III – Costantinopoli Navigando verso
Costantinopoli pensai alla descrizione che me ne aveva fatto Bruce. Lui ne
era rimasto affascinato e me ne aveva parlato con un tale entusiasmo, che
temevo di rimanere deluso, come spesso succede quando le aspettative sono
troppo grandi. Non fu così. Arrivammo in
vista di Stambul in una giornata di sole e ogni
dettaglio della città che lentamente si svelava ai miei occhi mi parve uscire
da un racconto di fate: le mura che la cingevano lungo il mare; la selva di
minareti che si elevavano verso il cielo; i cipressi che svettavano; il
grandioso palazzo del sultano; le costruzioni di diversi colori affacciate
sullo stretto; l’improvviso aprirsi del Corno d’Oro, su cui veleggiavano
imbarcazioni di ogni tipo. Costantinopoli era un canto a più voci, una
polifonia di Monteverdi che si librava sempre più in alto, trascinando la mia
anima nell’atmosfera rarefatta del cielo. Scesi a Galata, sulla riva
orientale del Corno d’Oro, e vi stabilii la mia residenza, come tutti gli
stranieri. Dopo tre giorni in un albergo, trovai una casa da cui si vedevano
il Corno d’Oro e Stambul. L’affittai e mi presi un
domestico per alcune ore al giorno, in modo da essere completamente autonomo.
Il sobborgo in cui vivevo non presentava grande fascino per me: poco mi
interessavano i quartieri moderni e non certo ero attratto dalla vita sociale
degli europei e degli americani, che ricreavano in quel sobborgo di Costantinopoli
la società e i divertimenti dell’Occidente. Non ero venuto fin lì per
ascoltare l’opera o partecipare a un ballo. Ogni giorno invece mi
recavo a Stambul, che dalla mia abitazione potevo
vedere sull’altra riva. Spesso, quando mi alzavo il mattino, rimanevo a lungo
a guardare dalla finestra il profilo irto di minareti della città turca. Visitai i grandi monumenti
e non ho mai scordato l’immensità di Santa Sofia, i superbi archi
dell’acquedotto di Valente, l’austera imponenza di alcune delle moschee maggiori
e la grazia raccolta di quelle minori, alcune delle quali rivelavano la loro
origine di chiese bizantine. Ma ad affascinarmi era la città di per sé, per
quanto fangose fossero le strade e sudicie le case, su cui il tempo aveva
depositato una patina nerastra. Vagavo a lungo nel labirinto di vicoli, che a
tratti inquadravano la sagoma di un minareto o la cupola di una moschea.
Camminavo per ore, senza paura di perdermi. Lontano dall’animazione del bazar
e di alcune vie, la città era silenziosa e a tratti appariva vuota: di rado
scorgevo qualcuno alla finestra di una casa. Soprattutto nelle ore più calde
del giorno, la solitudine delle piccole vie che si inerpicavano sulle colline
era perfetta. Avrei vagato per sempre in quelle strade, senza meta, fermandomi
ogni tanto in un caffè, di cui assaporavo l’atmosfera, ed ascoltando
l’improvviso invito alla preghiera, che spezzava il silenzio. Due luoghi mi colpirono
più di tutti: le antiche mura terrestri e la grande cisterna. Mi spinsi più volte fino
alle mura, per quanto fossero lontane da Galata. Un giorno decisi di seguirne
l’intero percorso a cavallo, dal lato esterno, dove si trovavano numerosi
cimiteri musulmani. Mi fermai spesso in contemplazione: mi tornavano in mente
le storie della conquista di Costantinopoli, l’inutile ed eroica difesa
contro le forze nemiche soverchianti, la carneficina che ne era seguita, la
fine di un grande impero. Ma ormai quelle mura erano soltanto ruderi, su cui
si appollaiavano uccelli e crescevano piante dai semi sparsi dal vento.
