I - Tempesta Il giardino è spoglio. Siamo ormai all’inizio di marzo e da vicino si
potrebbero vedere le gemme prossime a schiudersi, ma dalla finestra tutto
sembra ancora dormire il lungo sonno invernale. Quest’anno la primavera non vuole
arrivare, il freddo regna sovrano. Jean distoglie lo sguardo dal giardino e lo abbassa sul disegno che ha
appena ultimato. Lo osserva con attenzione: il lupo in piedi a destra, con la
camicia e la cintura, appoggiato sul bastone; l’agnello in ginocchio, di
fianco al torrente, con una giacchetta, la scodella nella mano; dietro
l’agnello, sullo sfondo, qualche albero, per riempire lo spazio vuoto e
conferire all’immagine l’equilibrio necessario. La composizione è armoniosa, il disegno di per sé è piacevole e
risponde anche abbastanza allo spirito della favola, ma quel lupo troppo
umanizzato non lo convince. E neppure l’agnello con la scodella. Che senso
ha? No, anche questa soluzione è da scartare. Jean sta ancora cercando la strada. Procede per tentativi. È partito
da un’umanizzazione completa dei due personaggi: ha trasformato il lupo in un
guardaboschi e l’agnello in una bambina che raccoglie legna. Quella prima
versione non funzionava, perciò ha restituito ai due protagonisti della
favola il loro aspetto animale, dando loro una postura ed un abbigliamento in
parte umani. Ma neanche questa soluzione lo soddisfa, è artificiosa. Jean sbuffa. Forse incominciare da una favola così nota è stata un’idea sbagliata.
Troppi modelli con cui confrontarsi, troppe idee ben radicate nelle teste dei
lettori. È una gabbia, da cui non è facile uscire. Farebbe meglio a scegliere una delle favole meno conosciute, quelle
che compaiono solo nelle edizioni complete di No, in realtà la scelta di partire da Il Lupo e l’agnello è
sensata, se trova una soluzione convincente per questa favola, potrà
applicarla alle altre. O almeno ad alcune, perché non è necessario che le
illustrazioni siano tutte dello stesso tipo. Talvolta un’umanizzazione dei
personaggi animali può essere convincente. Vedrà caso per caso. Il problema è un altro e Jean lo sa benissimo. In questo periodo non
ha la testa per mettersi a disegnare. E la sua insoddisfazione lo rende
incontentabile. Non si è mai accontentato facilmente, nel suo lavoro, ma
l’irrequietezza attuale ha un’origine diversa. Jean guarda di nuovo il giardino: gli alberi sono sagome scure, un
intrico di linee grigie e nere, alcune più sottili, altre più spesse. Forme
senza vita, che solo il vento impetuoso sembra animare. Jean riabbassa il capo, prende un altro foglio ed incomincia a
disegnare un nuovo schizzo. Un lupo ed un agnello realistici. Il lupo in
alto, al centro dell’immagine, punto culminante, verso cui corre lo sguardo,
l’agnello più in basso a destra, quasi sotto il lupo, che lo sovrasta. Jean
traccia il muso dell’animale rivolto verso il lupo, poi lo corregge, ma
neppure la nuova versione lo soddisfa. Riprende la matita, sbuffa di nuovo… Basta! Non ce la fa più a continuare. Con un gesto impulsivo prende il disegno e lo straccia. Non lo fa mai,
ogni schizzo può contribuire alla realizzazione della tavola finale, anche
quando sarà eseguita in modo del tutto diverso. Ma il suo nervosismo lo rende
insofferente ed il non riuscire a lavorare lo esaspera, peggiorando la
situazione. Si alza di scatto, spingendo indietro la sedia, che cade a terra. Jean si china e la rimette a posto. Non è giornata, da tempo non è giornata. Perché ha accettato quel
lavoro? Perché è un bellissimo lavoro, le Favole di Non è il lavoro che non lo stimola abbastanza: è la presenza di un
chiodo fisso nella sua testa che gli impedisce di concentrarsi in quello che
sta facendo. Inutile cercare di disegnare in queste condizioni. Potrebbe riordinare l’archivio. È parecchio tempo che deve farlo. Da
quando ha finito l’edizione di Shakespeare. Lo fa sempre al termine di un
lavoro importante. Jean è ordinato, meticoloso, ha la stessa attenzione ai
dettagli nel tenere le sue cose e nel disegnare le tavole. Ma l’archivio attende da oltre due mesi, tutte le tavole dell’ultimo
lavoro giacciono accumulate alla rinfusa sui due ripiani inferiori
dell’armadio. Jean apre
le ante. Non sarebbe un lavoro molto lungo. Ma anche questa
volta alla vista del materiale da riordinare un senso di scoramento lo
assale. E poi sa benissimo che se incominciasse a mettere in ordine,
troverebbe la tavola di Romeo e Giulietta in cui ha disegnato Mercuzio ed i diversi schizzi preparatori. Il viso di Mercuzio non vuole rivederlo. Perché a Mercuzio Jean ha dato il volto di André. Merda! Jean guarda il tavolo su cui disegna, ma non se la sente di riprendere
il lavoro. Potrebbe passeggiare in giardino, in casa è una belva in gabbia. Ma
anche il giardino gli sembra troppo piccolo. Meglio uscire, andare a spasso.
Camminare un po’ gli farà bene. Il movimento lo aiuterà a disperdere i
pensieri bui, come sempre avviene. E lo spettacolo di Parigi lo distrarrà,
magari gli fornirà uno spunto per il lavoro. Jean ama molto camminare. Spesso raggiunge a piedi il centro di Parigi
dalla sua casa, situata a Passy, ai margini della
capitale. In pochi minuti è alla Senna e, passato il ponte della Scuola
militare, entra in città. Altre volte invece si dirige verso la campagna,
passeggia tra le vigne o costeggia il fiume. Questa volta attraversa Jean cerca di concentrarsi sul lavoro delle Favole, che lo impegnerà
per almeno un anno, sei mesi per ognuno dei due volumi che deve preparare.
Ritorna ai testi che conosce meglio, pensa a possibili scelte. Osserva due
persone che parlano, il profilo di quell’operaio è davvero interessante, Jean
ne fissa in testa le linee principali, l’attaccatura del naso, la fronte
bassa: potrebbe servirgli, nelle Favole ci sono parecchi personaggi
umani, anche se sono più conosciuti i testi che hanno come protagonisti gli
animali. Come sempre la sua mente coglie ogni dettaglio curioso, ogni gioco di
luci di questo pomeriggio invernale in cui il vento freddo dell’Atlantico
rende terso il cielo, ma il sole non riesce a regalare calore. Del tutto perso nei suoi pensieri e nelle sue osservazioni, non bada a
dove sta andando. Ogni tanto un pensiero disturbante si affaccia alla sua
mente, ma Jean lo scaccia con determinazione. Svolta a destra in una strada, come tante. I suoi piedi procedono
sicuri, loro sanno dove vanno. È la bottega del fabbro a fargli capire. Quante volte ha visto l’insegna,
di quel verde scuro, con le scritte sbiadite, che pende un po’ di lato? D’istinto Jean alza gli occhi verso il terzo piano, alla finestra
della stanza di André. Come ha potuto essere tanto coglione da non accorgersi
che stava venendo proprio qui, nell’ultimo luogo di Parigi in cui avrebbe
voluto arrivare!? Merda! Guarda la finestra, con l’intelaiatura scura, i vetri sporchi. L’ha
fatto centinaia di volte. Ora non ha più senso farlo: André non abita più lì.
Questa non è più la casa di André. André è tornato a Tolosa, alla sua
provincia, quella da cui voleva fuggire a tutti i costi, dove giurava che non
sarebbe mai tornato. Lo aspetta un buon matrimonio, una carriera sicura nello
studio del suocero, un brillante avvenire di avvocato. Merda! André ha fatto quanto doveva, deve pensare al suo futuro, rimanere a
Parigi non aveva senso. André non ha il talento per emergere nella giungla di
Parigi, non ha neanche il pelo sullo stomaco necessario: starebbe a galla a
fatica, con il rischio di essere travolto da un’ondata più grande. Sono alte
le onde della vita parigina, ci vuole uno scafo solido e parecchia esperienza
per non rischiare il naufragio. André navigherà meglio in qualche stagno di
provincia, dove il suocero gli assicurerà venti favorevoli. Jean sa vedere con precisione i pregi ed i limiti dell’uomo che ha
amato. Amato? Amato è troppo. Jean ha amato un’unica volta nella sua vita.
Ormai non è più capace di amare, ma il pensiero di André ha accompagnato le
sue giornate per due anni. Gli ha voluto realmente bene. Non hanno diviso la
stessa casa, ma si sono visti regolarmente. Per la prima volta Jean ha avuto
accanto a sé qualcuno, non il compagno di poche ore in una pensione di
quart’ordine. Si è quasi illuso di essere amato. Essere amato! Povero coglione! Come se lo specchio non parlasse
chiaro: chi potrebbe amarlo, con la faccia che si ritrova? Comunque ci ha
pensato André a togliergli ogni illusione. Sabato, poche settimane fa, si sono incontrati per l’ultima volta. Si
sono amati, in quel gioco dei loro corpi che inebriava Jean. Ed anche André,
perché tra le sue braccia André ogni volta gridava il piacere che lo
sconquassava. Quel sabato, dopo l’amore, Jean ha stretto André tra le sue braccia,
gli ha baciato la nuca, i capelli neri, la spalla. E le sue mani hanno
percorso il viso di André, sentendo con i polpastrelli per l’ultima volta,
come per fissarli nella memoria, i tratti del suo amante: la fronte alta, il
naso diritto e largo, le labbra carnose, il mento un po’ sfuggente, il collo
corto, il torace quasi completamente glabro, il ventre, il sesso. E quelle
carezze segnavano un addio, pieno di dolcezza. La tenerezza lo ha sopraffatto e Jean ha sussurrato: - Mi mancherai, André. André sembrava indifferente alle carezze, già entrato in una nuova
dimensione in cui non c’era posto per Jean. Non ha replicato. Si è sciolto
dall’abbraccio, quasi con fastidio, ed ha detto: - È ora che tu vada. Io devo prepararmi. Jean si è sentito ricacciato indietro, nella solitudine che lo ha
accompagnato per tutta la vita. Ed ora è di nuovo di fronte a questa casa, sotto lo sguardo sospettoso
della merciaia, che ha sempre diffidato di quest’uomo non più giovane. Non ha
mai davvero creduto che Jean fosse il cugino di André. Jean si volta, di scatto, e si allontana. Cammina a passo veloce, come
trascinato via dal turbinio dei suoi pensieri. Sente l’angoscia che lo
azzanna, mentre la luce svanisce. Il vento impetuoso gli sbatte in faccia
troppi ricordi a lungo respinti, che ora si affacciano, si fanno avanti, come
se trovassero aperta una porta. Ricordi di morte e di sofferenza. I morti
ritornano e chiamano Jean. Jean accelera ancora il passo, vuole scappare da quella casa, da quei
pensieri, dall’angoscia che preme. Non sa dove va, sa solo che sta fuggendo,
ma i fantasmi che gridano il suo nome sono ovunque. Jean barcolla, si ferma
un momento, stordito. Poi riprende a camminare, senza sapere dove sta
andando. La sera è scesa ed il vento sembra volerlo fermare, con un turbinio di
rimpianti, rimorsi e sogni svaniti, ma Jean gli cammina contro, furente. Non
vuole cedere, vuole andarsene. Da dove, non saprebbe dirlo, ma ora procede
quasi di corsa, sta sudando, nonostante il freddo. In via Duphot stanno demolendo una casa. Ci
sono parecchie macerie. Non si può procedere lungo il muro, bisogna passare
quasi in mezzo alla strada. Jean si sposta, avanza, sempre in lotta contro il
vento ed i suoi pensieri. Superati i detriti, non ritorna lungo il muro.
