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L’assedio

 

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a E.M.Forster

 

Aziz pedalò fino alla casa del dottor Goldenberg. Era molto presto, ma aprile era arrivato e il giorno portava una cappa di calore intollerabile: salire in bicicletta in cima alla collina sotto il sole incandescente non sarebbe stato possibile. Adesso, poco dopo l’alba, c’era ancora un po’ della frescura della notte. Di certo il dottore era già alzato: Aziz lavorava con lui da quattro anni e ne conosceva le abitudini.

Aziz passò davanti alla casa e svoltò nel vicolo laterale. Frenò subito e scese dalla bici: preferiva portarla a mano perché il fondo era molto sconnesso e spesso c’erano detriti. Gli era accaduto due volte di forare una gomma.

Raggiunse infine la porticina laterale del muro di cinta. Mise una mano in tasca e ne tirò fuori la chiave che il dottore gli aveva dato. Aprì la porticina, introdusse la bici, l’appoggiò contro il muro e richiuse la porta a chiave. Il dottore era stato molto gentile a dargli la chiave, così Aziz poteva andare e venire liberamente e non doveva lasciare la bicicletta ai servitori, che lo guardavano con ostilità: erano induisti e non apprezzavano l’amicizia che legava il loro padrone al giovane chirurgo musulmano. Una volta avevano lasciato la bici vicino all’ingresso, senza sorvegliarla, ed era stata rubata.

Dalla casa non proveniva nessun rumore, ma nelle stanze che si aprivano sul giardino viveva solo il dottore: la casa era divisa in due parti, che comunicavano solo attraverso una porta, e il giardino in cui si trovava Aziz non poteva essere raggiunto dall’edificio in cui stava la servitù. In origine le stanze in cui viveva il dottore e il giardino costituivano gli appartamenti femminili di una casa signorile. Il dottore aveva fatto effettuare molti lavori, ma aveva mantenuto la divisione della casa in due settori, comunicanti attraverso un’unica porta.

Aziz avanzò verso lo studio del dottore. Guardò dalla finestra, ma Goldenberg non era lì. Possibile che stesse ancora riposando? Aziz costeggiò la parete fino alla camera successiva, dove dormiva il dottore. La porta era spalancata e attraverso la zanzariera si vedeva benissimo il grande letto dove Goldenberg dormiva, completamente nudo.

Aziz avrebbe voluto fuggire, ma non riusciva a staccare lo sguardo dal corpo robusto che aveva visto tante volte coperto dagli abiti. Era la prima volta che lo vedeva nudo.

Era un corpo possente, che gli anni avevano appesantito senza infiacchirlo. Lo sguardo di Aziz indugiò sul viso, sulla barba grigia, i capelli corti, che stavano diradandosi alle tempie. Poi scese al torace vigoroso, coperto da una peluria più fitta intorno ai capezzoli. Aziz avrebbe voluto voltarsi e andarsene o almeno impedire ai suoi occhi di proseguire il loro percorso, ma il ventre, anch’esso villoso, attrasse il suo sguardo, che poi scivolò ancora, fino all’uccello, e qui si fermò. Goldenberg ce l’aveva duro, una lama tesa. Niente di strano, un’erezione mattutina perfettamente normale in un uomo non più giovane, ma forte e sano. Aziz contemplò muto lo spettacolo che si offriva ai suoi occhi, mentre ogni altra cosa svaniva.

Poi, di colpo, la vergogna lo sopraffece e si riscosse. Mentre stava per voltarsi e andarsene, i suoi occhi incrociarono quelli di Goldenberg, che ora erano aperti e lo fissavano.

- Aziz!

Aziz avrebbe voluto scomparire.

- Scusi… dottore… mi scusi io non sapevo…

Goldenberg si era messo a sedere sul letto e aveva tirato il lenzuolo in modo da coprire il sesso. Sorrise e disse, in hindi:

- Vieni dentro, Aziz. Non ti aspettavo.

Il dottore parlava bene anche l’hindi e ad Aziz si rivolgeva soprattutto in quella lingua, anche se Aziz conosceva l’inglese.

Aziz non si mosse subito. Provava un desiderio violento di fuggire il più lontano possibile, ma sarebbe stato ancora peggio.

Con un violento sforzo, entrò nella stanza, ma si fermò appena superata la soglia.

Goldenberg sembrava perfettamente a suo agio.

- Avanti, non ti mordo mica.

Goldenberg rise.

Aziz cercò di rimediare un sorriso, poco convinto.

- Mi scusi, dottore. Non pensavo che dormisse ancora.

Si rese conto che la sua osservazione sarebbe potuta apparire come un rimprovero e aggiunse:

- Sono partito presto, per evitare il caldo, ma non mi sono reso conto dell’ora.

- Ma no, hai fatto benissimo. Sono io che ieri sera non riuscivo a prendere sonno, così questa mattina ho dormito fino a tardi. È ora che mi alzi, in effetti. Ma dimmi perché sei venuto, Aziz.

Il vero motivo della visita era semplicemente il desiderio di chiacchierare un po’ con il dottore: in ospedale non sempre era possibile e ad Aziz piaceva moltissimo conversare con Goldenberg. Ma naturalmente Aziz non avrebbe mai osato presentarsi a casa sua senza qualche motivazione legata al lavoro: Goldenberg era il suo superiore e non spettava certo ad Aziz autoinvitarsi. Il direttore dell’ospedale gli aveva detto di venire da lui liberamente e gli aveva persino dato la chiave della porticina laterale del giardino, ma l’invito andava inteso in relazione al lavoro.

- È per lady Person, dottore.

Goldenberg annuì.

- Meglio che mi alzi. Ne parliamo mentre faccio colazione. Tu l’hai già fatta?

Mentre parlava il dottore si era alzato e nuovamente ad Aziz mancò il fiato. Gli sembrava davvero che l’aria non gli arrivasse ai polmoni. L’uccello di Goldenberg non era più teso, ma rimaneva piuttosto grosso. Il dottore si muoveva tranquillamente, senza mostrare il minimo imbarazzo, e non sembrava accorgersi del turbamento di Aziz.

- Un attimo.

Il dottore entrò nel bagno. Aziz guardava il letto disfatto e rivedeva nella mente ciò che aveva visto poco prima. Era completamente sconvolto, il cuore batteva freneticamente e gli sembrava di fare fatica a rimanere in piedi. Non riusciva a capacitarsi del proprio turbamento.

Poco dopo il dottore riapparve sulla soglia.

- Vieni qui mentre mi faccio la doccia, così mi racconti. È meglio non parlare di fronte ai domestici.

In realtà sarebbe bastato parlare in inglese, perché i domestici lo capivano pochissimo, ma Goldenberg era tanto attento a evitare di diffondere informazioni sui suoi pazienti quanto la servitù era pronta a coglierle e farle circolare. Aziz apprezzava la discrezione del dottore.

Adesso però il problema era un altro. L’idea di rimanere vicino a Goldenberg mentre questi si lavava turbava profondamente Aziz. Ma come dire di no? E Aziz non era nemmeno sicuro di voler dire di no. Il corpo del dottore, che si offriva alla sua vista, lo attirava e gli confondeva le idee. Voleva guardarlo e nello stesso tempo voleva fuggirne lontano. Che cosa gli succedeva?

Goldenberg era rientrato nel bagno e Aziz lo seguì. Nonostante l’enorme confusione che aveva in testa, pensò che nessun europeo a Chandrapore avrebbe mai fatto entrare un indiano nella stanza da bagno o in camera da letto, a parte naturalmente i servitori. Ma Goldenberg era del tutto diverso dagli altri inglesi, che frequentava pochissimo. Per qualunque altro europeo, un comportamento come il suo avrebbe comportato la completa esclusione dalla società anglo-indiana, ma Goldenberg aveva due carte vincenti: era un ottimo medico, di gran lunga il migliore di tutti quelli del circondario, ed era un eroe di guerra, decorato per il coraggio dimostrato in più occasioni per recuperare soldati feriti. La sua abilità di medico, le onorificenze ricevute e le due ferite gli permettevano di essere tollerato come un eccentrico, molto criticato, ma non ostracizzato.

Il bagno di Goldenberg era quanto di più moderno si potesse immaginare a Chandrapore in quegli anni: probabilmente neanche il governatore aveva un bagno così attrezzato. Aziz osservò la stanza, finché non fu costretto a guardare Goldenberg, che gli stava parlando, mentre si lavava. Si sforzò di fissare la cicatrice sul torace, un lungo segno rossastro.