Nessuna traccia rimaneva di tanto eroismo e di tanto sangue. Solo il silenzio
e i segni del tempo, come a Villa Adriana o alle Terme di Caracalla a Roma. E
la grande distesa delle tombe, immerse nel verde. Della grande cisterna
sotterranea mi aveva parlato Bruce, che me l’aveva descritta come uno dei
luoghi più suggestivi della città. La visitai pochi giorni dopo il mio
arrivo, prendendo per il pomeriggio una guida. L’uomo mi condusse nel cortile
di una casa, da cui una scalinata scendeva fino alla cisterna. Appena entrai,
mi sentii avviluppare dall’umidità del luogo. La torcia dell’uomo che mi
accompagnava illuminava una sala immensa, in cui grandi colonne verdastre,
coperte di umidità, sprofondavano nell’acqua nera, in una successione che
pareva infinita. L’acqua impediva di avanzare, per cui chiesi se era
possibile percorrere in barca quell’immensa sala avvolta nell’oscurità, ma mi
dissero che era proibito, che alcuni non erano ritornati, altri erano
impazziti, sconvolti da ciò che avevano visto. Mi parlarono di spiriti che
vivevano nella cisterna, che vi svolgevano i loro sabba infernali. Nella voce
della mia guida avvertivo un tremito che tradiva la sua paura: credeva
davvero a ciò che raccontava, non erano le solite storie fantastiche per
turisti a caccia di esotismo. Mi intestardii, attratto da quel nero silenzio:
mi sembrava che quel luogo celasse un segreto, che dovevo conoscere. Non era
un pensiero razionale, era una sensazione oscura, a cui cedevo. Un po’ di denaro convinse
la mia guida a organizzare un giro in barca e, in gran segreto, una sera
tornai alla cisterna per una visita notturna. Sapevo benissimo di commettere
un’imprudenza, mettendomi alla mercè di una guida
che conoscevo poco e di un barcaiolo che non avevo mai visto. Se avessero deciso
di uccidermi per impossessarsi del mio denaro, nessuno li avrebbe scoperti:
quell’antro era il luogo ideale per un omicidio. La barca scivolò
sull’acqua e nel buio, che la torcia riusciva appena a scalfire, mi parve di
entrare in un mondo infernale. Ma quelle acque nere esercitavano su di me
un’attrazione fortissima. Decisi di immergermi e mi spogliai, sordo ai
richiami angosciati del barcaiolo, ma l’uomo e la guida mi bloccarono,
impedendomi di scivolare in acqua. Subito dopo il battelliere remò rapidamente
verso la riva. Mi resi conto di quanto
assurdo fosse stato il mio comportamento. Ero stato folle. Ciò che avevo
cercato di fare non aveva nessun senso. La gioia di vivere e il desiderio di
una comunione totale con la natura mi avevano spinto tante volte a bagnarmi
in fiumi, torrenti e pozze, a Winsted o in Grecia,
in Egitto ed in Italia; ma quel giorno avevo voluto immergermi nelle acque
dello Stige ed il mantello che mi gettò sulle
spalle la guida, vedendo che non mi rivestivo e tremavo dal freddo, mi sembrò
un sudario. Diedi al barcaiolo ed alla
guida una mancia assai superiore al compenso pattuito e tornai alla mia casa. La sera Galata era più che
mai piena di luci e di voci, dai giardini delle ville e delle ambasciate si
udiva spesso provenire la musica di qualche festa e le strade erano animate.
Io scendevo in qualche caffè, dove passavo un po’ di tempo a guardare
l’infinita varietà umana di quella città, in cui convivono turchi e greci,
armeni ed ebrei, schiavi neri e
diplomatici europei, oltre agli innumerevoli marinai sbarcati dalle navi
provenienti da ogni parte del mondo. Ascoltavo il suono struggente del
violino che un vecchio suonava nel caffè, una di quelle melodie tristi che i
turchi amano tanto. Più tardi mi lasciavo alle
spalle la vita e l’allegria della città per superare il Corno d’Oro ed
immergermi nel buio e nei silenzi della Stambul
notturna. Girando a cavallo o a piedi, riconoscevo le strade e i palazzi che
avevo visto durante il giorno e mi pareva che la città fosse soltanto mia:
pochissime le persone che giravano per le strade, più numerosi i cani che
abbaiavano alla luna o dormivano accovacciati a terra, come i mendicanti. Di
solito le fiammelle delle lanterne accese sulle tombe, nei pressi delle
moschee, erano le uniche luci. Vagabondavo senza una meta precisa, mentre il
pensiero ripercorreva gli avvenimenti dell’ultimo anno e si spingeva ancora
più indietro. E per vie ogni volta diverse, mi ritornava sempre in mente
Bruce. Bruce che si bagnava al torrente, Bruce che mi parlava al ristorante,
Bruce che ascoltava Peter Camden nel fienile, Bruce
e Lionel al matrimonio di Edith. La ferita aperta da
Frederic si cicatrizzava, il suo fantasma svaniva dai miei pensieri e dai
miei sogni, ma il suo posto veniva preso da Bruce. Ora, che conoscevo meglio
il mio cuore e il mio corpo, sapevo dare il nome giusto all’attrazione che
avevo sempre provato per Bruce McGregor. Ero stato
innamorato di lui. Ero stato? La domanda mi spaventava, perché con stupore mi
rendevo conto che, mentre ciò che avevo provato per Frederic si era dissolto
rapidamente, un altro sentimento, meno intenso, forse, ma più tenace,
riaffiorava. Mi chiesi quali fossero i
desideri di Bruce, i suoi gusti, i suoi progetti. Bruce McGregor
non era sposato, ma questo non significava nulla: conoscendo il suo rigore
morale e la sua coerenza, non si sarebbe mai sposato se non fosse stato
perfettamente sicuro della sua scelta. E poi mi dicevo che magari Bruce McGregor si era sposato mentre io ero in viaggio: avevo
notizie da casa, perché mia madre mi scriveva ed io rispondevo, ma la
distanza ed i miei spostamenti rendevano gli scambi molto irregolari. Mia
madre non era certo incline ai pettegolezzi e sapeva che io lo ero ancora di
meno: mi dava notizie dei parenti e le principali novità di casa, ma nulla di
