I -
Un ragazzo molto fortunato Ouverture:
polifonia Giulio
Pozzi passa la palla a Mauro Bragadin. Questi la prende
e spicca un salto, infilandola nel canestro. Un altro colpo mandato a segno.
Ottavio fischia la fine dell’incontro. La 5 C ha vinto anche le semifinali,
nettamente. Le rimane da affrontare soltanto la 5 E, ma Ottavio è sicuro che
sarà un’altra vittoria per la C. Con uno come Mauro in squadra, non ci sono
molte speranze per la E. I
ragazzi della 5 C esultano. Sollevano Mauro, facendogli un sedile con le loro
braccia e lo portano in trionfo. Ottavio sorride e lo guarda. Mauro gira la
testa verso di lui e ricambia il sorriso. A
Ottavio Mauro piace moltissimo: un ragazzo sereno, equilibrato, bravissimo
nello sport come nello studio, uno che non se la tira, che ha buoni rapporti
con tutti. Una famiglia benestante e che ci tiene ai figli. Davvero un
ragazzo fortunato. Finito il giro trionfale, Mauro scende e si avvicina a
Ottavio. -
Abbiamo vinto, professore! Siamo in finale! Ottavio
annuisce: -
Vincerete anche la finale. - Se
la sfortuna non si mette di mezzo… -
No, tu sei un ragazzo molto fortunato, Mauro. Mauro
sembra esitare un momento, poi dice: - Se
vinciamo, ha promesso di insegnarmi un po’ di lotta. Ottavio
non risponde subito. Non si aspettava che Mauro si ricordasse quanto lui si è
lasciato sfuggire una volta. Non era esattamente una
promessa, piuttosto un discorso molto vago. Ma Mauro si ricorda le cose,
coglie tutto. Ha davvero colto tutto? Ottavio si dice che è così e gli sembra
che il cuore acceleri un po’ il ritmo. Cerca di non tradirsi e sorride. - Va
bene, lo faremo. C’è
una sfumatura di malizia nel sorriso di Mauro? Forse sì. I compagni lo hanno
raggiunto. Parlano un momento tutti insieme, ma
devono correre a cambiarsi: l’ora dopo hanno lezione di latino e la Mai non
tollera ritardi, neanche per la semifinale del torneo di pallacanestro,
quindici giorni prima della fine dell’anno scolastico. Ottavio
parla un momento con i ragazzi della 5 A, tutti mogi. -
Su, ragazzi, non prendetevela. Avete giocato bene. Qualcuno
protesta per un fallo che Ottavio non avrebbe fischiato. Anche se quel fallo
ci fosse stato, il risultato non sarebbe cambiato. Quando
infine i ragazzi sono tutti a cambiarsi, Ottavio ritira il pallone e i
pettorali delle due squadre, che gli allievi hanno lasciato sulle panche.
Mentre li va a posare, pensa a quello che Mauro gli ha detto, alla mezza
proposta che lui ha lanciato, un mese fa. Si
sta cacciando nei guai, Ottavio lo sa benissimo.
Mauro è un suo allievo. Quinta ginnasio, sedici anni, magari neppure
compiuti. Ottavio
si siede sulla panca e guarda la palestra, che si è svuotata. Che cazzo sta
facendo? Perché ha detto a Mauro che se la sua squadra avesse vinto il
torneo, lui gli avrebbe insegnato la lotta? Non è andata così, Ottavio se lo
ricorda benissimo. È stato Mauro a dirgli: - Professore, se davvero la
squadra vince per merito mio, come dice lei, che premio mi dà? Strana
domanda, per un ragazzo che non va certo in giro a cercare premi, che non chiede mai niente. E Ottavio aveva sentito qualche cosa
muoverglisi dentro. Che cosa aveva intuito, Mauro?
In che modo Ottavio si era tradito? Ottavio
si protende in avanti, guarda il campo di gioco, dove pochi minuti fa i
ragazzi correvano. Mauro… Perché Mauro? La risposta è ovvia: ha un corpo da
atleta, un bel viso, con grandi occhi azzurri, intelligenza, simpatia,
sensibilità. Ottavio
scuote la testa. Non ha mai desiderato i ragazzini. Non avrebbe fatto
l’insegnante di educazione fisica, se fosse stato attratto da loro. Che senso
ha vivere in perenne tentazione, come don Mario, che alla fine la Curia ha
allontanato per mettere a tacere le voci che circolavano? Ma
da quando il suo matrimonio è naufragato ed anche la storia con Flavia si
trascina più per abitudine che altro, da quando l’avanzare dell’età si fa più
evidente – sono cinquantaquattro, tra pochi giorni – Ottavio avverte una
nuova tensione. Ciò che ha non gli basta, ci sono momenti in cui gli sembra
di aver sprecato la sua vita. Da
ragazzo qualche cosa con i coetanei aveva combinato. Nulla di particolare, le
solite cose a cui poi non si pensa più. A quell’età si prova di tutto: “Che
caratteristiche deve avere una donna con cui vuoi scopare?” -“Deve
respirare”. E se invece di una donna è un altro ragazzo, va bene lo stesso.
