Alla fortezza

 

 

- Comandante, comandante… un gigante. Un Solitario.

Il soldato ansima. Non appena dalla torre hanno avvistato il gigante, è corso ad avvisare Dvoboposte: sa bene che ogni minuto è prezioso.

- Un Solitario, hai detto? Da Nord? O è al guado?

- Da Nord. È arrivato all’ansa del fiume.

Dvoboposte dà ordine di suonare il corno. Dalle torri e dalle mura il suono viene ripetuto tre volte. Tutti conoscono il segnale di allarme. Chi è fuori dalle mura deve rientrare immediatamente. Guerrieri e soldati devono accorrere nel cortile interno. 

La fortezza di Dubokvoda è stata completata solo un anno fa, dopo due anni di lavori. A difenderla ci sono sessanta uomini: trenta soldati e trenta guerrieri liberi, scelti tra quelli che erano stati assoldati per proteggere i lavori di costruzione. È stato Dvoboposte stesso a proporre ai migliori di fermarsi alla fortezza, diventando di fatto soldati, ma non vincolati a rimanere in servizio per un lungo periodo. Quasi tutti hanno accettato.

Ci sono anche altri uomini, che si dedicano a diverse attività nell’ampio recinto esterno: i mercanti che forniscono tutto ciò che non può essere prodotto sul posto; gli artigiani che producono le armi, gli strumenti e gli altri oggetti necessari; alcuni contadini che coltivano i piccoli orti interni e altri appezzamenti oltre le mura, insufficienti per le necessità della guarnigione, ma pur sempre utili, soprattutto nel caso i rifornimenti si dovessero interrompere per un qualunque motivo; i pastori, che si occupano del gregge di pecore. Tutti possono dare una mano in caso di attacco. Questo però non è l’attacco di un esercito nemico: è una minaccia di tipo diverso.

Ci sono parecchi giganti nella regione, anche se di rado si avvicinano alla fortezza. Non sono i grandi giganti del Nord, che possono essere più alti di una torre: in quest’area di solito sono alti soltanto tre o quattro volte un uomo. In inverno c’è già stato un attacco da parte di un Solitario, che non è stato avvistato per tempo, perché su tutta la pianura gravava una fitta nebbia. Ha distrutto un piccolo tratto della cerchia esterna di mura e ucciso due uomini, prima di essere abbattuto.

Dvoboposte ha scelto due ufficiali ed esce con venti uomini. Spera che la vista dei guerrieri dissuada il gigante dall’avvicinarsi: i Solitari agiscono d’impulso ed è possibile che, vedendo parecchi uomini armati, decida di allontanarsi. Sono tutti a piedi, perché di fronte ai giganti i cavalli spesso vengono presi dal panico e diventa difficile controllarli. Si tengono a una certa distanza gli uni dagli altri, come sanno di dover fare: devono essere liberi di muoversi velocemente, se il gigante cercherà di colpirli con la mazza: per fortuna i movimenti dei giganti sono piuttosto lenti.

Hanno lasciato la fortezza da poco, quando il gigante appare: simile a un uomo come aspetto, ma molto più alto, con braccia assai lunghe.

- Oh, cazzo!

L’esclamazione di Dvoboposte è quanto mai pertinente: il gigante che si sta avvicinando ha il cazzo duro, teso verso l’alto. Come succede di solito nei Solitari, il cazzo è particolarmente lungo e voluminoso.

- Un maschio in calore. Non ha trovato una femmina e viene a cercare qui. Merda!

Sanno tutti che non è raro che i giganti in calore, soprattutto i Solitari, vaghino alla ricerca di una femmina o, in mancanza di femmine, di un maschio. Di rado si spingono oltre la Grande Corrente, il fiume sul cui guado sorge la fortezza, perché preferiscono rimanere sui monti. Alcuni dei viaggiatori che si spingono sui monti per commerciare con i nani o per altri affari sono stati aggrediti. Nessuno di coloro che è stato stuprato ha potuto raccontare l’esperienza: essere inculati dal cazzo di un gigante significa la morte e non certo una delle meno dolorose.

Dvoboposte dà le istruzioni e tutti si dispongono. Il gigante avanza ancora e vede gli uomini che lo aspettano, armati. Si ferma, esitante. Sul suo volto, coperto da una fitta barba, molto lunga, compare un’espressione di dubbio. Con la sinistra si gratta la testa, incerto e si accarezza un corno. La destra stringe l’impugnatura della mazza, lunga quanto un uomo. I guerrieri sperano che se ne vada, ma il gigante non si muove. Dalla testa la sinistra scende ai coglioni, grossi come meloni, e giocherella un momento, poi sale ad accarezzarsi il cazzo, su cui adesso compare una goccia. Ride.

Dvoboposte dice:

- State pronti. Attaccherà.

Il gigante ghigna e alza la mazza. Con un movimento brusco l’abbatte sugli uomini, ma questi sanno come muoversi ed evitano il colpo: i movimenti dei giganti, e in particolare quelli dei Solitari, non sono mai molto rapidi e sono prevedibili.

Approfittando del momento in cui tutti devono ancora risistemarsi, il gigante molla la mazza, si getta in ginocchio e afferra uno degli uomini: è Jakhrab, un ufficiale. Le mani del gigante lo hanno preso al petto e gli bloccano le braccia, impedendogli di usare la spada. Il suo destino sarebbe segnato, ma Boratni, uno dei guerrieri, cala rapidissimo la spada su un braccio del gigante. Il colpo è dato con tanta forza che al posto del gigante un uomo avrebbe perso il braccio. In questo caso la spada penetra in profondità, senza recidere completamente l’arto. Il gigante emette un grido feroce e lascia Jakhrab. Il desiderio ha lasciato posto alla rabbia. Si alza, ma Jakhrab vibra la spada colpendolo a una gamba. Il gigante grida di nuovo e barcolla, poi cade a terra: solo per poco non travolge Jakhrab nella sua caduta. Boratni gli salta sul petto e gli immerge la spada nel cuore, fino all’elsa.

Il gigante solleva la testa e il suo grido risuona altissimo. Le montagne dall’altra parte del fiume ne rimandano l’eco. Poi la testa ricade e il corpo rimane inerte. Lo scontro è durato pochissimo, gli altri uomini non hanno avuto il tempo di intervenire.

Dvoboposte si avvicina.

- Bravi. Avete fatto un lavoro eccellente.

Zlatorat, l’altro ufficiale, scherza:

- E che cazzo, Boratni! Per una volta che Jakhrab aveva l’occasione di gustare un cazzo favoloso, gliel’hai tolta. Potevi almeno lasciargli il tempo di provare.

Jakhrab ride e risponde:

- La prossima volta che troviamo un gigante, gli dico di prendere te, che sei ansioso di provare.

- No, no, io non sono mica un bell’uomo come te. Il gigante aveva buon gusto.

Jakhrab è in effetti un bel maschio, un viso dai lineamenti regolari, i lunghi capelli di un castano scuro, come la barba, gli occhi chiari, un corpo vigoroso e nello stesso tempo armonioso.

L’ufficiale aggiunge:

- Mica ha preso il comandante o Boratni, che pure era di fianco a te! Quelli brutti come la morte non li voleva mica.

Boratni ride e si limita a dire:

- Brutto stronzo!

Sa bene di non essere un bell’uomo. Non è particolarmente brutto, ma è più massiccio di Jakhrab, ha perso molti capelli, per cui si rade completamente la capigliatura, e i tratti del viso sono più grossolani.

Dvoboposte sorride: con i suoi uomini scherza volentieri e accetta le battute. Comunque quella di Zlatorat non è proprio una battuta: il comandante è alto e forte, ma è completamente calvo, ha il volto sfregiato da una cicatrice che va dallo zigomo destro al mento e gli manca il lobo di un orecchio. È un maschio vigoroso, ma nessuno potrebbe certo definirlo bello, né di viso, né di corpo.

- Va bene. Allora lasciamo il valoroso Zlatorat con sei uomini ad occuparsi di seppellire il gigante. Manda uno dei soldati a far portare il necessario. Noi rientriamo alla fortezza.

Zlatorat ride e dice:

- La prossima volta, prima di parlare mi taglio la lingua.

La sepoltura è un’impresa faticosa, dato il peso di un gigante. Non è possibile lasciare il corpo insepolto, perché ammorberebbe l’aria, né gettarlo nel fiume. Ed è troppo vicino alla fortezza perché si possa bruciarlo: il vento soffia da Nord e spingerebbe il fumo proprio in direzione delle mura.