- Allora, che cosa volevi dirmi di lady Person?

Aziz cercò di concentrarsi su quanto aveva da dire. Poche cose, in verità, un dubbio sulla cura e soprattutto una richiesta di chiarimenti, perché si trattava di un caso anomalo.

Goldenberg gli rispose, ma Aziz faceva fatica ad ascoltare. La sua mente era tutta nei suoi occhi, che divoravano il corpo nudo del dottore. Goldenberg sembrò accorgersi del turbamento di Aziz, perché chiese:

- C’è qualche cosa che non va, Aziz?

- No… no… perché?

- Mi sembri preoccupato. Qualche problema? Posso aiutarti?

- No, no. Va tutto bene.

Aziz si sforzò di sorridere e in quel momento avvenne ciò che vagamente temeva. Sentì il sangue affluire all’uccello e il desiderio avvampare.

- L’aspetto di là, dottore.

Si voltò e passò nella camera da letto, barcollando. Guardò il letto disfatto, rivide con la mente il corpo del dottore disteso, l’uccello duro, e dovette appoggiarsi per non cadere. Il dottore entrò in quel momento.

- Aziz, che ti succede? Tu stai male.

Non era una domanda. Aziz scosse la testa, appoggiato al letto. Chiuse gli occhi, ma poteva sentire l’odore del dottore, il calore del suo corpo vicinissimo. Di colpo ebbe voglia di piangere. Cercò di frenare le lacrime, ma ci riuscì a fatica.

Goldenberg gli mise un braccio sulle spalle.

- Aziz, siediti.

Lo forzò a sedersi sul letto. Aziz teneva gli occhi chiusi, come se temesse, aprendoli, che il mondo esplodesse o sprofondasse. Ma il dottore era vicino a lui e gli teneva un braccio sulle spalle, con una tenerezza quasi materna, che in Aziz suscitava ben altre sensazioni.

- Aziz, tu stai male.

Aziz incominciò a piangere disperatamente.

Il dottore gli fece appoggiare la testa contro la spalla e lo lasciò piangere, in attesa che si calmasse.

Dopo un po’ le lacrime smisero di scorrere. Aziz si sentiva esausto, completamente svuotato. Il dottore lo fece stendere sul letto. Aziz avrebbe voluto protestare, ma non ne aveva la forza.

Il dottore rimase seduto un momento di fianco a lui, guardandolo e sorridendogli, poi si alzò, si infilò le mutande, i pantaloni e la camicia.

- Aziz, che cosa ti è successo?

Aziz scosse la testa. Si sentiva debolissimo e aveva paura di riprendere a piangere se avesse cercato di parlare. E dentro di sé sentiva crescere la vergogna per quanto era successo. Aveva fatto una figura terribile davanti al dottore. Goldenberg non poteva essersi accorto della sua erezione, ma come giustificare la crisi di pianto?

Il dottore si sedette di fianco a lui. Gli sorrise, senza dire niente.  

- Rimani disteso, Aziz. Ti faccio preparare una tazza di tè. Va bene?

Aziz annuì. Quando il dottore uscì, si disse che doveva scuotersi dal torpore che lo aveva invaso. Non poteva rimanere disteso sul letto. Il letto! Era sul letto di Goldenberg, sullo stesso letto su cui il dottore dormiva nudo.

Aziz si alzò di scatto, come se avesse preso una scossa.

Guardò il giardino. Provò l’impulso di andarsene, ma sarebbe stato infantile. Aveva fatto una pessima figura e scappando avrebbe solo peggiorato le cose. Doveva trovare una scusa plausibile. Adesso era questo l’importante. Poi avrebbe cercato di analizzare e di capire che cosa era successo. Ma che cosa poteva dire?

Goldenberg entrò.

- Adesso portano il tè, ma perché ti sei alzato?

Aziz parlò, cercando di controllare la voce.

- Sto bene, mi scusi dottore, non so neanch’io che cosa mi ha preso. Non ho quasi dormito nella notte, perciò sono arrivato così presto, sono teso in questo periodo, ho qualche problema, nulla di serio, non vale la pena di parlarne…

Non voleva che il dottore gli chiedesse di che cosa si trattava, perché non voleva mentire. Fino a ora aveva detto qualche bugia, come quella di non aver dormito nella notte, ma nulla di grave. Aggiunse in fretta:

- Mi sono reso conto di aver disturbato e di colpo… non so… tutto insieme… peggio di una crisi isterica. Non so che cosa penserà di me, dottore.

Goldenberg lo guardava, molto serio.

- Penso che tu non abbia voglia di parlare del problema che ti preoccupa e non voglio forzarti, ma ci tengo a dirti che se c’è qualche cosa che posso fare per te, qualsiasi cosa, se hai bisogno di un aiuto economico o di qualcuno con cui confidarti, io sono qui e puoi contare su di me.

Aziz sentì di nuovo le lacrime salirgli agli occhi, ma le ricacciò indietro.

- Grazie, dottore, lo so.

Era vero, lo sapeva. Poteva davvero contare su Goldenberg per qualsiasi cosa. La crisi del mattino non avrebbe avuto conseguenze per il dottore.

Ma Aziz sapeva benissimo che un problema c’era, qualche cosa che avrebbe dovuto affrontare con se stesso, questa sera, finita la giornata in ospedale.

- Passiamo nello studio, Aziz.

Si erano appena spostati quando arrivò il servitore con il tè. Aziz lo bevve volentieri. Gli sembrò di sentirsi davvero meglio.

- Come va, ora?

- Va bene, dottore. La lascio fare colazione. Io vado all’ospedale.

- Aspettami. Lasci la bicicletta qui e andiamo insieme a piedi all’ospedale. La riprendi questa sera.

In effetti l’ospedale era a due passi dalla casa del dottore e non c’era motivo per prendere la bicicletta: quando gli capitava di passare dal dottore prima di andare in ospedale, Aziz portava la bicicletta all’ospedale solo per non disturbare Goldenberg ripassando da lui in serata. In un altro momento, l’idea di ritornare con il dottore e parlare ancora un po’ con lui avrebbe illuminato la sua giornata, ma adesso si sentiva a disagio. Dire di no sarebbe stato scortese, per cui si limitò a ringraziare.

Dopo colazione Goldenberg e Aziz raggiunsero l’ospedale. La mattinata trascorse tranquilla: non c’erano epidemie e i problemi erano quelli ordinari.

 

*

 

Verso le due dall’ospedale si cominciarono a sentire delle voci, sempre più forti, che provenivano dalla strada. Goldenberg era in India da cinque anni e sapeva benissimo che cosa significava il rumoreggiare della folla: era successo qualche cosa che aveva scaldato gli animi e la folla voleva vendetta. Chi era il bersaglio? I musulmani, minoranza consistente e invisa a molti? Gli inglesi, il cui dominio era sempre meno sopportato? Gli induisti stessi che, proprio perché maggioranza, con i loro comportamenti a volta provocavano esplosioni di rabbia tra la minoranza musulmana?

Goldenberg uscì sulla porta. Aziz avrebbe voluto accompagnarlo, ma Goldenberg gli ordinò di restare dentro. C’erano stati altri disordini in città: quasi ogni anno, soprattutto in occasione delle cerimonie religiose musulmane del Mohurran, la tensione tra le due comunità religiose saliva e si verificano scontri. L’intervento delle truppe inglesi esasperava la situazione e i sentimenti antibritannici. C’erano stati alcuni morti e in due occasioni era intervenuto l’esercito.

Goldenberg sapeva benissimo che Aziz, in quanto musulmano, sarebbe potuto diventare un bersaglio.

Goldenberg vide avvicinarsi il maggiore Turton con suoi uomini. Accompagnavano tre feriti: un indiano sui quarant’anni, che era stato accoltellato allo stomaco, e due soldati, con ferite più leggere. I soldati cercavano di tenere a distanza una folla, che avanzava compatta dietro di loro, gridando.

Goldenberg chiese:

- Che cosa è successo?

- Pare che un musulmano abbia insultato una donna. Il fratello della donna è intervenuto, c’è stata una rissa ed è stato ferito. Il bazar è diventato un campo di battaglia. Siamo intervenuti, ma non so come andrà a finire. Cerchi di salvarlo, dottore, perché se muore qui scoppia l’inferno.