Purché respiri. C’è anche questo nel suo interesse per Mauro? Lo smarrimento
davanti alla vita che sfugge veloce, il rimpianto per un’età in cui tutto era
possibile, tutte le strade erano aperte? Possedere Mauro nell’illusione di
ritrovare la giovinezza? Forse, forse c’è anche quello, ma non solo
quello. Dopo
l’adolescenza non si era mai più interessato agli uomini. Gli piacevano le
donne. Gli piacciono ancora le donne. Guarda volentieri certe madri dei suoi
allievi. La signora Pozzi, ad esempio, una gran bella donna, prosperosa: un
davanzale di tutto rispetto, come diceva sempre suo padre. Certo Ottavio non
ci proverebbe, con le madri degli allievi è un casino, anche se lui insegna
una materia di serie B, per cui ha un po’ più di libertà. Con la Braghi poco
c’era mancato che non incominciasse una storia. Ma
adesso non ha in testa le tette della signora Pozzi o il culo della Bartini.
Adesso ha in testa Mauro. Cazzo! Perché? È
stato l’anno scorso, la vacanza a Santo Domingo ha smosso le acque. Flavia,
nervosa e insofferente, che voleva solo stare distesa in spiaggia, che aveva
mal di testa, che non riusciva a rilassarsi neanche in vacanza. E lui che
dopo un po’ aveva incominciato ad annoiarsi: non ha mai sopportato
l’inattività. Lunghe nuotate, passeggiate sulla spiaggia, sempre da solo. E
quel giorno, tra gli scogli, Juan, pelle color cioccolato e sorriso dolce.
Non aveva mai comprato un ragazzo. Non ha ceduto subito, ha detto di non
avere soldi. Ma
il giorno dopo si è presentato all’appuntamento, i soldi e il preservativo in
tasca. Agitato come al primo incontro con una donna che piace. E
dopo le vacanze ha incominciato a vedere i suoi allievi con occhi diversi.
Mauro, soprattutto. Mauro che giocava. Il culo di Mauro nei pantaloncini da
ginnastica. La domanda gli era venuta in mente: chi sarà il primo a gustarlo?
Dando per scontato che questo potesse avvenire, che Mauro fosse disponibile,
un giorno o l’altro, a prenderselo in culo. Di
colpo qualche cosa era cambiato. Aveva incominciato
a scherzare con Mauro. Troppo, forse. Ma il ragazzo stava al gioco. E poi la
domanda di Mauro. Che premio dargli? La sua risposta: - Ti insegno qualche
cosa di nuovo… Si
era corretto subito, di colpo conscio di come la sua frase poteva essere
letta, del senso reale che la frase aveva. Perché Mauro era in grado di
capire anche ciò che non era stato detto. Aveva rimediato: - Qualche nuovo
sport. La
risposta di Mauro lo aveva spiazzato: - Mi piacerebbe imparare
la lotta. Aveva
cercato di controllarsi, di evitare che l’incendio appiccato da quella
risposta dilagasse. Si era visto stringere il corpo di Mauro, rotolare a
terra avvinghiato a lui. Il suo corpo aveva reagito impetuosamente. Aveva
cercato di rispondere ridacchiando: - Va
bene, vada per la lotta. Nei
giorni successivi aveva badato a non avvicinarsi a Mauro, aveva evitato ogni
allusione a quanto si erano detti. Mauro non ne aveva più parlato. Ottavio
pensava che se ne fosse dimenticato. Non
era così. Mauro.
Si sta cacciando nei guai. * Elena
sente le chiavi girare nella serratura. Oggi Luigi ha fatto molto tardi. Ogni
tanto succede, Elena è abituata. Quando
vede Luigi entrare in casa, Elena trattiene a fatica un grido di spavento.
Luigi è pallido come un morto. Sembra camminare a fatica. Elena
si asciuga le mani con il grembiule e si avvicina. Fa per parlare, ma le
parole non le vengono. Luigi la guarda, ma pare che non la veda neppure.
Passa in salotto e si siede sulla poltrona. Rimane a guardare il vuoto. Elena
è in piedi, di fianco alla poltrona, ma Luigi continua a fissare in avanti. Infine
Elena trova la forza per parlare. -
Che cosa è successo? Luigi
scuote la testa. Elena tace. Attende il colpo. Sa che verrà. È successo qualche cosa ad Aldo? È partito ieri per le
vacanze. Ma avrebbero telefonato a casa. Mauro? Mauro è uscito dieci minuti
fa, è in palestra per l’allenamento. Un incidente? No, Luigi deve aver
lasciato la fabbrica più o meno quando Mauro è andato via. Un problema in
fabbrica? Elena
mormora: -
Luigi… Luigi
guarda fisso in avanti, verso il televisore spento. Anche la voce è spenta. - La
fabbrica. È finita… Non ci sono i soldi per pagare gli operai. Per
un attimo Elena si sente sollevata. Non è successo niente né ad Aldo, né a
Mauro. -
Ma… come è possibile? -
Quando Leo è andato a ritirare i soldi, gli hanno detto che il conto era
scoperto. - Ma
ci sarà stato qualche errore. -
No, non credo. Ha anche telefonato la Rotor per sollecitare un pagamento. Io
avevo detto ad Aldo di pagare tre settimane fa. Aldo.
Aldo è partito per le vacanze. Ha detto che aveva bisogno di staccare, anche
se siamo appena all’inizio di giugno. Luigi non era d’accordo. Rosa ha
sentito dire che Aldo gioca. - Ci
sarà stato qualche errore. -
No. No. Sono rimasto a controllare i conti. Ci sono cose che non vanno.
Tante. Tutte. Non va niente, nell’ultimo mese… Domani mattina vado in banca. Luigi
si china in avanti e nasconde la faccia tra le mani. - È
finita, Elena. -
Non è possibile. Tacciono.
Non c’è altro da dire. Elena si chiede se è stato Aldo. Ma non osa formulare
la domanda ad alta voce. Non vuole saperlo. Lo sa già. Non vuole che Luigi lo
dica. Rimangono
un buon momento in silenzio, poi Elena dice: - La
cena è pronta. Non
ha preparato molto. Mauro mangia tardi, dopo l’allenamento. Aldo non c’è.
