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La morte del re

 

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Angelo Scibone osserva gli edifici.

Ettore Albanella gli spiega, deferente, quasi untuoso:

- Al posto del teatro possiamo fare un casino di appartamenti. Due caseggiati di nove piani. Fa almeno quaranta alloggi.

- Nessuno che possa mettere i bastoni tra le ruote?

- C’è uno dei consiglieri di circoscrizione che scassa le palle, il Russo. Dice che il teatro è importante per il quartiere, che non ha senso costruire altri palazzi. Ha avviato una raccolta di firme.

Angelo scrolla le spalle.

- Le firme può usarle per pulirsi il culo.

- Lamenta che ci sono state irregolarità.

- Starà zitto.

Ettore Albanella non chiede come lo faranno stare zitto: lo sa benissimo.

C’è ancora una domanda che gli preme.

- Ci sarà qualcuno che non sarà contento, se siamo noi a fare il lavoro. Ma se è la famiglia Scibone che ce lo affida…

Angelo annuisce. Albanella ha scelto con cura le parole: vuole essere sicuro che ad affidargli i lavori sia la famiglia Scibone e non si tratti di un’iniziativa personale di Angelo, ma non si permette di certo di avanzare dei dubbi.

Angelo sa benissimo che suo padre non sarà contento: nel quartiere loro hanno sempre fatto affari con i Parete, che utilizzano le imprese di costruzione dei Tricarico. Rivolgersi ad Albanella è uno strappo alle consuetudini, ma i Parete dovranno far buon viso a cattivo gioco: non sono forti, possono solo chinare la testa e accettare. Suo padre mugugnerà, ma non ha importanza.

Angelo dice:

- Staranno zitti tutti.

Il telefonino squilla. Angelo guarda il display. Suo fratello Leonardo.

Albanella stava per parlare, ma si interrompe.

Angelo risponde. Albanella si allontana.

Leonardo lo aggredisce subito:

- Che cazzo hai fatto, Angelo? Che cos’è questa storia dei rifiuti della Brianza?

Come l’ha saputo Leonardo? C’è qualcuno che non sa stare zitto. Qualcuno che ha bisogno di una lezione.

- Non scassare le palle, Leonardo. Non sono cazzi tuoi.

- Ne parlerò a nostro padre. Vediamo che cosa ne dice lui.

- Fa’ quel che cazzo vuoi, Leonardo.

Angelo chiude la comunicazione. È incazzato.

Il cellulare suona di nuovo, ma Angelo lo ignora. Leonardo è una testa di cazzo, tene ‘a capa sulo pespartere ‘e rrecchie. Ma vuole mettere il becco dappertutto. Da tempo Angelo sa che è ora di provvedere.

 

Angelo fa un cenno con la testa e Albanella si avvicina.

- Quando incominciate?

- Il teatro verrà consegnato tra un mese. C’è ancora uno spettacolo, poi chiudono.

Si avvicinano all’ingresso. Albanella guarda il cartellone.

- Antonio Basile. Il re di Napoli, lo chiamano. Dicono che è il re della scena qui in città. Anche se se ne andò a Torino, qualche anno fa, ma non fece fortuna e ritornò qui…

Antonio Basile. Angelo se lo ricorda bene: era il suo insegnante di teatro alla scuola Santa Chiara. Era un uomo affascinante, allora. Chissà com’è adesso.

Diversi pensieri gli si affacciano in testa.

Albanella vuole aggiungere qualche cosa, ma esita. Angelo chiede.

- Che c’è?

- Basile è molto popolare. Recita spesso qua, tutta Napoli gira, mica frequenta solo i grandi teatri. Il re di Napoli si mescola alla folla. Se si mette in testa che il teatro non deve essere abbattuto… Se fa propaganda per la raccolta di firme…

Angelo ghigna.

- Non lo farà.

Il teatro in cui recita Basile. Chissà com’è? Dice ad Albanella:

- Entriamo.

Albanella è disorientato.

- Ma è chiuso…

Angelo sta per dirgli di procurarsi le chiavi, ma gli viene in mente un’altra idea e decide di lasciar perdere.