più. Mi avrebbe certo comunicato il matrimonio di Bruce, ma solo dopo che il
fidanzamento fosse stato annunciato ufficialmente. E magari me lo aveva già
scritto, ma la lettera era una di quelle che erano andate perse. Mi
immaginavo questa possibilità e l’idea mi sgomentava. Il pensiero di Bruce stava
diventando un’ossessione: pensavo a lui mentre mi arrampicavo tra le strette
vie in salita della città o quando mi sedevo in un caffè o mi stendevo in un
caicco che mi avrebbe portato alla mia meta. Volevo togliermelo dalla mente,
ma non ci riuscivo. Cercai di reagire, di
condurre una vita normale: pur continuando a frequentare Stambul
assai più di Galata, evitavo quei luoghi, come i silenziosi cimiteri turchi,
che sembravano accrescere il mio turbamento. Anche se avevo sempre amato
girare da solo, decisi di servirmi di una guida: ne avrei approfittato per
conoscere meglio le tradizioni popolari ed anche per imparare un po’ più di
turco, visto che conoscevo un numero ristretto di espressioni. Mi feci
presentare alcune guide e infine scelsi Iohannes,
un giovane greco: pare che i turchi non amino questa attività, a cui si
dedicano in prevalenza altri. Iohannes non
conosceva l’inglese, ma parlava bene il francese ed il turco, per cui
potevamo intenderci ed era in grado di insegnarmi la lingua locale. Mi parve
più intelligente degli altri e, anche per la giovane età, capace di adattarsi
alle mie esigenze meglio degli altri candidati. Prima di partire, ci
sedevamo in un caffè, dove Iohannes mi dava lezioni
di turco. Poi, durante la nostra passeggiata, provavo a usare le parole e le
frasi apprese, a volte suscitando l’ilarità di Iohannes,
ma più spesso, devo dire, la sua ammirazione: in viaggio avevo scoperto di
aver un buon orecchio per le lingue. Iohannes mi mostrava meraviglie come la pietra
della fanciulla: su di essa i giovani facevano sedere le loro fidanzate, se
dubitavano della loro purezza, perché si diceva che se le ragazze erano vergini
si sarebbe sentita una voce. Aneddoti come questo mi incuriosivano e spesso
mi permet-tevano di porre domande sugli usi dei turchi e delle altre
popolazioni di quella città cosmopolita. Accortosi del mio interesse per le
leggende locali, Iohannes incominciò a raccontarne
di tutti i tipi. Aveva un buon talento di narratore e, anche se sospettavo
che spesso ci aggiungesse del suo e talvolta inventasse di sana pianta, le
sue storie mirabolanti mi facevano fantasticare di un Oriente magico: almeno
durante il giorno mi distraevano dalla mia ossessione. Ma quando mi parlava
dell’ultimo imperatore di Costantinopoli, che si preparava a morire in
battaglia, o del saggio consigliere del sultano che in segreto si mescolava
alla gente del popolo per conoscerne gli umori, spesso mi immaginavo che
questi personaggi avessero il viso e il corpo di Bruce. Ed il pensiero di lui, che
cercavo di tenere a bada durante il giorno, emergeva con forza la notte,
quando giravo solo per le vie di Stambul o stavo
nudo alla finestra, assaporando la frescura che mi regalava il vento. Quando
infine mi coricavo, sapevo che Bruce sarebbe tornato a visitarmi nei miei
sogni, spesso tanto vividi che al mattino provavo vergogna. D’altronde
l’astinenza acuiva i miei desideri. A lungo ero riuscito a tenerli a freno,
negli anni dell’università, ma dopo aver conosciuto il piacere ed essermi
abituato a stringere un altro corpo ogni notte, mi era difficile ritornare
alla castità: in Grecia non avevo avvertito con tanta intensità il desiderio,
perché la ferita era ancora aperta, ma ora che si era cicatrizzata, il mio
corpo mi ricordava le sue esigenze. Avrei potuto soddisfarle: a Galata
c’erano bordelli in cui giovani maschi si prostituivano. Non ci andai mai,
neanche per una di quelle visite curiose che vi facevano i turisti: la sola
idea mi faceva orrore. Anche a Stambul mi capitò di incontrare viaggiatori che parlando
con me mi lasciavano capire che sarebbero stati interessati a conoscermi
meglio. Fingevo di non capire. Non era una scelta: desideravo un corpo
preciso. O, meglio: non desideravo soltanto un corpo, desideravo un unico
uomo, nella sua interezza. Tutti gli altri mi parevano irrilevanti. Quando
riflettevo su questo, mi chiedevo se ero ancora sano di mente o se non stavo
scivolando nella follia. Non vedevo Bruce da oltre un anno, non avevo quasi
mai pensato a lui per mesi e mesi, avevo creduto di amare alla follia un
altro uomo e mi scoprivo perdutamente innamorato di Bruce? Mi sembrava
assurdo, ma mi rendevo conto che in realtà stavo solo imparando a leggere nel
mio cuore. Mi dicevo che non avrei
mai più avuto rapporti: ora che sapevo di amare, rifiutavo l’idea di
conoscere il corpo di altri uomini. Sottovalutavo l’urgenza
dei miei desideri e sopravvalutavo la mia determinazione, come capii due
settimane prima di partire. Avevo preso a frequentare
regolarmente un hammam, uno dei bagni turchi assai numerosi nella città. Mi
ci aveva condotto la guida, che di certo si era fatto dare dal gestore un
compenso. Avevo accettato ben volentieri di fare questa esperienza, di cui
avevo sentito parlare: ero curioso, anche se un po’ diffidente. Superato l’imbarazzo della
prima volta, quando non sapevo bene come muovermi, imparai ad affidarmi
completamente agli inservienti, che mi guidavano nel bagno a vapore, mi
massaggiavano e mi lavavano, accudendomi con grande abilità. Dopo aver
gustato la piacevole sensazione di una pulizia quanto mai accurata, passavo
in una saletta riservata, dove mi distendevo sui cuscini a gustare caffè,
limonate o sorbetti e talvolta a fumare il narghilé.
