuro di non incontrare Frederic, per poterlo dimenticare completamente. E subito dopo invece sentivo un desiderio feroce di abbracciarlo, di fare di nuovo l’amore con lui, di rimanere insieme a lui.

Non sapevo che cosa volevo davvero. Per tutta la giornata mi parve di muovermi in un’incertezza crescente, verso una sera di cui ero ansioso di definire i contorni. Accettai di buon grado di cenare molto presto e di salire in camera di Frederic, che rideva della mia impazienza, senza capire che ciò che mi premeva non era la ricerca del piacere, ma il bisogno di capire meglio che cosa si agitava dentro di me.

Questa volta Frederic si mosse con sicurezza ancora maggiore, mi provocò con le parole e con i gesti ed io non mi limitai a seguire le sue istruzioni. Pur essendo ancora incerto, ero deciso ad esplorare quel territorio sconosciuto in cui mi addentravo.

Andammo oltre la prima sera, anche se i nostri ruoli rimasero gli stessi. Quando infine il nostro abbraccio si sciolse, accarezzai il capo di Frederic sotto di me e gli mormorai:

- Grazie.

Sentivo una gratitudine immensa per quest’uomo che mi faceva conoscere il piacere, che mi conduceva per mano ad esplorare il mio desiderio. Mi stupivo che non volesse da me ciò che mi offriva.

La prima sera era stata la scoperta del corpo di Frederic, ma solo la seconda incominciò a creare tra noi una reale intimità.

In pubblico eravamo molto attenti sia ai nostri gesti, sia alle cose che dicevamo. Frederic mi avvertì subito, una volta che, di fronte ad un magnifico palazzo dalla facciata ricurva, gli presi la mano, stringendola con la mia – il gesto che avevo visto Bruce fare due volte con Lionel. Frederic ritrasse la mano rapidamente, mentre si guardava intorno circospetto, e poi mi disse, con una voce da cui traspariva una leggera irritazione:

- Quando non siamo nelle nostre camere, non fare mai nulla che possa destare sospetti in qualcuno. Non pensare che la lontananza sia una garanzia di sicurezza. Fa’ attenzione anche a quello che dici: persino un cocchiere può saperne abbastanza d’inglese da capire.

A me poco importava che altri intuissero: non intendevo esibire il legame che ci univa, ma non mi curavo di nasconderlo. Non dissi nulla, rispettando la volontà di Frederic.

Quella sera Frederic, in camera, mi catechizzò. In effetti la situazione in Inghilterra era pesante, le leggi punivano la sodomia con il carcere e la società puritana inglese era ossessionata dall’apparenza. Se qualcuno ci avesse visti, Frederic avrebbe potuto trovarsi in una situazione incresciosa: un semplice sospetto, una maldicenza potevano infangare un uomo. Accettai di buon grado la sua richiesta di massima riservatezza, comprendendo che aveva ragione. Mettere a rischio la sua reputazione per non aver saputo reprimere l’impulso di un momento sarebbe stato davvero imperdonabile.

Girammo ancora per Torino nei giorni successivi. Frederic non era interessato agli edifici più recenti, ma io ammirai i lavori di realizzazione di una grande costruzione, progettata per diventare una sinagoga, come a Parigi avevo ammirato i nuovi palazzi che stavano trasformando il volto della città.

 

Da Torino io avevo previsto di andare a Milano e poi a Venezia. Ma più i giorni passavano, più desideravo continuare il viaggio con Frederic e, dalle sue parole, capivo che anche lui aveva la stessa aspirazione. Quando stavamo per completare la visita di Torino, decisi di affrontare con lui il discorso. Gli dissi quali erano i miei progetti originari, chiarendo che potevo benissimo modificarli.

Frederic mi aveva già detto di non amare Venezia e me lo confermò:

- Venezia in questa stagione è triste, c’è sempre la nebbia. Puoi visitarla quando ritornerai da Costantinopoli: in nave ci arrivi facilmente e se decidi di viaggiare via terra, puoi fare alcuni tratti in ferrovia ed altri in carrozza. Venezia è molto meglio a tarda primavera o in estate, che in autunno o in inverno.

Esitai. Potevo benissimo rinunciare a Venezia e visitarla al ritorno: non avevo impegni che mi vincolassero. Ma avrei voluto vederla insieme a Frederic: per quanto i nostri gusti non sempre coincidessero, come avevo già avuto modo di scoprire, mi piaceva lasciarmi guidare da lui.

Frederic aggiunse:

- E da Venezia puoi raggiungere le Dolomiti. Dicono che siano molto belle e per te che ami la montagna devono essere l’ideale. Ma di certo non a quest’epoca, ormai ci deve essere parecchia neve.

Annuii. E di colpo mi resi conto di quanto mi pesasse l’idea della separazione. Compresi che a legarmi a Frederic non era solo più il piacere, ma un affetto che giorno per giorno andava crescendo. Mi sembrava assurdo: lo conoscevo da pochi giorni, avevamo davanti a noi diversi mesi da trascorrere insieme, eppure l’idea che ci saremmo separati mi angosciava.

Frederic concluse:

- Firenze in questa stagione è un incanto. Tutta la Toscana è bellissima, sempre, ma questo periodo è magico, senza il gran caldo dell’estate.

- Vada per Firenze, allora. Venezia non si muove e può aspettarmi.

Vidi Frederic sorridere e lessi in quel sorriso gioia ed anche una certa soddisfazione dell’orgoglio. Io accettai che Frederic mi guidasse nelle tappe successive, così come ogni notte mi guidava in un’altra esplorazione. Non mi pentii della mia scelta. 

 

La Toscana e l’Umbria non delusero le mie aspettative e visitarle al fianco di Frederic trasformò il viaggio in un caleidoscopio di emozioni intensissime.

Amai i paesaggi, che non avevano la grandiosità delle Alpi, ma possedevano una dolcezza incredibile: i dolci profili delle colline senesi, con i castelli e le città arroccati sulle cime; le foreste dell’Umbria, che si rivestivano dei mille colori dell’autunno; la visione di Firenze dai colli, una perla incastonata in un gioiello di smalto verde.

Amai le opere d’arte: il mondo rarefatto degli affreschi di Fra’ Angelico; la potenza dei Prigioni di Michelangelo, che mi turbarono profondamente; il prodigio dei marmi policromi del Duomo e del Campanile di Giotto; l’oscurità e la quiete profonda delle piccole chiese romaniche, che sembravano suggerire una fede più raccolta ed umana delle grandi cattedrali francesi.

Amai le città: le vie strette ed in forte pendenza dei borghi medioevali; le torri che si slanciavano superbe verso il cielo; le piazze, animate durante il giorno, che la sera ritrovavano l’incanto del silenzio; le cinta di mura che parevano proteggere le case.

Amai la gente: la lingua, musicale ed armoniosa; l’espansività e la spontaneità; il sorriso delle popolane; la grazia e l’eleganza delle nobildonne; la vivacità dei mercati.

Ogni giorno portava una nuova scoperta e mi sembrava che la mia anima si dilatasse, per assorbire quelle sensazioni intensissime. Ed ogni notte ritrovavo il corpo di Frederic e nuovamente mi pareva che le emozioni fossero troppo forti per trovare tutte spazio dentro di me. Ogni paesaggio, ogni capolavoro, ogni incontro sembrava accendere il mio amore per Frederic ed ogni abbraccio pareva farmi amare ancora di più la natura e l’arte di quella terra meravigliosa.

Fui felice, come non lo ero mai stato, nemmeno a Winsted: scoprii una pienezza dei giorni che mi abbagliò.

Frederic fu davvero un’ottima guida ed io gli ero grato delle meraviglie che mi faceva scoprire ogni giorno e che mi riempivano gli occhi ed il cuore. Era lui a decidere l’itinerario: io rinunciai senza nessun rimpianto a vedere alcune località che mi interessavano. Avrei potuto visitarle in un viaggio successivo, oppure al ritorno ed in ogni caso non potevo immaginare di vedere tutto. Troppe erano le cose belle, forse nemmeno una vita intera spesa a girare sarebbe stata sufficiente.

 

In Toscana ed in Umbria rimanemmo oltre un mese, per poi spostarci a Roma.

La mattina dopo il nostro arrivo nella capitale si verificò un episodio che provocò un certo turbamento in me.

Ero sceso a colazione ed aspettavo Frederic. Nella stanza c’erano alcuni altri ospiti, soprattutto francesi: Frederic era ben contento di evitare gli alberghi frequentati da inglesi ed americani, parendogli in quel modo di avere una maggiore libertà, ma non desiderava rinunciare alle comodità quando viaggiava. Per cui di solito sceglievamo alberghi in cui trovavamo tedeschi e francesi.