- Non ha importanza.

Guarda Albanella e dice:

- L’affare è tuo, ma bocca chiusa: ‘a parola cammina. Attento a come ti muovi. Con noi non si scherza.

- Sì, eccellenza. Può contare su di me. Grazie.

Angelo si avvicina all’auto. Chiama Ennio, di cui si fida pienamente.

- Ennio, voglio andare a vedere questo spettacolo che incomincia la settimana prossima. Mi procuri un biglietto per la prima. Un buon posto. Ma nessuno lo deve sapere.

- Sarà fatto.

Angelo fa un cenno a Ennio, che ritorna all’auto. Prende dalla tasca il cellulare e preme un tasto, per richiamare l’ultimo numero.

 

*

 

- Un cadavere in un cassonetto. Fabrizio, va’ tu. Poi vediamo a chi tocca.

Fabrizio annuisce. Da due anni lavora nella squadra omicidi.

Quando arrivano nella via, la scientifica è già al lavoro. Il cadavere è di un ragazzo: non deve avere più di vent’anni. Un colpo alla nuca: la classica esecuzione. Probabilmente è un delitto di camorra.

Quando la scientifica ha finito con il suo lavoro, il responsabile passa il portafogli del morto a Fabrizio. Dentro c’è un documento di identità. Il morto è Leonardo Scibone.

- Cazzo! Cazzo! Cazzo!

L’agente Giraudo lo guarda, aggrottando la fronte.

- Che c’è, ispettore?

- È Leonardo Scibone, uno dei figli di Salvatore Scibone. Questo significa guerra tra i clan.

In commissariato si decide che a seguire l’inchiesta saranno due colleghi di Fabrizio, più addentro negli affari degli Scibone e dei Santagata, i loro nemici di sempre. A Fabrizio non spiace non doversene occupare.

 

*

 

Vincenzo Russo è al mercato. Raccoglie firme contro il progetto di demolire l’isolato del teatro per far posto a nuove costruzioni. Vuole portare la petizione in consiglio di circoscrizione e poi in consiglio comunale.

Il tavolo per la raccolta delle firme è a un angolo, in una zona di passaggio. Ci sono due volontari che distribuiscono volantini per il mercato e invitano ad aderire all’iniziativa, mentre Vincenzo raccoglie le firme.

I quattro arrivano in un momento in cui Vincenzo è solo. In un attimo rovesciano il tavolo. Uno si impadronisce dei fogli delle firme e li straccia. Vincenzo cerca di intervenire, ma viene bloccato. Lo prendono a pugni nello stomaco e in faccia.

Qualcuno guarda, senza intervenire. Una donna grida. I più si allontanano velocemente, guardando da un’altra parte.

È questione di un attimo. I quattro si dileguano, lasciando Vincenzo a terra, il viso insanguinato.

Uno dei due giovani che distribuiscono i volantini arriva e lo aiuta ad alzarsi.

Vincenzo va alla fontana, camminando a fatica, e si lava la faccia, poi torna al banchetto. Risistemano il tutto e Vincenzo va all’auto per prendere altri fogli per le firme. Quelli stracciati li mette via: presenterà anche quelli.

Sa quel che rischia, ma non intende fermarsi. Da quando è tornato a Napoli, dopo dieci anni al nord, ha deciso che doveva fare qualche cosa per la sua città. Anche a rischio della pelle.

 

*

 

C’è parecchia gente questa sera a teatro: ormai tutti gli spettacoli di Antonio Basile richiamano un pubblico numeroso. La serie di recite che incomincia oggi sarà l’ultima in questa sede: la sala verrà chiusa e abbattuta per far posto a nuove costruzioni. Il locale è più un cinema che un teatro e l’acustica lascia alquanto a desiderare, ma Fabrizio si chiede se ad Antonio non spiaccia lasciarlo. Sono diversi anni che la sua compagnia recita qui. La nuova sala in cui si sposteranno è migliore e più centrale, ma Antonio ha sempre amato portare il teatro in tutti i quartieri della città, ancora oggi fa teatro con i ragazzi di Scampia, per niente. L’Antonio di oggi non è diverso dall’Antonio di quattordici anni fa, è rimasto coerente con le sue idee e Fabrizio sa che è uno dei motivi per cui lo ama come allora. No, più di allora.