Era un ambiente rilassante, dove mi ritempravo dalla stanchezza di giornate
spese a camminare. Qualche giorno dopo la
visita alla cisterna, entrando nella sala del vapore, vidi un uomo sui
quaranta, disteso su una delle panche contro il muro. Come tutti, portava
solo un telo che gli copriva i fianchi. Aveva gli occhi chiusi, un braccio
steso di fianco al corpo e l’altro ripiegato dietro la nuca. Il viso dai
lineamenti forti, incorniciato da una barba corta, e il corpo vigoroso, con
una peluria scura più fitta sulle braccia e sul torace, mi turbarono.
L’immagine di Bruce mi ritornò in mente, per quanto la somiglianza fosse
superficiale. Sotto il telo una protuberanza faceva pensare che l’uomo
potesse essere eccitato. Non sapevo in quali pensieri si stesse perdendo, ma
il vederlo accese il mio desiderio. Rimasi a fissarlo un buon momento, più di
quanto le buone maniere consentissero, ma aveva gli occhi chiusi e non poteva
accorgersene. Non so se avvertisse di
essere osservato, ma a un certo punto sollevò le palpebre e per un attimo i
nostri sguardi si incrociarono. Distolsi gli occhi quasi subito,
vergognandomi: mi ero comportato come uno stupido ed ero stato indiscreto.
Cercai di calmare la mia eccitazione, ma l’immagine di quel corpo mi
ritornava in mente, anche se badavo bene di non guardare dalla sua parte.
Qualche minuto dopo lo vidi passare davanti a me. Si fermò un attimo, come
per sistemare meglio il telo che gli copriva i fianchi. Vidi allora il
gonfiore che avevo notato prima: ora che l’uomo era in piedi, era
inequivocabile. Alzai lo sguardo: nuovamente ci guardammo negli occhi per un
attimo, poi abbassai il capo, fissandomi i piedi. Lasciai l’hammam prima del
solito, irritato con me stesso: mi ero comportato da stupido. Era meglio che
evitassi di tornare, per qualche giorno almeno. Mi sarei cercato un altro
hammam o ne avrei fatto a meno. L’immagine dello sconosciuto mi ritornò in
mente più volte e quella notte nei miei sogni si mescolò a quella di Bruce:
vedevo l’uomo completamente nudo, steso su un pavimento di legno, e mi
avvicinavo a lui, ma quando mi tendeva la mano e mi afferrava scoprivo che
era Bruce; stringendo quel corpo che desideravo, venni. Mi svegliai turbato:
non era la prima volta che sognando Bruce venivo nel sonno, ma questa volta
al ricordo di lui si era sovrapposto il corpo dello sconosciuto. Evitai di tornare al bagno
turco, ma tre giorni dopo Iohannes, al termine di
un lungo giro che aveva preso tutta la mattina e una parte del pomeriggio, mi
lasciò proprio davanti all’hammam, dicendomi che avrei potuto rilassarmi.
Sospettai che il gestore, non avendomi più visto, si fosse rivolto a Iohannes perché mi portasse di nuovo nel suo
stabilimento. Mi dissi che l’episodio
avvenuto era stato davvero insignificante: io ero stato indiscreto, ma lo
sconosciuto, che non aveva nascosto la sua erezione, non lo era stato di
meno. Difficile che ci incontrassimo nuovamente: in ogni caso avremmo fatto
finta di niente entrambi. Il grande sorriso del
gestore nell’accogliermi confermò i miei sospetti: si aspettava che Iohannes mi riportasse all’hammam. Probabilmente gli
spiaceva rinunciare a uno straniero che pagava i servizi di più dei suoi
concittadini, come sempre avviene in questi posti, spendeva in bevande ed
altri generi di conforto e lasciava mance generose. Entrando nella sala,
verificai che non ci fosse lo sconosciuto e, appurato che in effetti non era
presente, mi godetti il bagno turco con grande soddisfazione, dopo tre giorni
in cui me ne ero privato. Mi dissi che ero stato davvero stupido a
rinunciarvi. Al termine delle varie
operazioni di pulizia, mi accompagnavano sempre in una saletta riservata,
dove ritrovavo i miei vestiti. Quella volta però mi condussero in una stanza
diversa: era più ampia e luminosa e si apriva su un giardinetto interno. Come
l’altra, aveva molti cuscini su cui stendersi e il narghilè. Pensai che il
gestore, per rifarsi dei giorni in cui
non ero venuto, avesse deciso di offrirmi un locale più costoso. Accettai ben
volentieri: non mi preoccupava certo pagare un supplemento e la stanza era
davvero piacevole. Mi stesi pertanto sui cuscini, ancora nudo, con il solo
telo intorno alla vita. Di solito mi rivestivo solo al momento di uscire,
perché nel gran caldo di quei mesi, rimanere senza abiti era molto piacevole. Chiusi gli occhi,
assaporando il benessere che sempre provavo dopo il bagno turco. Quando
avvertii una presenza nella stanza, pensai che fosse uno degli inservienti,
venuto a chiedere che cosa volevo consumare. Ma aprendo gli occhi, mi accorsi
che a entrare era stato l’uomo che avevo visto tre giorni prima. Era in piedi
davanti a me ed anche lui indossava solo il telo che gli cingeva i fianchi. Capii subito che cosa era
successo: in qualche modo doveva essersi messo d’accordo con gli inservienti
o con il gestore, perché quando fossi ritornato al bagno turco lo avvisassero
e mi accompagnassero nel locale in cui mi trovavo. Per quale scopo, mi era
perfettamente chiaro. Ero del tutto impreparato
a quell’incontro e non sapevo come reagire. Guardai l’uomo in viso, senza
dire una parola. Anche lui rimase muto, immobile. Mi fissava, un’espressione
concentrata sul volto, senza sorridere. Poi, con un gesto lento,
sciolse il telo e lo fece cadere a terra. Lasciai che i miei occhi
scorressero su quel corpo, scendendo dal viso al torace muscoloso e villoso,
fino al groviglio di peli sul ventre da cui si protendeva il sesso vigoroso.