Frederic scese poco dopo di me e, mentre passava accanto ad un tavolo a cui erano seduti due uomini, lo vidi ammiccare verso di me e sorridere. Quando fu seduto, mi spiegò:

- Sai che cosa ha detto quel tipo con i baffi di te? “Qui est ce dieu grec? Apollon? Ou le jeune Dionysos? On pourrait bien s’énivrer de ce jeune homme .”

Guardai Frederic stupito. L’idea che qualcuno mi paragonasse ad un dio greco mi pareva irragionevole. Non mi ero mai considerato bello o forse, più esattamente, non mi ero mai posto la domanda: può sembrare assurdo, ma se qualcuno mi avesse chiesto se ero bello o no, non avrei saputo rispondere. O, meglio: avrei risposto di no, per modestia, ma dentro di me non avrei saputo dire se pensavo che fosse la verità o no. Mia madre era molto bella, come pure Edith. Mio padre aveva lineamenti regolari, anche se forse non si poteva definire un bell’uomo. Henry era stato un bel giovane, o almeno così mi pareva, ma si era rapidamente trasformato. Ed io?

Quanto ad ubriacarsi di me… Che senso aveva? Io ero ubriaco di Frederic ed avrei voluto che lui lo fosse di me. Ma che qualcuno vedendomi potesse pensare una cosa del genere… Era assurdo.

- Non si riferiva di certo a me, Frederic, lo sai benissimo.

Frederic assentì, fingendo di concordare. Poi disse:

- Ma certo, che sbadato! Mi era sembrato che guardasse verso di te. Ma di sicuro stava guardando monsieur Lafitte. Davvero un giovane dio…

Monsieur Lafitte era un settantenne di Parigi, che avevamo incontrato la sera prima. Doveva essere stato un bell’uomo in passato, ma in effetti non poteva più essere paragonato ad un dio greco. Altri uomini non erano presenti nella sala.

- Dai, non mi prendere per il culo.

Avevo di solito un linguaggio molto morigerato, a differenza di Federic, ma stando con lui mi piaceva ogni tanto, non solo quando eravamo in camera, usare qualche espressione più forte: mi pareva che sottolineasse la nostra complicità. Era un modo innocuo, che neppure Frederic avrebbe potuto rimproverarmi, di far riferimento all’intimità che esisteva tra di noi. Lui non ci badava, essendo abituato, in compagnia maschile, ad esprimersi con una certa libertà.

Frederic proseguì, parlando pianissimo, anche se gli altri tavoli erano piuttosto lontani:

- Credo che sia il signore che vorrebbe prendere il tuo culo. Probabilmente sarebbe disposto ad una cosa a quattro o ad uno scambio…

Guardai Frederic esterrefatto. Nonostante la libertà di pensiero che ritenevo mi caratterizzasse, l’idea di “una cosa a quattro” non mi era mai passata per la mente. Quanto allo “scambio”, non avrei saputo dire se mi sembrava più o meno ripugnante della “cosa a quattro”. Neppure nei discorsi degli amici di Henry, a Winsted, avevo sentito accennare a cose del genere: al massimo qualcuno si vantava di essere andato con due prostitute contemporaneamente.

Frederic capì il mio imbarazzo e scoppiò a ridere.

- Non fare quella faccia, Roger. Sembri un suddito di Sua Maestà Vittoria, per grazia di Dio regina d’Inghilterra ed imperatrice delle Indie.

Poi aggiunse, di nuovo pianissimo:

- Ma i fedeli sudditi di Sua Maestà sono ben felici di fare i maiali quando nessuno li vede. Che ne dici? Potresti provare qualche cosa di nuovo…

Tutto il discorso di Frederic mi disorientò. Proprio Frederic, che non voleva nemmeno che lo sfiorassi in pubblico, ora parlava di queste cose nella sala di un albergo: com’era possibile? Che cosa gli faceva dimenticare la sua abituale riserva?

L’idea sembrava non dispiacergli per niente. Quasi pareva volermi incoraggiare a provare.

Tagliai corto alla discussione, che mi infastidiva:

- Smettila di scherzare e lascia perdere quei due.

Frederic mi guardò ghignando e non tornò sull’argomento. Prima di lasciare il tavolo, aspettai che i due si fossero alzati: volevo evitare di incrociarli.

Quel giorno le meraviglie di Roma mi fecero dimenticare completamente il piccolo incidente. Nel pomeriggio, durante una camminata nel cuore della città, sbucando da un vicolo mi trovai inaspettatamente di fronte la fontana di Trevi. Mi sentii sopraffare dall’emozione e, senza rendermene conto, afferrai di nuovo la mano di Frederic, come avevo fatto a Torino. Frederic sibilò:

- Roger!

Ritrassi la mano, colto improvvisamente da una tristezza profonda. Ma quel momento di amarezza si dissolse in fretta: lo imputai alla società del tempo, non a lui, che ne era vittima. Aveva ragione a fare attenzione ed io ero stato imprudente, per quanto quel gesto potesse essere innocente. Mi tornò però in mente la discussione del mattino, nella sala dell’albergo, e mi sentii a disagio.

La bellezza di Roma in autunno mi fece dimenticare l’accaduto e la sera nell’abbracciare Frederic il mio corpo vibrava dell’acqua scrosciante della fontana e dell’immensità della cupola del Panteon, della grande scalinata di Trinità dei Monti e del dolce panorama che dalla chiesa abbracciava tutta la città. Avevo sentito parlare di Venezia come della città degli amanti, ma mi sembrava che nulla potesse essere più adatto a noi della dolcezza di Roma in autunno.

 

Il mattino seguente, quando scesi a colazione, un po’ dopo Frederic, lo trovai intento a chiacchierare con i due francesi. Avevano fatto amicizia e la cosa mi diede fastidio. Frederic fece le presentazioni e conobbi così i signori Nodier e Viaud. Non potevo esimermi dal salutarli, ma manifestai chiaramente l’intenzione di non prolungare la conversazione, dirigendomi al nostro tavolo subito dopo aver scambiato due parole di cortesia. Frederic capì benissimo e non ritornò sull’argomento, ma lo vidi parlare anche altre volte con i due francesi.

Un giorno Frederic mi disse che ci avevano invitato a fare un’escursione alla Villa Adriana a Tivoli. Avevo sentito parlare di questa residenza dell’imperatore Adriano ed avevo avuto modo di vedere alcune incisioni di un grande artista del Settecento, il Piranesi: l’idea di visitare la Villa non mi spiaceva per nulla, ma non avevo nessuna voglia di visitare la località in compagnia dei due stranieri.

Lo dissi chiaramente a Frederic, che però mi fece osservare che non avevamo motivi per rifiutare.

- Sono in visita come noi, abbiamo scambiato alcune parole insieme, sono stati tanto gentili da invitarci a condividere la loro carrozza. Perché non andare?

Facevo fatica a trovare una motivazione valida: non avevano detto o fatto nulla che potesse giustificare la mia antipatia. Mi rendevo conto che preferivo evitarli perché ciò che Frederic aveva detto di loro mi aveva alquanto turbato e non volevo certo mettermi nelle condizioni di appurare se le parole di Frederic fossero state solo uno scherzo o un modo di saggiare le mie reazioni.

- È proprio necessario?

Frederic sorrise:

- Temo di sì, mio giovane amico poco socievole. Ma non ti preoccupare…

Si guardò attorno ed abbassò la voce:

- …mi hanno promesso di non saltarti addosso appena saremo in carrozza… Si sono impegnati ad aspettare finché saremo arrivati a Tivoli.

Frederic rise, io no. La sua battuta rafforzò il mio senso di disagio.

Il giorno dopo partii di malumore, ma intenzionato a nascondere il mio stato d’animo per non apparire sgarbato. In realtà la giornata trascorse piacevolmente. Il signor Nodier, che aveva pronunciato la frase udita da Frederic, conosceva molto bene la storia dell’Impero Romano e durante il viaggio ci parlò dell’imperatore Adriano e della villa che si era fatto costruire a Tivoli. Parlava bene l’inglese, con un leggero accento francese.

Era un uomo di grande cultura, ma non appariva saccente e non tendeva a monopolizzare la conversazione. Il viaggio si rivelò gradevole e la mia irritazione svanì.

Giunti a Tivoli, esplorammo le rovine della villa. Quel sito solitario mi colpì moltissimo, più degli stessi Fori Imperiali. La quiete del luogo, dove pochissimi visitatori parevano spingersi, e l’imponenza delle rovine, che testimoniavano sia l’antico splendore, sia l’azione devastatrice del tempo, mi affascinarono. Mi persi in riflessioni sulla caducità di tutto ciò che l’uomo crea e sulla bellezza che svanisce.