Fabrizio pensa che sono quattordici anni che stanno insieme. Lui era un poliziotto, quando si sono conosciuti, adesso è ispettore. C’è stato in mezzo il periodo a Torino, quando Antonio lasciò Napoli, per due anni, per stargli vicino. Una scelta che pagò cara sul piano professionale, Fabrizio lo sa benissimo, ma Antonio accettò il prezzo e non glielo ha mai fatto pesare. Ora sono di nuovo a Napoli, da sei anni, e Antonio è diventato il nuovo re del teatro napoletano, come viene chiamato, anche se solo alcune delle opere che rappresenta sono in dialetto.

 

Fabrizio è curioso di vedere il nuovo spettacolo di Antonio. È l’Edoardo II di Marlowe, lo stesso dramma per cui Antonio gli regalò il biglietto,  quattordici anni fa. Voleva metterlo in scena già allora, ma non lo fece e ne è passata acqua sotto i ponti prima di realizzare quel progetto, anche a causa del trasferimento a Torino. Ma oggi finalmente si avvera il suo vecchio sogno. Fabrizio lo ha aiutato a studiare la parte, ma Antonio non gli ha permesso di assistere a nessuna delle prove, come invece avviene di solito, Fabrizio non ha capito perché.

 

Il sipario si apre. Fabrizio sussulta: Antonio è in scena, completamente nudo. Fabrizio conosce bene il corpo che ora si offre a tutti gli spettatori. È un gran bel corpo, di un uomo che ormai si avvicina ai cinquanta, ma ha conservato forza e armonia.

Fabrizio guarda il cazzo di Antonio, come sa benissimo che stanno facendo tutti gli spettatori, stupiti, e un’ondata di desiderio lo prende. Che cos’è che lo turba tanto, che tende il suo cazzo al punto da fargli male? Ha visto Antonio nudo infinite volte, ha stretto quel corpo, lo ha posseduto, è stato posseduto da lui. Forse è il fatto che sono in centinaia a vederlo questa sera, che in qualche modo lo condivide con un pubblico?

Nelle scene successive, Antonio appare vestito: un lungo abito nero che non rimanda a nessuna epoca particolare, come quello degli altri personaggi. Lentamente Fabrizio sente svanire l’eccitazione, ma rimane sempre presente il desiderio di rivedere Antonio nudo. Lo vedrà nella notte, a casa, ma Fabrizio sa che vorrebbe vederlo ancora qui, in scena, sotto i riflettori, insieme a tutti gli altri spettatori. E al pensiero, nuovamente il cazzo gli si tende.

E, quasi a soddisfare il suo desiderio, nell’ultima scena, Antonio è di nuovo nudo. Il re è in carcere e aspetta di essere ucciso. Il carnefice entra. Ha una spada in mano. Lo seguono quattro uomini. Essi afferrano Antonio e lo costringono a stendersi su un tavolaccio, che viene sollevato da un lato: ora Antonio è disteso, la testa in basso, a livello del suolo, le gambe forse un metro più in alto, il cazzo che ricade sul ventre, ben visibile. Fabrizio sente di nuovo la tensione che sale. I quattro lo tengono fermo. Sono vestiti di nero e hanno guanti neri. Fabrizio fissa quelle macchie scure che bloccano le braccia e le gambe di Antonio.

Il carnefice appoggia la spada sul tavolaccio, tra le gambe divaricate di Antonio, poi spinge verso il basso. Dalla platea sembra che stia infilando la spada in culo ad Antonio. Fabrizio sa che secondo la tradizione Edoardo venne effettivamente ucciso così.

Antonio grida, un urlo che raggela il sangue, ma Fabrizio sente l’eccitazione montare. Pensa che questa sera sarà lui il carnefice e Antonio morirà una seconda volta, la spada nel culo.

Il sipario si chiude. Grandi applausi.

 

Quando infine il pubblico incomincia a defluire, Fabrizio si dirige ai camerini. Lo conoscono bene, ormai, e lo lasciano passare.