Continua a camminare quasi al centro della strada. Una carrozza sta arrivando dal fondo della via. Il cocchiere incita i
cavalli, il passeggero deve avere fretta. Dall’altro lato della strada,
proprio vicino al punto in cui si trova Jean, un’altra carrozza si è appena
fermata, per far scendere una donna, non più giovane, con un abito troppo
vistoso per la sua età. La carrozza sembra precipitarsi su di lui, non c’è spazio per una
manovra. Jean deve spostarsi, altrimenti sarà travolto. Jean guarda il muso
dei cavalli, uno nero, l’altro chiaro, con una macchia scura vicino agli
occhi, le zampe che corrono veloci. Il cocchiere inveisce, urla qualche cosa
che Jean non vuole sentire. Fissa paralizzato la vettura, incapace di
muoversi. La carrozza è davanti a lui, il guidatore cerca di trattenere i cavalli,
ma è troppo tardi. Un urlo di donna. Un avvertimento. L’imprecazione del
cocchiere. Improvvisamente Jean si sente afferrare e sollevare. La carrozza lo
sfiora e prosegue la sua corsa. Il cocchiere bestemmia e sprona di nuovo i
cavalli. Di colpo Jean si sente esausto. Gli sembra che le gambe non lo
reggano. Si appoggia al braccio dell’uomo che lo ha salvato. Lo guarda, ma
non può vederne i tratti: indossa una maschera ed un costume, probabilmente
si reca al ballo di Carnevale, all’Opera. È basso e tarchiato e deve avere
una forza erculea, perché Jean è più alto di lui e pesa ottanta chili. - Intendeva ammazzarsi? La voce dell’uomo è aspra. Jean prova vergogna. Ha fatto una stupidaggine. - No, mi scusi. L’uomo lo fissa, senza dire nulla. Poi scuote le spalle. Jean toglie
la mano dal suo braccio. Vorrebbe dire qualche cosa, ma l’uomo riprende a
camminare, senza più badare a lui. Effettivamente si sta dirigendo verso
l’Opera. Jean rimane fermo. Alcuni passanti lo osservano, devono aver assistito
alla scena. Jean vuole sottrarsi ai loro sguardi, riprende a muoversi,
camminando rasente al muro, ma si rende conto che le gambe non lo reggono, ha
bisogno di sedersi. Entra in un caffè, il primo che trova, un locale dove non
è mai stato e si fa portare un bicchiere di cognac. Cerca di calmarsi. Rimane
a fissare nel vuoto, a lungo. È stato pazzo. Quello che ha fatto non ha nessun senso. Quell’uomo gli
ha salvato la vita e lui non l’ha nemmeno ringraziato! Che coglione! Voleva
farsi ammazzare, forse? Per che cosa, poi? Ordina un secondo bicchiere. E poi pensa che è a digiuno. Vuole
ubriacarsi, adesso? Ci manca solo questa. Jean paga e si alza, lasciando sul
tavolo il bicchiere ancora pieno. Ferma una carrozza e si fa portare a casa.
È meglio che per oggi non si muova più. Di stupidaggini ne ha già fatte
abbastanza. È notte. Jean ha mangiato poco, provocando il malumore di Marie-Anne. La cena era eccellente, come al solito, ma
Jean non ha appetito. Ora è steso sul letto, ancora vestito, al buio. Lascia che la mente vaghi,
ripensa alla giornata appena trascorsa, si dice che dev’essere
impazzito. Ha bisogno di cambiare aria, di lasciarsi Parigi ed il pensiero di
André alle spalle. Potrebbe andare in Provenza o magari in Italia, ma di mettersi in
viaggio non ha proprio voglia. E poi non è il momento: ha un grosso lavoro da
avviare e gli sembrerebbe di sprecare le sue giornate. Non è il tipo da
rimandare gli impegni, ha bisogno di essere sempre un po’ in anticipo
rispetto ai tempi che si dà. Per un perfezionista come lui, avere una
scadenza ravvicinata è impensabile: non accetterebbe di dare alle stampe una
sola tavola senza esserne pienamente convinto. D’altronde, solo il lavoro può aiutarlo a superare questo momento
nero: se non avesse le illustrazioni da preparare, finirebbe per passare le
giornate a rimuginare ed a rivangare il passato. Ma ha un compito da svolgere
e il portarlo avanti assorbirà interamente le sue energie: Jean si dedica al
lavoro con una passione ed una meticolosità che lo hanno reso uno degli
illustratori più quotati in Francia, senz'altro il più famoso tra coloro che
non si dedicano alla caricatura. Disegnare è sempre stata la sua passione: ancora ragazzo, negli anni
difficili che sono seguiti alla morte di suo padre ed al secondo matrimonio
di sua madre, ha trovato nel disegno un rifugio e, benché sia passato molto
tempo, il lavoro è ancora la sua ragione di vita, oltre ad essere una fonte
di soddisfazioni e di guadagno. Non avrebbe bisogno di denaro: suo padre
gliene ha lasciato abbastanza per vivere di rendita. Ma senza il lavoro di
illustratore la sua vita sarebbe vuota. Jean si dice che deve andare via da Parigi, ma poter continuare a
lavorare. La soluzione è una sola: la sua casa di Chaumont,
la cittadina in cui è nato. Ci va ogni anno a trascorrervi i mesi estivi. La
casa che ha ereditato è un po’ fuori città, in mezzo al verde, e domina un
buon tratto della valle. Il luogo ideale per disegnare in tranquillità.
Quest’anno anticiperà la partenza, vorrà dire che starà più a lungo. Ha
alcune faccende in sospeso, ma in capo a due settimane potrà allontanarsi e
lasciarsi alle spalle André e i ricordi. Sì, le faccende da sbrigare e i
preparativi del viaggio gli permetteranno di tenere la mente occupata per il
tempo che manca. In questi giorni può predisporre anche lo schema delle
favole che gli serve per organizzare il suo lavoro. E a fine mese, al massimo
all’inizio di aprile, partirà per Chaumont. A sua madre farà piacere vederlo tornare un po’ prima a Chaumont. Quanto agli altri parenti, non ci tiene proprio
a vederli. I suoi rapporti con il patrigno si riducono ad un consensuale
evitarsi il più possibile: solo qualche festa di famiglia, un matrimonio o un
battesimo, può costringerli a vedersi. Suo zio è un emerito imbecille ed il
figlio maggiore ha preso tutto da lui. L’unico parente che Jean apprezza
davvero è il figlio minore dello zio, David: un ragazzo intelligente e
sensibile, che però ha sempre frequentato poco: tra di loro ci sono oltre
vent’anni di differenza. È a Parigi anche lui, ma Jean non ne ha mai avuto
notizie. Marie-Anne brontolerà.
È abitudinaria, le dà fastidio ogni cambiamento, ogni imprevisto.
André gli diceva che Marie-Anne è la domestica, ma
fa da padrona. Non è vero, le decisioni le prende Jean, ma poi deve fare i
conti con lei. Va bene, mugugnerà e poi si adatterà, come sempre. Il pensiero gli restituisce un po’ di tranquillità. Si alza, si
avvicina alla finestra e la spalanca. L’aria è molto fredda, ma a Jean non
importa. Il vento ha spazzato via le nubi e la notte è limpida. C’è uno
spicchio di luna che illumina il giardino. Jean sorride e richiude le imposte. * Questa è la casa del cugino Jean. David guarda la villetta, con
l’ampio giardino. Non ci è mai stato fino ad ora. Anche se sono cugini primi,
li separano almeno vent’anni e non hanno mai avuto molte occasioni di
frequentarsi: quando David è nato, Jean risiedeva da tempo a Parigi, anche se
si recava spesso a Chaumont. Jean è sempre stato molto gentile con lui e David sa che è un uomo
ricco e generoso, ma ora prova un violento desiderio di fuggire via. Un’altra
umiliazione lo attende, anche se il cugino non gli farà certo pesare l’aiuto
che gli darà. Forse, se riuscirà a parlargli dei suoi problemi, Jean potrà in
qualche modo dargli una mano, intercedendo presso suo padre. Il cugino è un
disegnatore famoso, magari potrebbe indicargli come pubblicare i racconti: in
questo caso non avrebbe più bisogno del denaro di suo padre. Un’umiliazione
in meno. David si dice che sta correndo con la fantasia, mentre deve rimanere
con i piedi ben piantati a terra. Ma Jean è davvero generoso, questo lo
dicono tutti. David respira a fondo, si avvicina al cancello e scuote la campanella. Nessuno appare sulla soglia. Soltanto adesso David nota che le
finestre sono quasi tutte chiuse. Si sente perduto. Il cugino torna a Chaumont tra maggio e giugno, non può essere partito
adesso, che siamo solo all’inizio di aprile. E se fosse in viaggio? David
rabbrividisce. Agita nuovamente il batacchio. Gli sembra che il tintinnio risuoni
cupo, come una campana a martello. Nessuna risposta. David appoggia la fronte all’inferriata. Chiude gli occhi, mentre gli
pare di sprofondare. La voce lo scuote: - Che cosa desidera? Davanti a lui c’è un uomo, un inserviente, che lo guarda con diffidenza.
David intravede un barlume di speranza. - Buongiorno, sono David Guyère, il cugino
del signor Jean. Vorrei parlare con lui. L’uomo annuisce, anche se nei suoi occhi c’è ancora una traccia di
sospetto. - Il signor Guyère è a Chaumont.
È partito ieri. Io sono il giardiniere. A David pare che davanti ai suoi occhi sia sceso un velo. Annuisce.
Con fatica trova le parole per ringraziare. Si allontana. Gli sembra di
sentire lo sguardo dell’uomo su di sé. Il destino si è divertito un’altra volta alle sue spalle, giocando con
lui come il gatto con il topo. Ieri! Non rimane molto da fare. Daniel lo ospiterà per la notte, perché
nella camera in cui viveva non può tornare: la padrona ha già accettato
controvoglia i pochi mobili in cambio dell’affitto non pagato e di certo non
gli permetterà di fermarsi ancora una sera. Domani mattina presto partirà per
Chaumont, a piedi: non può permettersi un posto in
carrozza, ha a mala pena i soldi necessari per comprarsi un po’ di pane lungo
la strada. Quanti giorni di cammino lo attendono? Dove troverà alloggio? E
che accoglienza gli riserverà suo padre? David alza le spalle. Non ha altre scelte. Potrebbe chiedere un
prestito a quei pochi amici che ha, ma sono tutti poveri come lui ed anche se
riuscissero a dargli qualche spicciolo, David sa benissimo che non potrebbe
rimborsarli. Non vuole togliere il pane di bocca a chi fa già tanta fatica a
procurarselo. A Jean poteva chiedere un aiuto, il cugino è ricco. * Antoinette guarda
il figlio. Le sembra che sia più sereno, rispetto a quando è arrivato a Chaumont: stare in campagna gli fa bene, come sempre.
L’arrivo di Jean, con due mesi d’anticipo rispetto al solito, l’ha alquanto
stupita. Per anni Jean è sempre stato molto regolare: arrivo all’inizio di
giugno, partenza alla fine di agosto. Negli ultimi due anni però, Jean si è
fermato poco a Chaumont: meno di due mesi. Aveva
qualche cosa in testa. Una donna, probabilmente. Una donna? Antoinette a volte si pone
domande, a cui non sa rispondere. Ma quei dubbi le danno fastidio, per cui li
cancella dalla sua testa. La cugina Anne dice che Jean non guarda le donne.
Ma che cosa significa? Certo non è uno di quegli uomini che mettono una donna
a disagio, fissandola come se volessero saltarle addosso: quello lo fa Maxence, ma non è neanche colpa sua, non ha mica la testa
a posto, dopo la volta che è caduto nel fossato. Jean è una persona civile,
un galantuomo, non uno scapestrato come il cugino Joseph che correva dietro a
tutte le gonnelle ed ha dovuto andarsene, perché il padre di Geneviève voleva sparargli. - Sai che Joseph ha lasciato Chaumont? - Ma… non era partito due o tre anni fa? Già, è vero, Antoinette non si ricordava
più. È una storia vecchia, quella. Il cugino Joseph faceva la corte a tutte e
Geneviève ci dev’essere cascata.