Il signor Nodier sembrò cogliere perfettamente il mio stato d’animo.

- Quale splendida incarnazione delle parole del libro di Qoelet: Tutto è come un soffio di vento: vanità, tutto è vanità.

Annuii. Non c’era nulla da aggiungere. Nodier aveva espresso perfettamente ciò che provavo. Ma mi sembrava scortese non rispondergli.

- Pensare che di qui un grande imperatore governava un immenso impero. Che cosa deve essere stata questa villa... E che ebbrezza la coscienza di dominare il mondo.

Nodier sembrò riflettere.

- Tutto il dominio del mondo non bastava di certo a ripagare Adriano della perdita del giovane che aveva amato.

Non sapevo nulla degli amori di Adriano e, sentendo un riferimento all’amore per un giovane, mi misi sulla difensiva. Chiesi:

- Davvero? Non ne so nulla.

- Adriano riempì l’impero di statue del giovane Antinoo, istituì perfino un culto in suo onore, ma la più perfetta delle statue non può restituire il calore di un corpo, l’ebbrezza dei sensi.

Ero leggermente a disagio, ora, ma Nodier appariva sereno e distaccato. Chiesi:

- Come morì Antinoo?

- Affogato. Forse suicida.

- Ma lei dice che Adriano lo amava.

- Adriano lo amava alla follia e forse era questo a spaventare quel giovane. Il tempo ci mette molto meno a distruggere la perfezione di un corpo di quanto impieghi a trasformare una città in un cumulo di rovine. Essere amati da un imperatore, essere tutto per lui, e sapere che verrà un tempo in cui la bellezza svanirà, la giovinezza volerà via… Sì, credo davvero che Antinoo scelse di morire. Meglio morire ed essere rimpianto che vivere ed essere dimenticato…

Lo interruppi con foga:

- Ma se si ama davvero, si rimane insieme, si affronta insieme la vecchiaia, come tutti i dolori della vita. Non c’è solo la bellezza, la giovinezza! L’amore va oltre, altrimenti che amore è?

Il signor Nodier mi guardò, pensieroso. Mi sentii a disagio sotto quello sguardo scrutatore. Poi annuì.

- Sì, può essere così. Per lei sì. Le auguro di trovare qualcuno che abbia un’anima bella come la sua.

Avrei voluto rispondere che l’avevo già trovato, che io e Frederic ci amavano, che… Poi pensai che non sapevo che cosa ci riservava il futuro, che tra qualche mese il nostro viaggio insieme sarebbe finito. Ma non era quello ad impedirmi di replicare. Era la sensazione che il signor Nodier sapesse benissimo qual era il rapporto tra me e Frederic e avesse parlato intenzionalmente.

Chinai la testa e dissi solo:

- Grazie.

Nodier mi guidò ad ammirare altre rovine. Non vidi da nessuna parte Frederic ed il signor Viaud, ma Nodier non sembrò stupirsene. I nostri compagni di escursione ricomparvero solo alla fine della visita. Erano entrambi molto allegri e durante il viaggio di ritorno sostennero loro la conversazione. Nodier era pensieroso ed interveniva poco. A tratti mi guardava, ma se i nostri occhi si incrociavano, voltava il viso verso il finestrino. Quando ci salutammo, mi strinse calorosamente la mano e mi sorrise, augurandomi:

- Buona fortuna!

 

Due giorni dopo Frederic mi disse che non si sentiva molto bene e che contava di rimanere in albergo. Gli risposi che gli avrei tenuto compagnia, ma Frederic si oppose risolutamente, dicendo che preferiva riposare senza avere in camera un “animale in gabbia”. Insistette che io facessi il mio giro e andassi a vedere San Paolo fuori dalle mura, come avevamo progettato.

Accondiscesi alla sua richiesta: l’idea di un pomeriggio in camera non mi entusiasmava e Frederic non appariva certo malato. Pensai anche che volesse semplicemente un po’ di libertà e di riposo: io che non avevo mai visitato l’Italia tendevo a non fermarmi mai, desideroso di vedere tutto. Per lui, che conosceva già Roma, un pomeriggio di tranquillità in albergo poteva essere più attraente del rivedere una chiesa.

Quella sera Frederic mi disse che si sentiva benissimo e insistette perché cenassimo insieme con i due francesi. Durante la cena, mi sembrò che tra loro ci fosse una maggiore familiarità. Un’allusione ironica fatta dal signor Viaud a qualche cosa che era stato detto o fatto nel pomeriggio mi lasciò perplesso: evidentemente dovevano essersi parlati. Non c’era nulla di strano, ma mi venne il dubbio che Frederic fosse rimasto in albergo proprio per incontrarli e potersi muovere liberamente con loro o almeno con Viaud. Era un’idea fastidiosa, che mi rifiutai di accettare: mi dissi che ero meschino a pensarlo, che non dovevo essere un’anima bella, come diceva Nodier.

L’episodio non ebbe seguito. Qualche giorno dopo partimmo per Napoli e non avemmo più occasione di incontrare i due francesi.

Napoli e la Sicilia ci regalarono un periodo di assoluta gioia.

 

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A febbraio decidemmo di raggiungere l’Egitto: non potevamo attendere oltre, se volevamo evitare la gran calura estiva. Da Palermo ci imbarcammo per Alessandria e per la prima volta in vita mia raggiunsi l’Africa.

Entrambi volevamo spingerci fino ad Abu Simbel, ma Frederic desiderava visitare l’oasi di Siwa, di cui alcuni suoi amici gli avevano fatto descrizioni entusiastiche. Non avevo mai sentito parlare di quell’oasi, ma il deserto mi attirava, per cui lasciai che ancora una volta Frederic decidesse l’itinerario. Quella visita del tutto al di fuori degli itinerari consueti mi attraeva.

In effetti l’oasi non era una meta turistica e la sistemazione che trovammo era molto spartana. Dormivamo nella stessa camera. Frederic, di solito piuttosto esigente in fatto di comodità e pulizia, si accontentò senza eccessive rimostranze.

A me che non avevo mai visto un’oasi e che stavo appena incominciando a scoprire l’Egitto, Siwa piacque molto. Le case in fango, le distese di palme, le pozze d’acqua nel deserto, le giovani donne che indossavano monili d’argento: tutto per me era nuovo e mi affascinava. Scoprivo un modo di vivere lontanissimo dalla New York che conoscevo, ma anche dall’Italia che avevo visitato. Viaggiatore curioso delle novità, ero pienamente soddisfatto di quel paese sperduto in cui ero capitato. Non capivo invece che cosa potesse attrarre Frederic, che solitamente era assai più interessato all’arte ed alla storia che alla natura e non sembrava entusiasta di ciò che vedeva: le poche rovine o la Montagna dei Morti non potevano certo competere con ciò che avevamo visto in Italia.

Esplorammo il deserto intorno all’oasi, fermandoci anche a dormire all’aperto in alcune occasioni. Vi erano rilievi rocciosi, coronati da una foresta di guglie e pinnacoli, ma fu soprattutto la distesa di dune a regalarmi un’altra delle grandi emozioni di quel viaggio. Amavo il tramonto, quando il sole abbagliante si abbassava e le dune proiettavano grandi ombre. Ma amavo soprattutto le notti, che mi svelavano distese infinite di stelle, come mi pareva di non avere mai visto. Sulle Alpi avevo ritrovato il cielo stellato che avevo imparato ad amare a Winsted, ma il profilo aguzzo delle montagne me ne lasciava vedere solo una grande striscia. Qui l’orizzonte era piatto e potevo vedere l’intera volta celeste, trapunta di innumerevoli luci. Rimanevo ore a guardare quel cielo sconfinato.

E più di tutto mi colpì il silenzio, assoluto, come non l’avevo mai conosciuto. Le notti a Winsted o nei boschi che avevo percorso avevano il gracidare delle rane, il soffio lontano del vento, lo scroscio dell’acqua di un torrente, i versi degli uccelli notturni: il silenzio era solo assenza di voci umane o di rumori prodotti dall’uomo. Ma nel deserto, quando non soffiava il vento, il silenzio era assoluto, una presenza tanto forte da sgomentare.

Frederic ammirava il cielo, ma si addormentava rapidamente ed il mattino si lamentava della scomodità del giaciglio, rimpiangendo la relativa comodità del letto. Io sarei rimasto settimane intere nel deserto, fino a che il caldo non me ne avesse scacciato, come la neve mi aveva costretto a lasciare le Alpi.