Antonio si sta ripulendo la faccia dal trucco. Gli sorride nello specchio.

- Che ne dici?

- Stupendo, una delle cose migliori che hai fatto. Valeva la pena di aspettare tutti questi anni. Ma adesso il carnefice lo faccio io.

Fabrizio ha raggiunto Antonio e si appoggia alla sua schiena.

- Direi che tu hai la spada già pronta.

Fabrizio gli mette le mani sulle spalle.

- Devi andare a cena con gli altri? Io non reggo più.

Antonio lo guarda nello specchio. C’è molta dolcezza nel suo sguardo.

- No, posso farne a meno. Ma dalle tue condizioni direi che vorresti farlo qui nel camerino. Qualcuno passerà, di sicuro.

- Chiudiamo la porta. Per me va bene il camerino, pure il palcoscenico, purché tu non mi faccia aspettare troppo.

Antonio esita un attimo.

- Perché no? Marcello di certo mi dà le chiavi.

Ci vogliono venti minuti perché gli attori se ne vadano e anche Marcello, il custode, li lasci. Antonio ha detto agli altri che li raggiungerà dopo.

 

Il teatro è vuoto. Ci sono solo le luci di emergenza. Antonio accende un riflettore che illumina solo il centro della scena, quello usato nell’ultimo atto, quando Edoardo II viene ucciso. Poi Antonio e Fabrizio portano sul palcoscenico un tavolo e lo piazzano sotto la luce. Antonio prende anche due corde.

- Sei pronto?

Fabrizio annuisce. Antonio gli porge un camicione nero. Entrambi si spogliano. Hanno tutti e due il cazzo duro. Antonio si stende sul tavolo, nudo, su un fianco, come se stesse riposando. Fabrizio si mette il camicione e prende le corde. Si avvicina a Antonio, che al suo arrivo sussulta e si solleva su un gomito.

- Perché vieni con quelle corde?

- Devo legarti.

- Perché? Di certo non posso fuggire di qui. Sono ben salde le mura, ben chiusa la porta.

- Non hai scelta.

Fabrizio passa la corda intorno alla caviglia destra di Antonio, poi tira, forzandolo a spostarsi, fino a che le gambe scendono dal tavolo. Fabrizio fissa la corda a una della zampe.

- Perché mi leghi così? Che cosa vuoi da me?

L’angoscia sale nella voce di Antonio, in questa recita improvvisata.

Fabrizio non risponde. Passa la corda intorno alla caviglia sinistra e poi la lega all’altra zampa, in modo che i piedi di Antonio siano entrambi bloccati. Antonio ora è in piedi contro il tavolo.

Fabrizio gli passa la seconda corda intorno al polso destro.

- C’è sapore di morte nel tuo silenzio.

Fabrizio tende la corda, costringendo Antonio ad appoggiare il ventre e il torace sul tavolo.

Fabrizio cerca le parole adatte per rispondere a tono. Non fa fatica a trovarle, dopo tanti anni di frequenza assidua a teatro:

- È un piatto che stai per gustare.

- No, no!

Antonio tira la corda, ma Fabrizio la fissa alla zampa del tavolo e poi tira, fino a che Antonio cede. Poi Fabrizio passa la corda intorno all’altra zampa e blocca la mano sinistra. Lega anche quella.

- Che morte mi darai?

- La spada.

- Intendi recidermi il capo?

- Sarebbe una morte troppo onorevole per te.

- Io sono re.

- Lo eri, forse, ma non come re ti sei comportato e non come re morirai.

Fabrizio si pone dietro Antonio. Guarda il culo dell’uomo che ama, la peluria scura che lo copre, l’apertura che ha violato tante volte. Questa volta gli farà male, ma Fabrizio sa che entrambi lo vogliono.

Fabrizio avvicina appena il cazzo al culo di Antonio, fino a che la cappella sfiora l’apertura. Antonio sussulta, come se davvero avesse sentito il calore di una spada rovente.

- No, no, no!

Fabrizio si china, sputa sull’apertura, inumidisce, perché l’ingresso sia meno doloroso, poi dice:

- È giunta l’ora.