Gli uomini guardano il gigante. Il cazzo non ha fatto in tempo ad ammosciarsi ed è uno spettacolo impressionante. Uno dei soldati stende il braccio, allarga la mano e lo misura.

- Quasi cinque palmi! Cazzo!

- E guarda che coglioni!

- Più grandi del cervello, certamente.

- Per fortuna. Se i giganti fossero intelligenti, non so come ce la caveremmo.

- I Solitari sono così, ma i giganti di Orijaski non sono stupidi.

Dvoboposte lascia che i suoi uomini contemplino il gigante, poi designa i sei uomini che devono occuparsi della sepoltura con Zlatorat. Tornando alla fortezza, dice a Boratni e Jakhrab:

- Voi due vi siete meritati una giornata di riposo.

- Grazie comandante.

Boratni si rivolge a Jakhrab e gli dice, sorridendo:

- È una bella giornata calda. Che ne diresti di andare a bagnarci al fiume?

Jakhrab esita un attimo. Ha notato da tempo che Boratni cerca la sua compagnia. Con il guerriero si trova bene, con lui parla volentieri e sono tante le cose che li accomunano. Immagina che il bagno al fiume possa portare ad altro. Boratni gli piace, ne apprezza il coraggio e la grande lealtà e gli sembra che il suo interesse vada oltre una semplice scopata. Ciò che lo trattiene è altro, ma Jakhrab decide di provare a vedere che cosa succede.

- Volentieri.

- Allora andiamo direttamente, così possiamo trovarci un angolo tranquillo, prima che arrivi qualche rompicoglioni.

Tutti gli uomini sono rientrati alla fortezza al richiamo del corno, ma adesso quelli che non sono impegnati nei turni di guardia potranno nuovamente uscire: sono gli ultimi giorni dell’estate e la giornata è calda e luminosa, ideale per un bagno.

La fortezza sorge di fronte al guado di Dubokvoda, il punto in cui la Grande Corrente si allarga e si divide in tanti rami poco profondi. Passando da un isolotto all’altro si può attraversare il fiume senza che l’acqua superi le ginocchia. Solo in primavera, con lo scioglimento delle nevi, il livello dell’acqua sale e alcuni isolotti rimangono sommersi.

Dalla primavera all’autunno nel loro tempo libero gli uomini della fortezza raggiungono volentieri queste strisce di terra, dove possono bagnarsi, lottare gli uni con gli altri, scopare, giocare. La fortezza ha spazi chiusi, ristretti e affollati, sulle isole gli uomini si sentono più liberi.

Boratni scende verso il fiume. Si spinge in acqua e avanza fino alla prima delle isole che si trovano al guado. Dopo averla raggiunta, si dirige all’estremità settentrionale, dove l’isola è più elevata. Sulla riva possono vedere Zlatorat e i suoi uomini impegnati a scavare.

- Taglieranno il gigante a pezzi. Non c’è altro modo.

Poi Boratni scende in un avvallamento, quasi completamente nascosto tra i cespugli.

- Allora, un bel bagno?

- Siamo qui per questo, no?

C’è una leggera ironia nel tono di Jakhrab? Forse sì. Boratni lo spera.

- Allora spogliamoci.

Non ci mette molto a liberarsi degli indumenti: in estate, come tutti i maschi adulti del suo clan, indossa solo un gonnellino di cuoio e rimane a torso nudo, indossando una camicia o una tunica corta soltanto la sera. Si slaccia la cintura che regge il fodero della spada e si sfila l’unico indumento, rimanendo nudo. Jakhrab lo osserva. Boratni ha pochi anni in più di lui e il suo corpo, muscoloso, non ha l’eleganza e l’armonia di altri guerrieri. Eppure questo maschio forte lo attrae.

- Embè? Conti di fare il bagno vestito?

- No, mi spoglio anch’io.

Boratni guarda Jakhrab sfilarsi la cintura, poi la tunica e i pantaloni. Il desiderio lo assale rabbioso e, prima che il suo corpo tradisca ciò che prova, si volta e corre verso l’acqua. Si tuffa e nuota verso nord, con bracciate vigorose. Jakhrab lo ha seguito e quando Boratni rallenta, lo raggiunge: è anche lui un ottimo nuotatore. Si spingono fin quasi alla riva occidentale, poi si dirigono a nord, controcorrente, e infine ritornano dove hanno lasciato i vestiti.

Emergono grondanti dall’acqua e si guardano.

Nuovamente Boratni si rende conto di non essere in grado di controllare il suo desiderio. Avrebbe preferito parlare un momento, sondare il terreno, ma il suo cazzo è d’altro parere e si sta drizzando. Jakhrab nudo è una vista troppo bella.

- Posso dirti che mi piaci molto, Jakhrab? O forse l’avevi già capito guardando il mio cazzo?

Boratni ride, ma è teso, perché se Jakhrab gli dicesse di no, gli spiacerebbe molto. Per il bel guerriero prova qualche cosa che va oltre il desiderio.

- Diciamo che l’avevo sospettato.

Boratni si avvicina, tende un braccio e gli accarezza una guancia, poi gli prende la testa tra le mani e, con molta delicatezza, lo bacia. Jakhrab non se l’aspettava. Nei rapporti tra guerrieri e soldati di solito non c’è molto spazio per la tenerezza: si cerca la rapida soddisfazione di un bisogno. Da quando è alla fortezza, Jakhrab ha scopato diverse volte con soldati o ufficiali che gli si sono offerti e anche con uomini di passaggio: la sua bellezza attrae altri maschi. Ma nessuno di loro lo ha baciato.

Jakhrab pensa che è bello essere baciato da Boratni, essere stretto e accarezzato da queste braccia forti. Non è abituato a essere accarezzato. Le loro bocche si incontrano più volte e le mani di Jakhrab si muovono, prima incerte, poi più sicure, cercando il corpo che ora aderisce al suo. Boratni gli accarezza il viso, poi le sue dita si perdono tra i lunghi capelli, scendono lungo la schiena, ma non sotto la vita. Per il momento c’è solo tenerezza.

Boratni lo guida a stendersi sull’erba e si mette su di lui. Si baciano ancora a lungo e si guardano. Jakhrab è turbato. Non si aspettava quello che sta avvenendo. Gli sembra che le dita di Boratni facciano vibrare in lui una corda profonda, che nessuno ha mai smosso.

Boratni ora lo bacia sul collo, poi si solleva un po’, le sue labbra sfiorano un capezzolo, poi lo succhiano avidamente. E dopo averlo di nuovo baciato, Boratni passa a succhiare l’altro. Poi si sposta, allarga le gambe di Jakhrab, si inginocchia nello spazio così creato e gli bacia la cappella, poi l’avvolge con le labbra e la succhia avidamente.

Jakhrab geme, mentre le sue mani accarezzano la testa di Boratni, gli solleticano il collo, si perdono tra i peli della fitta barba. Intanto le mani del guerriero gli solleticano i capezzoli, scorrono sul petto, mentre la bocca avvolge il cazzo e lo stuzzica. Il piacere cresce, fino a che l’ufficiale sente che sta per venire.

- Boratni! Ora.

Il guerriero non si ritira: continua a succhiare e accoglie il fiotto che gli riempie la bocca. Continua ancora a succhiare, ma più delicatamente, ora, fino a che è Jakhrab stesso ad allontanarlo. L’ufficiale chiude gli occhi, mentre lentamente il respiro si calma.

Boratni si stende su di lui. Lo bacia sulle palpebre e sulla bocca, gli morde un orecchio, gli accarezza le guance. Poi si sposta, mettendosi di fianco a lui. Non sentendo più il peso sul proprio corpo, Jakhrab apre gli occhi. Boratni gli sorride. L’ufficiale guarda il grosso cazzo teso. Muove un braccio e lo accarezza, dolcemente. Poi la sua mano stringe i coglioni, grossi e duri.

Boratni lo guarda negli occhi. Sorride e dice:

- Voltati, Jakhrab.

Jakhrab lo fissa senza dire nulla, poi, lentamente annuisce. Si abbandona a quest’uomo e, voltandosi sulla pancia, gli offre i fianchi.