Quando eravamo nell’oasi, Frederic spesso girava da solo o rimaneva nella locanda quando io uscivo. Rispettai il suo desiderio di stare per conto proprio: erano diversi mesi che vivevamo sempre l’uno accanto all’altro e capivo che potesse desiderare una maggiore libertà. Quanto a me, avrei continuato a dividere con lui ogni attimo: ero innamorato e felice. Solo a tratti pensavo che alla fine del viaggio in Egitto Frederic sarebbe tornato in Inghilterra e l’idea della separazione, ormai non più lontana, mi angosciava.

Dopo alcuni giorni di esplorazione, Frederic tornò molto animato da una delle sue passeggiate e mi disse:

- C’è una grande festa questa sera.

- Cosa? Una festa qui?

Per un attimo mi vennero in mente le serate di danza a New York e non capivo che festa potesse esserci in quell’oasi. Poi mi diedi dello stupido: non era certo un ricevimento in una sala da ballo. Probabilmente gli abitanti del paese si sarebbero ritrovati in uno spiazzo, come nei paesi.

- Certo, un grande festeggiamento a cui parteciperanno i braccianti ed i figli dei proprietari terrieri. Siamo invitati anche noi.

Non chiesi chi ci avesse invitati. Pensai che fosse stata la stessa persona che aveva informato Frederic e non mi sembrò strano: la gente era molto cordiale nei nostri confronti, probabilmente anche perché eravamo gli unici stranieri presenti nell’oasi.

 

La festa in effetti si teneva all’aperto. Mi stupì vedere che c’erano soltanto uomini, quasi tutti molto giovani, ma poi riflettei che eravamo in un paese musulmano e probabilmente le donne non si mescolavano facilmente alla folla in occasioni come quella.

Su un lato della piazza un gruppo di musicisti si preparava a suonare e mi dissi che, più che una festa, sarebbe stato un concerto: l’idea mi piaceva, perché ascoltavo volentieri quelle melodie, così diverse dalla musica europea. In un angolo veniva distribuita in grande quantità una bevanda ricavata dal cuore di palma: era alcolica e questo mi sorprese, visto che il Corano proibiva il consumo di alcolici.

Presto i suonatori incominciarono ad eseguire brani molto allegri, che mettevano in corpo una gran voglia di ballare. Gli uomini bevevano e poi si lanciavano nelle danze, da soli o in gruppo. Accanto ai musicisti un uomo, con una voce profonda, cantava. Spesso altri si univano a lui, sempre più numerosi man mano che l’alcol scioglieva le lingue.

Mi piaceva quella festa popolare, anche se mi sentivo un po’ a disagio. Più d’uno mi invitò a ballare e ad un certo punto, superando le remore, mi lanciai anch’io nelle danze, cercando di imitare le movenze degli altri. Non era difficile per me, che avevo sempre avuto un grande senso del ritmo, ma ben presto mi trovai circondato da un cerchio di spettatori che battevano le mani a tempo e mi incoraggiavano. Partecipare ad una danza era una cosa, dare spettacolo era un’altra, per cui quando i musicisti si fermarono, feci capire che volevo riposare e mi allontanai.

In quel momento mi accorsi che l’atmosfera era cambiata. Vedevo uomini abbracciati e, ai margini della piazza, più di una coppia si baciava. Guardai Frederic sbalordito e lo vidi sorridermi e strizzarmi l’occhio. Mi invitarono ancora a ballare e mi versarono da bere, ma qualche cosa era scattato in me: non riuscivo più a partecipare serenamente ed osservavo con una certa inquietudine le effusioni che avvenivano sotto gli occhi di tutti. Vidi diversi uomini allontanarsi a due a due, tenendosi per mano o addirittura abbracciati. Seguii con gli occhi una danza a coppie che mi parve molto lasciva. Volevo sentire che cosa ne pensava Frederic, ma quando mi voltai verso di lui, mi accorsi che era scomparso. Aveva deciso di tornare alla locanda, senza dirmelo? Si era mescolato alla folla? Mi guardavo intorno, senza vederlo.

Molti uomini avevano bevuto. Diversi di loro mi rivolgevano parole che non capivo e ridevano. Uno mi disse qualche cosa, poi baciò sulla bocca un suo compagno e mi parlò di nuovo, come a chiedermi se avessi capito. Compresi che la festa stava diventando un’orgia e che non mi sarebbe stato possibile rimanere oltre senza parteciparvi. Mi alzai, finsi di andare a servirmi da bere, ma presi la via che portava verso la locanda. Non fu così facile lasciare la festa: lo straniero biondo era al centro dell’attenzione. Un uomo mi bloccò, prendendomi per il braccio. Lo guardai fisso negli occhi e mi lasciò andare. Qualcuno mi gridò dietro qualche cosa. Vidi che un gruppetto mi stava seguendo. Accelerai il passo, evitando però di mettermi a correre, e raggiunsi la locanda dove alloggiavamo. Sentii schiamazzare davanti all’uscio, ma il clamore si spense presto. Rinunciarono allo straniero e di certo non faticarono a trovare altri più disponibili.

Frederic non era in camera, ma non mi ero aspettato di trovarlo. Frederic doveva sapere di che festa si trattava prima di andarci. Dov’era? Con chi era? La domanda mi faceva male. Mi scoprivo geloso e questo mi sembrava meschino. Frederic era libero di fare quello che voleva.

Nello stesso tempo ero preoccupato, temevo che potesse essergli successo qualche cosa: nei visi degli uomini avevo colto una tensione che sarebbe potuta sfociare in un gesto violento. Non riuscivo a prendere sonno. Solo quando lo sentii rientrare, dopo l’alba, mi tranquillizzai e potei addormentarmi.

Il giorno dopo ci alzammo molto tardi, entrambi ancora assonnati. Io non dissi nulla, non chiesi nulla.

Frederic sorrideva, ma a me sembrava di cogliere una nota falsa in quel sorriso.

- Com’è andata la festa? Hai gozzovigliato fino all’alba?

Risposi, simulando indifferenza:

- No, sono rientrato dopo che non ti ho più visto. Non mi andava come mi guardavano tutti.

Frederic rise.

- In queste oasi ci sono cento uomini per ogni donna e quelle poche che ci sono, se ne stanno chiuse in casa. Un giovane dio greco, per di più biondo, può ubriacare molti di questi braccianti.

Frederic citava la frase di monsieur Nodier e questo mi diede fastidio, anche se non avrei saputo spiegare il perché. Non risposi, per non tradire la mia irritazione. Ci fu un momento di silenzio. Non chiesi, non osavo chiedere. Frederic proseguì:

- Io devo essermi ubriacato: mi sono addormentato contro un muro in un orto lì vicino e mi sono svegliato solo quando è spuntato il sole. Che cazzo ci sarà in quella bevanda che ci hanno fatto ingurgitare?

Frederic mentiva. Lo sentivo, con assoluta certezza. Non dissi nulla. Lasciai che il mio silenzio avvalorasse la menzogna. Credo che Frederic sapesse benissimo che sospettavo, ma anche per lui era più facile così.

Quel giorno dovevamo partire per un altro dei nostri giri nella regione. Fui ben felice di lasciare l’oasi e di raggiungere il deserto bianco. Non avevo mai visto nulla di simile: rocce di un biancore abbagliante si innalzavano su un oceano di sabbia dorata. Il tramonto regalava per un breve attimo riflessi rosati a quelle formazioni fantastiche.

Tornammo a Siwa tre giorni dopo. Ormai non vedevo più motivo per prolungare la nostra permanenza. Mi sentivo a disagio. Chiesi a Frederic se non riteneva fosse giunto il momento di partire: ormai avevamo visto quanto c’era da vedere. Frederic tergiversò un po’, poi mi parlò di una seconda festa, che si sarebbe tenuta la sera seguente.

- La prima l’ho passata a dormire. La seconda vorrei vedere come va avanti.

Le sue parole suonavano false. Gli risposi, guardandolo fisso:

- Va a finire che scopano. Bevono, ballano e scopano.

Frederic cercò di sorridere. Aveva colto la mia irritazione.

- Va bene, allora dev’essere molto divertente.

Non parlammo più della festa, ma non partimmo.

La sera della festa, Frederic sembrava dare per scontato che avremmo partecipato entrambi, come la volta precedente. Io gli dissi che non avevo nessuna voglia di andarci. Frederic non cercò di convincermi: probabilmente se l’aspettava e si sentiva più libero senza di me. Quando incominciammo a sentire i tamburi, uscì, dicendo:

- Vado a vedere com’è.

Non disse quando contava di tornare. Non gli posi domande.

Rimasi in camera: sapevo che cosa sarebbe successo se fossi uscito, anche senza dirigermi verso lo spiazzo dove si teneva la festa. Avrei comunque incontrato degli uomini, avrei ricevuto degli inviti: non avevo voglia di rifiutarli, né tanto meno di accettarli.