Deglutii. Non mi mossi. Avevo la sensazione di osservare quello che stava
avvenendo come uno spettatore esterno. Vedendo il mio sguardo
l’uomo rise, una risata che mi parve aspra. Lo guardai in faccia.
C’era un ghigno quasi feroce. Poi l’espressione maligna si dissolse in un
sorriso e sentii la sua voce, ruvida e forte, come tutto in lui: - T’es beau, toi. Bello. Schön. Mi porse la mano, per
farmi alzare, ed io la presi. Mi aiutò a sollevarmi, poi mi attirò a se e mi
baciò sulla bocca, mentre le sue mani scendevano sui miei fianchi e facevano
cadere a terra il telo che li cingeva. Si stese sui cuscini, sempre tenendomi
stretto a sé, poi mi baciò nuovamente e mi fece scivolare di lato. Gli permisi di fare di me
ciò che voleva, privo di una mia volontà. Sapevo che cosa stava per succedere
e avevo paura, ma non feci nulla per fermarlo. Lasciai che mi allargasse le
gambe, che sistemasse meglio il mio corpo sui cuscini, che mi mordesse le
natiche e che infine si stendesse su di me. Disse ancora: - Beau
cul, bello culo… Non avevo forze. Lasciai
che accadesse. Sentii le sue dita umide preparare la strada e mi sfuggì un gemito.
Poi entrò dentro di me. Io chiusi gli occhi e mi abbandonai completamente. Brandelli di frasi mi
passavano per la testa. Mi stava inculando. Mi stavo dando a un uomo. Non
sapevo neppure il suo nome. Faceva male. Era una sensazione nuova. Non così dolorosa.
Indefinibile. Quello che succedeva non aveva senso. Poi la mia mente smise di
formulare pensieri e mi abbandonai alle sensazioni contrastanti che provavo. L’uomo teneva le sue mani
sui miei fianchi e spingeva con forza, senza dire nulla. Proseguì a lungo,
concentrato nel suo compito, fino a che venne, con un suono strozzato, e si
abbandonò su di me. Mi morse leggermente l’orecchio e mi sussurrò: - T’es beau,
bello, bello. Rimanemmo un momento così,
poi uscì da me e si stese al mio fianco. Mi fece voltare sul dorso e mi
guardò, sorridendo. Chiamò un inserviente,
senza curarsi di coprirsi, e ordinò di portare da bere e da mangiare. Poi mi
prese la mano e me la strinse. Quando l’inserviente posò
il vassoio con ciò che aveva richiesto, quasi un pasto completo, mi invitò a
mangiare e solo allora incominciò a chiedermi chi ero e da dove venivo. Mescolava francese,
italiano, tedesco, russo e greco, ripetendo in più lingue gli stessi
concetti, per essere sicuro che io capissi, e quando non trovava i termini in
nessuna di quelle lingue, tornava al turco. Non era in grado di sviluppare un
discorso in nessun idioma straniero, ma riusciva a farsi capire. Il francese lo conoscevo
bene e quel che avevo imparato durante il viaggio di italiano, greco e, più
recentemente, turco mi permetteva di seguire i suoi discorsi, almeno fino a
un certo punto. Di tedesco sapevo poche parole e di russo nulla: quando
glielo feci capire, rinunciò a usare quelle lingue, ritornandovi però quando
non trovava nelle altre la parola che cercava. Anch’io gli chiesi di lui.
Si chiamava Ahmed ed era stato, fino a poco tempo prima un ufficiale
dell’esercito: grado ottenuto sul campo, per il valore dimostrato, non perché
la sua famiglia fosse potente. Ed era nell’esercito che aveva imparato a parlare
un po’ di lingue. Gli chiesi come mai si
fosse congedato, ma non rispose. Lo vidi però rabbuiarsi. Mi chiese da quanto tempo
fossi a Costantinopoli e quanto ci sarei rimasto. Risposi che avevo ancora
dieci giorni. Mi parve dispiaciuto. Mi disse di tornare il giorno seguente:
era un ordine, più che un invito. Questa volta fui io a non rispondere. Il nostro dialogo aveva
dato una parvenza di normalità alla situazione, ma io rimanevo fortemente
turbato. Bevve e mangiò,
invitandomi a fare altrettanto, ma io mi limitai a bere un caffè: non avevo
appetito. Infine dissi che dovevo andare: mi rivestii e presi congedo. Mi
ripeté di tornare il giorno successivo, mentre mi tratteneva, stringendomi la
mano. Sorrideva ed il tono imperioso aveva lasciato spazio ad una richiesta,
quasi una preghiera. Annuii, senza dire nulla. All’uscita, feci per
pagare, ma il responsabile rifiutò il mio denaro: ero un ospite di Ahmed Bey.