Boratni gli allarga le gambe. Si china in avanti e la sua lingua scorre sul solco tra le natiche, più volte. Jakhrab geme. Sente dentro di sé una tensione crescente. Vorrebbe dire a Boratni di fermarsi, ma gli sembra di non avere più una volontà propria. La lingua scorre ancora, poi i denti affondano nella carne, in piccoli morsi al culo che strappano altri gemiti a Jakhrab. La lingua ritorna sul solco, indugia sull’apertura, preme. E poi l’ufficiale sente il corpo del guerriero pesare su di lui e una pressione crescente contro il buco del culo, che si apre ad accogliere il cazzo che avanza vittorioso.

Boratni si rende conto che la carne non cede facilmente. Jakhrab non deve essere abituato a prenderselo in culo. Probabilmente gli è capitato di rado o… Il pensiero è un lampo che lo acceca. Vorrebbe parlare, chiedere, ma tace: ormai è tardi. Lascia che siano le sue mani a parlare con le carezze, che sia la sua bocca, con i baci e i morsi, che sia il suo cazzo che affonda nella carne, fino in fondo, fino a che i coglioni battono contro il culo, e poi si ritrae, in un movimento continuo, che rallenta quando Boratni è sul punto di venire e poi riprende. E sente che il corpo che possiede sta vibrando, che la tensione cresce anche in Jakhrab. Allora passa un braccio sotto il corpo che stringe e si gira di lato, in modo da poter afferrare il cazzo di Jakhrab, nuovamente rigido, e guidarlo al piacere. Vengono insieme, Boratni versa il suo seme abbondante nel culo dell’ufficiale, che sparge nuovamente il proprio sull’erba.

Boratni si gira sulla schiena, portando Jakhrab con sé e lo accarezza, dolcemente. La sua mano scorre sul viso, sul petto, sul ventre, sul cazzo e sui coglioni.

E solo quando il cazzo perde vigore ed esce dal culo che lo ha accolto, pone la domanda che gli brucia sulle labbra.

- Era la prima volta, Jakhrab?

L’ufficiale annuisce, poi dice:

- Sì. Nessuno mi aveva mai preso.

È contento di averlo detto. Sente di potersi fidare di Boratni, di quest’uomo che lo stringe tra le braccia e lo accarezza.

- Non sapevo. Ho sospettato solo quando ormai era tardi.

- Va bene così, Boratni. Lo desideravo anch’io.

Boratni è incerto. L’idea di essere stato il primo a possedere Jakhrab gli fa molto piacere, ma nello stesso tempo lo disorienta. Gli sembra di aver violato il corpo di Jakhrab, anche se questi gli si è offerto senza remore.

- Ti ho fatto male?

- No, solo un po’. Ed è stato bello. Ho goduto anch’io con te. E sono contento di averlo fatto. Io…

Jakhrab si ferma. Vorrebbe dire che lo desiderava da tempo, perché è la verità. Non l’ha mai fatto prima perché nessuno degli uomini con cui ha scopato fino a ora ha destato in lui il desiderio di essere posseduto.

Boratni lo accarezza ancora. Poi dice:

- Mi piaci moltissimo, Jakhrab. E non solo perché sei bello. Mi piaci per quello che sei.

- Anche tu mi piaci.

Boratni è felice di sentirselo dire. Sfugge alla commozione con una battuta:

- Certo non perché sono bello.

- Mi piace anche il tuo corpo, Boratni, e ho goduto con te più di quanto mi fosse mai successo.

 

Nuotano ancora nel fiume, poi tornano a riva. Si scambiano nuovamente carezze e abbracci. Il desiderio si ridesta in Boratni. Jakhrab osserva:

- Hai un bel cazzo, Boratni.

Il guerriero ride.

- Vuoi gustarlo di nuovo?

- Credo di sì. In fondo mi hai fatto venire due volte e tu sei venuto una volta sola. Non è giusto.

Boratni scuote la testa, ma desidera questo corpo che gli si offre.

- Stenditi sulla schiena, Jakhrab.

Jakhrab obbedisce. Boratni si stende su di lui. Si baciano, con dolcezza, con passione. Le dita del guerriero giocano con i lunghi capelli dell’ufficiale, scorrono sul suo viso, gli si infilano tra le labbra. Jakhrab morde, leggermente.

- Cannibale!

Boratni ricambia, mordendo il lobo di un orecchio di Jakhrab.

- Te lo stacco!

L’ufficiale ride.

- Sei stato tu a staccarlo al comandante, con un morso?

Anche Boratni ride.

- No, di certo. So che fu fatto prigioniero e nel periodo in cui era schiavo glielo tagliarono per non so quale mancanza che aveva commesso.

Bacia ancora Jakhrab, poi si solleva, gli divarica le gambe e si inginocchia nello spazio che ha creato. Solleva una dopo l’altra le gambe dell’ufficiale e se le mette sulle spalle, forzando Jakhrab a sollevare il culo. Poi si inumidisce la cappella e preme contro l’apertura che cede alla pressione. Entra con dolcezza, mentre guarda il viso del compagno, su cui scorge una nuova tensione, mescolanza di piacere e dolore. China la testa e lo bacia, poi spinge un po’ di più e il cazzo affonda nel culo che lo accoglie. Jakhrab geme.

Boratni lo bacia, più volte, poi, le mani saldamente appoggiate a terra, ai due lati del corpo che ora possiede, incomincia la cavalcata.

Jakhrab sente il piacere crescere e si rende conto che nuovamente il cazzo gli si tende. Guarda il viso di Boratni sopra di sé e sorride. Gli sembra che sia bello, di una bellezza maschia che è forza brutale e non armonia. E a questa forza che lo soggioga si abbandona completamente.

Boratni è un buono stallone e fotte con energia, spingendo a fondo e ritraendosi. Legge sul viso dell’amico il piacere intenso che prova e questo attizza il suo desiderio. Vuole farlo godere, regalargli il piacere, come Jakhrab lo sta donando a lui.

Boratni spinge con forza. Sente che la tensione cresce in entrambi.

E quando infine il piacere esplode e il seme schizza, anche Jakhrab viene con un gemito: poche gocce di seme che gli scendono sul ventre. Boratni chiude gli occhi, poi si stacca, posa le gambe di Jakhrab a terra e si stende su di lui.

- Grazie, Jakhrab.

- È stato bellissimo, Boratni.

 

Tornano alla fortezza, ridendo e scherzando. Sono troppo felici per nascondere la loro gioia e più d’uno, vedendoli scherzare insieme, intuisce che tra di loro è nato un legame. Nulla di strano: sono molte le coppie stabili tra i soldati e i guerrieri e anche chi non ha un compagno ha di solito rapporti con altri maschi. Nella fortezza non ci sono donne e anche nel recinto esterno sono pochissime. Nella scelta dei soldati e dei guerrieri liberi che avrebbero costituito la guarnigione, Dvoboposte ha tenuto conto anche della loro capacità di adattarsi a una situazione in cui mancano le donne.

A cena Zlatorat, seduto dall’altra parte del tavolo, li guarda e dice:

- Ecco, la vita è proprio ingiusta. Io a seppellire il gigante e questi due a divertirsi insieme.

Jakhrab sorride e gli dice:

- Come hai detto tu, Boratni mi ha impedito di gustare il cazzo del gigante. Doveva pure rimediare, no?

- Rimediavo volentieri io, al suo posto.

Boratni interviene ridendo:

- Ma tu non hai mica ammazzato il gigante.

- Già, ma l’ho sepolto ed è stata una faticaccia. Credo proprio di meritarmi una ricompensa.

Boratni risponde:

- Hai ragione, te la meriti. Ti darò io un bacio.

- Puah! Te l’ho già detto: sei brutto come la morte, quasi come il comandante.

- Anch’io te l’ho già detto: brutto stronzo!

Gli uomini ridono.

 

I giorni passano e Jakhrab e Boratni sono sempre insieme quando non sono impegnati nella sorveglianza all’interno della fortezza o nelle ricognizioni all’esterno. Non nascondono il loro legame, che ormai è noto a tutti. E se qualcuno invidia Boratni, perché Jakhrab è il più bel maschio al forte, nessuno gliene vuole, perché il guerriero è leale e generoso, per cui è benvoluto e tutti lo stimano. Jakhrab, in quanto ufficiale, ha una cameretta singola e Boratni, quando non è di turno, dorme con lui. In realtà nella camera non sempre dormono, ma comunque condividono il letto. Sulla loro felicità non sembrano esserci ombre e più d’uno li invidia.