Disteso sul letto, cercavo di capire. Frederic aveva voglia di provare qualche cosa di diverso, probabilmente la grande libertà di quelle feste lo attraeva: abituato a controllare perennemente i suoi gesti, qui poteva seguire i suoi desideri senza remore e preoccupazioni. Aveva voglia di conoscere altri uomini, di divertirsi. Sapevo che in questi rapporti non entravano di certo i sentimenti, ma io lo vivevo male. Io non avrei mai potuto farlo. Amavo Frederic e gli altri uomini non mi interessavano. Ma non potevo pretendere che Frederic fosse fatto come me.

Il mio pensiero non riusciva a procedere: sembrava arrotolarsi su se stesso, come un serpente che si morde la coda. Mi dissi che ne avrei parlato con Frederic, perché non aveva senso lasciare questa cosa in sospeso tra noi, ma decisi anche che sarei partito il giorno seguente. Con Frederic o senza di lui. Non mi passava nemmeno per la testa l’idea di separarmi da lui: ero innamorato e volevo rimanere con lui fino al suo ritorno in Inghilterra. Ma non intendevo restare in quell’oasi, in cui le differenze tra di noi creavano tensioni.

Il mattino dopo affrontai l’argomento.

- È andata bene la tua serata?

Frederic mi guardò. Sorrideva, ma capivo che era incerto, non sapeva bene dove volessi andare a parare e temeva una reazione negativa.

- Sì, è stata divertente.

- Divertente?

Cercò di ignorare l’ironia nella mia voce, ribadendo:

- Divertente, piacevole.

Poi sbuffò e disse:

- Santo cielo, Roger, non farne un dramma: queste cose non hanno nessuna importanza. Che male c’è se uno si diverte un po’? In questa merda di mondo dobbiamo sempre guardarci alle spalle, qui si può essere liberi. Avresti dovuto venire anche tu…

- Non mi interessava, Frederic. A me basti tu.

- Roger, per favore! Sto benissimo con te, ma anche un marito ogni tanto può spassarsela un po’, no? Te l’ho detto, non conta niente. Il giorno dopo non sai nemmeno più con chi hai scopato…

A me sembrava assurdo avere un rapporto con qualcuno di cui il giorno dopo non ti ricordi nemmeno la faccia. Per me sesso e sentimento erano strettamente legati, ma capivo che per Frederic non era così.

Frederic cambiò tono. Fece due passi verso di me e mi disse:

- Roger, ci tengo a te, moltissimo. Per favore, non fare il marito musulmano che vuole chiudere la moglie nell’harem…

Ridacchiò, nervoso. Mi prese tra le braccia e mi baciò sulla bocca. Per un momento rimasi rigido, ma poi cedetti e ricambiai la stretta. Mi dissi che non dovevo dare importanza a quello che era successo: era davvero una cosa insignificante, perché non riguardava i sentimenti. Ciò che contava realmente era quello che provavamo l’uno per l’altro. Forse dovevo imparare anch’io a liberarmi dalla mia educazione moralistica.

Chiusi gli occhi e mi abbandonai completamente al suo abbraccio.

Quando però ci staccammo, gli dissi:

- Frederic, quello che è stato, è stato, ma io oggi parto per Alessandria.

- Roger, ma che cazzo… Perché mai? Te ne vuoi andare…

- Vorrei che ce ne andassimo insieme, ma se tu vuoi rimanere, ti aspetto ad Alessandria.

- Che senso ha andare ad Alessandria? Quella città è un buco di culo, non c’è niente di interessante.

- Frederic, qui non rimango.

- Tra meno di due mesi devo partire. Godiamoci questi giorni

Per la prima volta non mi piegai in nessun modo alle richieste di Frederic, che sarebbe volentieri rimasto ancora qualche giorno. Non intendevo attendere una terza festa. Preferivo essere lontano e non sapere.

Frederic si rassegnò, a malincuore. Gli fui grato di aver accettato di partire. Mentre ci dirigevamo verso Alessandria, riflettevo su ciò che era accaduto. Per me il legame che ci univa escludeva un rapporto sessuale con chiunque altro, ma per Frederic non era così. Ero io ad avere una visione ristretta, meschina, della coppia? La mente mi diceva che forse Frederic aveva ragione, ma una parte di me, avrei voluto dire il mio cuore, gridava che non era così. Non sapevo che cosa pensare. Mi dissi che avrei cercato di affrontare l’argomento con Frederic, ma non trovai mai il momento giusto. In realtà, preferivo non parlarne, avevo paura di ciò che sarebbe potuto emergere. Scelsi di lasciare svanire le paure e i dubbi, senza affrontarli. Frederic era accanto a me, aveva accettato di venire via con me. Questo solo contava.

Frederic non mi fece mai pesare la partenza da Siwa: non fece allusione a quanto era successo e si rassegnò di buon grado. Anche di questo gli fui grato. Mi fu molto più facile accantonare l’argomento, dimenticare quello che era successo.

Iniziammo a scendere lungo il Nilo verso il Cairo, scoprendo le meraviglie dell’Egitto. Davanti alle piramidi mi sentii sopraffare dall’emozione. Avevo provato sensazioni simili sulle Alpi o davanti alle cascate del Niagara, nel deserto o nell’oceano, ma mai davanti ad opere dell’uomo. Neppure la grandiosità del Colosseo o di San Pietro mi avevano trasmesso quella vertigine. La guida che ci aveva accompagnato fino lì ripeteva un vecchio modo di dire:

- Ogni cosa teme il tempo, ma il tempo teme le piramidi.

Mi sembrava che avesse ragione

Mi inerpicai sulla grande piramide con uno spirito non dissimile da quello con cui ero salito sulle Alpi. E di lì, contemplando il deserto e la città, il Nilo e la Sfinge, provai nuovamente un senso di stordimento. Se Frederic fosse stato accanto a me, credo che lo avrei abbracciato, suscitando le sue proteste, ma era rimasto alla base, preferendo evitare quella salita “da capre”, come l’aveva definita.

Dal Cairo navigammo lungo il Nilo fino a Luxor. Non ho mai scordato l’arsura e la pienezza di quei giorni, la quiete infinita di quelle notti, il vento tempestoso del deserto, i maestosi monumenti davanti a cui non c’erano parole.

L’episodio di Siwa si dissolse, una bolla di sapone che svanì in fretta. Mi dissi che davvero Frederic aveva ragione: ero io ad avere una visione limitata della vita.

Vissi quei giorni con Frederic ben conscio che erano gli ultimi e la certezza che la mia felicità stava per avere termine dava ad ogni momento un’intensità maggiore. Avrei voluto fermare il tempo, ma la sabbia che invadeva i templi, le sculture che non avevano più contorni precisi, gli obelischi abbattuti, le pitture cancellate dal passare dei secoli, tutto mi gridava la caducità della vita umana e della felicità.

Giungemmo a Luxor, che mi parve uno scrigno di meraviglie. Visitammo i templi e poi attraversammo il Nilo per raggiungere il cantiere diretto da Philippe Cabrera, che stava conducendo una campagna di scavi nell’area. Al nostro arrivo ad Alessandria gli avevo scritto una lettera per annunciargli la nostra visita.

Philippe Cabrera ci accolse con grande cortesia e si offrì di farci da guida nella Valle dei Re. Visitare con lui le tombe scavate fu un’esperienza affascinante: sembrava conoscere tutto dell’antico Egitto, ma non ostentava la sua erudizione e si limitava a fornirci le informazioni essenziali per comprendere ciò che vedevamo, fermandosi a volte su un dettaglio o raccontando un aneddoto.  

Su mia richiesta, Philippe ci illustrò lo scavo che stava dirigendo e fu un’altra esperienza affascinante: non mi ero mai posto molte domande sul lavoro degli archeologi, che ancora mi capitava di chiamare antiquari.

Philippe ci invitò anche a casa sua: aveva acquistato una vecchia abitazione egiziana. L’aveva in parte trasformata, dotandola di alcune comodità europee, ma conservandone nell’architettura e nell’arredamento l’aspetto arabo.

I giorni a Luxor furono felici e mi parve che volassero via: mi regalavano emozioni forti, ma fuggivano veloci come il vento. C’erano momenti in cui l’angoscia mi assaliva e mi sembrava che non avrei potuto reggere la separazione incombente.

Tutto sembrava perfetto e scorreva senza ostacoli verso la fine, come un fiume verso una cascata.

Di quei giorni ricordo un unico momento in cui avvertii nuovamente il diverso modo di porsi di Frederic.