Credo che il titolo fosse soltanto un omaggio del gestore, teso a propiziarsi
un cliente che di certo sapeva come ottenere ciò che voleva. Uscii e mi diressi verso
casa, ma ero talmente confuso che per due volte sbagliai strada e mi resi
conto dell’errore solo dopo aver percorso un buon tratto. Quando infine
arrivai, dissi al domestico che poteva andare e salii in camera: avevo
bisogno di rimanere del tutto solo. Mi spogliai e mi allungai sul letto.
Rimasi disteso a guardare fuori dalla finestra la luce che svaniva: il cielo
rossastro era ingombro di nubi plumbee, che lasciavano presagire un temporale
estivo. Il sole che tramontava regalava riflessi di luce livida alle cupole e
ai minareti di Stambul. Non riuscivo a
concentrarmi, a pensare. Solo quando la luce fu inghiottita dalle tenebre e
oltre il Corno d’Oro si scatenò il temporale annunciato, chiusi gli occhi,
cercando di guardare dentro di me: volevo riflettere su ciò che era successo,
capire, dare un nome alle cose, valutare. Ma non riuscivo a dare ordine ai
miei pensieri. Mi sentivo a disagio. Mi
sembrava di aver fatto qualche cosa che non dovevo. Mi dicevo che non c’era
nulla di male in ciò che era successo: non avevo un legame, non avevo
promesso fedeltà a nessuno. Non avevo nemmeno preso io l’iniziativa, anche se
avevo lasciato apparire il mio desiderio. E mentre lo pensavo, mi sembrava di
stare cercando giustificazioni che non avevano senso. Ma il disagio rimaneva.
Avevo lasciato che uno sconosciuto mi possedesse. Che cosa c’era di male in
questo? Nulla. Avevo dato piacere, non avevo tradito nessuno. Eppure il
pensiero di Bruce mi tormentava. Che cosa avrebbe detto Bruce? Nulla,
certamente nulla: mi avrebbe detto che ero libero di scegliere. E allora? Ci
giravo intorno, ma conoscevo la risposta: mi sembrava di aver tradito Bruce.
Era assurdo, perché tra noi non c’era nessun legame, perché ero vissuto per
mesi con Frederic. Ma ora che sapevo di amare Bruce, l’essermi dato a un
altro mi creava un certo disagio. C’era anche qualche
cos’altro, che avevo più difficoltà a definire. Avevo sperimentato una
sensazione nuova, ero stato posseduto. Che cosa significava? Mi dicevo che
non era nulla di diverso rispetto a quanto avevo fatto con Frederic, ma mi
pareva che aprire il proprio corpo, accettare di essere penetrati, fosse
qualche cosa di più, un andare oltre, un superare un limite. E legata a questa,
una terza domanda premeva: che cosa avevo provato? Anche questo non era
semplice da definire. Era stato un po’ doloroso e avvertivo ancora un
indolenzimento. Eppure non mi era dispiaciuto. Frederic provava un piacere
intenso quando io lo prendevo. Per me non era stato di certo così. Però avrei
voluto provare ancora, esplorare il paese sconosciuto in cui avevo messo
piede. Era davvero un territorio ignoto o solo un vicolo cieco? C’era un’ultima domanda,
la più banale: sarei tornato all’hammam il giorno dopo? Non mi diedi una risposta.
A un certo punto mi alzai
e uscii sul balcone. Ero nudo, ma l’oscurità era completa. Erano passate
alcune ore da quando ero tornato a casa. Guardai Stambul,
che intravedevo immersa nell’oscurità di fronte a me. Nelle vie intorno
sentivo risuonare voci, da lontano mi arrivava una musica. Da questa parte
del Corno d’Oro, qualche luce qua e là. Non volevo uscire, non avevo voglia
di rivestirmi. Ma, nonostante la pioggia avesse rinfrescato l’aria, la camera
mi sembrava un forno. Indossai gli abiti che
avevo portato durante il giorno e scesi. Esitai un attimo solo sulla soglia,
poi aprii la porta e uscii. Mi diressi verso Stambul.
Capii dove stavo andando
solo quando mi resi conto che salivo lungo la strada che portava all’hammam. Nella via non c’era
nessuno e regnava l’oscurità più completa. L’hammam era chiuso, naturalmente,
e trovai a fatica la porta. Mi appoggiai con la schiena contro il legno.
Chiusi gli occhi. Il desiderio esplose improvviso, tanto violento da
stordirmi. Mi voltai, aderendo alla
porta con il ventre. Se qualcuno fosse giunto ora, con una torcia, che cosa
avrebbe pensato di me? Eppure il mio corpo rimaneva inchiodato, mentre
riviveva le sensazioni provate nel pomeriggio e in mente ritornavano le
immagini di Ahmed e, soprattutto, di Bruce: nella mia mente era lui a
possedermi. Le mie mani percorrevano
la superficie scabra della porta, come se stessero accarezzando un corpo,
mentre i fianchi si muovevano vigorosamente e la mia bocca sussurrava il nome
di Bruce. Solo il lampo del piacere
spezzò l’incantesimo. D’improvviso mi resi conto di ciò che avevo fatto. Mi
staccai quasi con orrore da quella porta e corsi per le vie della città, incespicando, urtando cani e mendicanti addormentati.