Joseph ha dovuto andarsene. No, Jean è un galantuomo, su di lui nessuno ha
niente da dire. Chissà se Jean ha una donna, a Parigi? Lei non c’è mai
andata, a Parigi. Le sarebbe piaciuto. Jean tornerà a Parigi…
Quando tornerà a Parigi, Jean? Negli ultimi due anni aveva fretta di
rientrare e niente poteva fargli cambiare idea, non si è fermato neanche per
il matrimonio del cugino François. Voleva essere a casa entro una certa data.
Quando la donna a cui faceva la corte tornava a Parigi, evidentemente. Non le
spiacerebbe che Jean si sposasse. Ormai ha… quanti
anni ha? Quarantacinque, sì, quarantacinque. Non è un bell’uomo, certo, ma è
un buon partito. Perché non si è mai sposato? Quest’anno è arrivato amareggiato, triste. Ma adesso, dopo neanche una
settimana, le sembra più sereno. Lo è davvero? Jean non è uno che rivela i
suoi sentimenti. Bisogna intuirli. È sempre stato molto riservato. Ma stare
in campagna gli fa bene. Di sicuro sta meglio. Antoinette cerca
un argomento per trattenere Jean ancora un po’. Non hanno molte cose da
dirsi, Jean vive per conto suo da tantissimi anni. Le notizie sui parenti e
gli amici permettono di alimentare la conversazione nei primi giorni, poi si
esauriscono. Le piccole novità di Chaumont non
interessano Jean, anche se finge di prestare attenzione mentre insegue i suoi
pensieri. Jérôme è un soggetto che è meglio non
trattare: Antoinette sa benissimo che i rapporti
tra il suo secondo marito ed il figlio sono pessimi. Jérôme
non le risparmia frecciate e battute sul figliastro, Jean si limita a non
parlare del patrigno. Chiede educatamente sue notizie quando arriva a Chaumont e poi non vi accenna più per tutto il soggiorno.
E fa in modo di venirla a trovare nelle ore in cui suo marito è fuori. Di colpo Antoinette si ricorda del racconto.
L’ha messo da parte questo inverno, proprio per farlo vedere a Jean, e non le
è più venuto in mente. Una volta aveva una memoria di ferro ed ora si scorda
di tutto. - Mi sono dimenticata di dirti una cosa, Jean. Tuo cugino David ha
pubblicato un racconto. Adesso te lo vado a prendere. Antoinette si
alza. Jean la guarda, perplesso. - Un racconto? Non sapevo che scrivesse. - Neanch’io, nessuno qui lo sapeva. Ma ho
messo via la rivista per fartela vedere. Vado a prenderla. Antoinette sale le
scale, un po’ incerta. Si muove ancora abbastanza bene, nonostante l’età, ma
salire le scale le pesa sempre di più, la schiena le fa male. Dove ha messo la rivista? Non ricorda, tende a dimenticare facilmente
le cose. La cerca nei cassetti, ma non c’è. Neanche nel guardaroba. Ed
allora? Che stupida! L’ha messa nella credenza, al piano inferiore, per averla
a portata di mano quando veniva Jean. Ha fatto le scale per niente. Non se lo
ricordava più. La sua memoria se ne sta proprio andando. Ridiscende. - Che sciocca! L’ho lasciata qui e la cercavo di sopra. Non mi ricordo
più le cose. E dire che una volta avevo una memoria di ferro. Adesso mi
scordo di tutto. - Succede, mamma, non ti preoccupare. Antoinette apre lo
sportello inferiore della credenza. Ecco lì la rivista. La prende e la porge
a Jean. Il figlio guarda dubbioso i fogli che ha in mano. - Ma… il giornale locale? Pensavo ad una
rivista letteraria. Antoinette
sorride: - Pensi che se fosse stato su una rivista letteraria l’avrei letto?
Non ho mai letto riviste letterarie, lo sai, Jean. Jean annuisce. - Va bene, grazie. Me lo leggerò, poi ti restituisco il giornale. - No, no. Tienilo pure. L’ho messo da parte per te. - Com’è il racconto? - Oh, è una bella storia. Ma finisce male. Antoinette non si
ricorda della storia, ma alla fine il protagonista muore, questo le è rimasto
impresso, perché è una scena violenta, lo uccidono. A lei non piacciono le
scene violente, le fanno impressione. Jean sorride. - Adesso vado. Grazie. Jean esce. Antoinette lo guarda dalla
finestra, mentre si allontana a passo deciso. Nell’andatura gli è rimasto
qualche cosa del periodo in cui è stato militare. Ed il pensiero va ad Adolphe, il figlio maggiore, il più amato, morto ad Abukir, in quella terra lontana. Neppure una tomba su cui
portare un fiore. Adolphe si sarebbe sposato,
avrebbe avuto dei figli. Ora lei avrebbe dei nipotini. Ma Dio ha voluto
altrimenti. * Alla vista della grande roccia, David accelera il passo, per quanto
glielo permette la stanchezza. Sì, ricordava bene. Oltre la curva, Chaumont gli appare dall'altra parte della valle,
arroccata sulla scarpata. Può vedere la strada che supera È quasi arrivato. Certo, deve ancora scendere fino al fiume e poi
risalire, ma prima che cali il buio sarà a casa. La coscienza di essere ormai
giunto alla meta suscita in lui nuovi dubbi. David si siede su una roccia,
sul ciglio della strada, per riposare un momento e cercare di fare ordine tra
le sue idee. Perché arrivare a Chaumont significa
il termine di un viaggio massacrante, ma di certo non la fine di tutti i suoi
problemi. Non vorrebbe pensarci ora. È sfinito. Giorni e giorni di marcia, da
Parigi a Chaumont, senza la possibilità di
fermarsi, se non per trascorrere la notte in qualche fienile. Ieri ha speso
le sue ultime monete, perciò in mattinata è partito prestissimo, in modo da
arrivare a destinazione prima del buio. Ha camminato tutto il giorno di buon
passo; ora però le forze gli mancano, le gambe gli sembrano pesanti come
macigni e fa fatica a sollevarle. Eppure può dire di essere stato fortunato: nessun contrattempo ha
ritardato il suo viaggio ed è piovuto ben poco. Tutto è andato per il meglio.
Certo, ora il suo abito è ridotto in condizioni penose. Non possiede un secondo
abito, né molto altro: nel sacco che porta in spalla ha i suoi manoscritti e
poca biancheria: tutti i suoi beni. Ha lasciato Parigi una settimana fa, con
quanto è scampato al naufragio del suo sogno nella capitale. Ben poco. Di che
vergognarsi a presentarsi nella sua cittadina. Ma non ha altro posto dove
andare. Ed ora? Che cosa farà a Chaumont? Dipende da
suo padre. Al pensiero di suo padre, David sente in cuore una tristezza cupa. Può
davvero chiamare padre quell’uomo che non gli ha mai dimostrato un minimo di
affetto? Affetto? Sul viso di David appare una smorfia amara. Riluttante, David si alza. Non può indugiare oltre: sta calando il
buio. Riprende a camminare, ma il pensiero di ciò che l’attende è un macigno
che gli grava sulle spalle e che sembra pesare più della fatica del viaggio.
Che cosa troverà a casa? Un letto ed un pasto caldo e questo non è poco,
nelle condizioni in cui si trova. E suo padre, che gli rinfaccerà il suo
fallimento, che lo umilierà, come ha sempre fatto. Da quando è morta sua
madre, l’indifferenza che suo padre sembrava aver sempre provato nei suoi
confronti si è tramutata in un rancore profondo, un astio implacabile. Perché
questo livore? David non è mai stato un ragazzo ribelle. Perché? David guarda il fiume. Le acque riflettono la luce rossastra del
tramonto, le rive sono buie, quasi nere. Nella mente di David passano rapidi
pensieri di morte. Si scuote. Per questo c’è tempo. Adesso deve vedere ciò che lo
attende, deve cercare di ottenere una spiegazione. Quando David partì per
Parigi per completare i suoi studi, ed inseguire i suoi sogni, suo padre
sembrava ben felice di liberarsi della sua presenza. Gli aveva accordato una
minuscola somma, che almeno aveva permesso a David di assicurarsi vitto e
alloggio. Per qualunque altra spesa, studi compresi, aveva dovuto arrangiarsi
cercando lavori temporanei. Ma David aveva vent’anni e sapeva accontentarsi.
Era riuscito a cavarsela, con molte rinunce. Poi, l'anno scorso, suo padre ha
smesso di inviargli quel minimo sussidio. David ha cercato di rimanere a
galla, ma ben presto è risultato evidente che non era in grado di proseguire
gli studi e che doveva lavorare a tempo pieno per sopravvivere. Degli studi
non si preoccupava molto: aveva altri progetti, altre ambizioni. Ma la vita era
dura per uno come lui, del tutto privo di appoggi, di amici influenti, di
denaro. Faceva fatica a mantenersi e non riusciva più a scrivere. Aveva chiesto aiuto a suo padre, il quale gli aveva risposto che non
gli avrebbe più mandato nulla. Perché? Nella lettera non c'era nessuna
motivazione. David non sa trovare quei chiarimenti che mancavano nella lettera. Non
sono certo le difficoltà economiche ad impedire a suo padre di aiutarlo: ha
accumulato una bella fortuna. E allora? David ha un sospetto, che lo umilia e
preferisce non formulare. Dovrà chiedere spiegazioni, ma il pensiero del dialogo con suo padre
gli è particolarmente sgradevole. Sa, con assoluta certezza, di essere a
malapena tollerato. Ogni boccone che consumerà in quella casa gli sarà fatto
pesare. Il sole è tramontato ed il cielo incomincia ad imbrunire. David deve
attraversare buona parte della cittadina, prima di arrivare a casa di suo
padre. Si sente a disagio, si rende dolorosamente conto di non essere
presentabile. E gli sguardi delle prime persone che incrocia acuiscono la sua
consapevolezza: quelli che non lo conoscono lo squadrano diffidenti. Sembra
un mendicante. E che cos’altro è? Non possiede nulla e non è in grado di
guadagnarsi da vivere. Avrebbe dovuto passare per i campi ed evitare le
strade della città, ma è tardi, è stanco, sperava che nella luce fioca della
sera la sua miseria non fosse così evidente. Cerca di tenersi lontano dalle vie centrali, scegliendo un percorso
più lungo. Ma c’è molta gente per le strade. Qualche conoscente si avvicina e
si ferma a parlare con lui, anche se David cerca di essere sbrigativo. La
pietà che legge nello sguardo di alcuni lo umilia di più del malcelato
scherno con cui lo salutano certi suoi coetanei. È un fallito, a ventitre
anni. Arriva infine davanti alla casa in cui è vissuto per tanti anni:
guarda i due piani con le finestre disposte in modo regolare, il tetto
fortemente inclinato, i fiori che Sophie mette alle
finestre. Con che sollievo se ne è andato di qui, tre anni fa! David esita. Vorrebbe fuggire, evitare l’ennesima umiliazione che lo
attende. Passa gente: non può rimanere fermo, davanti a casa sua, come se non
osasse entrare. Bussa. Gli apre la porta Sophie. Il viso rugoso della domestica si apre in un ampio sorriso e la voce
rivela la sua gioia nel rivedere il padroncino: - Signor David, che piacere vederla! Non sapevo che sarebbe arrivato!
Suo padre non mi ha detto niente. Poi la donna si interrompe un attimo e lo guarda: - Ma che cosa le è successo? È tutto impolverato. David non vuole mentire a questa donna che gli vuole davvero bene.