I tre feriti furono portati dentro. I due soldati, le cui condizioni non sembravano gravi, furono affidati ad Aziz e a un altro medico. Goldenberg si prese cura dell’uomo colpito nella rissa. Era necessario un intervento urgente. Goldenberg avrebbe voluto avere come assistente Aziz, che era il migliore tra i medici dell’ospedale, ma se il paziente fosse morto, qualcuno avrebbe detto che il medico musulmano l’aveva fatto morire apposta.

L’intervento durò due ore. La situazione del ferito appariva critica, ma non disperata.

Fuori la folla rumoreggiava. Goldenberg sapeva che sarebbe bastato poco, pochissimo, perché gli uomini che ora gridavano in strada si riversassero nell’ospedale, massacrando tutti i musulmani e chiunque cercasse di opporsi.

Quando ebbe finito, fuori dalla sala operatoria trovò l’attendente di Turton.

- Il maggiore ha chiesto di fargli avere notizie subito. È fuori.

Goldenberg uscì. Davanti all’ospedale c’era una grande folla, tenuta a bada da un cordone di soldati. Non appena il dottore uscì, ci fu un boato. Goldenberg alzò una mano a chiedere silenzio. La folla tacque. Il dottore era molto stimato, ma Goldenberg sapeva benissimo che questo non sarebbe bastato a salvarlo se la folla avesse deciso di attaccare.

Goldenberg si rivolse alla folla e disse:

- Ho operato il ferito. L’operazione è riuscita e spero che possa riprendersi presto.

Goldenberg si chiese se invitare la gente ad andarsene. Sarebbe stato più sicuro per l’ospedale, ma se la folla si fosse allontanata in blocco, avrebbe potuto dirigersi verso qualche altro bersaglio. Meglio che rimanessero lì, almeno in parte.

Goldenberg aggiunse:

- Tornerò a dare notizie tra qualche ora.

Qualcuno se ne sarebbe andato. Altri sarebbero rimasti per avere notizie.

Le parole del dottore sembravano aver calmato la folla. Il maggiore si avvicinò:

- Goldenberg, devo ritirare una parte dei miei uomini. Non ci sono stati altri episodi di violenza, ma tutto può succedere: devo rinforzare i presidi ai ponti e al bazar e soprattutto proteggere i nostri concittadini.

I ponti erano un punto critico, perché i musulmani vivevano soprattutto sull’isola e sulla riva opposta a quella su cui si trovava l’ospedale. Il bazar era il luogo d’incontro, un terreno neutro tra le due comunità, ma di certo adesso si era svuotato, come sempre avveniva in queste occasioni.

- Va bene. Credo che qui possiamo farcela. Se il ferito non peggiora, è difficile che attacchino.

Non si poteva mai dire, Goldenberg lo sapeva, come lo sapeva Turton. Bastava pochissimo, una falsa notizia, un’inezia, per scatenare una furia che niente avrebbe potuto fermare.

Turton ritirò una parte delle truppe. Inizialmente l’allontanarsi dei soldati non provocò nessuna reazione nella folla. Poi alcuni incominciarono a defluire. Goldenberg rientrò.

Nel corso della giornata la folla andò diminuendo, fino a disperdersi completamente. Rimasero solo pochi parenti del ferito, che non appariva in pericolo di vita.

Quando infine giunse l’ora di andarsene, lasciando solo i medici di guardia, davanti all’ospedale c’erano poche persone, parenti e amici del ferito. Goldenberg raccomandò di mandarlo subito a chiamare se ci fosse stato qualche assembramento o se il paziente fosse peggiorato.

 

*

 

Goldenberg uscì con Aziz da una porta laterale, per paura che qualcuno, vedendo il suo assistente musulmano, lo attaccasse. Raggiunsero la casa di Goldenberg.

Il dottore ordinò al servitore di preparare la cena per due.

- Ma, dottore, non è il caso. Non voglio disturbare. Prendo la bici e

Goldenberg sbottò:

- Che cazzo dici, Aziz? Sei impazzito?

Si pentì subito di aver risposto d’impeto, ma l’idea di Aziz era folle: per rientrare a casa avrebbe dovuto attraversare l’intero quartiere induista sulla collina e sarebbe stato un bersaglio perfetto. Nessuno dei medici e degli infermieri musulmani sarebbe tornato a casa, quella notte: sarebbero rimasti tutti a dormire in ospedale o da amici.

- Scusa, Aziz, ma non puoi pensare di tornare a casa in bici per le vie di Chandrapore come se fosse una serata qualunque. Vuoi farti ammazzare?

Aziz chinò la testa.

- Ha ragione, dottore. Mi scusi. Torno a dormire in ospedale.

- No, Aziz, tu dormi qui. Voglio essere sicuro che non ti succeda niente.

Aziz sembrava confuso. Goldenberg non ne capiva la ragione. In attesa della cena, Goldenberg chiese ad Aziz che cosa pensasse della situazione. Aziz sembrava sempre molto contento di parlare con il dottore inglese e Goldenberg ne apprezzava l’intelligenza e l’acutezza di giudizio, ma questa sera appariva confuso. Si limitò a rispondere qualche banalità. C’era evidentemente un problema che lo preoccupava. Goldenberg gli chiese ancora di che cosa si trattasse, ma Aziz disse che non se la sentiva di parlarne.

Quando giunse l’ora di andare a dormire, Goldenberg disse:

- Ho fatto cambiare le lenzuola. Tu dormirai nel mio letto.

- Io, no! Ma perché?

- Io dormo nello studio.

- Nello studio? Sul divano? E io nel suo letto? Non se ne parla neanche.

- Aziz, ti ho detto io di fermarti e non ti faccio di certo dormire sul divano.

- E vorrebbe dormirci lei? No, assolutamente no.

Goldenberg rise.

- Possiamo dormire tutti e due sul divano, se vuoi. Non si sta comodissimi in due…

- No, dottore, lei dorme nel letto e io sul divano.

Goldenberg sbuffò.

- Sei ostinato come un mulo. Senti, non sappiamo che cosa succederà, se mi chiameranno nella notte, se ci sarà un attacco contro l’ospedale...

Goldenberg non aggiunse “o contro la casa”, ma sapeva benissimo che era possibile. Se il ferito fosse morto, la rabbia della folla avrebbe potuto rivolgersi anche contro il dottore inglese che non l’aveva salvato. In questo caso Goldenberg avrebbe fatto scappare Aziz in qualche modo. Goldenberg riprese:

- Non è il caso che passiamo la notte a discutere di precedenze. Dormiamo tutti e due nel letto, se la cosa non ti dà fastidio. Ci si potrebbe stare anche in tre.

Per Goldenberg, che era stato in guerra per quattro anni, condividere il letto con un altro non era certo un problema. Ma non sapeva se per Aziz fosse una situazione accettabile. Lo vide impallidire e non capì l’intensità della reazione.

- Che cosa c’è, Aziz?

- Io non posso, dottore. No, no, vado a casa.

Per la seconda volta nella giornata Goldenberg sbottò:

- E che cazzo! Mi spieghi che cos’hai?

Anche questa volta si pentì della propria irruenza. Ma la tensione del pomeriggio pesava su di lui. Era stanco, voleva dormire e gli sembrava che queste schermaglie tra lui e Aziz, che collaboravano da tre anni, fosse assurda. Ma Aziz aveva sempre un atteggiamento deferente, si rifiutava di dargli del tu, di chiamarlo per nome, tanto che Goldenberg stesso per un certo periodo aveva ripreso a usare il lei, suscitando le proteste di Aziz. Aveva oltre vent’anni in più del collega indiano, era il suo superiore, ma erano anche amici. Perché questo dover sempre tenere le distanze?

Aziz aveva chinato la testa. Goldenberg si accorse che una lacrima gli stava colando sul viso. Allibito, gli mise una mano sulla guancia, in una carezza leggera

- Aziz, perché non hai fiducia in me? Spiegami qual è il tuo problema.

Aziz scosse il capo, piangendo in silenzio. Di fronte al dolore di Aziz, Goldenberg sentì svanire la sua rabbia. In un gesto impulsivo, abbracciò Aziz, ma lo sentì irrigidirsi. Si staccò subito. Non capiva, non riusciva a capire. C’era qualche cosa in Aziz che gli sfuggiva completamente.