 

È una bella giornata, calda e soleggiata, e Dvoboposte si bagna al fiume con alcuni soldati e guerrieri. Ha lasciato il comando della fortezza a Zlatorat. Non lascia spesso la fortezza, se non perché bisogna affrontare un nemico o dare la caccia ai banditi, ma nelle giornate morte come questa, in cui non ci sono carovane di mercanti nel recinto esterno, si prende volentieri qualche ora libera.

Anche Jakhrab e Boratni sono al fiume. Si sono bagnati e poi sono tornati a riva. Ora si scambiano carezze, senza preoccuparsi degli sguardi degli altri: sulle isole spesso i soldati si dedicano ai giochi del sesso e chi non partecipa guarda volentieri i compagni darsi da fare. In questo avamposto, a quattro giorni di marcia dal più vicino insediamento umano, i rapporti tra gli uomini sono molto liberi.

Il guerriero Roshrab è seduto vicino al comandante. Sono entrambi nudi, perché si sono appena bagnati e ora si asciugano al sole autunnale.

- Certo che è davvero un peccato che Jakhrab e Boratni si siano messi insieme.

Dvoboposte lo guarda, un po’ stupito.

- E perché mai? Non ti sembrano una bella coppia?

- Sì, senza dubbio. Ma non vedono più nessun altro, come se noi manco esistessimo.

- Ci sono tanti maschi. Direi che qui alla fortezza non mancano proprio.

In effetti sessanta tra guerrieri e soldati, più i servitori, offrono una buona scelta, tanto più che l’assenza di donne rende tutti gli uomini alquanto disponibili.

- Sì, certo, ma Boratni è un gran porco e un buon toro da monta. Non ce ne sono tanti come lui.

Dvoboposte sorride. Boratni gli piace, ma per motivi diversi: ne apprezza la forza, il coraggio, la lealtà, la disciplina e anche la notevole sensibilità, non comune tra i rudi soldati e guerrieri della guarnigione.

Roshrab prosegue:

- Dicono che anche il comandante sia un gran toro da monta.

Dvoboposte sorride. Ha capito dove il guerriero va a parare: non che ci voglia molto.

- Ma è brutto come la morte. L’ha detto anche Zlatorat.

Roshrab ride.

- E che me ne fotte? L’importante è che sia bravo a scopare come dicono. E comunque so che ha un cazzo da cavallo.

- Ne sei sicuro?

- Come se l’avessi visto.

In effetti il cazzo del comandante, per il momento ancora a riposo, è perfettamente visibile, lungo e soprattutto voluminoso.

Il guerriero continua:

- Non so se è anche un gran porco. A me i porci piacciono un casino.

- Non saprei proprio dirti.

Il cazzo di Dvoboposte sta leggermente crescendo di volume.

- Che dici, glielo chiedo?

- Puoi provare. Al massimo ti mette in cella per dieci giorni.

Dvoboposte ha un rapporto di grande familiarità con i suoi uomini. La sua autorità è assoluta: è l’unico giudice e può condannare a morte chiunque all’interno della fortezza. In azione, i suoi ordini vanno eseguiti senza discutere e senza esitare. Ma quando non si combatte, vive con i suoi uomini in un rapporto di parità, mangia con loro e scherza volentieri.

- Ci provo? Massì.

Dopo una breve pausa, riprende:

- Comandante, sei un gran porco? Perché io vorrei farmi una doccia, bere un po’ e poi prendermelo in bocca e in culo.

- Quante pretese, soldato! Però… ci tengo a tenere alto il morale dei miei uomini, per cui si potrebbe anche fare.

- Ci mettiamo in qualche angolo tranquillo?

Di solito Dvoboposte preferisce scopare nella sua camera: essendo il comandante, non ama offrirsi in spettacolo agli altri uomini, ma se deve fare una doccia a Roshrab, preferisce farlo all’aperto.

- Va bene. Però troviamoci un angolo riparato. Qui ci sono troppi guardoni.

Entrano in acqua e nuotano fino a un isolotto che si trova un po’ più a monte. Qui non c’è nessuno e i cespugli offrono una buona copertura.

Appena sono emersi dall’acqua, Roshrab si inginocchia davanti a Dvoboposte.

- Fammi bere.

Il comandante annuisce e quando il guerriero apre la bocca, incomincia a pisciare. Il guerriero beve, poi chiude la bocca e china la testa. Il piscio gli scorre sul capo e poi in rivoli sul petto e sulla schiena. Quando Dvoboposte ha finito, il guerriero si lecca le labbra, poi gli prende il cazzo in bocca e incomincia a succhiarlo. L’effetto è immediato: il cazzo si riempie di sangue, si irrigidisce e si drizza, grande e minaccioso. Il guerriero lascia la presa e lo contempla.

- Mi sa che mi farà male il culo, comandante. Prima però… posso leccarti un po’ il buco del culo?

- Come vuoi, ma non me lo prendo in culo.

- Lo so, comandante.

Di per sé Dvoboposte non avrebbe nessun problema: quand’era a Samar, con altri ufficiali gli è capitato di offrirsi, senza remore. Ma qui il suo ruolo è diverso e preferisce evitare di farsi inculare.

Dvoboposte si volta e il guerriero, sempre in ginocchio, incomincia a passare la lingua sul solco, poi esercita una pressione sull’apertura. E intanto le sue mani carezzano il culo del comandante, percorrono le cicatrici delle frustate, stringono la carne con forza, giocano un po’ con i grossi coglioni pelosi, afferrano il cazzo.

Poi Roshrab passa nuovamente davanti, lavora con la lingua e le labbra la cappella del comandante e infine si mette a quattro zampe davanti a lui. Ha il cazzo duro.

- Dacci dentro, comandante!

 Dvoboposte non se lo fa ripetere. Avvicina la cappella all’apertura e la forza. Indugia un momento, poi spinge più a fondo. Roshrab geme. Il cazzo avanza ancora e il guerriero alza la testa, mugolando di piacere. Quando infine il cazzo affonda completamente nel culo, nel gemito di Roshrab piacere e dolore si mescolano.

- Cazzo, comandante! Sei davvero un toro da monta.

Dvoboposte non dice nulla. Gli lascia il tempo di abituarsi, poi incomincia a fotterlo, con un movimento regolare. Roshrab emette piccoli gemiti, che a tratti diventano quasi singhiozzi. Il comandante procede a lungo, molto a lungo. Roshrab chiude gli occhi. Ha l’impressione di non riuscire a mantenere la posizione. Il mondo fluttua e a ogni spinta del comandante, il guerriero perde sempre più il contatto con la realtà.

E quando infine Dvoboposte accelera il ritmo, con spinte violente, Roshrab grida e viene, spargendo il seme sull’erba. Il comandante emette un verso, quasi un grugnito, e gli riempie il culo del proprio sborro. Poi esce da lui e si stende sull’erba.

Dopo un momento Roshrab si sposta in modo da avere la testa vicino al cazzo del comandante e con delicatezza lo lecca e lo succhia un po’. Poi si stende di fianco a lui e dice:

- Cazzo, comandante. Se ti vendessero a un bordello, faresti la fortuna del proprietario.

Dvoboposte scuote la testa. È stato catturato in battaglia e il suo padrone lo ha davvero usato come stallone. Non l’ha mai raccontato a nessuno: quel periodo ha lasciato segni profondi in lui e non solo sul suo corpo.

Più tardi tornano all’isola dove hanno lasciato i vestiti. Boratni è disteso sull’erba e accarezza la testa di Jakhrab, appoggiata sul suo petto. Dvoboposte li guarda. È felice per loro. Non sente la necessità di un rapporto come il loro, ma pensa che sia una bella cosa.

 

Intanto l’autunno avanza. Nella Foresta Purpurea, che copre tutta la riva orientale del fiume, gli alberi grimiz assumono il colore rosso intenso che dà il nome al bosco. Le giornate si accorciano, ma non fa mai freddo: in alto, sulle cime delle montagne, la neve è già scesa e nel pieno dell’inverno vi sarà neve anche sull’altopiano, ma non nella pianura, lungo il fiume. Il mattino però il paesaggio comincia a velarsi di una leggera nebbia: in pieno inverno la nebbia è a volte tanto fitta da coprire completamente la foresta e avvolgere la stessa fortezza, formando un muro lattiginoso. Allora le temperature scendono e il freddo e l’umidità penetrano nelle ossa.