L’unica, lo sa benissimo. Altro calore umano non è in serbo per lui, né da
parte di suo fratello, né da parte di suo padre. Sorride, per coprire la sofferenza e la mortificazione. - La strada è lunga, da Parigi a qui. Sophie lo guarda, pare non
capire, poi esclama: - È venuto a piedi. Vergine Santa! Sarà stanchissimo! Venga dentro,
venga dentro. Si fa da parte per lasciarlo passare, poi gli dice: - Corro a dire a suo padre che è arrivato e le preparo subito qualche
cosa da mangiare. Il signor Paul non c'è, è a Auxerre. Sophie lo precede nella stanza in
cui si trova suo padre. David cammina piano. Non è la spossatezza a
rallentare i suoi passi, ma la coscienza dell’accoglienza che lo attende. Sente la voce del padre, roca, come sempre. - Chi è, Sophie? - Suo figlio, signor Guyère! David, è
tornato da Parigi. - David? Che cosa vuole, quello? Le ultime parole vengono pronunciate mentre David entra nella stanza.
Il tono, più sprezzante che indifferente, è sufficiente. David vorrebbe
fuggire, ora, da questa stanza. Perché mai è venuto qui? Ma è tardi, ormai.
Louis Guyère, suo padre, lo fissa con uno sguardo
in cui David può leggere unicamente il fastidio. È seduto sulla poltrona, il
giornale tra le mani. Non lo piega nemmeno, come se l’arrivo di David non
fosse un motivo sufficiente per interrompere a lungo la lettura. Non fa un
cenno di saluto, nemmeno un sorriso. - A cosa dobbiamo l'onore della tua presenza? L'ironia tagliente è un nuovo colpo per David. Perché, perché? Che
cosa ha fatto, qual è la sua colpa? Abbassa il capo. Poi lo solleva e fissa
suo padre. - Non potevo rimanere a Parigi senza soldi. Sono tornato... Si ferma, incapace di proseguire, schiacciato da un peso che gli fa di
nuovo chinare la testa. Non saprebbe più dire perché è tornato. A chiedere un
aiuto? Ridicolo pensare che quest'uomo sia disponibile a muovere un dito per
lui. Ad esigere una spiegazione? Forse, almeno ad una spiegazione ha diritto,
suo padre non può negargliela. Louis Guyère risponde, senza aspettare che
David completi la frase: - Hai avuto due anni per trovarti una sistemazione. Non puoi pensare
che ti mantenga ancora. Sei maggiorenne. David rimane un momento a guardare suo padre, senza parlare. Non c’è
soluzione, lo sa benissimo, non è in questa casa che può trovare un aiuto. Ma
una spiegazione quella sì, ne ha diritto. La sua voce è ferma, ora. Vuole
sapere perché gli è negato ciò che suo fratello ha avuto senza dover
chiedere. - Perché non vuoi permettermi di studiare, come hai fatto con Paul? Suo padre ha un ghigno, si direbbe quasi che rida. Un accesso di tosse
gli impedisce di rispondere. Sophie riempie dalla
caraffa un bicchiere d’acqua e glielo porge. David si rende conto che la
cameriera è rimasta nella stanza. O forse era nel corridoio ed è accorsa
sentendo il padrone tossire. Ci vuole un buon momento perché la tosse di Louis Guyère
si calmi. Ma suo padre non ha fretta di parlare. Beve a piccoli sorsi
l’acqua. Poi, quando infine si è ripreso, si rivolge al figlio: - Non ritengo di aver nessun obbligo nei tuoi confronti. Ho già fatto
più che a sufficienza mantenendoti fino ad ora. David esplode in un grido rabbioso: - Ma sono tuo figlio! Louis Guyère scoppia a ridere, ma è una risata
priva di allegria. David guarda stupito quella bocca spalancata in un ghigno
beffardo. C'è una gioia maligna, feroce sul viso di suo padre, come se
finalmente fosse arrivato un momento atteso a lungo. Poi la risata si
trasforma in un altro accesso di tosse e Sophie gli
porge nuovamente il bicchiere. Louis Guyère
tossisce e ridacchia, facendo mostra di divertirsi, come se David avesse
raccontato una storiella esilarante. David stringe i denti. Cerca di controllare la voce, che gli trema per
la rabbia. - Perché ridi? L’espressione di suo padre cambia di colpo. In un attimo l’allegria
forzata svanisce. Il viso è duro, si direbbe carico di odio. Si alza di
scatto, gettando a terra il giornale, e lo guarda, poi scrolla le spalle. - Puoi chiederlo a tutta la città. La risposta è una frustata di rabbia e disprezzo. Suo padre riprende a
tossire, ma quando Sophie gli porge l’acqua, Guyère le allontana il braccio con un movimento brusco,
facendo cadere il bicchiere. C’è il rumore secco del vetro che si rompe,
l’acqua si sparge a terra. Louis Guyère si dirige alle scale che
portano al piano superiore, dove vi sono le camere da letto. La conversazione
è finita, ma, arrivato al pianerottolo, l’uomo si volta ed aggiunge: - Questa notte puoi dormire qui, non voglio che si dica che non ti ho
nemmeno accolto in casa, ma poi sei pregato di cercarti un'altra
sistemazione. Non so che farmene di bocche da sfamare. Poi suo padre scompare. David guarda le scale. La rabbia di poco prima ha lasciato posto ad
una grande stanchezza. Rimane inebetito, incapace di reagire. - Si sieda. Sophie gli avvicina una sedia.
David ubbidisce, macchinalmente. La donna raccoglie i vetri e scompare. David
rimane seduto a fissare il pavimento bagnato. Non riesce a pensare. Gli
sembra che la stanchezza del viaggio e la tensione accumulata lo schiaccino.
Non riuscirebbe ad alzarsi nemmeno se la casa andasse a fuoco. Non si era
aspettato affetto, ma nemmeno tanto odio. Non saprebbe dire quanto tempo è passato quando si sente chiamare da Sophie. - Le ho portato qualche cosa da mangiare. Avrà fame, dopo un viaggio
così lungo. David scuote la testa. - No, no, non me la sento di mangiare. Malgrado non abbia toccato cibo da ieri sera, quando ha speso i suoi
ultimi spiccioli per mangiare un boccone in una fattoria, David si sente lo
stomaco chiuso dall’angoscia. Ma la donna, sorridendo, gli mette sotto il naso il piatto che gli ha
preparato e lo incoraggia a mangiare. Alla vista ed al profumo del cibo,
David sente la fame risvegliarsi. Cerca di sorridere alla domestica. - Grazie, Sophie. La donna ricambia con un sorriso franco. - Mangi con calma. Io intanto vado a prepararle la camera ed un bel
bagno, di là. Mentre David mangia, la donna fa scaldare l’acqua, sistema la tinozza
e poi sale a preparare il letto. Dopo aver cenato, David si immerge nell’acqua calda. La stanchezza ha
il sopravvento e David si rende conto che fa fatica a tenere gli occhi
aperti. Per un momento quasi si addormenta nella tinozza. Poi si riscuote, si
lava con cura, si asciuga, si riveste e sale in camera, dove Sophie ha già portato il suo misero bagaglio. Il letto è pronto, David si spoglia e si corica immediatamente,
spossato. Si dice che non riuscirà ad addormentarsi, dopo questa serata
terribile, ma scivola rapidamente nel sonno. * Jean sta leggendo le Odi, il libro di un giovane poeta, Victor
Hugo. Gliene hanno parlato bene e senza dubbio lo scrittore ha talento. Ma
Jean non ha un debole per la poesia e non riesce a leggerne molte di seguito.
Adesso si sta annoiando, per cui preferisce interrompere: chiude il volume e
lo posa sul tavolino. Non ha sonno e comunque è ancora presto per mettersi a
dormire. Si guarda intorno e la sua attenzione è attirata dal giornale che
gli ha dato sua madre ed a cui non ha più pensato. Che razza di racconto può
aver scritto il cugino? David non è uno stupido, di certo. Ma che cosa si può
pubblicare di decente su un giornale come il gazzettino di Chaumont? Jean si alza e sfoglia la rivista alla ricerca del racconto. Eccolo: Le
luci nella radura, David Guyère. Va bene, tanto
vale dare un’occhiata. Domani avrà un argomento di cui parlare con sua madre. Jean incomincia a leggere. David sembra scrivere bene, molto bene.
Accidenti! Uno stile asciutto, incisivo, senza orpelli, di un’eleganza
classica. Fa sembrare ridicole certe pagine dei nuovi scrittori che si stanno
affermando in questi anni. Ma che diavolo ci fa un racconto così sul
gazzettino di Chaumont? Jean ha letto tutto il racconto. Ne rilegge alcuni brani. Davvero
notevole, la descrizione dei boscaioli è potente. Bisogna che ne parli con il
cugino, quando torna a Parigi: deve convincerlo a pubblicare su qualche
rivista letteraria, non sul giornale locale. Probabilmente David non ha
agganci, ma Jean li ha. Se può dargli una mano, è ben contento. Jean pensa al cugino. Ne ha sempre apprezzato l’intelligenza. E non
solo. Inutile che se lo nasconda: David è bellissimo, di una bellezza da
togliere il fiato. Più di una volta, durante le estati trascorse a Chaumont, Jean ha pensato di fargli un ritratto. Adesso è
parecchio che non lo vede, da quando si è trasferito a Parigi. David gli
aveva detto che sarebbe passato a trovarlo, ma non si è mai fatto vivo.
Niente di strano: altra età, altri interessi. * David si sveglia tardi. Per un attimo non si rende conto di dove si
trova: c’è solo la sensazione piacevolissima di essere in un letto e di aver
riposato, un benessere completo a cui è bello abbandonarsi. Ma è solo un
istante: la realtà si impone con forza e David si mette a sedere di scatto.
Ripensa alla scena di ieri sera e si sente prendere dallo scoramento. Gli
pare di sentire nelle orecchie la risata di suo padre, interrotta dalla
tosse. Deve sapere. Ma non intende parlarne a suo padre. A chi può chiedere?
Qualcuno della generazione dei suoi genitori, che accetti di parlargli
sinceramente, che non lo metta in una situazione umiliante. Passa in rassegna
mentalmente alcuni nomi, ma nessuno lo convince. Poi gli viene in mente il
notaio Bouchardon, un amico di famiglia che gli era
sempre parso un po’ innamorato di sua madre. Un’idea gli balena in testa. Se
suo padre fosse proprio il notaio? In questo caso non potrebbe certo
rivolgersi a lui. Ma non ha davvero nessun motivo per pensarlo, sua madre
trattava Bouchardon in modo cordiale, ma nulla
faceva pensare che ricambiasse i suoi sentimenti. David si dice che ne
parlerà con lui, è l’unica persona a cui si sente di chiedere. David si lava e si veste con lentezza, cercando di ritardare il
momento in cui dovrà scendere: lo sgomenta l’idea di rivedere suo padre dopo
la scena di ieri sera. Ma non può di certo rimanere tutto il giorno in
camera. Apre la porta della stanza. Nessuna voce, nessun rumore. Al piano terra, David trova Sophie, con gli
occhi rossi. - Che succede, Sophie? Qualche problema? La donna annuisce, poi dice, tutto d’un fiato: - Suo padre ha detto che deve andarsene oggi. È una vergogna! David sorride. Sapeva già che suo padre non avrebbe di certo cambiato
idea nella notte. - Non ti preoccupare, Sophie. Non ha importanza. - Ma che cosa farà? - Troverò una soluzione. La soluzione gli è balenata in testa più d'una volta, a Parigi, nel
corso di quest'ultimo anno. Può fare quanto occorre anche qui, a Chaumont. Prima però, vuole parlare con il notaio. Sophie gli ha preparato la
colazione e David mangia, anche se non prova appetito: non vuole ferire
questa donna, l’unica persona che tiene a lui nella cittadina. La ringrazia e
le dice: - Senti, Sophie, lascio qui la borsa con le
mie cose. Poi passo a ritirarla, quando avrò trovato una sistemazione. La donna è di nuovo sul punto di piangere. Ripete: - Ma che cosa farà? David non sa che cosa rispondere. Si limita a ripetere quello che ha
già detto, sperando che Sophie non si renda conto
di quanto vuote siano le sue parole: - Non ti preoccupare. Troverò una soluzione. David saluta ed esce, contento di non aver incontrato suo padre.