Era una situazione assurda, del tutto assurda. Per un momento pensò di tornare in ospedale a dormire. L’avrebbe fatto, in quelle circostanze, per poter affrontare un’emergenza. Solo la preoccupazione per Aziz lo aveva spinto a tornare a casa, per portarlo via dall’ospedale: gli sembrava meno rischioso che Aziz dormisse da lui. E comunque l’ospedale si raggiungeva in pochi minuti.

- Come vuoi tu, Aziz.

Goldenberg sentì la stanchezza invaderlo. Le tensioni della giornata, il calore soffocante, il comportamento incomprensibile di quello che considerava il suo migliore amico, tutto pesava su di lui.

Cenarono scambiando appena due parole per evitare che quel silenzio, innaturale tra di loro, pesasse troppo.

Dopo cena, Goldenberg prese una vestaglia per Aziz.

- Spogliati e metti da parte la biancheria da lavare. La do ai domestici, così domani sarà pulita.

Con l’arrivo del caldo, la biancheria asciugava in fretta.

Goldenberg passò nello studio e tirò fuori alcune carte, fingendo di studiarle. Non voleva rimanere con Aziz mentre lui si lavava e si spogliava. Aziz lo stava tenendo lontano e a Goldenberg spiaceva, ma non voleva imporsi.

Quando Aziz fu pronto, Goldenberg si lavò e si preparò per la notte. Poi diede la biancheria ai servitori, con l’ordine di prepararla per il mattino dopo. Andò a coricarsi sul letto, amareggiato, mentre Aziz si stendeva sul divano.

Steso sul lenzuolo, rimuginò a lungo. Si sentiva insoddisfatto. Aveva scelto di lavorare in India, perché dopo gli orrori a cui aveva assistito nella grande guerra non sopportava più l’Europa e l’Inghilterra: i suoi compatrioti e tutti gli europei, orgogliosi della propria civiltà, si erano rivelati dei macellai immondi. Aveva capito in fretta di aver fatto un errore: gli inglesi in India erano ancora peggio, completamente incapaci di comprendere la realtà in cui vivevano, pieni di orgoglio e disprezzo per gli altri. Goldenberg non li frequentava mai. Il suo lavoro gli dava molte soddisfazioni, ma avvertiva la solitudine. Aziz, questo musulmano non osservante, che aveva poca fede, ma molta intelligenza e sensibilità, gli era piaciuto fin dal primo momento. Ma adesso non riusciva a capirlo.

Anche Aziz, steso sul divano, non riusciva a prendere sonno. Si sforzava di pensare alla situazione della città, ai rischi che correva l’ospedale, a qualunque cosa che non fosse Goldenberg. Non voleva pensarci ora, con il dottore che dormiva nella stanza accanto.

 

*

 

Il maggiore Richard Turton entrò nella casa del dottor Goldenberg senza badare alle proteste del servitore: era appena l’alba, ma aveva bisogno di parlare subito con il dottore. Non aveva nessuna intenzione di perdere tempo con quella marmaglia. Era stato alcune volte nello studio del dottore e aprì la porta che collegava le due ali della casa, senza neppure bussare: aveva ben altre urgenze.

In salotto trovò il dottore indiano che dormiva sul divano. Probabilmente Goldenberg gli aveva detto di fermarsi da lui perché non dovesse attraversare la città. Turton scosse la testa. Goldenberg fraternizzava troppo con gli indiani. Che senso aveva far dormire un medico musulmano a casa propria? Avrebbe benissimo potuto dormire in ospedale. Ma Goldenberg era stravagante.

Il medico musulmano si era svegliato e lo guardava, stupito. Turton lo ignorò e si diresse nello studio, ma Goldenberg non era lì. Dormiva ancora. Lo vide uscire in quel momento dalla camera da letto, con indosso i pantaloni.

- Goldenberg, è bene che vada subito in ospedale.

- Che cosa è successo? È morto il ferito?

- No, no. Un branco di facinorosi si sta dirigendo verso l’ospedale. Vogliono massacrare medici, infermieri e pazienti musulmani. Questa notte c’è stato uno scontro vicino al fiume e c’è stato un morto, un induista.

- Mi vesto e vengo subito.

- Bene. La città è sul punto di esplodere e adesso la plebaglia sale verso l’ospedale. Hanno già distrutto un piccolo santuario musulmano. Io vado all’ospedale.

- La raggiungo tra pochi minuti.

Turton uscì. La feccia indiana stava già arrivando: erano saliti più in fretta del previsto. Non erano in molti, era troppo presto, ma si preparavano ad attaccare l’ospedale per uccidere medici, infermieri e pazienti musulmani: ora che le truppe inglesi presidiavano i ponti, l’ospedale era uno dei pochissimi luoghi in cui era ancora possibile trovare qualche musulmano da sgozzare.

I soldati aspettavano davanti alla casa, le armi in pugno, pronti a reagire. Gli indiani si erano fermati, vedendo i militari: non erano molto numerosi e questo li rendeva incerti di fronte ai soldati con le armi spianate, ma era solo questione di tempo. Ne sarebbero arrivati altri e avrebbero attaccato.

Turton fece due passi avanti. Forse sarebbe riuscito a convincerli ad andarsene. Erano vigliacchi, come tutti gli indiani, e la vista delle armi raffreddava i loro bollenti spiriti.

- Che cosa volete?

Gli uomini si guardarono, incerti. Molti di loro non conoscevano l’inglese e Turton parlava pochissimo l’hindi, per cui si era rivolto agli indiani nella propria lingua.

Due uomini, che dovevano essere i capi del gruppo, avanzarono verso Turton. Li seguiva un terzo, molto corpulento, con un’espressione ebete sul viso: evidentemente un idiota. I tre si assomigliavano e probabilmente erano fratelli. Ognuno di loro aveva un grosso bastone.

Turton ripeté:

- Che cosa volete?

Rispose il più anziano:

- Vogliamo raggiungere l’ospedale. Ci sono medici musulmani che uccidono i pazienti induisti. Vogliamo interrogarli.

Turton gli rise in faccia:

- “Interrogarli”? E chi sei tu per interrogare qualcuno, coglione? Un giudice? Un poliziotto?

L’uomo fece una smorfia. Poi disse, a disagio, senza guardare Turton in faccia:

- Fingono di curarli e li uccidono.

Turton si infuriò. Poco gli importava dei medici musulmani, ma l’idea che quel pezzente si arrogasse l’autorità di indagare e processare lo imbestialiva.

- Ma piantala, stronzo!

Turton diede uno spintone all’uomo, costringendolo ad arretrare. Fece un passo avanti. Poi proseguì:

- Levati dai coglioni o ti faccio fucila…

Non completò la frase. Senza che Turton se ne accorgesse, l’idiota aveva alzato la mazza e gliel’aveva calata sulla testa.

Si sentì il rumore delle ossa spezzate e il sangue sgorgò dal capo, dal naso e dalla bocca di Turton, che si abbatté a terra senza un grido, mentre risuonava uno sparo: uno dei soldati aveva sparato all’assassino, nel tentativo di fermarlo. L’uomo, colpito al petto, emise un lamento, si avvitò su se stesso e crollò al suolo.

Vedendo il maggiore crollare a terra, tutti i soldati puntarono i fucili sulla piccola folla, che era avanzata, avvicinandosi ai due corpi stesi a terra. Un attimo dopo i soldati avrebbero sparato e gli indiani si sarebbero scagliati su di loro.

In quel momento si udì la voce di Goldenberg:

- Fermi.

Goldenberg era sulla porta di casa. Tutti si voltarono verso di lui. Il dottore uscì in strada, mettendosi tra i soldati e la folla. Un gesto temerario, perché se i soldati avessero sparato o gli indiani avessero attaccato, Goldenberg sarebbe stato sicuramente colpito.

Tutti si fermarono, incerti, e rimasero muti.

Uno dei soldati sussurrò al vicino:

- Certo che il dottore li ha, i coglioni.

L’altro replicò:

- Ne dubitavi? È stato decorato con la Victory Cross.

Goldenberg si piegò su Turton, ma era evidente che non c’era più niente da fare: il maggiore aveva il cranio fracassato. Poi Goldenberg esaminò l’altro uomo, che era ancora vivo, ma si stava spegnendo rapidamente. Goldenberg si inginocchiò al suo fianco, gli sollevò la testa e la poggiò sulle proprie ginocchia. Nella via si era creato un silenzio irreale. Nessun sembrava in grado di parlare o di muoversi. Tutti osservavano il dottore.