Quando sono solo loro due, Elena prepara una cena veloce. Le mette tristezza
cenare senza i figli. Luigi
scuote la testa. -
Non me la sento di mangiare. Neanche
Elena ha appetito. Non sa che cosa fare. Non sa che cosa dire. Rimane in
piedi, le mani che tormentano il grembiule. Più
tardi, quando ormai è l’ora in cui Mauro torna a casa il mercoledì, le viene
in mente che il giorno dopo Mauro deve giocare la finale. -
Non dire niente a Mauro questa sera. Sai che domani gioca. Luigi
annuisce. -
Vado a mettermi a letto. Così almeno non lo vedo. -
Sì, è meglio così. Vedendo
Luigi in faccia, Mauro capirebbe subito. Ma anche così non servirà a nulla.
Mauro ha le antenne, capisce subito se c’è qualche cosa che non va. Aldo non
è mai stato tanto sensibile. Mauro
rientra poco dopo. Elena cerca di dare alla sua faccia un’espressione serena. Mauro
saluta. Si stupisce di non sentire la televisione. - E
papà? - È
andato a letto. Mauro
la guarda, perplesso. Ha intuito, ha già intuito qualche cosa. -
Così presto? Come mai? -
Non si sente tanto bene. Nulla di grave, ma ha avuto una giornataccia in
fabbrica. Elena
cerca di essere convincente. Mauro chiede, già teso: - È successo qualche cosa? Qualche problema? -
Qualche grana con un lavoro, un ritardo con le consegne. Sai com’è. Già aveva
dormito male la notte scorsa, la giornata è stata pesante. Mauro
esita, poi si dirige verso le scale. - Di
sicuro non dormirà ancora. Salgo a salutarlo. -
Meglio di no. Magari si è assopito. Ha problemi di sonno in questo periodo. Mauro
si ferma, annuisce. È preoccupato, anche se cerca di nasconderlo. Non sono
molto bravi a mentire, loro due, sono davvero madre
e figlio. Mauro
mangia. Non ha molto appetito. Di solito divora quello che lei gli dà. Ma è
preoccupato. Elena
scherza. - Mangia, Mauro. Domani devi fare
un solo boccone dei tuoi avversari! Mauro
sorride, ma non è il solito sorriso scintillante che illumina anche la
giornata più grigia. - Se
mangio troppo, domani non avrò più fame. Meglio che lasci un po’ di posto per
poterli inghiottire tutti. Non
sono molto credibili, madre e figlio, ma di più Elena non riesce a fare.
Mauro è sempre stato molto sensibile. Già da piccolo, si accorgeva subito se
lei era triste e allora andava a raccogliere un fiore e glielo porgeva,
oppure la invitava a fare una passeggiata in giardino. Aldo non se ne rendeva
mai conto, ma a Mauro non sfuggiva nulla. Perché Mauro è sempre stato così
attento? Dopo
che Mauro ha finito di mangiare, Elena lava i piatti. Mauro gironzola ancora
un po’ per la cucina, irrequieto, poi sale in camera
sua. Anche Elena va a coricarsi. La stanza è immersa nel buio, ma Elena non
accende la luce, anche se sa benissimo che Luigi non sta dormendo. Si spoglia
senza fare rumore, si mette il pigiama e si infila sotto le coperte. Rimane
ferma nel letto, senza riuscire a prendere sonno. Accanto a sé sente il
respiro di Luigi. Anche lui non dorme. * Luigi
torna in fabbrica. Non ci sono più dubbi: il colloquio in banca ha fatto
piazza pulita di dubbi e speranze, lasciando solo un cumulo di rovine. Il
conto è stato prosciugato, non è rimasta una lira. Ci sono due prestiti, che
vanno resi, la prima rata era da pagare due giorni fa. In queste condizioni
la banca non presterà più nulla. I soldi per pagare i dipendenti non ci sono.
Per la prima volta in dodici anni la ditta Bragadin non paga. Il fallimento
non può più essere evitato. Luigi
Bragadin entra in fabbrica. Il custode lo guarda, preoccupato. Ieri non è
stato pagato, come tutti gli altri, ma a spaventarlo è la faccia del padrone:
le cose devono andare davvero male. Come è possibile? Fino a ieri tutto
sembrava a posto. -
Non sta bene, signor Bragadin? Luigi
si riscuote: -
Niente di grave, Giovanni. Luigi
si dice che non deve lasciar apparire la sua angoscia. Cerca di mostrarsi
sereno mentre attraversa il locale in cui gli operai lavorano. Il suo ufficio
è in fondo. Tutti
lo guardano. Nessuno dice nulla. Gli operai sono sempre stati pagati
regolarmente. Il ritardo li impensierisce, ma non può essere niente di grave.
Luigi Bragadin è un imprenditore serio, la fabbrica lavora a pieno ritmo, gli
ordini non mancano. Certo che negli ultimi tempi qualcuno ha parlato di
pagamenti rimandati, una cosa abbastanza insolita. E poi c’è
quella faccenda del figlio maggiore, Aldo. Dicono che giochi, che frequenti gente poco raccomandabile. Avrà fatto qualche
pasticcio? Per quello il padrone era così preoccupato, ieri? Ci saranno i
soldi dei salari, oggi? Qualcuno vorrebbe chiedere, ma lo farà dopo. Adesso
sono solo le dieci. Luigi
Bragadin saluta la segretaria, dice che per un po’ non vuole essere
disturbato ed entra nell’ufficio. Chiude la porta. Si
china davanti alla cassaforte e compone la combinazione: 6-3-1-9-6-1.