Mi fermai senza fiato in cima ad una collina. Fissavo davanti a me le luci
funebri di un cimitero, senza vederle. Riscesi per le viuzze di corsa,
perdendomi nel buio della città. Mi appoggiai alla parete
di una casa e chiusi gli occhi. Mi dissi che stavo impazzendo, che nulla di
ciò che avevo fatto quel giorno aveva senso. Mi ci volle molto tempo
per ritrovare la calma. Quando ci riuscii, almeno in parte, mi diressi verso
Galata, ma mi resi conto che non me la sentivo di percorrere le vie del
sobborgo europeo, ancora piene di gente e di attività. Mi fermai a dormire in una
delle piccole locande di Stambul, dove ci si sdraia
su un tappeto steso sul pavimento. Solo alle prime luci dell’alba, dopo una
notte quasi insonne, mi diressi verso casa. Dissi al domestico di
informare Iohannes che avrei fatto a meno di lui
quel giorno, poi mi stesi a riposare: questa volta dormii alcune ore, di un
sonno profondo e senza sogni, che mi ristorò. Quando mi svegliai, il sole era
alto in cielo: era quasi mezzogiorno. Avevo alcune ore davanti a me, prima di
recarmi all’appuntamento fissato. E mentre lo pensavo, realizzai che non
avevo nessuna intenzione di tornare all’hammam. Mangiai ciò che il domestico
aveva preparato, poi scesi al Corno d’Oro e presi un caicco per raggiungere
Scutari, il sobborgo asiatico che sorgeva oltre il Bosforo: in qualche modo
volevo mettere il maggior spazio possibile tra me e l’hammam, rendendo la mia
decisione irrevocabile. Ero già stato a Scutari,
che non offre molte attrattive: alcune moschee, molte vecchie case, il solito
bazar e l’immenso cimitero di Karacaahmet. Ma ero
lontano dall’hammam, oltre il Bosforo. Salii verso il cimitero, ma quando
giunsi in un punto meno ingombro di costruzioni, in cima alla collina, mi
fermai e mi voltai per vedere il panorama. Si poteva ammirare uno scorcio di Stambul oltre lo stretto. Rimasi fermo a contemplarlo a
lungo, poi mi voltai per riprendere il cammino. Fatti pochi passi, mi girai
nuovamente. Contemplai ancora un momento gli unici due minareti visibili,
della moschea di Solimano, poi mi lanciai per la discesa, come se fossi
inseguito dal demonio. Raggiunsi il molo e mi
imbarcai per Stambul. Solo allora controllai l’ora:
avevo ancora molto tempo davanti a me e la mia fretta era stata del tutto
superflua. Mi sentivo ridicolo: mi comportavo come un bambino piccolo,
incapace di controllare le proprie emozioni, che cedeva ai capricci di un
momento. A Stambul
mi fermai a lungo in un caffé, poi, quando arrivò
l’ora di andare, mi avviai, cercando di non lasciar trapelare la mia
agitazione. All’hammam non vidi Ahmed,
ma ero sicuro che sarebbe arrivato. In effetti, quando mi accompagnarono
nella sala riservata, lo trovai disteso sui cuscini. Mi accolse con un
sorriso, che rendeva meno truce quel volto dai lineamenti marcati. Era molto
contento di vedermi e non lo nascose: me lo disse con le parole, nella solita
mescolanza di lingue, con i baci e con le carezze. E poi riprendemmo i nostri
giochi. Questa volta, meno incerto e spaventato del giorno precedente, mi
abbandonai più facilmente ad Ahmed e al mio desiderio e l’esperienza fu assai
più soddisfacente. Poi riprendemmo a parlare,
sdraiati uno di fronte all’altro sui cuscini. Ahmed si dimostrò più espansivo
e mi raccontò delle guerre in cui aveva combattuto, delle sconfitte subite
dall’Impero, del suo sgomento di fronte al lento sgretolarsi di un mondo in
cui aveva creduto. Aveva combattuto a Plevna, del
cui assedio si era parlato a lungo negli Stati Uniti, prima della mia
partenza: Ahmed era stato uno degli eroici difensori della città, che avevano
tenuto testa per cinque mesi all’esercito russo. Ma proprio il suo profondo
attaccamento alla tradizione imperiale e la sua opposizione ad ogni
innovazione avevano finito per suscitare la diffidenza dei suoi superiori,
che vedevano in lui un elemento sospetto, poco incline ad accettare le
trasformazioni ormai inevitabili. Era stato costretto a dare le dimissioni,
probabilmente anche per altri motivi, che Ahmed preferì non raccontarmi. Non avevo nessuna simpatia
per l’Impero Ottomano, che opprimeva i popoli sottomessi, e ritenevo che una
profonda riforma delle sue istituzioni fosse necessaria, ma di certo non
avevo motivo per tenere in maggiore considerazione l’Impero Russo, che
presentava le stesse caratteristiche negative. E, benché non condividessi le idee
di Ahmed, ammiravo il suo coraggio. Gli chiesi che cosa
contava di fare. Mi disse che le cose sarebbero cambiate e che l’Impero
sarebbe tornato al suo antico splendore, mi parlò di Mahmud Nedim Pascià, che era stato Gran Visir. Il suo nome mi
era ignoto, ma Ahmed sembrava avere una grande stima in lui e sperava che