L’uomo girò il capo di lato e un po’ di sangue gli uscì dalla bocca. Poi rimase immobile. Goldenberg gli chiuse gli occhi.

Goldenberg posò delicatamente la testa a terra e si alzò. Si rivolse agli indiani:

- Prendetelo e portatelo via. Non avreste dovuto portarlo con voi. Non era in grado di capire che cosa stava facendo.

Poi, senza aspettare una risposta, si voltò verso i soldati, dando le spalle agli indiani, perfettamente conscio che avrebbero potuto colpirlo. Disse:

- È meglio che vi allontaniate. Raccogliete il corpo del maggiore e portatelo all’ospedale. Dovete avvisare i comandi che è morto.

Ci fu ancora un momento di silenzio, poi gli indiani raccolsero il morto e si allontanarono. I soldati inglesi presero il cadavere di Turton e lo portarono all’ospedale.

Goldenberg li guardò scomparire. Era andata bene. Aveva rischiato il tutto per tutto, ma era riuscito a fermarli, prima che ci fosse una carneficina e in città incominciasse un massacro. Sarebbero tornati, di questo Goldenberg era sicuro. Sarebbero tornati e questa volta non sarebbe stato così facile allontanarli.

Ora doveva rientrare e tranquillizzare Aziz, che di certo stava attendendo in ansia. L’aveva convinto a rimanere nascosto dicendogli la verità: se si fosse fatto vedere, lo avrebbe messo in un pericolo mortale; la presenza di un medico musulmano avrebbe attizzato la furia degli induisti.

Goldenberg rientrò in casa, chiedendosi che cosa sarebbe successo. In una situazione diversa, l’uccisione del comandante della guarnigione avrebbe facilmente scatenato una sommossa anti-britannica: ormai le proteste contro il dominio coloniale inglese erano in continua crescita. Ma nell’attuale clima di ostilità tra induisti e musulmani, era meno facile che questo accadesse. E gli induisti sapevano che una qualunque azione avrebbe reso più pesante l’inevitabile rappresaglia. Di certo l’esercito sarebbe intervenuto rapidamente, non appena la notizia della morte di Turton fosse giunta a Calcutta. Ma non sarebbe arrivato nessun rinforzo prima della sera del giorno successivo. E in due giorni poteva succedere di tutto. Un attacco all’ospedale era l’ipotesi più probabile. Un attacco contro le residenze britanniche non era da escludere. E di certo le truppe inglesi avrebbero pensato in primo luogo a difendere i loro connazionali.

Un altro pensiero si fece strada nella testa di Goldenberg.

Come evitare che Aziz corresse troppi rischi? Lasciandolo a casa? Se però i servitori avessero lasciato trapelare che c’era un dottore musulmano, gli induisti avrebbero attaccato. L’ospedale era comunque un bersaglio, per la presenza di medici, infermieri e pazienti musulmani, ma almeno Goldenberg avrebbe fatto quello che poteva per intervenire. Goldenberg avrebbe voluto che Aziz fosse a casa propria, dove non avrebbe corso rischi: difficilmente gli induisti avrebbero attaccato i vasti quartieri musulmani, più facilmente la loro furia si sarebbe sfogata al bazar o contro le famiglie musulmane isolate.

Goldenberg entrò nelle proprie stanze e chiuse la porta dietro di sé. Aziz si alzò di scatto. Tremava.

- Dottore! Quando ho sentito lo sparo… io…

David annuì.

- Hanno ucciso Turton. Non so che cosa succederà. È meglio che andiamo subito all’ospedale.

- Turton, morto!? Hanno sparato a lui?

- No, una bastonata sulla testa, gli hanno spaccato il cranio. Turton era agitato, ha spintonato un indiano e un altro lo ha colpito, un povero idiota. Un soldato ha sparato e lo ha ucciso. Un casino. Adesso però andiamo. Non è il caso di perdere tempo a fare colazione.

Goldenberg ordinò ai servitori di preparare una colazione che potessero consumare in ospedale e di portargliela appena pronta, poi uscì con Aziz.

La strada era deserta.

 

*

 

In ospedale Goldenberg si informò del ferito, le cui condizioni erano stazionarie. Poi convocò i medici e gli infermieri musulmani. Spiegò loro che cosa era successo e i propri timori.

- Se ritenete di riuscire a raggiungere un posto sicuro senza correre rischi, vi consiglio di farlo. La mia opinione è che l’ospedale sarà attaccato e preferirei sapervi al sicuro.

Sul versante della collina opposto a quello in cui si estendeva la città, vi era una zona poco popolata, di campi e boschi, in cui forse sarebbe stato più facile passare inosservati.

Uno degli infermieri rispose:

- Dottore, non è facile allontanarsi e in ogni caso non potremmo portare con noi i pazienti: alcuni non possono essere spostati. Ognuno sceglierà di fare ciò che vuole, ma io rimango.

- Badate, correte un rischio molto grave.

- Quanto lei dottore, ma lei è qui. Poteva starsene a casa o raggiungere il quartiere britannico.

Parlarono ancora un momento. Qualcuno aveva dei dubbi, ma tutti decisero di rimanere.

Goldenberg si occupò personalmente di preparare la difesa. Fece chiudere e barricare le porte dell’ospedale e le finestre, che avevano tutte solide inferriate al piano terra. Non erano in grado di resistere a lungo: non avevano armi. Ma probabilmente anche gli attaccanti non avrebbero avuto molte armi da fuoco.

Se fossero riusciti a impedire agli attaccanti di entrare, il problema più serio sarebbe stato quello del fuoco. Goldenberg fece preparare molti secchi d’acqua, in modo da poter spegnere subito eventuali principi di incendio. In ogni caso l’edificio era in muratura, solido, e non avrebbe preso fuoco facilmente.

Goldenberg fece portare anche viveri e acqua da bere: in questo modo avrebbero potuto reggere a un assedio per quarantott’ore. Quando fosse arrivato l’esercito, l’assedio sarebbe finito.

Poi il dottore parlò con il personale induista: se qualcuno preferiva andare a casa, poteva farlo. All’ospedale tutti avrebbero corso gravi rischi, indipendentemente dalla religione: nel momento in cui l’ospedale fosse stato invaso, chiunque sarebbe potuto essere ucciso. Nessuno lasciò l’ospedale.

Goldenberg predispose dei turni di guardia con persone in cui aveva piena fiducia: i rapporti tra i medici e gli infermieri delle diverse confessioni erano molto buoni, ma di fronte a una minaccia esterna molto grave, c’era il rischio che, per paura o per odio, qualcuno favorisse l’ingresso nell’ospedale degli assedianti.

I preparativi avevano creato parecchia agitazione. Molti speravano che il dottore si sbagliasse, anche se in fondo quasi tutti sapevano che aveva ragione ad aspettarsi il peggio.

Goldenberg riprese a occuparsi dei malati, come se fosse stato un giorno qualsiasi. Il clima ritornò quello di sempre, a parte la mancanza di nuovi arrivi all’ospedale: non si presentò nessuno a chiedere un ricovero o a visitare un parente e questo era chiaramente un indizio che anche fuori dall’ospedale ci si aspettava un attacco.

Trascorse quasi tutta la mattinata e molti incominciarono a pensare che le preoccupazioni del dottore fossero infondate. Coloro che arrivavano dalla città dicevano che pareva essersi svuotata: il bazar era deserto, per le strade si incontravano pochissime persone.

Verso mezzogiorno però arrivò di corsa uno degli infermieri che era tornato a casa dopo il turno di notte.

- Vogliono attaccare l’ospedale. Si stanno organizzando. Vogliono uccidere tutti i musulmani.

Goldenberg ripeté l’invito ad andarsene, ma nessuno lo accolse. Anche l’infermiere che aveva portato la notizia decise di restare, benché non fosse il suo turno di lavoro, e dopo di lui arrivarono altri tre infermieri e due medici induisti, tutti decisi a difendere l’ospedale. Uno dei medici, Rohit Deshpande, aveva due pistole.

Alcuni dei pazienti induisti dissero che se ne volevano andare. Goldenberg li dimise, dando loro alcune indicazioni. In due casi sconsigliò di lasciare l’ospedale, ma uno dei due era troppo spaventato e si allontanò, anche se si reggeva a malapena in piedi.