La data di nascita di Aldo, il suo primo figlio. Luigi si ferma un attimo, la
mano sul pomello con i numeri. Perché? Aldo era un ragazzo solare, felice,
come Mauro oggi. Poi è cambiato, senza una ragione, di colpo. Chiuso in se
stesso, scontroso. Elena diceva che era l’età, l’adolescenza. Luigi scuote la
testa. C’era altro, ma lui non era riuscito a capire. Aveva dato retta a
Elena. Adesso è tardi, troppo tardi. Luigi
apre la cassaforte. La
pistola è sul secondo ripiano. Luigi l’ha sempre tenuta in ufficio, perché
preferiva non averla in casa: nella loro villetta una cassaforte non c’è, non
servirebbe, e non si tiene un’arma dove ci sono due bambini, che frugano
dappertutto. La pistola è sempre rimasta lì, lo è ancora adesso, che Aldo ha
superato i venti e Mauro ne ha sedici. Luigi
la guarda. * Ottavio
fischia la fine della partita. Come aveva previsto,
la 5 C ha vinto alla grande. Mauro ha fatto un sacco di canestri. I compagni
lo stanno sollevando e lanciando in aria, poi lo riprendono e lo lanciano di
nuovo. Mauro ride. E
adesso? Mauro gli ricorderà il suo impegno a insegnargli un po’ di lotta. Non
oggi, ma domani o più probabilmente dopodomani, l’ultimo giorno di scuola,
l’ultima lezione di educazione fisica. Ottavio avverte la tensione nel basso
ventre. Meglio che non ci pensi ora. Il
preside si avvicina a Ottavio. Ha una brutta faccia. Gli sussurra qualche
cosa. Ottavio gli fa ripetere quello che ha detto: ha capito, ma non gli sembra
possibile. Il preside aggiunge due parole di spiegazione, poi si dilegua.
Intanto la squadra vincitrice ha fatto un giro di corsa intorno al campo. Mauro
gli si avvicina. -
Che cosa c’è, professore? Qualche problema? Ottavio
vorrebbe essere da un’altra parte, vorrebbe non dover dire niente. Non a
Mauro. Non a Mauro. - Il
preside ti vuole parlare, Mauro. Cambiati in fretta
e va’ da lui. Mauro
impallidisce. - È successo qualche cosa? Mio padre… Ha
intuito, Dio solo sa come, ma ha intuito. Ottavio
non riesce a rispondere. Non può. Ripete solo: -
Va’ a cambiarti, subito. Mauro
corre verso gli spogliatoi, senza dire una parola, senza voltarsi. I
compagni della squadra si avvicinano, non capiscono quella fuga improvvisa
mentre tutta la classe festeggia la vittoria nel torneo. Vorrebbero andare a
chiamare il loro capitano. Ottavio li blocca. -
Aspettate. Lasciate che si cambi. Lo
guardano, stupiti. Più del gesto, è l’espressione del suo viso a fermarli. -
Che cosa è successo, professore? Ottavio
non risponde. -
Qualche problema? - Lo
saprete presto. Lo
sapranno presto, di certo la notizia farà il giro della città, fuori lo
sapranno già tutti, già ne parleranno nei negozi, per strada, Biella è peggio
di un paese, la gente è sempre a farsi gli affari altrui. E
Mauro… Che ne sarà di Mauro? * -
Credi che riusciremo a fargli cambiare idea? Clara
Mai scuote la testa. Conosce Mauro, in questi due anni di ginnasio ha avuto
modo di capire molte cose di lui, soprattutto attraverso i temi svolti. Mauro
scrive bene ed è molto aperto. Si racconta con sincerità. Non dice tutto: è
molto riservato su alcuni aspetti di sé, delle ragazze non parla mai, anche
se uno come lui di sicuro ha molto successo con le
compagne. Ce ne sono alcune che quando è alla lavagna lo divorano con gli
occhi. Enza, la collega di matematica, una volta ha detto che avrebbe fatto
stampare su una t-shirt le formule matematiche che gli allievi non
ricordavano mai e poi l’avrebbe regalata a Mauro: così almeno le ragazze le
avrebbero imparate tutte a memoria. Clara
scaccia il ricordo. Non è il momento. -
Temo di no, Ottavio. D’altronde, nella situazione in cui si ritrova… - Ma
non è possibile. Abbandonare il ginnasio con i risultati che ha avuto.
Frequentare un corso serale per prendere un diploma tecnico, uno come lui! -
Non ha di che pagare gli studi, non gli è rimasto niente. -
Una borsa di studio, cazzo, Clara! Una colletta.
Glieli pago io, piuttosto, i libri. Non è possibile che un ragazzo così si
perda completamente per quel bastardo di suo fratello. Clara
non si stupisce delle intemperanze verbali di Ottavio: sa che il collega di
educazione fisica è molto affezionato a Mauro, come tutti d’altronde. Come
non volere bene a un ragazzo così? I compagni sono rimasti tutti sconvolti.