potesse riportare l’Impero agli antichi fasti. Avevo molti dubbi su questo e
credo che li avesse anche lui. Ma si mostrava sicuro e diceva che avrebbe
ottenuto un grado superiore a quello che aveva quando era in servizio. Dopo una pausa aggiunse,
con una voce diversa, più cupa, che magari sarebbe stato decapitato – e si
passò la mano con due dita tese sul collo. Poi scoppiò a ridere ed aggiunse
che avrebbero anche potuto impalarlo; mentre lo diceva sollevò le gambe per
mostrare l’apertura in cui avrebbero infilato il palo. Non mi risultava che
un tale supplizio fosse ancora in uso, ma preferii non insistere. Nonostante
Ahmed ridesse, c’era nella sua voce, negli occhi, nella stessa risata, più rabbia
e disperazione che allegria. E poi non ero nemmeno sicuro di non avere
frainteso le cose dette: in quel misto di lingue ritrovavo parole e idee che
disponevo in una sequenza logica, di cui però non potevo avere certezza. Mi
avvicinai a lui e gli carezzai il viso con la mano. Egli mi fissò, poi mi
strinse a sé e ci amammo ancora. E nell’irruenza con cui Ahmed mi prese lessi
un dolore feroce. Uscii molto tardi
dall’hammam. Camminare mi faceva male e scesi verso i moli, per prendere un
caicco che mi avrebbe portato più vicino a casa, risparmiandomi una lunga
strada a piedi. Mi stesi sul letto, più
sereno della sera precedente. Sapevo che sarei ritornato all’hammam. Vi andai regolarmente,
fino al giorno della partenza. Una sola volta Ahmed mi chiese se ero proprio
intenzionato a partire. Risposi che dovevo farlo: non era la verità, avrei
benissimo potuto rimandare di qualche settimana, ma non avrebbe avuto senso.
Il mio corpo desiderava quegli incontri e avevo rinviato ad altro momento
ogni riflessione su quanto stava avvenendo, ma sapevo che il legame tra Ahmed
e me era un fragile filo di puro piacere: per quanto intenso fosse quel
piacere, la mia vita era altrove. Il giorno prima di partire
dissi addio ad Ahmed e il mattino seguente mi imbarcai per Marsiglia. Di lì
sarei risalito a Le Havre, per poi raggiungere New York. Non contavo di fare
nessuna tappa intermedia: di colpo desideravo soltanto essere a casa,
lasciarmi alle spalle il viaggio e tutto ciò che avevo provato, riprendere a
lavorare. Sulla nave che mi portava
a Marsiglia mi scoprii improvvisamente spossato e febbricitante: avevo
passato oltre un anno in giro per il mondo, sempre in perfetta salute, e
improvvisamente, mentre stavo tornando a casa, sprofondavo in una vertigine
di stanchezza. Trascorsi gran parte del tempo a riposare nella mia cabina,
troppo stanco anche solo per leggere o riflettere. Mi facevo portare i pasti
in camera. In quei giorni lasciai
perfino che mi crescesse la barba. Quando infine incominciai a stare meglio,
decisi di radermi. Preparai tutto l’occorrente, poi mi guardai allo specchio.
Mi parve di vedere un altro uomo, completamente diverso da quello che era
partito da New York oltre un anno prima. Mi sembrò naturale: ero davvero
cambiato. Mi insaponai metà della faccia, ma mentre avvicinavo la lama al
rasoio, mi fermai. Guardai di nuovo la mia immagine riflessa. Mi pulii con
cura e tenni la barba. A Marsiglia mi ero ormai
ripreso e affrontai il tragitto in treno senza problemi, ma la mia mente si
tenne ben lontana dai ricordi del viaggio. Pensavo invece a quello che avrei
fatto al mio arrivo, ai contatti che avrei dovuto riprendere, alle scelte che
avrei dovuto effettuare. Soltanto quando mi
imbarcai a Le Havre, incominciai a ripensare al periodo che si concludeva.
Avevo visto monumenti, città e paesaggi indimenticabili. Avevo vissuto
esperienze che mi avevano segnato profondamente. Tutti questi elementi erano
indissolubilmente legati, in un groviglio inestricabile, che non ero in grado
di sciogliere. Sapevo che al mio ritorno
avrei dovuto raccontare, ma l’idea mi pesava: parlare dell’Italia o
dell’Egitto senza Frederic o di Costantinopoli senza Bruce, non aveva davvero
nessun senso, mi sarebbe costato fatica. Eppure non potevo raccontare a
nessuno ciò che era avvenuto. Chi mai mi avrebbe ascoltato senza condannarmi?
Conoscevo la risposta: Bruce. Ma di certo non volevo confessargli il mio
amore. L’idea che avrei rivisto
Bruce, perché non potevo non rivederlo, mi turbava. Non volevo trovarmelo di
fronte, non ero in grado di affrontare quell’incontro. Avevo promesso a Bruce che
al mio ritorno gli avrei raccontato del mio viaggio, ma decisi che non avrei
tenuto fede al mio impegno: non sarei andato da lui, avevo già sofferto
abbastanza. Avrei cercato di evitarlo. Bruce avrebbe capito e avrebbe
rispettato la mia esigenza. E mentre lo pensavo, sentii che il dolore mi
schiantava. |
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