Eravamo a cena in un locale. Ad un altro tavolo c’erano due europei, che stavano parlando. Mi colpì soprattutto uno dei due: aveva un bel viso scurito dal sole, in cui spiccavano due grandi occhi grigi, capelli biondi e barba anch’essa bionda, ma di una sfumatura un po' più scura. Ripensai alla frase di monsieur Nodier che Frederic mi aveva riferito: quello era davvero un dio greco, non io di certo.

Ad un certo punto lo vidi sollevare una mano verso la capigliatura dell’altro e togliergli una pagliuzza impigliata tra i capelli. C’era una tale tenerezza in quel gesto, nei suoi occhi, nel suo sorriso, che fui assolutamente sicuro del legame che univa quei due uomini. E li invidiai, perché mai Frederic mi avrebbe permesso un gesto come quello.

Proprio in quel momento sentii Frederic ringhiare:

- Dovrebbero fare più attenzione, quei due. Credono che nessuno li veda. Gli si legge in faccia quello che sono.

Non smisi di guardarli, mentre gli rispondevo:

- Sì, gli si legge in faccia che sono felici e si amano. Ma non hanno fatto nulla di sconveniente, Frederic.

Solo quando ebbi espresso il mio pensiero, mi voltai verso di lui. Frederic mi stava guardando, con una smorfia in faccia, poi scrollò le spalle. Il suo comportamento mi infastidì, ma non cercai di discuterne con lui. Quasi mai succedeva che lo contrariassi su questi argomenti: certo, ci era capitato di trovarci in disaccordo su un’opera d’arte o un paesaggio, ma per quanto riguardava la vita sociale, tendevo ad adeguarmi alle sue posizioni.

Adesso osservavo questi due uomini che non si vergognavano del loro amore e riflettevo che nell’ossessione di Frederic per il buon nome c’era qualche cosa di eccessivo: una cosa era sfidare apertamente la società, un’altra essere assillati dalla paura che qualcuno sospettasse.

Non ci avvicinammo ai due, che però avemmo occasione di rivedere durante le nostre visite. Soltanto tre sere dopo Philippe Cabrera ce li presentò. Lord Gerald Becker e William Bronson trascorrevano ogni anno sei mesi in Egitto. Becker era un appassionato di studi antiquari ed aveva finanziato una campagna di scavi di Philippe.

Cenammo con loro a casa di Philippe. Non era la prima coppia maschile che incontravamo nei nostri viaggi: oltre a Nodier e Viaud a Roma, Frederic, più attento di me in questo, aveva più volte individuato due uomini che secondo lui non erano solo amici. Qualcuna delle coppie incontrate aveva anche dimostrato un certo interesse per noi, ma io mi tenevo istintivamente alla larga.

Becker e Bronson, per quanto cortesi, non sembravano interessati ad approfondire la nostra conoscenza. Il loro comportamento confermava la mia impressione di una coppia che bastava a se stessa: si amavano e non cercavano altri, pur essendo socievoli. Mi piacquero moltissimo.

 

Ci spingemmo ancora fino alla prima cateratta del Nilo e ad Abu Simbel, poi ritornammo a Luxor, dove ritrovammo Philippe. Avevamo poche settimane, le ultime settimane di felicità. Ormai mi sentivo un condannato a morte. Mi pareva impossibile che quell’amore, che sentivo pulsare, vivo, nelle mie vene, potesse venire reciso. Non potevamo separarci così.

Un’idea veniva maturando dentro di me, acquistando contorni sempre più precisi. Più ci pensavo, più mi sembrava l’unica via percorribile: non ce n’erano altre, non poteva finire in quel modo, io in partenza per la Grecia, Frederic per Londra. Man mano che il giorno della separazione si avvicinava, io mi sentivo sempre più angosciato e vedevo che anche Frederic soffriva. Ogni tanto faceva riferimento al ritorno ormai prossimo.

- Merda, quando penso che tra due mesi…

Mancavano tre settimane alla data in cui avremmo dovuto lasciare Luxor per raggiungere Alessandria e imbarcarci.

Philippe Cabrera stava per partire per tornare in Francia. Ci invitò a cena. Il giorno seguente si sarebbe ancora recato agli scavi e due giorni dopo avrebbe lasciato Luxor, per raggiungere Alessandria ed imbarcarsi per Marsiglia.

Il commiato mi rese malinconico: non era la partenza di Philippe a rattristarmi, ma l’idea che presto anche per noi sarebbe giunto il momento di partire e di separarci.

Il pomeriggio seguente, mentre ero in camera con Frederic, trovai il coraggio di formulare il progetto che ero andato maturando:

- Vengo a Londra con te, Frederic. Ho ancora alcuni mesi e possiamo trascorrerli insieme.

Ero convinto che avrebbe accolto la proposta con gioia. A me non pesava l’idea di rinunciare alla Grecia. Avrei viaggiato ancora in futuro. E in ogni caso tenevo a Frederic più che alle meraviglie della Grecia.

Pensavo anche un’altra cosa: avrei potuto fermarmi a Londra, rinunciando a tornare negli Stati Uniti. Avrei potuto cercare di lavorare come medico in città. Volevo rimanere accanto a Frederic, sognavo di vivere insieme a lui.

E mentre inseguivo i miei sogni in aria, la reazione di Frederic li mandò in frantumi e mi spiazzò completamente.

- Non è possibile, Roger. Non a Londra. Non è come qui. Saremmo… Ci potrebbero scoprire. È proibito. C’è il carcere…

Era spaventato, davvero angosciato all’idea che io potessi andare con lui a Londra.

- Faremo attenzione, Frederic. Che cosa c’è di strano se ospiti… 

Mi fermai, perché Frederic sembrava aver ricevuto un colpo. L’idea di stabilirmi per un po’ a casa sua mi era sembrata perfettamente naturale e priva di rischi: da noi era frequente accogliere per periodi anche lunghi un ospite. Ma Frederic mi guardava, sconvolto.

Corressi rapidamente il tiro. Capivo che tutto era perduto, ma mi ostinavo ancora.

- …se un amico che hai conosciuto durante il viaggio rimane un po’ a Londra ed ogni tanto viene a trovarti…

Frederic scosse la testa. Ripeté:

- No, non è possibile, non è possibile.

- Ma perché, Frederic? Che problema c’è? Mi stabilisco a Londra per un po’ e troveremo ben il modo di vederci, no? Anche a Londra gli uomini hanno degli amici, si incontrano, si vedono nelle loro case. L’hai detto tu che…

Frederic mi interruppe:

- Roger, io mi sposo quando torno.

Rimasi senza parole. Avrei avuto mille cose da dire, ma nessuna aveva più un senso. Nulla aveva senso.

Il silenzio che calò tra di noi aveva la consistenza di un muro di pietra.

Frederic abbassò gli occhi e aggiunse:

- Mi spiace, Roger, ma da noi ci sono troppi rischi.

Nuovamente non chiesi. Non avevo bisogno di capire: mi sembrava che tutto fosse perfettamente chiaro. Rimasi seduto un buon momento, troppo sconvolto per riuscire ad alzarmi. Quando infine mi sentii abbastanza sicuro di riuscire a controllare la mia voce, dissi:

- Vado a fare un giro.

Mi alzai e uscii. Camminai per le vie polverose di Luxor fino a che giunsi al Nilo. Non pensavo, non volevo pensare. Guardavo il Nilo scorrere. Lo guardai a lungo. Mi pareva di essere morto e per un momento pensai di scivolare in acqua e lasciarmi trascinare dal fiume. Non avevo mai accarezzato l’idea del suicidio prima di quel momento. 

Rimasi immobile, mentre il pensiero svaniva.

Fu una voce familiare a scuotermi:

- Qualche problema, Roger?

Era Philippe Cabrera. Aveva concluso il suo ultimo giro agli scavi e stava tornando a casa per completare i preparativi per la partenza. Mi aveva visto immobile a guardare l’acqua e si era fermato.

Lo guardai. Esitai. Non c’era una vera amicizia tra noi e io non me la sentivo di confidarmi. Ma un’idea mi attraversò il cervello e gli dissi:

- Lei parte domani. C’è posto anche per me sul battello?

- Ma certamente. Posso ospitarla molto volentieri.

Esitò un attimo, prima di aggiungere:

- Viaggia da solo?

Ci aveva visti la sera prima insieme, gli avevamo detto che saremmo partiti tre settimane dopo.

- Sì.

Non spiegai. Non mi chiese nulla.

 

Appena tornai in camera, iniziai a preparare i bagagli. Frederic mi aveva sentito arrivare e bussò alla mia porta, ma io non aprii: mi limitai a dirgli che preferivo rimanere da solo.