Infilza Antonio con un colpo secco, spingendo subito fino in fondo, con brutalità.

Antonio ha un guizzo disperato e grida.

- Nooooooooooo!

 

*

 

Da una quinta Angelo guarda la scena. Ha la bocca asciutta e il cazzo teso, non meno di Fabrizio.

Vedere Basile nudo in scena è stato un pugno nello stomaco. Non se lo aspettava. E non si aspettava che gli facesse quell’effetto. Non ha mai più avuto rapporti con uomini, dopo quella volta a Torino, quando aveva diciott’anni. È un capitolo chiuso. Non c’è posto per finocchi tra la gente che conta e Angelo è uno che conta. Quelle sono cose di quando era un guaglione, adesso è un uomo: ha ventisei anni.

Alla fine dello spettacolo ha deciso di fermarsi per parlare con Basile, per dirgli che cosa, non sa nemmeno lui, forse per avvisarlo che non deve occuparsi della chiusura del teatro, se non vuole incorrere in qualche guaio. Ma Basile non è uscito. Per Angelo Scibone nessuna porta è mai chiusa. È rientrato nel teatro e ha visto la luce in scena. Non si aspettava di assistere a questo fuori programma.

Angelo si accarezza la patta dei pantaloni con la sinistra. Con la destra prende la pistola.

Pensa che potrebbe uscire sul palcoscenico, sparare alla nuca di quel tipo che fotte Basile e poi fotterlo lui. E dopo sparargli in culo. L’idea gli piace. Impugna la pistola. Sì, lo farà. È quello che ha voglia di fare. Ammazzare il tizio e fottere Basile. Sorride.

Ma mentre guarda il movimento ritmico del corpo di Fabrizio e l’agitarsi scomposto di Antonio, il desiderio deborda e Angelo viene. Trattiene a fatica un gemito: troppo forte è stato il piacere.

Angelo ripone la pistola e si allontana, in silenzio.

 

*

 

Antonio sente che la tensione cresce. Il culo gli fa un male bestiale, eppure sa che tra poco verrà.

Antonio grida:

- Ora, bastardo, ora!

Fabrizio spinge più forte e lancia un grido selvaggio.

E mentre il seme di Fabrizio gli riempie le viscere, Antonio sente l’esplosione del proprio piacere, che deborda come la lava di un vulcano. Grida anche lui, senza freni, un urlo di puro piacere, che risuona nel teatro vuoto.

Fabrizio si abbandona su di lui, abbracciandolo.

- Ti amo, Antonio, ti amo.

- Anch’io ti amo, Fabrizio.

Rimangono alcuni minuti distesi, immobili. Poi Fabrizio si alza. Antonio sussulta quando sente il cazzo del suo compagno uscire da lui.

Fabrizio scioglie le corde. Antonio si alza. Fabrizio lo abbraccia e si baciano.

- Ti ho fatto tanto male?

- Quanto ci voleva. È stato bellissimo. Avrò male al culo per una settimana.

- Va giusto bene per il tuo personaggio, no?

- Sì, però dobbiamo scopare più spesso in queste due settimane.

Fabrizio rimane disorientato. Non capisce. Non dice nulla e guarda interrogativamente Antonio.

- Se domani sera durante lo spettacolo penso a quello che abbiamo fatto, mi viene duro. Vuoi mica che mezza Napoli mi veda con il cazzo in tiro? Se ho scopato prima, è più difficile che mi si rizzi.

- D’accordo, mi sacrificherò.

- Come sei buono!

Rimettono tutto a posto. Da come si muove Antonio, è evidente che ha davvero male al culo.

 

*

 

Salvatore Scibone guarda dalla finestra. Attraverso l’ampia vetrata si vedono bene la città e il golfo: un panorama superbo. Ma Salvatore non vede ciò che i suoi occhi stanno fissando, è perso dietro altri pensieri. Salvatore sta riflettendo sulla morte di Leonardo: una settimana fa il suo secondo figlio è stato trovato in un cassonetto, ammazzato con un colpo alla nuca. Chi l’ha ucciso? I Santagata, nemici della sua famiglia, che furono suoi alleati per un certo periodo e poi di nuovo nemici? Salvatore vorrebbe essere sicuro che sono stati loro, come dice Angelo, come sospetta la polizia, come insinuano molti.