Presto sentirono le grida della folla che si avvicinava. Da una delle finestre del primo piano, Goldenberg studiò la situazione. La massa cha avanzava compatta riempiva per intero la strada principale che saliva fino all’ospedale. Se avessero deciso di attaccare, non sarebbe stato possibile fermarli: erano troppo numerosi.

Che cosa era possibile fare? Avviare una trattativa? E che cosa avrebbe potuto offrire Goldenberg? Avrebbe offerto la sua vita, senza esitare, ma la sua vita non aveva nessun interesse per gli esaltati che si avvicinavano: era al massimo un ostacolo da eliminare per raggiungere l’obiettivo che si ponevano.

 

*

 

Aziz osservava il dottore. Non si era avvicinato alla finestra, obbedendo all’ordine dato da Goldenberg: nessun musulmano doveva farsi vedere, per evitare di provocare la reazione della folla e scatenare un attacco.

In mattinata l’attività in ospedale era stata frenetica e Aziz aveva evitato di riflettere a ciò che era successo il giorno prima. Ma adesso, osservando il dottore, la verità si formulò da sola nella sua mente: amava il dottore. Lo amava e lo desiderava. Era sempre stato conscio del profondo affetto che provava per lui, anche se lo aveva sempre chiamato amicizia e non amore. Non aveva capito di amarlo e di desiderarlo, ma il vederlo nudo aveva tolto il velo che gli copriva gli occhi e ora sapeva.

L’angoscia lo avvolse, un desiderio di morire, di annullarsi. Forse oggi sarebbe morto, portando il suo segreto con sé. Sì, era meglio che morisse. Morire cercando di salvare Goldenberg. Immaginò di gettarsi davanti a lui mentre gli sparavano, di cadere morente tra le braccia del dottore che lo sostenevano. Sì, che cosa poteva desiderare di meglio? Salvare la vita all’uomo che amava e morire tra le sue braccia, leggergli in viso l’affetto che provava, la riconoscenza. Lasciare un ricordo puro.

 

Goldenberg si affacciò alla finestra del primo piano. Accanto a lui si misero un medico e un infermiere induisti. Attesero. Il rumore della folla in arrivo andava crescendo. Poi, quando furono davanti all’ospedale, ci fu un momento di silenzio. Goldenberg parlò:

- Che cosa volete?

Ci furono grida ed esclamazioni. Aziz sentì un “Morte ai musulmani” e la parola “morte” venne ripetuta più volte.

Il dottore fece un gesto con il braccio. Il rumore si acquietò un momento.

- Qui non ci sono musulmani o induisti o jainisti, sikh o cristiani. Qui ci sono solo medici e infermieri che curano i malati e i feriti. Lo hanno sempre fatto e lo faranno finché ci sarà questo ospedale. Se volete distruggerlo, nessuno verrà più curato.

Si fece avanti uno degli uomini che avevano parlato con Turton in mattinata.

- Non vogliamo distruggere l’ospedale. Dateci i musulmani e non succederà niente all’ospedale.

La folla sottolineò la richiesta con grida e minacce.

Goldenberg attese che le voci si calmassero, ma trascorse un buon momento prima che gli fosse possibile farsi sentire.

- Gli uomini e le donne che sono qui sono venuti per farsi curare o per curare. Nessuno di loro…

Goldenberg non riuscì a finire la frase. Il suo interlocutore gridò:

- Se non ci date quei porci, ce li prenderemo.

Altre voci si levarono dalla folla:

- Verremo a prenderli.

- Li staneremo tutti, anche se si nascondono.

- Dateceli o bruceremo l’ospedale.

L’uomo che aveva parlato brandiva una torcia.

- Se incendierete l’ospedale, moriranno moltissimi dei vostri fratelli.

Questo era vero e la folla lo sapeva, ma non era sufficiente.

- Dateceli o verremo a prenderceli.

Anche il medico di fianco a Goldenberg cercò di convincere la folla ad andarsene, a non uccidere, ma fu interrotto quasi subito. Qualcuno tirò un sasso e mancò Goldenberg di poco. Il dottore si ritrasse e la finestra venne chiusa.

Che cosa avrebbe fatto la folla? Avrebbe attaccato subito? Avrebbe atteso? Di certo quegli uomini non se ne sarebbero andati.

Alcuni si avvicinarono alla porta e si diedero a battere, urlando di aprire, ma sapevano tutti che nessuno avrebbe aperto la porta spontaneamente. Allora la folla cercò di sfondarla, ma era una porta spessa ed era stata barricata in modo che non cedesse.

Ci fu un momento di incertezza. Qualcuno propose di dare fuoco all’ospedale, ma anche questo non era facile: l’edificio aveva solo gli infissi e le imposte in legno.

All’interno dell’ospedale Goldenberg girava a controllare la situazione. Tutti erano vigili al loro posto.

Aziz guardò attraverso le fessure delle imposte. C’era una grande folla davanti all’ospedale, tanta che lo spiazzo non era sufficiente a contenerla. Sembravano attendere. Che cosa?

Ci fu un clamore. Stava arrivando qualcuno o qualche cosa che la folla attendeva. E in effetti Aziz vide avanzare tra la folla tre uomini armati di spranghe e picconi: speravano di abbattere la porta. Gli uomini si avvicinarono all’ingresso e il primo menò un colpo deciso contro uno dei battenti. In quel momento risuonò uno sparo: da una finestra del primo piano Deshpande, il medico che aveva le pistole, aveva sparato un colpo.

- Questo l’ho tirato in aria, ma se dai ancora un colpo alla porta, sparo a te.

L’uomo con il piccone guardò il medico che lo teneva sotto tiro. La distanza era troppo ridotta perché il dottore sbagliasse il colpo, per poco che sapesse usare un’arma. La folla gridava, ma i tre uomini si ritrassero. Incominciò una discussione tra i tre e quelli che sembravano i capi della folla vociante. Due caporioni strapparono dalle mani dei tre una sbarra e il piccone e si scagliarono contro la porta. L’imposta al primo piano si aprì appena e risuonò un nuovo sparo: questa volta il proiettile colpì al braccio l’uomo che cercava di scardinare la porta. Questi lanciò un urlo. Deshpande disse forte:

- Il prossimo che ci prova se lo becca nella testa.

Deshpande si ritrasse. La folla urlava, inferocita, ma quelli che erano più vicino alla porta si allontanarono.

Goldenberg e Deshpande parlarono a lungo. Goldenberg aveva molte remore a usare la forza contro gli attaccanti, ma si rendeva conto che non c’era altra via. D’altronde, se gli assedianti fossero entrati nell’ospedale, sarebbe avvenuto un massacro. Le due pistole erano un buon deterrente per tenere la folla lontano dalla porta, ma per quanto tempo? E che sarebbe successo nella notte?

Aziz guardava Deshpande e Goldenberg parlare. Si sentiva a disagio. Avrebbe voluto avere anche lui le pistole, poter contribuire a difendere l’ospedale. Per un momento si perse in piani insensati per procurarsi una pistola, ma non c’era certamente modo di lasciare l’ospedale e rientrare, né avrebbe saputo dove cercare un’arma, che non sarebbe stato in grado di usare. Assurdo, del tutto assurdo. Ma il dialogo tra Goldenberg e Deshpande lo metteva a disagio. Capì d’un tratto: era geloso, semplicemente geloso dell’attenzione che il dottore riservava a Deshpande. A questo era arrivato? Un senso di nausea lo assalì. Si augurò di morire presto, di mettere fine a quel tormento, prima di dire o fare qualche stupidaggine. Goldenberg continuava a parlare, ma lo stava guardando. Aziz si allontanò. Entrò in una stanzetta che serviva come segreteria e si sedette su una sedia.

Pochi minuti dopo Goldenberg lo raggiunse.

- Aziz, che cosa succede?

- Niente, dottore, niente. Questa situazione assurda, l’odio… mi chiedo perché…

Si fermò. Nella situazione di sensibilità esasperata di quel momento, il pensiero dell’odio della folla nei confronti suoi e di tutti gli altri musulmani era troppo doloroso. Sentì di nuovo le lacrime agli occhi.

- Aziz, questo angoscia tutti noi. Ma tu hai qualche altro rovello, da ieri mattina, ben prima che venisse fuori questo casino. Non vuoi provare a parlarmene?

Aziz scosse la testa. Aveva paura di mettersi a piangere.

Goldenberg non si arrese:

- Aziz, mi fa male vederti soffrire così. Vorrei che tu ti confidassi.