Il rapporto tra Jakhrab e Boratni va rafforzandosi. Entrambi scoprono, per la prima volta nella loro vita, qualche cosa che va molto oltre il desiderio di un corpo. Esplorano, senza remore, i giochi del piacere: non hanno pudore e sono entrambi curiosi. Boratni è più esperto e Jakhrab è un buon allievo. Entrambi si offrono e si prendono, ma al termine di ogni gioco, il momento più bello è quello in cui giacciono abbracciati: nella stretta del compagno trovano il paradiso.

 

E infine arriva l’inverno, quando le carovane di mercanti diventano rare e la vita alla fortezza scorre monotona. È il periodo più pericoloso, per la presenza della nebbia, che non permette di vedere in lontananza e quindi avvistare per tempo eventuali nemici, da terra o dall’aria. Nelle giornate di nebbia il comandante richiede la massima sorveglianza e sale molte volte sulle torri e sulle mura per verificare che tutto sia a posto. Quando la nebbia è particolarmente fitta, Dvoboposte fa raddoppiare la vigilanza sulla torre più alta, l’unica da cui è possibile guardarsi intorno. Tutti sono più inquieti.

Ogni giorno Dvoboposte manda alcuni uomini a controllare il territorio, per verificare che non ci siano problemi. Forma tre squadre, che si dirigono verso nord, est e sud. A ovest c’è il guado, oltre il quale si innalzano le grandi montagne. Il comandante preferisce non inviare nessuno in quella direzione, perché la presenza di uomini potrebbe scatenare la furia di qualche gigante o di altri esseri. La guarnigione della fortezza deve garantire la sicurezza delle vie che portano al guado, sulla riva orientale del fiume, non di quelle dall’altra parte, che scendono dai monti.

Le squadre inviate in perlustrazione sono formate da un ufficiale e tre o quattro uomini, che di solito è Dvoboposte stesso a designare.

Oggi Jakhrab deve guidare il gruppo che si spinge a Nord, verso le terre dei Figli di Lilith. Percorrerà la pista fino alla piana dei ciottoli, una vasta area brulla a fianco del fiume, dove nel corso dei secoli si è depositata una grande quantità di pietre levigate. Andare e tornare, con qualche breve giro esplorativo ai margini della foresta, richiede una mezza giornata.

Le squadre che si sono dirette a Sud e ad Est rientrano nel primo pomeriggio, come previsto, senza aver avvistato niente di particolare. Gli uomini di Jakhrab tardano invece molto e con il passare delle ore Dvoboposte diventa inquieto. Sta meditando di mandare alcuni uomini a cercarli, quando infine arrivano. Al comandante basta un’occhiata per capire che l’ufficiale sta male: si regge a fatica.

- Che ti è successo, Jakhrab?

- Non lo so comandante. Avevamo appena iniziato a tornare indietro, quando ho sentito che la testa mi girava. Ho caldo, un caldo fottuto, e faccio fatica a stare in piedi.

- Tu vai subito in infermeria. Sei anche un po’ rosso in faccia.

Uno dei soldati dice:

- Anche Vojnik non sta tanto bene. E, se devo essere sincero, preferirei farmi vedere anch’io.

- Vi è successo qualche cosa di particolare?

- No, niente, tutto tranquillo.

- Avete mangiato qualche cosa?

E mentre lo chiede, Dvoboposte si dice che sta perdendo tempo. È meglio che vadano tutti e quattro in infermeria.

Il soldato risponde:

- No, non abbiamo mangiato niente, ma io non ho proprio fame.

- Allora, tutti e quattro con me.

Dal cortile passano direttamente nell’infermeria, che ha anche una porta che dà su una scala interna. Dvoboposte entra, seguito dai quattro. Il medico è Lijeci, un uomo sui sessant’anni, di corporatura alquanto robusta, con capelli e barba bianchi.

- Lijeci, questi quattro sono andati in ricognizione a nord. Jakhrab sta decisamente male e anche due degli altri non si sentono bene. Rimarranno tutti e quattro qui, fino a che tu non dirai che possono uscire. Non vorrei che si fossero presi qualche malattia.

Dvoboposte era bambino quando un morbo sconosciuto devastò la regione in cui viveva, a oriente, provocando molti morti. Non sa quali malattie siano diffuse in queste terre: fino a ora non si sono verificate epidemie. Preferisce non correre rischi.

Lijeci annuisce.

- Cercherò di capire che cos’hanno.

Lijeci è un uomo abile a curare le ferite e le fratture, che sono i problemi più comuni tra i soldati, ma non conosce le malattie di quest’area, dove non esistono altri insediamenti dei Figli di Eva.

Dvoboposte mette un uomo di guardia alla porta esterna dell’infermeria, con l’ordine di non lasciar passare nessuno: in caso di malattie contagiose, bisogna evitare che si diffondano. Due ore dopo, alla fine del turno di guardia del pomeriggio, Boratni si presenta da lui.

- Comandante, ho saputo che Jakhrab non sta bene, ma non mi lasciano entrare nell’infermeria.

- Ho dato io quest’ordine, Boratni. Non so se si tratta di un morbo contagioso.

Boratni freme. È abituato a obbedire e Dvoboposte non ha mai avuto motivo di richiamarlo, ma adesso gli pesa non poter vedere il compagno.

- Non posso vederlo un momento?

- No. Andrò io a parlare con Lijeci tra non molto. Tu va a cenare, che è ora. Poi ti dirò come sta.

Boratni annuisce. È chiaramente contrariato, ma come sempre farà quello che il comandante gli ordina di fare.

 

Dvoboposte si occupa di alcune faccende, poi, dopo aver cenato, ripassa in infermeria. I quattro sono tutti a letto. Jakhrab sembra semiaddormentato, ma a tratti si riscuote e dice cose senza senso.

Il comandante guarda Lijeci.

- Allora?

- Non mi piace la situazione, per niente, comandante. Non so che cosa possano avere, ma Jakhrab è sempre meno lucido e vigile: dormicchia e ogni tanto delira. Anche due dei soldati hanno la febbre e sono molto deboli. Il quarto lamenta sintomi molto generici, forse è solo spaventato e convinto di stare anche lui male, ma non ne sono così sicuro.

- Hai un’idea di che cos’abbiano?

- No, proprio nessuna. Sto provando a dargli quello che ho per abbassare la febbre, ma non conosco questa malattia.

Il comandante è inquieto. Tiene molto ai suoi uomini e considera Jakhrab il suo migliore ufficiale. È preoccupato per lui e per i soldati.

Uscendo dall’infermeria vede Boratni, che lo attendeva e gli si avvicina.

- Allora, comandante?

- Stanno male. Il medico non sa che cos’abbiano. Sta studiando i rimedi.

- Non posso…

Dvoboposte non lo lascia finire.

- Non puoi vederlo. Non voglio che nessuno entri. Anche Lijeci consumerà i suoi pasti nell’infermeria. Non possiamo rischiare un’epidemia che faccia strage nella guarnigione.

- È in pericolo di vita?

- Non lo so, Boratni. E per il momento è tutto.

Il comandante volta le spalle e se ne va. Sa di essere stato brusco e gli spiace, perché capisce l’angoscia di Boratni, ma non può fare nulla per lui. Vorrebbe dirgli che anche lui è preoccupato, ma non è abituato a esprimere i propri sentimenti.

 

Durante la notte la situazione peggiora. Il giorno seguente Jakhrab ha perso coscienza e il suo viso ora ha assunto un colorito rossastro. I due soldati che accusavano i primi sintomi hanno incominciato a delirare e sembrano anche loro sprofondare nell’incoscienza, con brevi intervalli di veglia, in cui non sono lucidi. Il terzo li osserva spaventato, anche lui febbricitante, consapevole di essere avviato verso la morte.

Boratni è un leone in gabbia. Dvoboposte lo manda in perlustrazione, ma quando lo vede allontanarsi, si sente in colpa: si rende conto che lontano dalla fortezza, sapendo Jakhrab in pericolo di vita, starà malissimo.

La sera, non appena torna, Boratni chiede notizie. Quelle che riceve non sono buone. La malattia sta facendo il suo decorso e l’esito sembra infausto.

 

Il mattino seguente è di nuovo una giornata di fitta nebbia. Dvoboposte passa in infermeria appena sveglio. La situazione è ulteriormente peggiorata. Sono tutti e quattro incoscienti. Il viso di Jakhrab è sempre più rosso.