Salvatore vorrebbe cancellare il dubbio che lo rode, che non osa esprimere a se stesso. Salvatore non ha mai avuto paura di niente, non è uno che si tira indietro. Ma adesso non osa guardare in faccia il suo dubbio.

Salvatore china il capo.

Tra poco verrà Angelo, per quella faccenda del teatro. Salvatore ha detto ai suoi uomini di perquisirlo. Deve far perquisire suo figlio! Anche suo fratello Lucio fece perquisire Angelo quando andò da lui, ma Angelo lo ammazzò con la pistola di Lucio. Aveva tredici anni, allora.

Il primo uomo Angelo l’ammazzò quando aveva dodici anni. Ora ne ha ventisei e scalpita perché vuole comandare lui. Gli rimprovera di essere troppo prudente, di non prendere abbastanza iniziative, le stesse critiche che lui faceva a suo padre.

La storia si ripete. Lui ha fatto ammazzare suo fratello e suo padre, per prendere il comando. E adesso… Salvatore scuote la testa. Cazzate, sono solo cazzate… È di umore nero perché hanno ammazzato Leonardo. Eppure…

Salvatore apre il primo cassetto della scrivania, ne tira fuori il quaderno con le annotazioni. Ci sono alcune cose di cui vuole discutere con Angelo, per la faccenda del teatro. Cose che non tornano. Angelo ha dato il benestare senza consultarlo e questo a Salvatore non piace. Angelo deve riferirgli, non può fare di testa propria. Angelo ha affidato la faccenda del teatro all’impresa di Albanella. Perché non ai Tricarico? E anche la cifra concordata… No, Angelo non la conta giusta.

Angelo arriva puntuale, come sempre. Non mostra irritazione quando gli uomini lo perquisiscono e gli fanno lasciare la pistola, ma questo significa poco: Angelo è sempre stato bravo a fingere, al contrario di Leonardo, che era una testa calda e non riusciva a tenersi dentro niente. Con Angelo Leonardo litigava spesso, voleva anche lui potere e libertà d’azione, anche se aveva solo vent’anni. Teste calde, i suoi figli, Salvatore lo sa benissimo.

Vent’anni, un colpo alla nuca, un cadavere in un cassonetto dei rifiuti. Merda!

Angelo si siede dall’altra parte della scrivania. Salvatore lo guarda. Suo figlio ha un viso e un corpo adatti al suo nome, ma Salvatore sa che è tutt’altro che un angelo.

Angelo espone la situazione, in modo chiaro e preciso: Salvatore ha sempre ammirato la lucidità e la capacità di sintesi di suo figlio. Ma Angelo è un temerario, che non arretra davanti a niente.

- L’affare è ottimo, anche se ora non pagano molto. Pagheranno il resto dopo. 

- Per queste cose abbiamo sempre lavorato con i Tricarico, in accordo con i Parete.

- Questa faccenda è affare nostro. I Parete devono starsene ben lontani.

- E come li vuoi tenere lontani?

- Facendogli capire che è meglio se lasciano perdere, perché i pesci piccoli finiscono sempre mangiati dai pesci grossi.

- Come glielo fai capire?

- L’uomo dei Parete nella zona è Irsina. Una pallottola all’Irsina e la faccenda è chiusa.

- Alla nuca?

E mentre lo dice, Salvatore fissa negli occhi suo figlio. Ma Angelo non mostra nessun segno di turbamento e prosegue:

- I Parete in questo affare non c’entrano.

- Già ci sono polemiche su questa faccenda, ci si è messo di mezzo pure quel Russo, il consigliere.

- Quello stronzo è meglio farlo sparire.

- Viene fuori un casino. Quando lo hai fatto menare, gli hai regalato una bella pubblicità. Non è stata una buona idea.

- No, avremmo dovuto farlo ammazzare subito.

- Te l’ho già detto: viene fuori un casino.