Ma Mauro sembra evitarli. Vergogna per la situazione in cui si trova? Mauro è
orgoglioso, non vuole suscitare compassione. La
mamma di Mauro apre la porta. -
Buonasera, professoressa Mai. Professor Tornaghi… Siete stati molto gentili a
venire. La
signora Bragadin è pallida, ma non tradisce la sua angoscia. Li accompagna
nel salotto. Mauro è seduto. Si alza e saluta cortesemente. Clara si dice che
basta guardarlo in faccia per capire che non c’è niente da fare. Ha sempre
apprezzato la tenacia di Mauro, uno che non si scoraggia, che prova e
riprova. Ma qual è il confine tra tenacia e testardaggine? Scambiano
alcune parole di cortesia, poi Clara gli chiede le sue intenzioni per l’anno
che sta per incominciare. -
Sto cercando un lavoro. Mi sono iscritto ad un corso serale a Novara, tra una
settimana ci trasferiamo. Perito commerciale. Mi fanno passare al terzo anno
con un esame integrativo. Ottavio
interviene. Non ce la fa a rimanere zitto. -
Mauro, non puoi lasciare il liceo, non ha senso. -
Non posso continuare al liceo, professore. Dopo dovrei andare all’università.
Non è possibile, non nella nostra situazione. Clara
interviene: -
Con i voti che hai, puoi certamente ottenere una borsa di studio per il liceo
e per l’università. E comunque dopo il liceo puoi trovare lavoro. -
Sono tre anni, professoressa. -
Tua madre ha trovato un lavoro. Con una borsa di studio, non peseresti su di
lei... - Ci
sono i debiti, professoressa. Mauro
parla con calma, come se stesse spiegando ad un compagno in difficoltà la consecutio temporum, come se non si
trattasse del suo futuro. Clara
si sente stanca. Si chiede perché è venuta, che senso ha? Ma una tristezza
infinita l'invade. Guarda Ottavio, che si controlla a fatica. Mauro
è un muro di ostinazione. Provano
ancora a convincerlo. Ottavio sta perdendo il controllo. Clara interviene.
Appoggia una mano sul braccio di Ottavio, poi dice che è ora di andare.
Invita Mauro a ripensarci, anche se sa benissimo che è del tutto inutile. Escono. Clara
si volta. Mauro li sta guardando allontanarsi dalla finestra. Clara fa un
gesto di saluto. Mauro risponde con un cenno. * Ottavio
vuole parlare a Mauro, vuole parlargli da solo. Non è possibile che Mauro
parta senza che lui gli abbia parlato. Gli farà cambiare idea, in qualche
modo riuscirà a convincerlo a restare, a farsi aiutare. Ottavio
si ferma. Gli sembra che la testa gli giri, gli pare di non essere più in
grado di andare avanti. Avanti dove? Dove sta andando? Non lo sa nemmeno lui.
Da quanto tempo cammina per la città senza una meta, salendo verso Piazzo, la
città alta, e poi ridiscendendo? Non riesce a stare fermo. Vuole
parlare a Mauro. Parlargli? Parlargli? Ottavio
ha l'impressione di non riuscire più a stare in piedi. Si guarda intorno.
Piazza Vittorio non è lontana. Ottavio si muove a fatica,
pare un ubriaco. Arriva nel giardino della piazza. Cerca con gli occhi una
panca vuota. Ne vede una. La raggiunge. Si siede. Chiude gli occhi. Sa
benissimo che si sta raccontando storie, un sacco di storie, ma gli sembra di
impazzire: Mauro è diventato un'ossessione. Desidera Mauro, come gli sembra
di non aver mai desiderato nessuno. Vuole essere il primo uomo per Mauro. Ma
Mauro se ne andrà, sta per partire. A Novara. Qualcun altro sarà il primo,
qualcun altro possiederà quel corpo. Non è giusto, non è giusto. Mauro
lo vuole, lo desidera. Mauro lo ha provocato, adesso non può tirarsi
indietro. Prima gli ha chiesto che premio Ottavio gli avrebbe dato. Poi, il
giorno della semifinale, gli ha ricordato la promessa di insegnargli la
lotta. Sapevano tutti e due benissimo che cosa significava quella richiesta.
Mauro lo vuole. Cristo!
Ottavio
ha la sensazione di impazzire. Deve
parlargli, deve dirgli... Anche
Mauro lo voleva, ne è sicuro. Mauro lo vuole ancora. Gli farebbe bene, in
questo momento. Mauro
partirà tra pochi giorni. Con
un movimento brusco, Ottavio si alza dalla panchina. Se qualcuno dei suoi
allievi lo vedesse adesso... Non gliene fotte niente,
Cristo! Ottavio
prende via Mazzini e poi sale verso la casa di Mauro. È una casa bassa, ai
margini della città alta. La
guarda da lontano. Se adesso Mauro uscisse, il loro incontro apparirebbe
casuale, sarebbe più facile. Ma Mauro starà aiutando sua madre a preparare
per il trasloco. Che trasloco? Porteranno con sé pochissimo. Ottavio
si volta e incomincia a scendere. Ma dopo pochi passi si volta e sale, quasi
di corsa, verso la casa di Mauro. Arriva davanti alla porta e, senza darsi il
tempo di pensare, suona. Un unico squillo, deciso, imperioso. Mauro deve
venire ad aprire, deve ascoltarlo. E se
ad aprire fosse la madre? Ottavio le dirà che vuole parlare a Mauro. La
porta viene aperta. È Mauro. -
Buongiorno, professore. Ottavio
lo guarda. Non dice nulla, non riesce a parlare. Non
c'è nulla nel viso di Mauro che lo incoraggi a parlare. Gli basta guardarlo,
quel viso, per capire che è finita. Ma Ottavio non vuole capire. -
Vorrei parlarti, Mauro. -
Entri, professore. Ottavio
esita. -
Sei solo? -
No, c'è mia madre. -
Allora facciamo due passi. Mauro
esita un attimo, prima di rispondere: - Va
bene, professore. Escono.