Aziz si rese conto che stava per scoppiare in lacrime. Si alzò di scatto e uscì dalla stanza. Sarebbe voluto uscire anche dall’ospedale, offrendosi alla furia della folla, ma sapeva che glielo avrebbero impedito. Non riusciva più a reggere l’angoscia che aveva dentro. Non sapeva dove rifugiarsi. Salì all’ultimo piano e si mise in un angolo, al fondo di un corridoio.

Sentì i passi avvicinarsi. Sapeva che era Goldenberg. Il dottore non disse nulla. Lo abbracciò, stretto. Aziz sussultò, incapace di dire una sola parola, paralizzato da quel contatto.

- Voglio solo dirti che sono con te, qualunque cosa sia. Non devi spiegarmi niente.

Il dottore continuava a stringerlo e Aziz incominciò a piangere. Lasciò che le lacrime scorressero, ma le braccia che lo stringevano erano il paradiso. Tutto quello che avrebbe avuto di paradiso nella vita, ma quel momento gli sembrava abbastanza.

 

*

 

La folla continuava a gridare, ma nessuno si avvicinò alla porta. Qualcuno girò intorno all’ospedale, alla ricerca di altre vie d’ingresso, ma anche le due porte laterali erano sbarrate e barricate. Molti finirono per sedersi a terra, in attesa che la situazione si sbloccasse. L’ospedale era sotto assedio. Per il momento l’attacco era stato respinto, ma la folla non aveva rinunciato. Probabilmente gli assalitori aspettavano la notte, quando, nel buio, per i difensori sarebbe stato più difficile colpire un bersaglio.

Goldenberg si dedicò ancora ai pazienti, poi tornò a controllare la situazione dalle finestre. Ma il pensiero andava spesso ad Aziz. Che cosa aveva il suo amico? Perché era così turbato? Che cosa era successo?

Goldenberg considerava Aziz il suo migliore amico, gli era molto affezionato. Ora era preoccupato per lui, perché lo vedeva soffrire. Aziz era disperato. Perché? Non era di certo l’assedio dell’ospedale a turbarlo, la faccenda era incominciata prima, il mattino precedente.

Il tempo passava lento: sembrava che le ore non scorressero mai. Nonostante il calore terribile, la folla rimaneva al suo posto, in attesa. “Fiutano il sangue”, pensò Goldenberg. Pensò di nuovo ad Aziz: come si poteva voler uccidere un uomo come lui, che si prodigava per tutti i malati, senza fare nessuna distinzione? Il dottore sentiva una rabbia sorda crescere contro quella folla. Avrebbe voluto prendere una delle pistole di Deshpande e sparare.

Con una lentezza incredibile, il pomeriggio passò e arrivò l’ora del pasto serale. Goldenberg osservò che alcuni tra gli assedianti se ne andavano. Sarebbero tornati più tardi, con ogni probabilità.

All’interno dell’ospedale la cena venne distribuita. Il dottore girava, muovendosi a passo tranquillo: sapeva che tutti avevano bisogno di vederlo e che cercavano di leggergli in viso il suo stato d’animo. Non gli era difficile mostrarsi sereno: quattro anni di guerra lo avevano abituato a tutte le emergenze. Lo angosciava l’idea che coloro che avevano fiducia in lui potessero rischiare la vita. E il pensiero di Aziz era un chiodo fisso da cui non riusciva a staccarsi.

Aziz faceva il suo dovere con il massimo scrupolo, come sempre. Cercava di concentrarsi nel lavoro e di evitare il dottor Goldenberg. Ma quando non era occupato, ripensava a quell’abbraccio, il raggio di sole della sua vita.

 

*

 

Goldenberg stabilì turni di sorveglianza e turni di sonno. Molti avrebbero voluto rimanere svegli, per essere pronti in caso di necessità, ma il dottore impose di riposare: dovevano essere tutti lucidi e in forze per affrontare un eventuale attacco e per assistere i pazienti.

Il buio era sceso. C’erano le stelle, ma la luna non era ancora apparsa e lo spiazzo davanti all’ospedale era immerso nell’oscurità.

Dietro la finestra Goldenberg ascoltava il brusio proveniente dalla folla. Si stava preparando qualche cosa, questo era sicuro. L’attacco era ormai imminente.

Rohit Deshpande era di fianco a lui, con le pistole. Rohit si stava esponendo: se fossero riusciti a difendere l’ospedale e a salvarsi, i fanatici induisti lo avrebbero accusato di essersi schierato con i musulmani.

Il colpo risuonò violento, improvviso. Qualche cosa era stato sbattuto contro la porta, cercavano di sfondarla. Rohit sparò di nuovo in aria e urlò:

- Il prossimo colpo è per chi si avvicina alla porta.

Gli uomini non si fermarono. Si udì un nuovo colpo violento, poi lo sparo e un urlo. Ci furono altre grida, un brusio, poi qualcuno arrivò con una torcia. Alla luce della fiamma poterono vedere un capannello di uomini intorno a un corpo a terra, coperto di sangue.

Dalla folla si levarono grida di “Assassini”, “Maledetti”. Ma uno degli uomini vicino al ferito si alzò di scatto e gridò, rivolto verso le finestre.

- Dottor Goldenberg, mio fratello sta morendo. Salvatelo!

Ci fu un silenzio improvviso. L’appello aveva colto tutti di sorpresa, il personale dell’ospedale come la folla vociante. Goldenberg non esitò. Forse la sua scelta era folle. Aprì la finestra e disse, rivolto all’uomo che aveva parlato:

- Portatelo alla porta laterale dell’ospedale. Lasciatelo lì davanti e allontanatevi tutti dal vicolo. Uno solo di voi rimanga all’ingresso del vicolo con una torcia. Porteremo dentro il ferito e lo cureremo.

Nella folla si levò un brusio, ci fu una discussione concitata, poi l’uomo che aveva parlato alzò le mani e disse:

- Silenzio!

Si rivolse a Goldenberg:

- Faremo quello che ci chiedete.

Goldenberg chiuse la finestra e si preparò a uscire dalla porta laterale per raccogliere il ferito, insieme a un infermiere.

Rohit lo guardava, perplesso:

- Non pensa che…

Goldenberg lo interruppe.

- No. Quell’uomo è ferito e devo cercare di salvarlo.

Prima di uscire controllò da una delle finestre del vicolo: c’erano solo il ferito e l’uomo che aveva parlato.

Goldenberg fece aprire la porta. Con l’infermiere raccolse il ferito. Era uno degli uomini che aveva avuto lo scontro con Turton in mattinata. E l’altro era il fratello.

Questi disse:

- Ho già perso un fratello oggi… lo salvi.

Goldenberg lo guardò.

- Farò tutto quello che posso. Come ho sempre fatto.

L’uomo chinò la testa.

- Aspetterò qui. Mi dica qualche cosa.

- Cerca di tenere calmi tutti o ce ne saranno altri, di feriti e di morti.

Rientrarono con il ferito. Mentre la porta veniva nuovamente barricata, il ferito venne trasportato in sala operatoria.

L’uomo stava perdendo molto sangue e la situazione appariva grave, ma non disperata. Goldenberg era convinto di poterlo salvare, se l’operazione fosse riuscita e non ci fossero state complicazioni. L’intervento richiese due ore, ma non ci furono imprevisti. Il ferito se la sarebbe cavata.

Goldenberg tornò alla finestra sul vicolo. C’erano alcuni uomini accovacciati a terra, ombre appena visibili alla debole luce della luna che era spuntata da poco.

Goldenberg aprì la finestra.

- Chi è il fratello del ferito?

Un uomo si alzò di scatto.

- Tuo fratello se la caverà.

- Non lo dite solo perché non attacchiamo?

Goldenberg rispose, con una voce dura:

- Non sono abituato a raccontare storie.

- Fatemelo vedere.

Goldenberg esitò un attimo. Forse era un’altra follia. E se fosse stato armato?

- Va bene, ma gli altri devono andarsene dal vicolo.

Le ombre si allontanarono tutte, senza bisogno che nessuno aggiungesse altro.

Goldenberg fece aprire la porta.

- Solo due minuti.

Portò l’uomo nella camera dove il fratello riposava.

- Non è in pericolo di vita.

L’uomo annuì, senza distogliere gli occhi dal fratello.

- Ora devi andare. Domani mattina ti permetteremo di entrare, ma non ci deve essere nessun altro.

L’uomo annuì di nuovo, sempre in silenzio. Goldenberg richiuse la finestra.