Dopo la visita ai malati, Dvoboposte sale sulla torre più alta, dove ci sono quattro sentinelle: è l’unica da cui si può vedere sopra la nebbia, che copre l’intera pianura. Le montagne dall’altra parte del fiume e quelle più lontane, a oriente, si stagliano nitide contro un cielo azzurro.

Per l’intera giornata la nebbia rimane, formando una vera muraglia: anche nel cortile della fortezza la visibilità è scarsa.

Dvoboposte sale più volte sulle torre, poi passa in infermeria, dove non chiede più nulla, ma si limita a osservare i quattro uomini che stanno spegnendosi.

Nel tardo pomeriggio sale ancora una volta sulla torre. Il cielo ormai sta lentamente scurendosi: il sole è appena scomparso dietro le montagne che a ovest incombono sulla fortezza.

- Avete osservato qualche cosa di anomalo?

La domanda è superflua, Dvoboposte lo sa benissimo: se le sentinelle avessero notato qualche problema, lo avrebbero fatto avvisare subito. E infatti una sentinella risponde:

- No, signor comandante. Tutto sembra tranquillo: nessun movimento particolare sulle montagne, nessuna creatura in volo.

Dvoboposte annuisce. Tutto sembra tranquillo, ma nella fitta nebbia che avvolge la pianura, un intero esercito potrebbe avvicinarsi alla fortezza senza essere avvistato e gli esseri volanti, tenendosi bassi, potrebbero raggiungere il cammino di ronda delle mura senza che nessuno possa vederli.

Fino a ora non ci sono stati veri e propri assalti: oltre al gigante ucciso alla fine dell’estate, c’è stato solo l’attacco da parte di un altro Solitario, nell’inverno scorso, ma il gigante è stato eliminato prima che potesse provocare gravi danni. I soldati di stanza alla fortezza sono intervenuti soprattutto contro i banditi che per anni hanno imperversato in quest’area, assalendo i mercanti: c’è una fitta rete commerciale tra le città degli uomini, a oriente, quelle degli Aldebri, a sud, le Terre Alte a occidente, dove vivono i nani e i giganti, e gli insediamenti dei Figli di Lilith a nord. Ma il rischio che qualche forza oscura decida di attaccare la fortezza e distruggerla c’è sempre: non tutti vedono di buon occhio questo avamposto umano in una regione dove i figli di Eva non si erano mai stabiliti. Se i giganti di Orijaski decidessero di abbattere la fortezza, non sarebbe facile difenderla. Nelle Terre Alte, accanto a nani e giganti, vivono altri esseri che costituiscono una minaccia. E più in là, a occidente, abita la stirpe demoniaca dei trog.

 

La nebbia è un problema, ma in questo momento il comandante è preoccupato soprattutto per Jakhrab e i tre soldati. Quando ridiscende, Dvoboposte fa un’ulteriore visita in infermeria.

Si rivolge direttamente a Lijeci:

- Allora?

Lijeci scuote la testa.

- Jakhrab si sta spegnendo. Non ne ha più per molto: non credo che passi la notte. E anche due dei soldati sono peggiorati. Il terzo ha ancora pochi sintomi, ma temo che non ci sia niente da fare per tutti loro.

Dvoboposte guarda Jakhrab, il cui viso adesso è violaceo. La respirazione è affannosa e ci sono momenti in cui il movimento del petto sembra fermarsi del tutto. Due soldati hanno il viso molto arrossato, come Jakhrab ieri sera.  

Dvoboposte si sente impotente: è abituato ad affrontare nemici e il suo volto e il suo corpo portano i segni dei combattimenti che ha sostenuto, ma questo morbo misterioso che sta uccidendo i suoi uomini è un nemico a cui non sa come opporsi. E il medico non è di grande aiuto.

 

 

Un soldato entra e si avvicina a Dvoboposte.

- Comandante, ti cercavo. Un uomo chiede di parlarti.

- Che cosa vuole?

- Non ha voluto dirlo, ha solo detto che è importante. È alla porta interna.

La porta interna è quella che separa la fortezza vera e propria, dove possono entrare solo i soldati, e l’area recintata esterna in cui si trova il borgo, con botteghe artigiane, magazzini, uno spazio per il mercato, due postriboli, una locanda.

Dvoboposte esce dalla porta sul cortile. Vicino all’infermeria c’è Boratni. Il comandante prova una fitta a vederlo. Sa che il legame tra lui e Jakhrab è fortissimo e gli pesa dovergli dire che non c’è più speranza. Boratni fa due passi avanti.

- Com’è, comandante?

Dvoboposte scuote la testa.

- Va male, Boratni. Lijeci dice che non c’è niente da fare.

Sul viso dell’uomo appare una smorfia di dolore.

- Comandante, lasciami stare con lui. Che non muoia solo. Almeno questo.

Dvoboposte scuote la testa.

- No, non voglio che qualcun altro si ammali.

- Non lo tocco. Voglio solo stargli vicino.

- Senti, adesso devo parlare con un uomo. Poi vediamo. 

Attraversa il cortile interno della fortezza e raggiunge la porta. C’è un uomo sui quarant’anni, snello, ma forte, con una fitta barba e capelli biondi. È un gran bell’uomo e ha un sorriso cordiale, ma il comandante prova un’istintiva diffidenza per lui.

- Mi hanno detto che volevi parlarmi.

- Sì, comandante. Sono un mercante e mi chiamo Drogorob. So che alcuni dei tuoi uomini si sono ammalati.

Il comandante non si stupisce: la notizia non è un segreto. Sono tre giorni che la malattia si è manifestata ed è la principale novità, di cui tutti parlano.

- E allora?

- Posso venderti uno schiavo che è un buon guaritore.

Dvoboposte alza le spalle.

- Abbiamo già un medico.

- Questo è un figlio di Lilith, di quest’area. Conosce molte cure che a noi umani sono ignote. È di queste parti e di certo sa come guarire i tuoi uomini.

Una vaga speranza si accende in Dvoboposte. Non si fida di quest’uomo, ma se davvero questo figlio di Lilith conoscesse qualche cura…

- Fammi parlare con lui.

- Vieni con me, allora. Siamo alla porta esterna.

L’uomo ha preferito non far entrare lo schiavo. Sa che all’interno della fortezza l’autorità di Dvoboposte è assoluta, mentre al di fuori, per l’accordo preso con gli Aldebri e i Figli di Lilith, il comandante non ha nessun potere. Può solo dare la caccia ai briganti.

Dvoboposte si fa accompagnare da sei soldati e segue l’uomo fino alla porta esterna che, come sempre avviene nei giorni di nebbia, è chiusa: solo la porticina che si apre all’interno del grande portone è aperta. Subito fuori ci sono quattro uomini e in mezzo a loro un quinto. Il comandante lancia una rapida occhiata ai quattro. Potrebbero essere parenti di Drogorob: sono tutti biondi e gran bei maschi, ma anche loro non gli ispirano fiducia. Poi guarda l’uomo nel mezzo. È un figlio di Lilith, gli ha detto Drogorob. I figli di Lilith sono difficilmente distinguibili dai figli di Eva: sono le due stirpi più simili. I figli di Lilith hanno tutti capelli neri e occhi scuri, ma sono caratteristiche comuni anche tra gli umani e infatti anche per tutti loro si usano termini come uomo e donna.

L’uomo potrebbe davvero essere un figlio di Lilith, ma è difficile vedere i suoi tratti: il suo viso è pieno di escoriazioni e tagli, un occhio è completamente chiuso da una grossa tumefazione violacea, sul mento e sotto il naso un po’ di sangue si è raggrumato tra i fili della barba e dei baffi.

- Che gli è successo?

- I figli di Lilith sono un po’ coriacei. A volte hanno bisogno di essere ammorbiditi.

Il mercante ride e aggiunge:

- Questo era proprio coriaceo.

Dvoboposte si rivolge al prigioniero:

- Mi dicono che sei un guaritore. È vero?

L’uomo lo guarda, con l’unico occhio che può aprire.

- Sì.

Non dice altro. Drogorob guarda Dvoboposte, in attesa. Poi, di fronte al silenzio del comandante, dice:

- Se non ti serve lo impicchiamo. Non ci guadagniamo niente, ma almeno ci leviamo la soddisfazione.

Dvoboposte guarda l’uomo. Non sa che cosa abbia fatto, non sa perché ce l’abbiano tanto con lui, non sa se è davvero in grado di guarire qualcuno. Ma è l’unica possibilità che ha, forse, di salvare i suoi uomini.