Ottavio scende verso i boschi. Vuole parlare senza avere nessuno intorno. Mauro
rimane un po' indietro. Ottavio si volta ad aspettarlo. Mauro lo raggiunge e
si ferma. -
Possiamo parlare qui, professore. Ottavio
si guarda intorno. No, c'è gente che cammina. -
Voglio parlarti in pace, senza nessun rompicoglioni intorno. A
scuola Ottavio controlla il proprio linguaggio, come tutti i colleghi del
liceo. Ma non sono a scuola, non saranno mai più
insieme a scuola, Mauro frequenterà un corso del cazzo in qualche istituto
serale del cazzo. Ottavio
riprende a camminare. Anche sotto gli alberi c'è un
po’ di gente: l'estate è alla fine, ma fa ancora caldo. Ottavio
si spinge oltre e trova infine un angolo appartato. Si volta verso Mauro. Mauro
lo guarda. Ottavio non sa leggere in quegli occhi. Non vuole leggere. -
Mauro... Mauro
continua a fissarlo. -
Merda, Mauro, potresti almeno... Ottavio
si volta, dando la schiena a Mauro. Alza un braccio contro un albero e vi
poggia sopra la testa. Guarda la corteccia davanti a sé. Perché? Cristo! Che
è venuto a fare? Mauro se ne va. Non lo rivedrà più. Ottavio
si volta. Mauro è ancora lì, muto, immobile. Ottavio
si guarda intorno. Non c'è nessuno. Si avvicina a Mauro, ma questi arretra.
Ottavio vorrebbe saltargli addosso. -
No, professore. Ottavio
lo guarda. Annuisce. Rimane immobile. * Elena
guarda la camera. Diciotto anni è vissuta in questa
camera. Diciotto anni ha dormito nel letto
matrimoniale. Ha detto alla sorella che andarsene non le pesa, che ci sono
troppi ricordi tristi in queste stanze, ma non è vero. Adesso che sta per
lasciare la casa, si sente schiacciare. Non
c’è nulla da fare. Tutto sarà venduto: la casa, la fabbrica,
i terreni. Il curatore se ne sta occupando. Non è semplice: ci sono problemi
a non finire, perché uno degli eredi è scomparso nel nulla. L’avvocato ha
suggerito che si potrebbe giocare su questo per ritardare la vendita delle
proprietà, ma Mauro non ne vuole sapere, Mauro vuole pagare i debiti. Mauro
non vuole che la memoria di suo padre sia infangata. Di suo padre… Elena
esce dalla stanza. Passa nella camera di Aldo. Chiude gli occhi e si appoggia
allo stipite della porta. Dov’è? Che ne è di lui? Non si è fatto vivo. Può
non aver saputo? O ha saputo e gli è mancato il coraggio? La vergogna, la
paura di essere rimproverato, accusato, indagato? Neanche due parole, una
telefonata, una lettera. Nulla. Elena
ha guardato tra i vestiti di Aldo. Aldo andava in Romagna. Ma è scomparso
anche l’abito invernale, non c’è il maglione che lei gli ha comprato per
Natale, mancano due paia di pantaloni pesanti. Aldo sapeva che non sarebbe
più tornato. Elena
non ha detto niente a nessuno. * - È
meglio che torni a casa, professore. Buona giornata. Mauro
si volta, senza aspettare una risposta e si allontana. Non ha fatto in tempo
a fare due passi che Ottavio gli è addosso. Lo spinge a terra. Mauro è forte,
ma anche Ottavio lo è e lo ha preso di sorpresa. Ottavio è sopra Mauro, che
si dibatte. Lo schiaccia al suolo. Ottavio
non si chiede che cosa sta facendo. Sa solo che vuole Mauro, che lo desidera.
Anche Mauro lo voleva, prima, anche Mauro. Lo vuole ancora. Glielo sibila: - Lo
vuoi anche tu, lo vuoi anche tu. - Mi
lasci! Mi lasci! Mauro
ha quasi gridato. Ottavio non lo ascolta. Gli tappa la bocca con una mano e
preme su quel corpo, spinto da un desiderio violento, che si dilata. Muove
ritmicamente i fianchi, strusciandosi contro il culo di Mauro. Vorrebbe spogliarlo
e prenderlo, penetrarlo, farlo suo. Ma non è possibile, Mauro si dibatte e
Ottavio non osa togliere la mano che gli impedisce di urlare. Il desiderio
cresce ancora, incontenibile. Sta stringendo Mauro, il corpo di Mauro, un
corpo che era suo, che voleva negarglisi, ma che è suo diritto prendere. Il
piacere esplode, violento. Ottavio geme e si abbandona sul corpo di Mauro,
senza togliere la mano che gli chiudeva la bocca. Mauro ha smesso di opporre
resistenza. Ottavio toglie la mano, scivola di lato e si stende sull’erba,
accanto al ragazzo. Cerca di non pensare. Mauro si alza, con uno scatto. Non
lo guarda, ma Ottavio vede che ha le lacrime agli occhi. -
Mauro! Mauro
corre via. Ottavio
si mette a sedere. Guarda la macchia umida sui pantaloni. Si copre la faccia
con le mani. * Elena
è stanca. Si siede sul letto di Aldo. Poi si stende. Chiude gli occhi. È
estate. Lo era anche allora, diciassette anni fa. Lavorava ancora, a quel
tempo. Lavorava volentieri, aveva smesso solo un anno, quando era nato Aldo.
Poi aveva ripreso, anche se Luigi avrebbe preferito che lei rimanesse a casa.