Almeno non ha dovuto subire una nuova umiliazione. L’impiegato del notaio Bouchardon gli
comunica che c’è da aspettare. Il notaio è occupato con una cliente e dopo di
lei c’è un gruppo in attesa. In effetti ci sono quattro uomini, che David non
conosce. Meglio così. Non ha voglia di vedere visi noti, vecchie conoscenze,
con cui dovrebbe scambiare qualche parola. Teme le domande che potrebbero fargli,
le risposte che non è in grado di dare. I quattro sembrano contadini benestanti, venuti per qualche affare.
Appaiono tesi, si guardano con diffidenza; uno, un uomo alto e corpulento,
ogni tanto impreca sottovoce, mentre quello seduto vicino a lui, più giovane
e segaligno, ma simile nei lineamenti, cerca di calmarlo. In un altro momento
David li starebbe già immaginando come protagonisti di una storia, ripetendo
il vecchio gioco della sua infanzia, in cui ogni sconosciuto diventava il
protagonista di una vicenda che a volte portava la sua fantasia lontanissimo.
Li vedrebbe come contadini costretti a vendere la loro terra per i debiti
contratti da uno di loro oppure immaginerebbe qualche gelosia nascosta per
una donna, moglie di uno ed amante di un altro. Le sue storie prendono sempre
spunto da una persona incontrata: qualcuno che magari David conosce bene
oppure un volto velato intravisto in una carrozza che passa o la sagoma
snella di una donna che cammina rapida per le strade di Parigi. Ma oggi non c’è spazio per l’immaginazione. Anche la scrittura, a cui
pure David si è dedicato in questi anni con una dedizione assoluta, ora
sembra lontana. David si dice che ha incominciato a staccarsi da tutto ed è
giusto che sia così. Renderà più facile il passo successivo. Dopo un buon momento, dall’ufficio esce una signora sui cinquanta, un
viso vagamente familiare. Vede David e lo saluta, un po’ imbarazzata: non
vuole che si sappia che è andata dal notaio? O si vergogna a vedere David
nelle condizioni in cui si trova? David è a disagio: si è lavato e pettinato
e Sophie ha spazzolato con cura l’abito che
indossa, ma sa benissimo che la giacca ed i pantaloni sono lisi e rivelano
tutta la sua miseria. David ricambia il saluto e la signora scompare oltre la soglia. David
non riesce a ricordare chi sia. Ma non ha importanza. Il notaio lo vede, lo saluta e poi fa accomodare i quattro contadini,
dicendogli che c’è da aspettare. A David va bene. Non ha nessuna fretta di
affrontare un colloquio che non sarà facile. Il tempo passa. Si sentono le
voci, che ad un certo momento diventano forti: un alterco, insulti, il rumore
di una sedia spinta bruscamente, un “Fermi!” pronunciato con forza dal
notaio. David sente, ma non ascolta. Rimane nella penombra della sala, che
gli pare avvolgere anche la sua mente. I quattro escono dallo studio. Il tipo corpulento è ancora nervoso,
bestemmia sottovoce due volte. Quello più magro gli mette una mano sulla
spalla, per calmarlo. Gli altri li ignorano. Sono appena usciti che li si sente nuovamente litigare, in strada. Ma
David non ci bada. Guarda la porta dello studio, su cui ora si affaccia il
notaio. Come la sera prima, davanti a casa, il primo impulso di David è
quello di fuggire. Ma ormai può solo andare avanti. Vuole sapere. Deve
sapere. Guillaume Bouchardon ha superato i sessanta.
È un uomo robusto, un po’ appesantito dagli anni. Il viso è incorniciato da
capelli e barba corti, ancora più neri che bianchi, nonostante l’età. Il naso
aquilino ed il mento squadrato rivelano il suo carattere forte. Il notaio cura molto il suo aspetto, in ogni dettaglio: indossa un
abito ed una camicia di buon taglio, che non sfigurerebbero addosso ad un
notaio parigino, come Derville. David si sente
ancora più a disagio. - Si accomodi, signor Guyère. Mi avevano detto
che era arrivato in città. Il notaio gli tende la mano, che David stringe. Non riesce a
rispondere. Di nuovo prova l’impulso di andarsene, ma non può farlo. Non ha
un posto in cui andare. O forse sì, ottenuta la risposta che cerca, sa dove
andare. Il pensiero lo aiuta a scuotersi. Risponde: - Sì, ieri sera. Come sta? Quasi si stupisce del tono tranquillo, impersonale, con cui gli escono
le parole. Tra la ridda di emozioni che lo agitano ed il tono neutro con cui
ha formulato la sua risposta, corretta e cortese, c’è un abisso. Il notaio gli fa cenno di accomodarsi di fronte alla scrivania. - Bene, grazie. E lei? David osserva il mobilio elegante dello studio e poi fissa Bouchardon. Che cosa pensa quest’uomo? Che cosa sa? Se
gli hanno detto che è arrivato ieri sera, gli hanno certamente riferito le
condizioni in cui è giunto, di sicuro ne parla tutta la città. In provincia è
così. D’altronde David sa benissimo che basta guardarlo per capire che è
povero in canna. Ma non è qui per questo. Non ha risposto alla domanda del notaio. Inutile. David respira a
fondo e si lancia, prima di avere il tempo di cambiare idea. - Mi scuso se le faccio perdere tempo, signor Bouchardon,
ma ho bisogno di sapere… c’è un'informazione che
lei mi può dare. David prosegue, scrutando i lineamenti forti del notaio. - Come forse saprà, mio padre rifiuta di pagarmi gli studi ed ora
anche di ospitarmi a casa sua. Quando gli ho ricordato che sono suo figlio, è
scoppiato a ridere. Gli ho chiesto perché. Mi ha risposto che lo sa tutta Chaumont. C’è un momento di pausa, mentre David osserva Bouchardon,
che non si finge stupito. David gliene è grato: un atteggiamento ipocrita gli
peserebbe in questo momento. Il notaio sta valutando la risposta da dare alla
domanda che, per quanto inespressa, è ormai quasi superflua. O forse sta
valutando altri aspetti, ad esempio la possibilità di un’azione legale, che
David non intenderebbe certamente avviare. David aspetta un attimo, prima di
concludere ed esplicitare la sua richiesta: - Le chiedo, in nome dell'amicizia che mi ha sempre dimostrato, di
dirmi ciò che tutti sanno. Il notaio annuisce. Non risponde immediatamente. Sembra perso in
ricordi o in riflessioni. Poi guarda fisso negli occhi David e gli dice: - La sua è una domanda a cui è difficile rispondere, per ragioni che
credo siano ovvie ad una persona sensibile ed intelligente come lei, David -
mi scuserà se la chiamo così, come quando era bambino, ma la familiarità tra
i Bouchardon ed i Guyère
risale ad almeno due generazioni prima di me e lei in questo momento non è
qui come un cliente. David non replica. Parole e pensieri sembrano spegnersi nell’attesa.
Nella sua mente si è creato un vuoto. Il notaio riprende: - Credo che lei abbia diritto di sapere. E credo di poter dare una
risposta alla sua domanda. Il tempo si è fermato, in un’immobilità assoluta. David attende, in
una tensione vertiginosa del corpo e dell’anima. - Nel 1799 venne a stabilirsi a Chaumont un
nobile rovinato, il barone Edouard di Trouillas. Era
un uomo affascinante, nonostante la grande povertà di mezzi, ed in un piccolo
centro come Chaumont la sua eleganza lo
distingueva. Il barone rimase a Chaumont meno di un
anno, conquistando il cuore di più di una donna. Il notaio esita un attimo, guardando David: gli legge in faccia che ha
capito. David non è stupito, l’ha sospettato in alcuni momenti, anche se il
rispetto per sua madre gli ha sempre impedito di formulare chiaramente il
pensiero. Ora ha l’elemento che gli mancava: un nome ed un cognome. - Non so se è vero quello che dicono, le malelingue sono sempre pronte
a calunniare, soprattutto in una cittadina di provincia come questa. Ma
alcuni, tra cui suo padre, si convinsero che sua madre fosse tra le donne che
il barone aveva saputo conquistare. Certamente lui la frequentò molto. Lei
nacque circa sei mesi dopo la partenza del barone e... Il notaio si interrompe ed ha un mezzo sorriso. David lo invita a
proseguire: - E...? - E ne ha tutta la bellezza
e l'eleganza naturale. Sua madre era la più bella donna di Chaumont, ma i suoi occhi scuri, i suoi capelli neri,
quel naso diritto non le vengono né da sua madre, né, certamente, dal signor
Louis Guyère. David si stupisce della calma con cui accoglie la rivelazione. Le
informazioni ricevute non lo hanno sorpreso. Semplicemente hanno fatto piazza
pulita di quel pochissimo di speranza che gli rimaneva. La domanda gli viene alle labbra istintivamente. È una curiosità o
forse un ultimo tentativo di trovare un appiglio a cui aggrapparsi per non
precipitare. - Che ne è del barone di Trouillas? - So che venne ucciso in un duello… direi… sei anni fa. Perfetto! Nessuna illusione. La parete è liscia come un lama. Non gli
rimane altro che precipitare. Prima è, meglio è. Si alza di scatto. - La ringrazio. Non posso dirle quanto le sono grato. Avevo bisogno di
sapere. La reazione è energica, il tono deciso, ma il notaio lo guarda
dubbioso. - David, la situazione è
complessa. Se vuole che studiamo insieme il da farsi... Glielo dico come
amico di famiglia, non come notaio. Legalmente suo padre ha degli obblighi.
Potrei suggerirgli un compromesso… A David in questo momento l’idea appare ripugnante. Cercare di
ottenere qualche cosa da suo padre… No, non da suo padre,
dal suo patrigno. No! Dopo aver saputo, accettare qualche cosa da lui sarebbe
umiliante. Ha sopportato abbastanza, sa che cosa gli resta da fare. - No, la ringrazio, non ho bisogno di nulla. Grazie per aver risposto
alla mia domanda. Addio. Sì, adesso non ha più bisogno di nulla. Stringe vigorosamente la mano
al notaio ed esce in strada, senza neppure accorgersi che mentre passa nella
sala d’attesa un suo vecchio compagno di scuola gli fa un cenno di saluto. Fuori il sole è alto in cielo. Dopo la penombra dello studio, la luce
lo acceca e sembra bruciare le sue energie. Di colpo David si rende conto di
non essere quasi più in grado di reggersi in piedi. Chiude gli occhi e si
appoggia al muro. - Signor Guyère, si sente male? La voce lo fa sobbalzare. Si volta. Un vicino di casa. Cerca di
sorridere. - No, un capogiro, niente. Buongiorno, signor Falherbe,
arrivederla. Si gira di scatto e si allontana rapidamente, conscio dello sguardo
stupito fisso su di lui. Basta, non può più continuare, non vuole esporsi
ancora al ludibrio della gente. Cammina tenendo gli occhi fissi a terra. Non
vuole salutare nessuno, non vuole vedere nessuno, in questa maledetta città
dove non si può stare un attimo in pace. Vuole solo concludere. Sceglie strade secondarie e cammina rasente ai muri; evita di alzare
la testa per non incontrare lo sguardo di qualche conoscenza e trovarsi
costretto a salutare. L’idea che qualcuno possa parlargli gli pare
intollerabile, non sarebbe in grado di rispondere a tono. Ma fa fatica a
muoversi, la testa gli gira. Barcolla. Ad un certo punto deve sedersi,
incapace di proseguire. Una valanga di sofferenza lo schiaccia. Sta per concludere. La sua breve ed inutile vita. Un bastardo, che non
avrebbe mai dovuto nascere e che è vissuto più che abbastanza. Nessun
rimpianto. Non ha combinato nulla di buono. Si dimenticheranno in fretta di
lui. Solo Sophie, nel suo cuore generoso,
conserverà il suo ricordo. Sta per raggiungere sua madre nella tomba. La scarpata non è lontana. Un ultimo sforzo. Si alza, riprende a
camminare. Ecco il parapetto. È arrivato sul bordo dell’abisso. Si ferma di fronte al muretto. Guarda il precipizio ed il fiume che
scorre in fondo. Si sfracellerà sulle rocce o finirà in acqua, per essere poi
trascinato via dalla corrente. Non esita. Ha lottato a lungo, con tutte le sue forze. Ora non ce la
fa più. Da tempo sta precipitando. Si appoggia con una mano sul parapetto per darsi una spinta e con un
salto lo scavalca, per lanciarsi nel vuoto. * Jean si alza presto e dopo aver fatto colazione si avvia per una lunga
passeggiata a piedi. A Parigi lavora molto il mattino e meno il pomeriggio; a
Chaumont avviene il contrario: le camminate
mattutine lo rilassano e la natura circostante gli suggerisce spesso idee per
le tavole che deve preparare. Quando vede qualche cosa che pensa di poter
utilizzare, si ferma e con la matita fissa sul taccuino un dettaglio, uno
scorcio, una sfumatura: in effetti la campagna è il luogo ideale per lavorare
alle Favole. Quando il pomeriggio si siede alla scrivania per lavorare, le
illustrazioni per le favole di Anche oggi, al ritorno dalla passeggiata, Jean si ferma da sua madre.