Il resto della notte trascorse senza che ci fossero segni di agitazione davanti all’ospedale. La folla si era diradata, rimanevano alcune decine di persone.

Goldenberg non si coricò: era troppo teso. Controllò la situazione del ferito, che appariva stazionaria. Si recò da Aziz, che era sdraiato, anche lui insonne, nello stanzone adibito a camerata per medici e infermieri. Goldenberg si limitò a stringergli la mano. La tenne un buon momento nella propria, poi gli accarezzò la fronte e uscì.

L’indomani mattina davanti all’ospedale c’erano non più di venti persone.

Goldenberg fece nuovamente entrare il fratello del ferito. Il paziente si era risvegliato.

L’uomo strinse una mano del ferito. Poi si rivolse a Goldenberg:

- Grazie, dottore. Posso rimanere?

- Solo dieci minuti. Tuo fratello deve riposare.

L’uomo se ne andò quando il tempo fu scaduto.

In giornata non ci furono altri tentativi di attacco. Arrivarono alcuni pazienti nuovi e altri in cura si presentarono per il controllo periodico: non erano molti, assai meno del solito, ma era un chiaro indizio che nessuno si aspettava più un attacco.

Goldenberg fece entrare e uscire tutti dalla porta laterale. Solo a sera, all’arrivo delle truppe inglesi da Calcutta, le porte furono sgombrate.

Il fratello del ferito tornò in visita. Goldenberg avrebbe potuto farlo arrestare, accusandolo di aver guidato l’attacco, ma non disse nulla. Gli altri medici e gli infermieri tacquero: se Goldenberg riteneva che andasse bene così, nessuno intendeva comportarsi in modo diverso.

La sera un contingente rimase a difesa dell’ospedale, anche se era una precauzione inutile: ormai, con l’esercito inglese in città, non ci sarebbero più stati attacchi.

Quasi tutti i dottori e gli infermieri musulmani ritornarono alle loro famiglie, accompagnati dai soldati: volevano avere notizie dei loro parenti, assicurarsi che non fosse successo nulla durante la loro assenza.

Goldenberg chiese ad Aziz di fermarsi e il giovane acconsentì: non aveva nessun parente stretto in città. La sera dormirono entrambi in ospedale.

 

*

 

La sera successiva, Goldenberg decise di tornare a casa. Disse ad Aziz di accompagnarlo.

Aziz non avrebbe voluto, ma si sentiva esausto e non se la sentiva di opporsi.

Mangiarono insieme. Goldenberg non aveva più parlato ad Aziz di quanto era successo. Contava di farlo l’indomani mattina, dopo una buona notte di sonno. Lasciò che Aziz si stendesse sul divano e si mise a letto.

Nonostante la stanchezza, Goldenberg si rigirò a lungo nel letto. Non riusciva a prendere sonno. Il caldo e la tensione lo tenevano sveglio. Dopo un’ora si alzò, si rivestì e uscì dalla porta sul retro. Raggiunse l’ospedale e si informò sulla situazione. Tutto era tranquillo. Goldenberg tornò a casa e si stese nuovamente sul letto.

Quando Goldenberg rientrò, Aziz sentì il rumore. Si sollevò a sedere sul divano. Vide il dottore che attraversava il giardino per rientrare in camera. Era uscito? Probabilmente era andato in ospedale per controllare la situazione. Adesso di certo si stava spogliando in camera sua. Aziz si rese conto che il suo corpo reagiva violentemente: di nuovo un’erezione violenta e il desiderio che si accendeva. Non era possibile, non poteva rimanere nella casa del dottore. Era notte. Avrebbe potuto prendere la bici e attraversare la città. Non c’era gente in giro a quest’ora, al massimo qualche pattuglia, ma avrebbe spiegato e l’avrebbero lasciato passare: lo conoscevano. Aziz sapeva benissimo che nei momenti di forte tensione non c’erano solo le truppe inglesi, c’erano squadre formate da induisti e altre da musulmani, che pattugliavano i propri quartieri per difenderli. E se gli induisti lo avessero sorpreso di notte, lo avrebbero accusato di macchinare qualche attacco e lo avrebbero ucciso. E le pattuglie inglesi potevano essere costituite da soldati provenienti da Calcutta, che non conoscevano Aziz e avrebbero potuto arrestarlo o, peggio, sparargli scambiandolo per un provocatore. Ma Aziz cercò di cancellare il pensiero.

Doveva andarsene. Non aveva la biancheria, che il dottore aveva dato da lavare, ma non era un problema: poteva pedalare a torso nudo.

Si rivestì lentamente, ma non uscì subito. Goldenberg poteva essere ancora sveglio e lo avrebbe sentito. Attese, in silenzio, fissando le ombre che la luce lunare proiettava sulla parete. Cercò di svuotare completamente la mente da ogni pensiero, soprattutto dall’immagine, che ritornava ossessiva, del corpo del dottore. Il desiderio lo tormentava, violento, e non riusciva a soffocarlo. Non poteva aspettare oltre. Si alzò, scostò la zanzariera che il dottore aveva fatto mettere alla porta e uscì. Il giardino era perfettamente illuminato. Aziz evitò di guardare in direzione della camera del dottore. Si diresse alla bicicletta. La prese e si avviò verso la porticina che immetteva nel vicolo.

- Che cazzo fai, Aziz? Sei impazzito?

Aziz si voltò per rispondere al dottore, ma quando lo vide nudo alla luce lunare, le parole gli morirono sulle labbra. Non riusciva a parlare, si sentiva la gola secca. Deglutì. Sentì il tendersi dell’uccello.

- Dove cazzo pensi di andare? Vuoi farti ammazzare? Vuoi che ti stuprino e ti castrino prima di ammazzarti? Cazzo, Aziz!?

Il dottore era furente, anche se parlava a voce bassa, per non farsi sentire dai servitori.

Aziz si voltò e fece per dirigersi verso la porta, senza dire nulla: non avrebbe potuto rispondere, non se la sentiva di parlare. Sapeva di non poter garantire delle proprie azioni se fosse rimasto un solo istante in più.

Prima che potesse infilare la chiave nella toppa, il dottore gli si parò davanti. Aziz cercò di aprire lo stesso, ma Goldenberg lo bloccò, afferrandolo.

- Fermati, imbecille!

I loro corpi aderivano e Aziz si sentì perduto. La sua mente non era più in grado di controllare il suo corpo. Guardò il viso di Goldenberg a una spanna dal suo e provò l’impulso di baciarlo, ma per un momento riuscì a controllarsi. Una mano però si posò sul viso del dottore e il calore che le sue dita gli trasmisero lo inebriò. Allora sporse il viso in avanti e baciò il dottore.

Ci fu un attimo in cui il dottore rimase immobile, stupefatto, poi le sue braccia si strinsero intorno ad Aziz e il bacio divenne più intenso. La bicicletta cadde a terra, Goldenberg spinse Aziz contro il muro e i loro corpi aderirono, in un abbraccio appassionato, mentre la lingua del dottore si faceva strada tra le labbra di Aziz.

Aziz aveva l’impressione di non riuscire a reggersi in piedi. Gli sembrava che se non fosse stato appoggiato al muro e sostenuto dalle braccia del dottore, sarebbe caduto a terra. Le mani di Goldenberg ora gli accarezzavano il petto, lo stringevano, scendevano fino alla cintura.

E contro il ventre Aziz poteva sentire, inquietante e splendido, l’uccello del dottore gonfio di sangue.

- È per questo, Aziz?

Il dottore scosse la testa, senza aspettare una risposta. Si staccò da lui e, tenendolo per mano come un bambino, lo condusse nella propria camera. Aziz si lasciò guidare: non era in grado di opporsi, non riusciva a pensare. Il bacio di Goldenberg lo aveva privato di ogni volontà, spalancandogli un abisso in cui desiderava solo precipitare.

Non sapeva che cosa sarebbe successo, lo intuiva soltanto, in maniera confusa, ma sapeva di non desiderare altro. Non aveva mai fatto l’amore con un uomo, non era mai stato posseduto, gli faceva paura l’idea, ma con tutto se stesso voleva che il dottore lo prendesse, lo facesse suo. L’angoscia degli ultimi giorni svanì. Al suo posto Aziz sentì nascere dentro di sé una gioia selvaggia, che lo riempiva tutto. Strinse la mano del dottore, del suo uomo.

 

 

 

 

 

 

 

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