Raccoglievo le mie cose e le mettevo nelle valigie. Quell’agire meccanico mi aiutava a non pensare, a contenere la sofferenza che dilagava.

Il mattino dopo Frederic venne nuovamente a bussare. Questa volta aprii.

- Roger…

Si fermò vedendo il letto intatto ed i bagagli pronti.

- Roger, che cazzo vuole dire? Penserai mica

- Sto partendo, Frederic. Philippe Cabrera mi aspetta tra un’ora. Parto con lui e raggiungo Alessandria. Di lì mi imbarco per la Grecia.

Roger scosse la testa, incredulo. Non riusciva a capire.

- Ma perché? Cazzo! Perché?

Entrò, chiuse la porta alle sue spalle e ripeté:

- Perché? Che senso ha? Abbiamo ancora venti giorni. Godiamoceli. Che senso ha?

“Godiamoceli” fu una staffilata. Avevo intensamente goduto tutto il viaggio accanto a Frederic, ma ormai non potevo più rimanere con lui. Non avrei più potuto fare l’amore con Frederic. Ormai io e lui potevamo soltanto scopare, ma questo non mi interessava. Sapevo che non avrebbe capito. Risposi:

- Non ha senso. Ma rimanere ne avrebbe ancora di meno.

Frederic mi guardava, incredulo e sofferente. Aggiunsi:

- Mi spiace, Frederic. Mi spiace che sia finita così. Ma non posso rimanere.

Si sedette sul letto, pareva annichilito. Non mi capiva e la sua incomprensione era la conferma che eravamo sempre rimasti due estranei. Io non avevo saputo leggere dentro di lui, nonostante il mio amore, e Frederic non riusciva a capirmi, anche se era affezionato a me. Innamorato no, questo mi era diventato chiaro: Frederic non mi amava.

Chiamai un facchino e raggiunsi l’imbarcadero. Frederic avrebbe voluto accompagnarmi, ma gli chiesi di non farlo. Al momento di lasciarci aveva le lacrime agli occhi. Lo abbracciai e lui mi strinse, sussurrandomi:

- Non te ne andare, Roger, non te ne andare.

Ma era tardi: io ormai non ero più lì con lui, anche se questo Frederic non riusciva a capirlo. Mi liberai dalla sua stretta.

Raggiunsi Philippe Cabrera. L’imbarcazione partì quasi subito. Seduto guardavo la cittadina scorrere davanti a me e cercavo di non pensare, di tenere a bada la tempesta di sensazioni ed emozioni che si agitava dentro. Rimanevo assolutamente immobile, ma guardando la mia mano destra, appoggiata sul parapetto, mi accorsi che tremava.

La navigazione lungo il Nilo fu un tormento, perché ogni località destava in me un ricordo: riconoscevo il luogo dove eravamo sbarcati per raggiungere Dendera, che avevamo visitato alla luce delle torce; quello in cui avevamo visto in lontananza alcune piramidi di cui ignoravamo l’esistenza e che avremmo voluto visitare; un altro in cui avevamo visto una carovana che si muoveva sulla riva, in direzione opposta all’imbarcazione, ed avevamo ammirato quegli uomini fieri.

Philippe Cabrera non cercò mai di imporre la sua presenza. Con la stessa cortesia con cui mi aveva accettato come ospite improvviso, accettò i miei silenzi. Ci limitavamo a scambiare qualche parola quando mangiavamo e in poche altre occasioni. Ancora oggi, a distanza di tanti anni, se mi capita di pensare a lui, gli sono grato per la discrezione e la sensibilità di cui diede prova.

Raggiungemmo il Cairo. Philippe si doveva fermare due giorni. Avrei potuto proseguire per Alessandria, ma preferii rimanere con lui. Per quanto parlassimo pochissimo, la sua presenza mi dava conforto.

Al Cairo quasi non uscii dall’albergo: sprofondai completamente nel torpore che mi avvolgeva e se non fosse stato per Philippe non sarei neppure sceso a mangiare. Riprendemmo il viaggio e raggiungemmo Alessandria. Qui per la prima volta Philippe mi pose una domanda sulle mie intenzioni:

- È sicuro di non voler venire con me in Francia?

Lo guardai, un po’ stupito della sua richiesta.

- Grazie, ma conto di raggiungere la Grecia

- Mi scusi se le parlo sinceramente, ma mi spiace lasciarla da solo in queste condizioni.

Annuii. Avevo capito la sua preoccupazione ed apprezzai la sua sollecitudine.

- Non si preoccupi. Non intendo affogarmi. L’ho pensato, a Luxor, in riva al Nilo. Ma è stato solo un attimo. Non ho tendenze suicide. E poi…

Mi interruppi. Stavo per dire che ero già morto, morto dentro. Perché così mi sentivo, completamente svuotato. Cercai di scuotermi e aggiunsi:

- Devo solo… riprendermi un po’. E grazie, grazie per la sua cortesia, grazie per la sua attenzione.

- Come vuole. La solitudine aiuta a lenire il dolore. Anch’io l’ho cercata in passato, per i suoi stessi motivi, ma ora mi pesa. Può diventare una gabbia.

Philippe aveva capito tutto e questo non mi stupiva. Il mio silenzio ed il mio dolore erano stati troppo eloquenti e lui era troppo sensibile. Cercai le parole giuste, ma facevo fatica a trovarle.

- Mi spiace che anche lei abbia sofferto molto.

Philippe sorrise.

- Acqua passata, vecchi ricordi che non fanno nemmeno più male.

Il suo sguardo smentiva le sue parole. Quei suoi ricordi facevano ancora male.

 

Quel giorno mi chiesi se non tornare negli Stati Uniti, ma rinunciai all’idea: volevo avere tempo per recuperare la mia serenità, per riflettere. Volevo stare da solo e la lunga traversata dell’oceano non offriva le condizioni ideali. Non me la sentivo di affrontare altri viaggiatori, impazienti di raccontare le loro esperienze e curiosi di conoscere le mie.

Decisi di mantener fede al mio programma originario e mi imbarcai per la Grecia.

Trascorsi tre settimane ad Atene. Non visitai subito l’Acropoli, che vedevo emergere sopra le case: non ero nello stato d’animo adatto. Passai le prime giornate camminando per la città, imbattendomi ogni tanto in qualche vestigia del passato, che suscitava in me una malinconia cupa, ricordandomi quanto effimere fossero tutte le cose. Mi spingevo nella campagna circostante, ma ero molto più concentrato sui miei pensieri che su ciò che vedevo. Mi sembrava di aver perso il desiderio di viaggiare: non avevo più lo stesso entusiasmo, la stessa curiosità. Mi dicevo che avevo visto fin troppo.

Riflettevo su quanto era avvenuto, sul mio amore per Frederic. Lentamente, incominciavo a capire meglio. Il dolore lancinante dei primi giorni si attenuava: rimaneva una ferita aperta, ma potevo guardarla. Cercavo di comprendere il comportamento di Frederic. Mi chiedevo se non ero io ad avere una visione sbagliata. Ripensavo alle parole di Bruce Mc Gregor sul matrimonio. Io la pensavo come Bruce. Potevo accettare che Frederic cercasse altri uomini, ma non riuscivo a dare un senso al suo matrimonio: mi sembrava un inganno nei confronti di una donna che si affidava a lui. E il fatto che non me ne avesse mai parlato prima era una chiara dimostrazione di quanto poco io contassi per lui. Frederic era stato bene con me, ma di certo non era innamorato di me. Se mi avesse amato, mi avrebbe raccontato dei suoi progetti, avrebbe sentito l’esigenza di parlarne con me. E probabilmente non avrebbe cercato altri. Mi ritornavano in mente vari episodi insignificanti, che ora leggevo in una chiave diversa, e tutti mi confermavano che per Frederic ero stato un compagno con cui condividere il viaggio e il letto, niente di più. Era una constatazione amara, ma non potevo fare altro che prendere atto della realtà.

Lentamente recuperai la serenità necessaria per riprendere a visitare: mentre inizialmente le mie lunghe camminate non avevano una meta e poco badavo a dove andavo, incominciai a definire itinerari. Un giorno mi spinsi fuori città, fino ad un monastero bizantino, di cui ammirai l’immenso mosaico raffigurante il Cristo. Un altro giorno raggiunsi capo Sounion. Vi arrivai nel tardo pomeriggio e dalle rovine del tempio assistetti ad uno di quei tramonti in cui il sole abbandona la terra di Grecia con un lungo bacio d’amore. Mi parve che la vista di quelle colonne contro il cielo mi restituisse infine la voglia di viaggiare. Avevo a lungo sognato la Grecia, la terra dei miti che mi narrava mia nonna. E ora volevo ritrovare i boschi delle ninfe e dei satiri, sentire la zampogna di Pan risuonare sotto il sole rovente del mezzogiorno, fermarmi in raccoglimento alle Termopili, inchinarmi all’oracolo di Apollo a Delfi. Mi parve di ridestarmi da un lungo sonno.