A quest’ora il patrigno sicuramente non è a casa: se un improvviso malessere
gli impedisse di uscire, se ne servirebbe come scusa per rimanere in camera.
Nessuno dei due ha voglia di vedere l’altro. Sua madre appare agitata. Appena lo vede gli dice: - Meno male che sei arrivato! Ieri è tornato David. Che combinazione! Proprio ieri hanno parlato di lui e Jean ha letto il
suo racconto. Avrà modo di incontrare il cugino e di suggerirgli di cercare
altre riviste per pubblicare i suoi testi. Magari potrà offrirsi di dargli
una mano. Ma perché sua madre appare preoccupata per il ritorno di David? - Bene, lo rivedrò volentieri. Ma… c’è
qualche problema? Sua madre annuisce: - È arrivato ieri sera, in condizioni penose: chi l'ha visto dice che
sembrava un mendicante. Deve aver fatto a piedi buona parte della strada. Jean la guarda, stupito. Da Parigi a Chaumont
ci vorrà una settimana a piedi, almeno. - A piedi? Sua madre allarga le braccia. - Probabilmente non aveva i soldi per il viaggio in carrozza. È
ridotto in miseria. Deve proprio essere arrivato a piedi. Jean non riesce a capire: non ha mai avuto modo di frequentare molto
David; dallo zio e dal cugino Paul si è sempre tenuto alla larga; perciò non
è informato sui rapporti all’interno della famiglia. - Ma lo zio è ricco. Come Sua madre fa una smorfia di disapprovazione. Allarga di nuovo le
braccia, in un gesto che le è abituale. - Tuo zio non è mai stato generoso con David. Una volta gliel'ho anche
rimproverato e mi ha risposto che non si sente tenuto a mantenerlo. Vedi, il
fatto è che… Sua madre si interrompe, pare in imbarazzo. Jean sospetta i motivi per
cui lo zio ha sempre trattato in modo assai diverso i suoi due figli. Si
stupisce che sua madre sia restia a parlarne: se Jean non dimostrasse così
poco interesse per i pettegolezzi di Chaumont, sua
madre gliene parlerebbe per ore, perché le piace essere informata su ciò che
si dice in città ed ama chiacchierare. Probabilmente l’argomento le sembra
delicato, perché sono coinvolti il fratello ed il nipote del suo primo
marito. Con un sospiro Antoinette conclude la frase: - … non lo considera suo figlio. Jean annuisce. Era quanto si aspettava ed un ricordo personale lo
porta a supporre che lo zio abbia ragione a non ritenersi il padre di David.
Ma di qui a lasciarlo nella miseria, ce ne corre. Tanto più che David non ha
nessuna colpa. Che si può fare? Sua madre non ha molti rapporti con il cognato, che
vive isolato, e non può certo convincerlo a cambiare idea. Jean sa di non
avere nessuna influenza sullo zio, anche se questi lo tratta con grande
rispetto: Jean ha fatto fortuna, quindi Louis Guyère
ha molta stima di lui. Ma Jean non ha mai tenuto a frequentare lo zio ed il
cugino Paul: anche questa volta, ha soltanto fatto una breve visita di
cortesia quando è arrivato e fino alla sua partenza non si rifarà vivo. Non
può presentarsi adesso e cercare di far ragionare lo zio, che comunque
difetta tanto di intelligenza quanto abbonda di ostinazione. - È una vergogna, Jean, per tuo zio e per tutta la famiglia. David
ridotto in queste condizioni! Al di là del piccolo scandalo di provincia, che lo lascia del tutto
indifferente, a Jean piacerebbe poter aiutare il cugino in qualche modo. - Vedrò di parlargli, mamma. - Sì, magari zio Louis ti ascolterà. Ha sempre avuto molta stima di
te. Jean intende rivolgersi al cugino, non allo zio. - Vedrò di parlare a David e poi cercherò di capire che cosa posso
fare. Discutono ancora un momento del cugino. Sua madre ripete di nuovo che dev’essere venuto a piedi: evidentemente il fatto l’ha colpita.
Ma ormai tende spesso a ripetere le cose, di questo Jean si è reso conto da
tempo. Poi sua madre gli chiede se ha letto il racconto e Jean le risponde
che gli è piaciuto molto e che David scrive davvero molto bene. Di certo sua
madre lo riferirà in giro. Non che cambi molto: non è certo in questa
cittadina, in cui l’unico talento apprezzato è quello di far soldi, che David
potrà trovare lettori ed estimatori. Poi sua madre dice: - Domani sono sola, Jérôme deve andare a Biesles. Hai mica voglia di fermarti a mangiare, così mi
tieni compagnia? Jean si ferma a mangiare solo se il patrigno non c’è, lo sanno tutti e
due, ma questo rimane tra le molte cose non dette tra di loro. Sua madre ha
imparato ad avvisare Jean il giorno prima, perché Marie-Anne
detesta preparare il pranzo e poi non vedere arrivare il padrone. Sua madre
non ha molta simpatia per Marie-Anne, ma sa che è
meglio non urtarne la sensibilità. Jean accetta l’invito, poi saluta sua madre ed esce. Invece di tornare a casa, si dirige verso l’abitazione dello zio.
Magari passando davanti alla casa avrà modo di vedere David o la domestica e
di scambiare due parole. Così potrà capire che cosa è successo e vedere se
può dare una mano a David. Oppure busserà e farà una breve visita, con la
scusa di salutare il cugino che è appena arrivato. L’idea non lo entusiasma,
ma in qualche modo è opportuno che intervenga. Dubita che qualcun altro sia
disposto a farlo. Ecco la casa, che avrebbe bisogno di una mano di vernice, ma non l’avrà
tanto presto: difficilmente lo zio allenta i cordoni della borsa. Le finestre del piano terreno sono tutte rigorosamente chiuse: Louis Guyère teme per la propria salute ed evita come la peste
le correnti d'aria, anche in questi giorni di sole, in cui si sente l’arrivo
della primavera. C’è sempre odore di chiuso, nella casa dello zio. Nel giardino non si vede nessuno e non si sentono voci. Non c’è altra
soluzione che bussare. Jean estrae dal taschino l’orologio: è quasi ora di
pranzo e lo zio non sopporta di essere disturbato mentre mangia. Jean si dice
che è meglio che si avvii anche lui verso casa, perché Marie-Anne
non ama vederlo arrivare tardi ai pasti. Tornerà ad un'ora più adatta. Volta le spalle all’abitazione dello zio e si dirige verso casa, riflettendo
su quando ripassare dallo zio: tornare nel pomeriggio significa interrompere
il lavoro, però può farlo sul tardi, così avrà il tempo di completare la
tavola che sta disegnando e di impostare la successiva. Lo scorcio della
strada per Treix, che ha disegnato sul taccuino
questa mattina, gli servirà sicuramente per la favola della mosca cocchiera.
Anche la sagoma di quel faggio… Mentre sta pensando ad un’illustrazione, vede in lontananza un uomo
che cammina lentamente, nella sua stessa direzione. Jean è colpito
dall’incedere incerto dello sconosciuto: pare che faccia fatica a stare in
piedi. L’abito è logoro, sembrerebbe quasi un mendicante. Il pensiero di Jean
va subito a ciò che la madre gli ha detto del cugino. L’uomo potrebbe essere
David, in effetti: ha gli stessi capelli neri ed è snello; sembra più basso
di come Jean se lo ricorda, ma solo perché cammina un po’ curvo, come se
portasse un peso sulle spalle. Se si tratta di David, è un bel colpo di fortuna: incontrandolo per
strada, avrà modo di scambiare due parole con lui e vedere come dargli una
mano, senza doversi sobbarcare una visita dallo zio. Un incontro casuale
rende le cose più facili. Jean accelera un po’ il passo, riducendo rapidamente la distanza che
lo separa dall'uomo: questi ora pare barcollare, come se fosse ubriaco o
esausto. Man mano che Jean si avvicina, l'impressione che l'uomo sia davvero
il cugino si trasforma in una certezza. È stato fortunato, si è imbattuto
proprio in David, ma in che condizioni si trova! Come mai cammina così? È
arrivato ieri sera, ha avuto modo di riposarsi. Non starà bene? Si sarà
ammalato in viaggio? Lo ha quasi raggiunto, quando David si ferma di colpo in mezzo alla
strada, poi, dopo aver vacillato un attimo, fa due passi in direzione di un
banco di pietra posto di fianco ad una casa e vi si lascia cadere. Jean lo
può vedere in faccia e si sente gelare. Sì, è David, ma quel giovane pallido
e sconvolto, con lo sguardo perso nel vuoto, è quasi irriconoscibile. Che
cosa gli è successo? Come si è potuto ridurre in queste condizioni? Jean è a pochi passi da lui, ma David non se ne rende nemmeno conto.