- Quanto vuoi?

- Dieci pezzi d’argento.

- Dieci monete per un figlio di Lilith che avete ridotto in questo stato?

- È un guaritore molto capace. Lo conoscono tutti a nord del guado.

Dvoboposte tace. Si chiede se ha senso provare. Il mercante interpreta il suo silenzio come un rifiuto.

- Senti, mi accontento di otto monete. Di meno no, preferisco impiccarlo, almeno ci facciamo due risate.

Nuovamente il comandante si chiede che cosa abbia fatto quest’uomo perché lo odino tanto. Esita ancora. Gli sembra che non abbia senso, che non sarà possibile guarire Jakhrab e gli altri. Ma non vuole lasciar impiccare quest’uomo. Scuote la testa, scoraggiato, e sta per dire che accetta, quando Drogorob, interpretando il movimento del capo come un rifiuto, rilancia:

- Sette monete. A meno non te lo do.

- Va bene, sette monete.

Dvoboposte manda un soldato a prendere il denaro e paga, poi aggiunge:

- Spero che tu non mi abbia raccontato storie. Perché in questo caso ti conviene stare alla larga da queste terre fino a che io sarò qua.

- No, no, tranquillo.

Drogorob saluta e si allontana, seguito dagli altri. La notte è scesa e la nebbia è fitta, eppure preferiscono non fermarsi alla locanda all’interno del recinto, ma accamparsi all’aperto: pessimo segno. Dvoboposte si dice che quest’uomo che ha acquistato non servirà a nulla.

Gli si rivolge:

- Vieni con me.

L’uomo si muove per seguirlo. Zoppica, vistosamente. Il comandante si accorge che ha le mani legate dietro la schiena. Gliele farà slegare in infermeria, che in ogni caso è il luogo adatto per lui: non è detto che sappia curare, ma di sicuro ha bisogno di cure.

Attraversano l’intero recinto esterno ed entrano nella fortezza.

Boratni è vicino alla porta. Fa un passo in avanti. Il comandante sente di nuovo una fitta.

- Dopo, Boratni. Dopo.

Nell’infermeria Dvoboposte dà ordine di slegare l’uomo. Il comandante nota che le corde sono state strette tanto da lacerare la pelle in diversi punti. Le corde sono macchiate di sangue e la mano destra è gonfia.

L’uomo rimane immobile. Muove un po’ le braccia, per sgranchirsele e gira la mano destra, palpandola con la sinistra. Non dice nulla e il comandante sente una crescente irritazione. Non sa spiegarsela: l’uomo non ha fatto nulla di particolare. Forse è il suo silenzio a dare fastidio a Dvoboposte.

Il comandante indica gli uomini distesi sui letti.

- Puoi fare qualche cosa per loro?

L’uomo guarda i quattro malati. Si dirige immediatamente da Jakhrab, zoppicando. Con una certa fatica si siede sul letto di fianco al malato. Gli mette la sinistra sulla gola, poi sulla fronte, infine sul petto. Poi la mano scorre in basso, verso il ventre e preme leggermente all’altezza dell’ombelico.

Poi si rivolge al comandante e parla, lentamente. Nella voce è evidente un certo sforzo, come se facesse fatica ad articolare le parole.

- Sta morendo, ma credo di poterlo salvare. Per farlo ho bisogno di alcune erbe. Che cosa avete qui?

Lijeci si avvicina e gli elenca i diversi medicinali in suo possesso. L’uomo scuote la testa.

- Tutto qui? Non c’è altro?

- È tutto quello che abbiamo.

- Non va bene, servono altre erbe.

La tenue speranza che si era accesa in Dvoboposte si sta già spegnendo. Dice, senza convinzione:

- Domani mattina ti farò accompagnare a cercare quello che ti serve.

- Non arriverà a domani mattina. Posso prolungare di qualche ora la sua vita, il tempo necessario per trovare quello che mi occorre e tornare. Ma devo andare adesso.

Il comandante guarda l’uomo. Non ha fiducia in lui.

- Adesso? Con la notte che sta calando e la nebbia? Che cazzo vuoi trovare? Con un occhio solo, poi… È una scusa per uscire e scappare.

L’uomo alza le spalle.

- Sei tu il comandante. Decidi quello che ritieni giusto. Domani mattina credo di fare in tempo a salvare gli altri soldati, non questo. Per lui non ci sarà più niente da fare. Quanto alla notte e alla nebbia… sono un figlio di Lilith, anche se adesso vedo da un occhio solo.

Dvoboposte sa di aver detto una cazzata. I figli di Lilith vedono benissimo la notte. Non crede che quest’uomo, di cui non sa neanche il nome, possa fare niente. Sospetta che voglia solo scappare, ma non se la sente di rinunciare alla speranza, per quanto tenue, di salvare i suoi uomini. Probabilmente quest’uomo scomparirà nella notte. Non sarà una grande perdita.

- Va bene, sei libero di fare come vuoi.

- Grazie per la fiducia.

A Dvoboposte pare di cogliere una certa ironia nella voce dell’uomo: deve aver capito che il comandante non si fida di lui.

L’uomo parla un momento con Lijeci. Si fa dare alcune erbe, ne seleziona la quantità e dice come prepararle sul fuoco. Lascia che sia il medico a farlo, ma quando l’intruglio è pronto, se lo fa consegnare. Abbassa il telo che copre il corpo di Jakhrab e sparge con cura l’unguento, sulle tempie, sulle labbra, sul collo, sul petto e sui genitali. Poi rende la ciotola con l’unguento a Lijeci.

- Se tra tre ore non sono di ritorno, daglielo di nuovo, negli stessi punti.

L’uomo si alza. Barcolla, ma riesce a non cadere.

- Andiamo, comandante. Non c’è tempo da perdere.

Dvoboposte esita un attimo. Quest’uomo fa fatica a stare in piedi. Come farà a trovare ciò che cerca? L’uomo deve aver capito, perché dice:

- Non si preoccupi per me, comandante. Ce la posso fare.

Si avviano.

Giunti alla porta esterna, Dvoboposte chiede:

- Vuoi che ti accompagni qualche soldato?

L’uomo scuote la testa.

- Meglio di no. Spero di non metterci molto.

Il comandante lo guarda avanzare incerto e scomparire nella nebbia in direzione del bosco. Pensa che probabilmente non lo rivedrà più. L’idea che Jakhrab muoia lo angoscia.

Dovrebbe cenare con i suoi uomini, come fa sempre, ma non ha fame. Aspetta sulla porta, immerso nei suoi pensieri.

Boratni lo ha visto uscire con il guaritore e lo ha seguito. Ora lo raggiunge.

- Comandante, io…

- Il guaritore è andato a cercare le erbe. Dice che può salvarlo. Non so se tornerà, non so se è vero. Se non c’è speranza, ti lascerò entrare.

- Il guaritore?

Dvoboposte non ha voglia di spiegare. Si limita a dire:

- Dice di essere un guaritore.

Rimangono entrambi in silenzio.

Il tempo passa. L’oscurità ormai è completa. I Figli di Lilith vedono nel buio, ma che cosa può pensare di trovare uno che si regge a mala pena in piedi nella nebbia fitta? Non riuscirebbe a trovare niente, anche se fosse in buona fede, e non lo è, di sicuro si sta allontanando il più in fretta possibile.

Non tornerà. Jakhrab e gli altri moriranno, non c’è più niente da fare per loro. Sono perduti. Ormai è chiaro che non tornerà. Non è servito a nulla.

E mentre se lo ripete per l’ennesima volta, Dvoboposte vede una sagoma apparire a pochi passi dalla porta. Non l’ha visto avvicinarsi, perché la luce delle torce non è sufficiente a fendere la nebbia da cui l’uomo emerge.

- Ho trovato tutto. Lo salverò, comandante.

A Boratni sfugge una specie di singhiozzo. Non osa dire nulla. Dvoboposte vuole credere al guaritore. Non mentiva, è tornato. Forse davvero può salvare Jakhrab e gli altri. Si avvia, ma si accorge che l’uomo cammina molto lentamente. Zoppica ancora più di prima. Purché non cada adesso.