Il giorno dopo, appena rientrato ad Atene, salii sull’Acropoli e ne ammirai l’incredibile bellezza. Mi sembrò di essere sospeso tra la terra e il cielo. Lì davvero avevano abitato gli dei.

Lasciai poi Atene e iniziai ad esplorare la Grecia. A tratti ancora sentivo di soffrire, ma la bellezza del paesaggio e delle opere d’arte mi distraeva dal mio dolore; c’erano mattine in cui mi sentivo invadere dal torpore, ma la perfezione di certi momenti riusciva a scuotermi.

Viaggiando da solo, mi mossi in piena libertà, senza più preoccuparmi di dove avrei alloggiato per la notte o mangiato. Più di una volta dormii nei campi e devo dire che nell’estate che incominciava la frescura delle notti all’aperto era un balsamo dopo la calura della giornate. E la notte il cielo di Grecia mi offriva i suoi miti incarnati nelle costellazioni.

Camminavo per ore nella campagna e, lontano dai villaggi, mi spogliavo e mi tuffavo nei torrenti: c’erano attimi in cui ritrovavo la gioia delle estati a Winsted ed altri in cui mi pareva di partecipare ad antichi riti con le ninfe delle sorgenti e dei boschi. A Delfi e a Olimpia ritrovai un’intensità di emozioni che non credevo di essere ancora capace di provare e a Delo, la rocciosa Delo, scoglio bruciato dal sole tra la perfezione di un cielo e di un mare sconfinati, piansi.  

 

In Grecia viaggiai rigorosamente da solo, declinando ogni invito a unirmi ad altri, foss’anche per un’escursione di una giornata. In realtà, non ero mai davvero da solo. Il pensiero di Frederic riemergeva di frequente. Ma con il passare dei giorni mi accorsi di pensare spesso anche a Bruce. Mi chiedevo che cosa avrebbe pensato del mio rapporto con Frederic.  

Due volte fui avvicinato da uomini che viaggiavano per conto proprio e che intavolarono con me una conversazione apparentemente innocente, ma che mirava a saggiare il terreno: colsi perfettamente le loro intenzioni, perché i mesi trascorsi con Frederic mi avevano aperto gli occhi. Lontano dalla loro patria, ragionevolmente sicuri di non correre troppo rischi, questi uomini cercavano una compagnia per una notte o per alcune settimane. Il mio corpo reclamava il piacere che aveva conosciuto per parecchi mesi, ma questi rapporti non mi interessavano e finsi di non capire. La notte però nei miei sogni ritornava spesso Frederic. E talvolta, con una frequenza che andava aumentando, appariva Bruce.

Al mio ritorno ad Atene, quando ormai mi accingevo a lasciare la Grecia, incontrai i Leigh, una coppia inglese sposata da appena un anno. Patrick Leigh era sulla trentina, Emma era invece più giovane. Lei era minuta, con un viso grazioso e molto dolce, sempre sorridente; lui era alto, piuttosto robusto, con un volto dai tratti molto regolari.

Erano sbarcati da poco ad Atene e non erano mai stati in Grecia. Non sapevano bene come muoversi: Patrick non si era mai spinto così lontano dall’Inghilterra ed era molto incerto, anche se ostentava sicurezza; Emma si aggrappava al marito come se temesse di smarrirsi senza di lui. Al loro arrivo in città erano stati derubati di una parte del loro bagaglio e si erano chiesti se non lasciare la Grecia per tornare subito in patria o almeno raggiungere un paese più “civile”. Quando scoprirono che ero arrivato due mesi prima, si rivolsero a me per chiedermi alcune informazioni.

Mi sforzai di fornire tutte le indicazioni che mi chiedevano, tenendo conto del loro modo di viaggiare, assai diverso dal mio. Riuscii a tranquillizzarli e mi fece piacere vedere Emma ritrovare l’entusiasmo, smorzato dalla brutta avventura al porto.

Mi chiesero se avrei potuto essere tanto gentile da accompagnarli al Museo l’indomani. Acconsentii: avevo ancora tre giorni davanti, avevo visto quanto desideravo e potevo benissimo dedicare un po’ di tempo ad una cortesia.

Nel museo Emma era estasiata e continuava a rivolgersi al marito per fargli ammirare tutto ciò che vedeva. Patrick sorrideva di quell’entusiasmo, condiscendente. Ad un certo punto io e lui ci fermammo davanti ad una statua, un kuros, mentre Emma, pudicamente, si allontanava per osservare altre sculture.

Patrick mi guardò sorridendo e disse:

- I Greci erano saggi. Non si negavano nulla.

Rimasi un attimo perplesso di fronte a quelle parole, che non comprendevo.

- In che senso?

- Sapevano godere dell’amore in tutte le sue forme, senza imporsi stupidi limiti.

Capii dove voleva arrivare, ma feci finta di niente: diedi una risposta generica e provvidi a troncare la conversazione.

 

Il giorno dopo, scendendo a mangiare nella pensione dove alloggiavo, vidi Emma molto agitata. Appena mi scorse, si rivolse a me

- Oh, signor Williams, mi aiuti, la prego.

Era angosciata, sul punto di scoppiare a piangere.

- Ma certamente, se posso. Che cosa è successo?

- Patrick è scomparso. Parlava con un signore, prima, un facchino, credo. Mi ha detto che si allontanava un momento e che sarebbe ritornato subito… È un’ora che è andato via. Non so che cosa pensare.

Emma si torceva le mani disperata, mentre mi spiegava la situazione, e ad un certo punto le spuntarono le lacrime.

- Ho paura che gli sia successo qualche cosa. Non starebbe via tanto tempo così… mi ha detto che tornava subito… Non è possibile… non…

Incominciò a singhiozzare. Cercai di consolarla. Le chiesi se aveva un’idea di dove fosse andato il marito, ma lei scuoteva la testa, sempre piangendo.

Allora mi rivolsi al portiere:

- Il signor Leigh è uscito un’ora fa con un signore. Ha un’idea di dove possano essere andati, di chi fosse quel signore che era con lui?

- No, signor Williams, ma dica alla signora di non preoccuparsi. Il signor Leigh tornerà presto.

Mi sembrò di leggergli in volto un mezzo sorriso di complicità che mi fece sospettare la verità. Prima che potessi chiedergli altro, arrivò Patrick, sorridente. Emma si gettò tra le sue braccia, piangente.

- Ma che ha la mia mogliettina bella? Si è spaventata?

Lessi in quelle parole una derisione che forse non c’era, ma che mi indignò ugualmente.

Mi allontanai rapidamente, senza nemmeno salutare, perché temevo di non sapere controllarmi.

Da solo, sull’Areopago, guardando l’Acropoli, ripensai all’accaduto. Mi tornavano in mente, in modo ossessivo, le parole di Bruce McGregor.

Mi chiesi se la moglie di Frederic sarebbe andata incontro allo stesso destino di Emma Leigh. Mi dissi che probabilmente era così: Frederic non avrebbe rinunciato a ricercare il proprio piacere, non lo aveva fatto nemmeno quando viaggiavamo insieme e quindi poteva avere ogni giorno ciò che il suo corpo desiderava.

In quel momento compresi che in cuor mio disprezzavo Frederic. Che cosa era rimasto di quell’amore che mi sembrava fosse così forte? Io stesso non riuscivo a capirlo. Quando ci eravamo separati ero disperato e appena due mesi dopo giudicavo con tanta freddezza l’uomo che avevo amato? L’avevo davvero amato? Frederic mi aveva fatto conoscere il piacere, era stato il primo uomo con cui avevo stabilito un legame basato sull’intesa dei corpi, era stato il mio compagno di viaggio, avevo condiviso con lui momenti indimenticabili. Ma l’avevo davvero amato?

E mentre mi ponevo queste domande, mi tornava in mente il viso di Bruce.

 

Dalla Grecia avrei potuto tornare in America: avevo recuperato la mia serenità, il dolore che avevo dentro non era più un cane rabbioso, ma soltanto un malessere che stava guarendo. Desideravo però vedere Stambul. Avevo detto a Bruce McGregor che ci sarei andato e mi sentivo in grado di visitare la città, senza portarmi dietro il fantasma di Frederic. Non sapevo che vi avrei trovato un altro fantasma, ma non avevo ancora acquisito la capacità di leggermi dentro.

 

I

II

III

IV