Jean esita, gli spiace avvicinare il cugino in un momento in cui è così
prostrato, ma un suo intervento è senza dubbio necessario. Di colpo il cugino si riscuote, si alza e riprende con passo più
deciso la sua strada. Jean rimane fermo a guardarlo, stupito da questo
improvviso mutamento. Lascia che David si allontani un po’, mentre si
interroga sul da farsi. E mentre si chiede se avvicinarlo ora, che sembra essersi
un po’ ripreso, o attendere, di colpo intuisce: il cugino sta andando alla
scarpata, a poche centinaia di metri dalla sua casa. David vuole uccidersi,
gettandosi nel vuoto, come altri hanno fatto prima di lui in quel punto. Jean riprende a camminare, facendo in modo di ridurre nuovamente la
distanza che lo separa dal cugino. Non si è sbagliato: arrivato sul ciglio della scarpata David si ferma
e poi, con un gesto deciso, si appoggia sul parapetto e fa per lanciarsi nel
vuoto. Ma a quel punto Jean è alle sue spalle. * David sente una mano che, proprio nell’attimo in cui è sospeso sul
parapetto, l’afferra e lo tira indietro. Perde l’equilibrio e cadrebbe sulla
strada, se due braccia non lo sostenessero. David si trova appoggiato ad un
corpo. Non guarda neppure chi è, non sente quello che gli sta dicendo
quest’uomo che si è intromesso, che vuole impedirgli di farla finita con la
sua sofferenza. In una reazione di rabbia se lo scrolla di dosso e lo
colpisce con il braccio teso, con tutta la forza che gli dà il suo disperato
desiderio di concludere. Lo sconosciuto molla la presa e David fa per saltare
di nuovo, ma per la seconda volta l’uomo lo blocca, gli impedisce di
lanciarsi e, quando David cerca di reagire, lo colpisce allo stomaco. Il
dolore è violento ed il pugno lascia David senza forze. Si affloscia tra le
braccia che lo sorreggono. - Mi perdoni, ma era necessario. Venga. Non è il caso di fermarsi qui,
dove può arrivare qualcuno. Abbiamo già… L’uomo non conclude la frase, ma la voce vagamente familiare spinge
David ad alzare gli occhi sul viso del suo salvatore. Sì, non si è sbagliato:
è il cugino Jean. Ma perché? Maledizione, perché, proprio ora? David non è in grado di opporsi, si lascia sostenere e trascinare
verso la casa del cugino, non lontana. Non è riuscito nemmeno ad uccidersi, nemmeno questo è stato capace di
fare. Non si rende conto di aver incominciato a piangere. * La porta si sta aprendo. Finalmente! Oggi il padrone rientra più tardi
del solito. Marie-Anne temeva che non arrivasse più.
Il pranzo è quasi pronto, tra qualche minuto l’oca sarà rosolata al punto
giusto, bisogna mettersi a tavola! Marie-Anne passa
nell’ingresso. Il padrone non è da solo, sta sostenendo qualcuno. Chi è? Dev’essere… sì, il cugino
David, ha sentito la fioraia che ne parlava questa mattina con la signora Tardieu. Ma il padrone ha perso un po’ di sangue dal
naso. Ed il cugino sembra incapace di reggersi in piedi. - Che cosa è successo? Il padrone fa un cenno con la mano, per farle capire di non
avvicinarsi. Accompagna il cugino in salotto e lo fa accomodare su una
poltrona. Si toglie la giacca e la dà a Marie-Anne. - Porti una pezza bagnata, per favore. Marie-Anne appende
la giacca e corre a prendere quanto le è stato richiesto. Porge la pezza al
padrone ed intanto dà un’occhiata al cugino. Sembra che si stia riprendendo.
Ma che cosa è successo? - Grazie, può andare. Andare? Ma è ora di mangiare! - Ma il pranzo? È quasi pronto… Marie-Anne è
indignata. L’oca e le verdure sono cotte a puntino: se si ritarda il pranzo,
bisognerà tenerle al caldo, come fossero gli avanzi di ieri! - Mangeremo più tardi, tutti e due. A Marie-Anne pare di aver ricevuto uno
schiaffo. In due, mentre lei ha preparato per uno! E più tardi della solita
ora, senza nemmeno avvisare! Non è possibile lavorare così, in queste
condizioni, come si fa!? Già si sono trasferiti a Chaumont
tre mesi prima del solito e per lei è stato ben difficile preparare tutto.
Adesso persino le ore dei pasti saltano. Per
ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo,
dice l’Ecclesiaste, ma in questa casa basta un nonnulla per mandare tutto per
aria. Marie-Anne cerca
di respingere le lacrime di rabbia. In cucina guarda sconsolata la pentola.
Ed ora? Preparerà ancora un po’ di verdure, altro non ha il tempo di fare. Il
padrone ha un ospite e lei non ne sapeva nulla, non ha preparato per due! Marie-Anne legge
spesso * Jean guarda il cugino, accasciato sulla sedia. Ha gli occhi chiusi.
Deve aver pianto, perché ha le guance rigate dalle lacrime. - Mi spiace, David, davvero, ma non avevo altro modo di fermarla. David solleva le palpebre e lo guarda. Ha degli occhi splendidi ed uno
sguardo intensissimo. Ma in quel viso è davvero difficile trovare un difetto,
anche ad uno sguardo esperto come quello di Jean. Il cugino scuote il capo,
poi lo riabbassa. - Poteva lasciarmi morire in pace! Sarebbe stato meglio. Jean non sa come consolare il dolore in cui David pare affogare: non
ha confidenza con il cugino, non conosce i gesti e le parole che sarebbero
necessari in questo momento. Si dice che è bene scrollare un po’ David, per cui risponde in modo
alquanto brusco: - Non dica bestialità! David rialza il capo e lo guarda. Sembra fare uno sforzo per
recuperare il controllo di sé. - Mi scusi, credo di averla colpita io per primo, oltre tutto. Ha
ancora del sangue sul mento. Jean prende la pezza che ha posato su un tavolino e si pulisce il
mento. Poi sorride al cugino: - Niente di grave. Io ho colpito più duro. Ma mi ha preso di sorpresa
e poco è mancato che il secondo tentativo riuscisse. David non risponde. Riabbassa lo sguardo. C’è un momento di silenzio. A Jean va bene avere un attimo per
riflettere su come muoversi. Adesso David è nella sua casa, al sicuro. Deve
procedere con cautela, riuscire ad ottenere la sua confidenza e capire come
può aiutarlo. Se non l’avesse incontrato casualmente, a quest’ora si sarebbe
sfracellato! Jean rabbrividisce. Il cugino sembra svuotato, privo di forze e di volontà. Vedeva nel
suicidio l’unica soluzione ed ora non gli resta niente. Pare fissare il
pavimento, ma probabilmente non lo vede neanche. Meglio cercare di farlo uscire da questo torpore. - David, mi vuole raccontare che cosa le è successo? Il cugino alza la testa. Gli
occhi gli luccicano, ma si controlla. Lo guarda. Scuote il capo. - Non voglio forzarla, ma vorrei capire che cosa l'ha spinta a tentare
il suicidio. Vorrei poter fare qualche cosa per lei. David lo fissa, sembra non capire neppure che deve rispondere. Poi,
con uno sforzo, prende a parlare. - Dovrei ringraziarla per avermi salvato, ma non posso farlo.
Preferirei essere morto, ora. Si ferma, poi prosegue: - Se vuole sapere il perché, è presto detto. Mio padre... Esita, si interrompe, incerto, poi riprende a parlare più velocemente,
come se avesse preso la decisione di tuffarsi. - …l'uomo che ho sempre ritenuto mio padre
non mi considera suo figlio, probabilmente… ha
buoni motivi per questo. Rifiuta di contribuire in qualunque modo alla
prosecuzione dei miei studi ed al mio soggiorno a Parigi. Io ho cercato di
lavorare ed ho trovato piccoli impieghi, che però mi assorbono tutto il tempo
e mi danno appena di che vivere, senza... David si interrompe, imbarazzato. Jean lo guarda e conclude la frase: - Senza lasciarle la possibilità di continuare a scrivere, che è
quello che lei sa fare e vuole continuare a fare. David lo guarda stupito. Nei suoi occhi non c’è più lo stesso vuoto.
Jean si dice che ha trovato la strada giusta. - Come... - Come ho fatto a saperlo? Mia madre mi ha fatto leggere il racconto
che lei ha pubblicato sul Corriere di Chaumont. Non è l'opera di un dilettante della
scrittura: lei ha un grande talento e deve aver lavorato parecchio per
scrivere un racconto di quel livello. Che, sia detto tra di noi, su una
rivista di quel genere è del tutto sprecato. David annuisce. Sembra aver dimenticato per un attimo la situazione ed
il discorso che stava facendo, preso dall’argomento che gli sta a cuore.
Bene, è il caso di continuare su questa strada. Jean intravede gli elementi
su cui può giocare la sua partita. David risponde: - So che la rivista vale poco, ma... me l'hanno pagato e speravo
che... - Che contribuisse a farla conoscere? Stupidaggini. Non una rivista di
quel genere. Lei deve pubblicare a Parigi. Ha altri racconti come quello? - Sì, sette o otto. E ho incominciato a scrivere un romanzo. - Bene, mi farebbe piacere leggerli. Potrei aiutarla a pubblicarli a
Parigi. Il mio lavoro mi ha portato a conoscere alcuni editori. E per
racconti come Le luci nella radura
non è difficile trovarne uno. Il volto di David si sta animando. Per la prima volta Jean vi legge
una speranza. - So che è un illustratore, ma non ho mai visto le sue opere. Jean alza le spalle, sorridendo. È contento di vedere che David si sta
riprendendo. Ora che non è più così cupo, è davvero bellissimo. No, lo era
anche prima, ma adesso lo è ancora di più. - Gliene farò vedere qualcuna. Ma adesso, mi dica... suppongo che lei
non voglia tornare da ... suo padre. Il viso di David diventa nuovamente cupo. - No, non posso. Lui non ha nessuna voglia di avermi tra i piedi e
rifiuta di accogliermi in casa. D'altronde adesso io... dopo quello che… non potrei più vivere da lui. - Va bene, allora si fermerà qui. Sul viso di David appare un'espressione di stupore. - Qui? Non è possibile. Deve riuscire a convincerlo, facendo attenzione a non ferire il suo
orgoglio. Deve far apparire questa soluzione come la cosa più naturale del
mondo. David è in uno stato di grande prostrazione, fisica e mentale: deve
approfittare di questo per riuscire ad aiutarlo. Jean sorride e risponde: - E perché mai, mio caro
cugino? La casa è abbastanza grande e, in attesa di ritornare a Parigi, può
fermarsi qui per alcuni giorni. Sì, meglio parlare di una permanenza di breve durata, anche se
certamente ci vorrà parecchio prima che David possa mantenersi da sé. Jean
prosegue: - Poi ci trasferiamo a Parigi,
dove prenderò contatto con gli editori che conosco e potrà pubblicare i
singoli racconti su qualche giornale o riunirli in un volume. L’accenno alla possibilità di pubblicare dovrebbe costituire un
argomento forte, anche perché darà a David l’idea che potrà diventare
autonomo presto. Il cugino infatti ora appare confuso, chiaramente tentato da
una proposta allettante. Poi scuote la testa: - Non posso accettare. Qualche resistenza è inevitabile, ma David non ha argomenti da
opporre. Jean lo sa benissimo, per cui colpisce: - Per quale motivo? David è incerto, non sa bene che cosa dire. - Non voglio approfittare della sua generosità. - Non dica sciocchezze. Certamente non sarà un peso economico per me e
nessuno potrà avere niente da dire se ospito mio cugino per qualche mese. Sarebbe
assurdo che lei dovesse cercarsi lavoretti per sopravvivere: quando si ha un
talento come il suo, è criminale sprecare il tempo in lavori insulsi. A
Parigi posseggo una casa, alquanto decentrata: in realtà è a Passy, non a Parigi, ma si arriva subito in città. La
casa non è molto grande, ma è tranquilla, ha un bel giardino e c'è spazio per
diverse persone. Conto di tornare a Parigi tra una settimana o due, per
completare il lavoro che sto facendo. Non è certo il periodo in cui di solito Jean rientra a Parigi, ma
quest’anno i suoi programmi sono stati tutti scombussolati. È arrivato con
largo anticipo e farà ritorno ad un’epoca in cui abitualmente non ha neanche
incominciato i preparativi per la partenza. Preferisce non rimanere a lungo a
Chaumont, perché teme che David, dopo quanto è
successo, si trovi ad essere continuamente sotto pressione: il suo arrivo
ieri sera, in quelle condizioni, ne ha fatto l’argomento del giorno; il
trasferimento a casa del cugino non può non alimentare voci e dicerie di ogni
genere. Qualcuno potrebbe persino averlo visto mentre cercava di uccidersi,
anche se il tentativo di suicidio si è svolto in un attimo. E poi che ci fa a Chaumont uno come David?