Le
piaceva l’ambiente della fabbrica. Non erano in molti, negli uffici: quattro
donne e due uomini. Un’atmosfera di cameratismo. Poi
la gravidanza della Motta. Rischio di aborto, a casa dal terzo mese: ne aveva
già perso uno, due anni prima. Serviva qualcuno e il
padrone aveva assunto un contabile che aveva lavorato all’Olivetti. Era un
bell’uomo, Giovanni Bergero. Un gran bell’uomo. Quando era arrivato, erano
rimaste tutte a guardarlo, incantate. Un fisico da atleta, un viso da attore,
due occhi chiari che ti scavavano dentro. Quando era entrato nell’ufficio del
direttore, loro tre si erano guardate. Viviana aveva fatto una smorfia di
apprezzamento, poi aveva detto: - Spero
proprio che Barbara stia a casa almeno per un anno… Ed
erano scoppiate a ridere tutte e tre. Mezz’ora
dopo, il direttore era uscito con Giovanni e lo aveva presentato alle
colleghe. -
Questo è il contabile che prenderà il posto di Barbara Motta. E queste sono
le sue nuove colleghe. -
Piacere. Mentre
stringeva la mano a tutte, una dopo l’altra, Giovanni sorrideva. Aveva un
sorriso incantevole. Lucia, la più sfacciata, non gli lasciava più la mano.
Lei era rimasta un po’ in disparte, improvvisamente intimidita da quell’uomo
troppo bello. Lucia
gli aveva fatto il filo per tre mesi, ma Giovanni sembrava indifferente.
Lucia aveva insinuato che forse non gli piacevano le donne, ma era solo la
delusione. E
poi quella sera, quella sera di luglio, poco prima delle ferie. I conti da
finire. Si erano fermati lei e Giovanni. Avevano lavorato per due ore. Ed
alla fine, al momento di andare a casa… Elena si alza di scatto. Non vuole
ricordare. Non ora. Non ora. * Piove
che sembra autunno. Il cielo è di un grigio plumbeo e la pioggia non vuole
smettere. Dalla finestra si vede la stradina. Pochi passanti scivolano via in
fretta, cercando di ripararsi dalla pioggia. Spagna: il paese del sole! Sul
muro della casa di fronte l’acqua schizza da una grondaia rotta. Sembra una
fontana. Chi passa sul marciapiedi si tiene alla
larga. Aldo
guarda il muro scrostato e la scritta: ELS CATALANS NO SOM ESPANYOLS, con una
sigla, I.P.C. e una stella. Non
ha potuto fare altro, non aveva nessuna scelta. Quei figli di puttana erano
capaci di ammazzarlo. Hanno preteso di essere pagati, fino all’ultima lira.
Quella è gente che non scherza. Aldo
sta male. Dalla finestra guarda un cane che, a coda bassa, cammina per la
strada sotto la pioggia incessante. È solo, non deve avere un padrone. Gli
sembra di essere quella bestia randagia, a cui nessuno
bada. Suo
padre è morto. Suo padre è morto per colpa sua. Aldo
si prende la testa tra le mani. Vorrebbe essere morto. Perché non si è ammazzato,
come ha pensato tante volte di fare, man mano che il cappio gli si stringeva
intorno al collo? * Elena
esce dalla stanza, come se potesse lasciare dietro di sé i ricordi. Scende le
scale, ma i pensieri non la mollano, ridono del suo assurdo tentativo di
fuggire. Era
luglio, le finestre erano aperte ed il profumo dei tigli riempiva l’ufficio.
Giovanni si era alzato dalla scrivania e si era avvicinato a lei. -
Finalmente abbiamo concluso. Lei
si era sentita improvvisamente a disagio. Aveva sorriso, imbarazzata. - Eh
sì, possiamo andare a casa. Giovanni
era in piedi, di fianco alla sua sedia e lei si era alzata, timorosa. Aveva
l’impressione di non riuscire a ragionare. Lui le aveva preso il viso tra le
mani e l’aveva avvicinato al suo, fino a che le loro labbra si erano
incontrate. Non aveva saputo resistergli, resistere a quelle mani che la
stringevano, che l’accarezzavano, che le sollevavano la gonna. Lì,
sulla sua scrivania. * Anche
quel giorno guardava dalla finestra, mentre pioveva, ma allora era davvero
autunno. Pioveva che Dio la mandava, come diceva sempre la zia Tilde. Quel
sabato mattina la mamma era andata a fare acquisti e li aveva lasciati dalla
zia Tilde, sua sorella. Aldo avrebbe potuto rimanere
a casa da solo: aveva tredici anni. Ma Mauro era ancora piccolo, ne aveva
appena cinque e la mamma preferiva non lasciarlo da
solo con Aldo, che si metteva a leggere o a giocare e non si accorgeva
neanche se Mauro si ficcava nei guai. Come quella volta che era salito sulla sedia per esplorare uno scaffale ed era
caduto, battendo la testa. Al suo ritorno Elena li aveva trovati tutti e due
in lacrime. Ad
Aldo stare dalla zia piaceva, aveva sempre qualche dolce da regalargli, tutti
con strani nomi francesi: le dragées,
i bonbons fondants, le gelées, le pralines, i petit-fours,
i berlingots. Aveva sposato un
francese, la zia, ma si erano separati e lei era tornata a Biella. Dei dodici
anni trascorsi in Francia le era rimasta quest’abitudine di usare spesso
parole francesi. Zio Ernesto diceva sempre che lo faceva per darsi un tono.