- Se non lo facciamo sparire, il casino lo fa quel fottuto bastardo.

- Lascialo perdere, tanto non riuscirà a bloccarci.

Angelo non dice nulla. Suo padre continua:

- Quanto al cantiere, possiamo dividerci l’affare con i Parete. Abbiamo sempre fatto così. Sfidarli significa affrontare un’altra battaglia.

- Credi di poter allargare il giro senza combattere? Cazzo, papà!

- No, non se ne parla. Siamo già impegnati su troppi fronti.

Angelo storce la bocca, ma non replica. Salvatore prosegue:

- Siamo già sotto assedio. E hanno ammazzato Leonardo.

- I Santagata, quei figli di puttana. Avremmo dovuto sbarazzarci di loro molto tempo fa.

- Come se fosse facile!

- Si può fare. Dobbiamo vendicare la morte di Leonardo.

Angelo si dirige alla finestra alle spalle del padre e guarda fuori.

- Quei bastardi non vogliono mollare la presa sulla città, ma andremo a stanarli anche nei cessi e li fotteremo.

Salvatore si è voltato e fissa il figlio. Scuote la testa.

- Tutti questi omicidi stanno attirando troppo l’attenzione. Disturbano gli affari.

- Bisogna metterli a posto, papà.

- Tu vuoi mettere a posto tutto il mondo. Devono fare tutti quello che vuoi tu. Sono io il capo e decido io.

Angelo non replica.

- Dirai all’Albanella che per il teatro non se ne fa niente. Lavoriamo con i Tricarico, come al solito. In accordo con i Parete. La guerra con i Santagata è già più che abbastanza. E lascia stare anche il consigliere. È troppo conosciuto. Chiaro?

Angelo annuisce.

- Come vuoi tu. Sei tu il re.

Salvatore guarda suo figlio, ma non sembra esserci traccia di ironia nella sua voce.

- C’è un’altra faccenda, Angelo. La storia dei rifiuti della Brianza.

Salvatore si volta di nuovo verso la scrivania e apre il primo cassetto. Questa faccenda dei rifiuti è un problema grosso.

Salvatore intravede appena il laccio che gli passa davanti agli occhi. Prima di rendersi conto di quanto sta succedendo, sente la pressione alla gola che rapidamente gli toglie il respiro. Si porta le mani al collo, per allentare la morsa, ma Angelo stringe, Angelo è forte, Angelo non esita. Salvatore vede il mondo diventare rosso e poi svanire, mentre un immenso incendio gli riempie i polmoni.

 

L’odore di merda dice ad Angelo che ha finito, ma lui stringe ancora un momento. Poi molla il laccio e lascia che il cadavere si afflosci sulla sedia. I pantaloni sono bagnati: come succede di solito a chi viene strangolato, Salvatore Scibone si è pisciato addosso.

Angelo guarda il cadavere del padre. Da bambino giocava spesso con lui, gli sparava, con le dita o con le pistole giocattolo e Salvatore faceva finta di morire. Poi usavano le pistole vere, con il giubbotto antiproiettile.

Salvatore non era più adatto a guidare la famiglia. Come il nonno, invecchiando era diventato troppo prudente: a cinquantacinque anni non aveva più le palle per rischiare. La città è un campo di battaglia e ci vogliono i coglioni per affrontarla.

Ora deve far fuori i due uomini. Angelo prende la pistola che il padre tiene nel cassetto centrale. La mette in tasca.

Passa nell’altra stanza.

- Mio padre vi vuole parlare.

I due uomini si dirigono alla porta, ma quando sono sulla soglia, Angelo spara. Un colpo alla schiena. Un colpo alla nuca per finirli.

Angelo non esce subito. Vuole lasciare a chi può aver sentito gli spari il tempo di allontanarsi ed evitare di aver visto troppo.

Adesso ci sono molte cose da fare. Parecchia gente da far stare zitta. Il Russo, l’Irsina, alcuni uomini troppo fedeli a suo padre. Parleranno di una nuova offensiva dei clan. Ci sarà, la nuova offensiva dei clan, ci sarà. È ora che a Napoli capiscano che c’è un nuovo re.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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