Il cugino ha bisogno di cambiare aria. Ed a Parigi Jean può prendere contatti
per valutare se è possibile pubblicare qualcuno dei racconti. David ha
bisogno di qualche speranza, di una prospettiva. Certo, Marie-Anne
storcerà il naso, ma dovrà adattarsi. Jean valuterà se ritornare a Chaumont più tardi, a luglio o ad agosto, visto che ora è
rimasto così poco. - Venga con me nella capitale, la ospito fino a che non avrà
pubblicato i suoi racconti: potrà dedicare tutto il suo tempo e tutte le sue
energie a completare il romanzo che sta scrivendo, a fare quello per cui è
nato. David è incerto, la proposta gli piace. Poi però scuote la testa, come
se volesse scacciare un'idea troppo bella per essere vera. - No, lei è davvero generoso, ma non posso accettare. Ormai è fatta. David sta cedendo. Solo l’orgoglio ed il timore di
essere importuno lo fanno ancora esitare. - Ma perché? Ha paura di disturbare? Vivere da solo può essere
piacevole, ma a lungo andare si desidera un po' di compagnia. Sono abbastanza
ricco da non dovermi certo preoccupare del mantenimento di una persona per
qualche tempo e lei potrà scrivere in pace, senza perdere ore preziose in un
lavoro idiota. David non risponde subito e Jean decide che è meglio deviare la
conversazione, in modo da dare al cugino il tempo di abituarsi all’idea. - Ha qui i suoi racconti ed il romanzo? - Sì, li ho portati con me e li ho lasciati da... mio padre, se posso
ancora chiamarlo così. A Parigi non ho una casa… Dopo un attimo di pausa, David aggiunge: - … qui neppure. Jean sorride: - Ora sì e sono sicuro che qui starà meglio che a casa di suo padre o,
se preferisce, mio zio. Adesso mangiamo un boccone e poi va a prendere le sue
cose? Sono alquanto affamato e la cuoca sta di sicuro sbuffando perché
abbiamo ritardato il pranzo. - Certo, mi scusi… non volevo… Jean ride. - Non si preoccupi. Vado ad avvisare Marie-Anne. * È possibile? Esiste realmente una soluzione, così semplice, a portata
di mano? Sì, esiste, non sta sognando. Ma può davvero accettare? Se suo padre
non è realmente suo padre, neanche Jean è suo cugino. Eppure sua madre gli
aveva detto di rivolgersi a Jean in caso di necessità, è andato da lui a
Parigi prima di partire, proprio per chiedergli aiuto, e adesso vorrebbe
rifiutare la sua generosa offerta? Non avrebbe senso. David è ancora perplesso. Può farsi mantenere ed ospitare dal cugino?
Sembra farlo così volentieri, di certo economicamente non costituisce un peso
per lui. Ma può davvero dire di sì? E che cos’altro potrebbe fare? Tornare a
gettarsi dal ponte per puro orgoglio, a questo punto, per non accettare
l’aiuto che ha cercato e che ora gli viene offerto spontaneamente? Jean rientra. Sorride, sembra soddisfatto. Probabilmente è realmente
contento di poterlo aiutare: sua madre diceva sempre che Jean era un uomo
molto generoso, David lo sa benissimo. D’altronde suo padre, il suo presunto
padre, dovrebbe dire, pur stimando molto Jean, lo accusava di sperperare le
sue ricchezze. Considerando quanto Louis Guyère sia
attaccato al denaro, quelle critiche sono un’altra conferma della generosità
di Jean. - Bene, possiamo metterci a tavola. Sopporterà i mugugni di Marie-Anne per il pranzo ritardato e l’ospite inatteso,
ma non ci faccia caso. Il cugino sorride di nuovo. David si sente meglio, ora. Gli sembra di essere uscito da un incubo.
È ancora scosso, ma si sta calmando. Si lavano le mani, poi si siedono a tavola. Marie-Anne
li serve, senza fare nessuno sforzo per nascondere il suo malumore. David
l’osserva. Un figura interessante, potrebbe venirne fuori un bel personaggio
di contorno. O se invece… perché non farne la protagonista
di un racconto? Qual è la vita di una donna come questa o come Sophie? Sophie vive per loro,
sono la sua famiglia. Non sembra desiderare altro. Da ragazzino aveva
immaginato una grande storia d’amore tra Sophie ed
un fattore di Auxerre, una vicenda dolorosa, per
cui Sophie aveva rinunciato ad avere una propria
vita. Ma questa donna? È più giovane di Sophie,
anche di Jean. Deve avere circa trentacinque anni. Quali sono i suoi rapporti
con il cugino? Di certo non è la serva sottomessa. - Mangi, David. Se non fa onore alla cucina, Marie-Anne
la odierà per il resto dei suoi giorni. Si è perso nei suoi pensieri, non si è neanche reso conto di non aver
ancora assaggiato il cibo. Si riscuote. Taglia il pezzo d’oca che ha nel
piatto e l’assaggia. Tenera e gustosa: una vera delizia. - I miei complimenti alla cucina. Lei è un uomo fortunato ad avere una
cuoca di questo livello, cugino. Il cibo è davvero eccellente, ma la sua lode eccessiva mira
soprattutto a rabbonire Marie-Anne. La donna fa un cenno con il capo, senza sorridere. Ma a David sembra
di vederla meno nervosa. Tutto il pranzo è ottimo. Per quanto tempo non è riuscito a consumare
un pasto decente? Non che gli importi molto, non è certo la buona tavola il
primo dei suoi interessi. Ma negli ultimi anni ha sempre mangiato poco,
spesso meno del necessario, e ben di rado qualche cosa di buono. Il pasto che
gli ha preparato Sophie ieri sera e questo sono i
migliori che ha avuto modo di gustare da Dio solo sa quanto tempo. Jean parla, costringendolo a rispondere. Il cugino vuole impedirgli di
rimuginare sull’accaduto. Ha una grande sensibilità, sua madre glielo aveva
detto. E dire che nessuno lo sospetterebbe a guardare quel viso duro,
sgraziato, o a vederlo camminare con quell’andatura un po’ militare. Dopo il pasto si siedono sulle poltrone. Jean parla di Parigi, degli
editori con cui ha avuto a che fare, dei salotti in cui molti autori cercano
di farsi ricevere, sperando di ottenervi un appoggio nella loro battaglia per
la conquista della fama. Ironizza su quelli che chiama “alcuni suoi
colleghi”, disposti a tutto pur di ottenere una recensione positiva o di
essere presentati all’editore giusto. Poi parla della sua casetta, in cui è
sicuro che David starà bene. David è sul punto di dirgli che è stato a cercarlo prima di lasciare
Parigi, poco più di una settimana fa, ma la vergogna lo blocca. David si sente in dovere di dire ancora una volta: - Non so come ringraziarla. Non so nemmeno se posso accettare. Jean alza la mano, come per impedirgli di proseguire. - Basta con queste schermaglie. A lei serve una casa e il tempo per
scrivere, a me fa piacere un po' di compagnia. Direi che è un buon affare per
tutti e due. David non potrebbe chiedere di meglio. Ma che per il cugino sia un
buon affare, questo è da vedersi. - Grazie. Non mi sembra vero di non dover più tornare a casa di... Si interrompe. Come può chiamare l’uomo a cui ha sempre dato il nome
di padre? Patrigno? Forse, ma non gli piace usare questo termine davanti a
Jean. Allora sorride ed usa l’espressione di cui si è servito Jean: - … di suo zio. Jean sorride anche lui. Scuote la testa e replica: - Tornarci dovrà, almeno una volta: non può mica rinunciare ai
manoscritti! Già, non ci ha pensato. Ma quando li ha lasciati in quella casa,
pensava di essere giunto al termine della sua esistenza. Adesso che gli si è
aperta una via davanti, recuperare quei testi è essenziale. David si alza. - Sì, è vero. Non ci avevo pensato. Preferisco andare subito. Jean lo guarda, un po’ dubbioso. Il cugino ha paura che faccia qualche
sciocchezza? No… adesso non avrebbe davvero senso. - Vuole che l'accompagni? David sorride. - No, non è necessario, vado da solo. Ritiro i manoscritti e torno
subito, glielo prometto. Per oggi ho già fatto abbastanza stupidaggini. Jean annuisce, sorridendo. - Concordo. Allora l’aspetto. Intanto le faccio preparare la sua
stanza. David saluta ed esce. Pensa a quando è arrivato, ieri sera.
All’imbarazzo che provava. Assurdo vergognarsi della propria miseria, non è
un delitto. Adesso si sforza di camminare a testa alta. Saluta le persone che
conosce, cortesemente, ma senza avvicinarsi. Scambia due parole con quelli
che si fermano per parlargli. Davanti alla casa di Louis Guyère, David si
ferma un momento. È l’ultima volta che la vede, forse. Di certo è l’ultima
volta che vi entra avendo qualche cosa da chiedere. Ma viene solo a ritirare
quanto è suo. Bussa. Sophie apre la porta. Esclama,
sottovoce: - Signor David! La donna lancia un’occhiata alle sue spalle. Di certo ha avuto ordine
di non lasciarlo più entrare. - Sono venuto solo a ritirare la mia borsa, Sophie.
Se la vai a prendere, ti aspetto qui. La donna annuisce. Si allontana rapidamente. Poco dopo torna con la borsa e con un piccolo involto. - Le ho preparato un po’ di pane e formaggio. Se posso fare qualche
cosa per lei… è… è orribile… Sophie sta per mettersi a
piangere. David pensava di non dire nulla della proposta del cugino. Ma vuole
lenire l’angoscia di questa donna. - Non ti preoccupare, Sophie. Mi ospita mio
cugino Jean. Mi aiuterà a trovare una sistemazione. Il viso di Sophie si illumina di una gioia
intensa: - Il signor Jean, che bello! Un signore ricco e generoso. Che bello! David prende la borsa e l’involto: non vuole rifiutare il gesto di
pietà di Sophie, anche se ha già mangiato. Le
stringe le mani tra le sue. - Grazie, Sophie, grazie di tutto. La donna sorride, ma ha le lacrime agli occhi. David si allontana. All’angolo della strada si volta e fa un cenno di
saluto a Sophie, che è ancora sulla porta. * Jean è alla finestra. È un po’ inquieto. David gli è sembrato più
tranquillo, ma non vorrebbe che, tornando a casa, avesse uno scontro con il patrigno… David è in una condizione di abbattimento che
lo rende molto fragile. Jean sa benissimo di averne approfittato per fargli
accettare la soluzione che aveva in mente, l’unica possibile, peraltro. David
è un carattere forte: in un altro momento forse avrebbe rifiutato, per
orgoglio, e se avesse deciso per il no, sarebbe stato difficile fargli
cambiare idea. Anche sul fronte interno Jean ha riportato una vittoria: ha annunciato
a Marie-Anne la loro prossima partenza da Chaumont e gliel’ha fatta digerire, con una certa dose di
diplomazia. Non è stato facile, ma se l’è cavata. E dire che le trattative
non sono certo il suo forte! È meglio che rifletta bene sulle prossime mosse. C'è molto da fare.
David non ha bisogno solo di un tetto e di pasti regolari. Ha bisogno di
abiti. E a Parigi avrà bisogno anche di denaro. Deve fare attenzione: David è
orgoglioso, non sarà facile fargli accettare quanto gli serve. Ma Jean si
sente abbastanza sicuro del fatto che, procedendo con cautela, riuscirà a
dare al cugino quello di cui ha bisogno. L'idea di poterlo aiutare lo rende felice. Rimedierà ad un torto e
darà una mano ad un giovane che si merita di fare strada. E sarà comunque
piacevole averlo al proprio fianco. Ecco David che torna, con la borsa dei suoi manoscritti. Jean lo
guarda. Ha completamente cambiato faccia: non sorride, ma nei suoi lineamenti
non si legge più la disperazione di prima. E il suo viso ha una bellezza che
appare quasi eccessiva. Jean si sente a disagio a guardarlo così. Si allontana dalla finestra. |
|||