Se pioveva, come quel giorno, la zia diceva: - Mon Dieu, comme il pleut! Piove che
Dio la manda. Cercava
sempre di insegnargli qualche parola francese, i numeri o i cibi o le
stagioni, ma Aldo se le dimenticava subito. Mauro, che aveva appena cinque
anni, le ripeteva volentieri, le trasformava in una
specie di cantilena e la zia gli faceva i complimenti, ridendo soddisfatta. - Undeuxtroisquatrecinqsixsept… - Bravo! Tu es formidable! - For-mi-da-ble! For-mi-da-da-da-da-ble! Aldo
si annoiava. Dalla finestra guardava fuori. Continuava a piovere. In
quel momento aveva visto in strada la mamma, che aveva fatto la spesa, era
passata a posare le borse e ora veniva a prenderli. Voleva scendere ad
abbracciarla, ma non l’aveva detto: Mauro avrebbe voluto
andarle incontro anche lui. Era
corso fuori dalla stanza, mentre la zia suggeriva nuove parole al fratellino:
printemps, été, automne…. Aveva
aperto la porta dell’appartamento e aveva guardato per le scale, ma sua madre
non c’era. Doveva ancora salire. Era
uscito e aveva incominciato a scendere le scale: erano solo due piani. Poi
aveva sentito le voci, appena un sussurro. Si era avvicinato, cercando di non
fare nessun rumore, finché non aveva potuto ascoltare. -
Che cosa vuoi? -
Devo parlarti, Elena. Non può finire così. -
Lasciami in pace, Giovanni. Non qui. Ci sono i miei
figli. - I
tuoi figli… Mauro è anche mio figlio, Elena. -
No, no, vattene via. -
Perché mi eviti, Elena? Dopo tutti questi anni… Li
sentiva benissimo, erano sulle scale che portavano in cantina. Aldo
ascoltava: “Mauro è anche mio figlio”, “Dopo tutti questi anni”. In
quel momento sua madre era arrivata sul pianerottolo e lo aveva visto. Si era
fermata. Dietro di lei era sbucato quell’uomo, un collega della mamma, ma
scorgendo Aldo si era bloccato anche lui. Poi aveva raggiunto la porta ed era
uscito, senza voltarsi indietro. Sua
madre lo aveva guardato. Aldo non aveva abbassato lo sguardo. -
Aldo! Aldo! Dove sei? Zia
Tilde doveva essere sulla porta dell’appartamento, due piani sopra. La
mamma aveva detto, ad alta voce: - È
venuto incontro a me. Poi
gli aveva sussurrato: -
Non dire nulla, Aldo. Ed
erano saliti. * Mauro
guarda il riflesso delle luci della strada sul soffitto. È notte, ma non ha
sonno. È stanco, di una stanchezza infinita. Vorrebbe dormire, senza
svegliarsi più, ma il sonno non viene. Nella sua testa passano mille
immagini. Pensa
ai compagni del liceo, che ora gli sembrano tutti su un altro pianeta. Pensa
alla casa, in cui è nato e vissuto e che non è più la sua casa. Pensa a suo
fratello, che non ha saputo aiutare, al muro che a un certo punto si è creato
tra di loro, anche se lui ha cercato più volte di scavalcarlo. Pensa a sua
madre, che ha perso il marito, un figlio e tutto ciò che aveva. Pensa
a suo padre, che non ha nemmeno visto l’ultima sera della sua vita, alle
parole che avrebbe potuto dirgli, se avesse sospettato. Pensa
a una foto di diciassette anni fa, una foto di sua madre con i colleghi
dell’ufficio. Pensa all’uomo di quella fotografia, che ha i suoi stessi occhi
e il suo stesso sorriso. L’anno scorso, un pomeriggio in cui non c’era
nessuno in casa, Mauro ha messo una sua foto accanto a quella in cui si vede
l’uomo. Ha confrontato i tratti del volto, uno per uno. In ogni elemento del
viso ha notato una somiglianza, ora più accentuata, ora meno marcata. L’ha
fatto anche con le fotografie di suo padre, dell’uomo che per lui era suo
padre, che sarà sempre suo padre. Ci sono ben pochi tratti in comune. Erano
almeno tre anni che viveva con un sospetto. Nato da che cosa, non saprebbe
dire. Piccoli indizi. Mezze frasi. Certi sguardi di sua madre. Certi
atteggiamenti di Aldo. Quel
giorno si era messo a cercare tra le foto. Foto delle vacanze al mare, delle
cene con gli amici, di tutte le occasioni in cui si vedevano altri uomini
insieme a sua madre. Finché aveva trovato quell’immagine. Ed era stato sicuro
di essere arrivato dove non sarebbe mai voluto arrivare. * Aldo
guarda il riflesso delle luci della strada sul soffitto. È notte, ma non ha
sonno. È stanco, di una stanchezza infinita. Vorrebbe dormire, senza
svegliarsi più, ma il sonno non viene. Nella sua testa passano mille
immagini. Pensa
a suo padre, che scuoteva la testa quando lo vedeva assonnato il mattino al
lavoro, ma che non voleva rimproverarlo, che s’illudeva che lui avrebbe
“messo la testa a posto”. Pensa a sua madre, in tutti questi anni. “Non dire nulla, Aldo.” Non ha mai detto nulla lui. Lei non ne ha
mai più parlato. Pensa a suo fratello, che a volte gli chiedeva che cosa
aveva. Che cosa avrebbe potuto dirgli? Che non era nemmeno suo fratello, che
l’uomo che chiamava papà non era suo padre? Che era tanto ingenuo da non
accorgersi di nulla? Le
parole gli sfuggono dalle labbra: -
Sei un coglione, Mauro. |
|||||