L’uomo si trascina fino all’infermeria. Dà indicazioni a Lijeci e insieme preparano una bevanda e un altro impasto. Poi l’uomo pulisce con cura l’impasto che ha steso sul corpo di Jakhrab. Gli versa in bocca metà della bevanda, quasi goccia a goccia, e sparge con cura l’impasto sulla bocca del malato, poi sul cuore e sui genitali.

Porge al medico la coppa con la bevanda e la ciotola con l’impasto e si alza. Barcolla e sembra sul punto di cadere, ma riesce a stare in piedi. Si sposta al capezzale dei due soldati. A loro fa bere solo due sorsi del liquido e sparge un po’ dell’impasto solo sul petto, all’altezza del cuore.

All’ultimo soldato si limita a versare poche gocce sulle labbra e a tracciare un segno circolare sul petto. Poi torna accanto all’ufficiale.

- Posso avere una sedia?

Lijeci gliela porta. L’uomo si siede. Appare stanchissimo.

- Adesso possiamo solo aspettare.

Dvoboposte chiede:

- Non hai più bisogno di niente?

- No, comandante.

Dvoboposte raggiunge la sala dove gli uomini hanno ormai finito di mangiare e consuma ciò che il cuoco gli ha tenuto da parte: non è raro che il comandante rinvii la sua cena per qualche incombenza.

Dopo aver cenato fa il solito giro sulla cinta di mura e sulle torri, per verificare che tutto sia a posto. Poi scende in infermeria.

Non c’è nessun cambiamento significativo. Il guaritore è seduto accanto all’ufficiale. È chiaramente esausto, ma non sembra intenzionato a cedere al sonno.

- Ne verrà fuori, ne sono sicuro. Ma non ci saranno grandi novità prima di domani mattina, comandante.

È un congedo. Dvoboposte esce. Parla un momento con Boratni.

- Il guaritore è decisamente ottimista. Dice che guarirà.

Dopo un attimo di esitazione, Dvoboposte aggiunge:

- Speriamo che abbia ragione. Lo sapremo domani.

Non vuole che Boratni si faccia troppe illusioni: se il guaritore non riuscisse a salvare Jakhrab, per Boratni aver sperato renderebbe il colpo ancora peggiore.

Il guerriero annuisce.

Dvoboposte fa ancora un giro per la fortezza, poi va a coricarsi. Di solito si addormenta subito, ma questa sera i suoi pensieri vagano. È stata una serata anomala. Spera che il guaritore abbia ragione, che davvero possa salvare i suoi uomini.

Boratni non si mette a dormire. Non riuscirebbe a prendere sonno, anche se sono due notti che dorme pochissimo. Rimane seduto fuori dalla porta dell’infermeria.

 

Il mattino Dvoboposte si alza presto, come sempre. Il suo primo pensiero va all’ufficiale e ai soldati malati. Mentre si veste decide di scendere subito in infermeria. Teme di sentirsi dire che Jakhrab è morto nella notte, che non c’è stato niente da fare. Dalla finestra che dà sul cortile può vedere che nella notte la nebbia si è dissolta e il cielo è sereno. Almeno questo.

Passando per la scala interna, Dvoboposte raggiunge l’infermeria, dove il fuoco arde nel camino: il locale è sempre riscaldato in inverno, se ci sono malati. Le fiamme illuminano lo stanzone e una rapida occhiata è sufficiente a fugare ogni paura: il colorito di Jakhrab non è più violaceo, ma solo un po’ più rosso del normale e il respiro è abbastanza regolare. Il comandante guarda i tre soldati. Dormono e non si vede nessun segno di malattia. 

Lijeci è in piedi e gli si avvicina. Parla molto piano.

- Mi ha detto che sono tutti fuori pericolo. I soldati potranno alzarsi in giornata. Possono considerarsi guariti. Jakhrab è meglio che riposi ancora un giorno.

Poi accenna al letto su cui è steso lo straniero.

- È rimasto sveglio tutta la notte per curarli. Mi ha chiamato pochi minuti fa. Sono riuscito a convincerlo a lasciarsi curare le ferite. Lo hanno ridotto in uno stato… quei bastardi!

- Ti ha raccontato qualche cosa? Di quello che gli è successo, intendo.

- No, si è fatto aiutare a curarli, poi mi ha detto di mettermi a dormire, che mi avrebbe chiamato il mattino per dargli il cambio. Mi sono svegliato un po’ di volte e l’ho sempre visto intento a curare o a vegliare su di loro. Si è prodigato senza risparmiarsi. Ma è esausto. Non so come abbia fatto a reggere, in quelle condizioni.

Il comandante guarda l’uomo addormentato. Dorme nudo sul letto, accanto al fuoco. Sul corpo c’è una patina umida: una crema che Lijeci deve aver sparso. Sotto si vedono i segni delle ferite e i lividi. Ce ne sono dappertutto. Lo hanno massacrato di botte. Perché? Se lo farà spiegare. Adesso non ha importanza.

Dvoboposte guarda ancora i suoi uomini. Stanno guarendo, grazie a questo sconosciuto, di cui lui dubitava. Il suo schiavo da sette pezzi d’argento. Non ci sono schiavi alla fortezza, né a Samar. Dovrà dirgli che è un uomo libero. Ma gli piacerebbe che rimanesse alla fortezza. Un uomo così vale tanto oro quanto pesa.

- Io vado, Lijeci.

- Mi ha detto di svegliarlo verso mezzogiorno, se non ci sono novità. Se vuoi ripassare allora…

- Certamente, Lijeci.

Dvoboposte esce dalla porta sul cortile. Boratni è accanto all’uscio. Il comandante si chiede se è rimasto lì tutta la notte.

Boratni non osa chiedere. Fissa il comandante con uno sguardo supplichevole. Dvoboposte sorride e dice:

- È fuori pericolo. Ha ripreso a respirare normalmente e anche il viso non è più violaceo. Sta guarendo.

Boratni non dice nulla. Volta la testa di lato, per nascondere le lacrime, ma le spalle sono scosse dai singhiozzi che il guerriero soffoca. Dvoboposte scuote la testa. Ha avuto modo di vederlo più volte in combattimento e sa che è un guerriero coraggioso e capace. Ma di fronte all’idea di perdere il suo compagno appare smarrito.

- Hai passato la notte qui fuori, vero, Boratni?

Il guerriero annuisce e, senza voltarsi, si passa una mano sul viso, per asciugare le lacrime.

- Adesso ti alzi e vai a stenderti sul letto. Devo ripassare a mezzogiorno. Ti farò chiamare, ma tu dormi. È un ordine.

Boratni si alza. Si asciuga ancora il viso con la mano.

- Obbedisco, comandante, ma quello che hai detto è vero?

- Meriteresti una punizione perché metti in dubbio le mie parole. Ti ho mai mentito?

Boratni scuote la testa. Dvoboposte prosegue:

- È vero, il guaritore ha detto che questa sera si sveglierà. E se, come me, tu l’avessi visto ieri sera e oggi, sapresti che è così.

- Non me l’hai fatto vedere, comandante.

- Vai, prima che ti metta in cella, invece di mandarti a dormire.

Il comandante raggiunge lo stanzone per la colazione, dove si trovano già gli ufficiali e molti soldati. Sono tutti alquanto preoccupati per i quattro uomini e soprattutto per Jakhrab, che gode della stima e dell’affetto di tutti. Vedendo il comandante sereno, una speranza si accende in loro.

- Comandante, qual è la situazione?

- Stanno tutti meglio, molto meglio. Il guaritore arrivato ieri sera ha fatto il miracolo.

Tutti si rallegrano per la buona notizia. Il riferimento al guaritore suscita curiosità e Zlatorat chiede:

- Quel vecchio?

- Non è un vecchio! Avrà la mia età. E se adesso mi dici che allora è vecchio, ti spacco la faccia.

Zlatorat ride.

- No, per carità. Ma l’ho visto ieri sera, anche se era buio: cammina a fatica.

Dvoboposte si rabbuia.

- Lo hanno picchiato ferocemente, non so perché, ma me lo farò raccontare. Per quello camminava così. Ha vegliato tutta la notte. Adesso dorme. I malati sono tutti fuori pericolo.

 

Alla fortezza tutto è tranquillo. Un po’ prima di mezzogiorno Dvoboposte chiama Boratni, poi passa in infermeria, lasciando però il guerriero fuori. I tre soldati sono svegli. Due sono seduti sul letto e uno è ancora disteso. Jakhrab dorme, ma sul viso non c’è più traccia del rossore e il respiro è regolare. Anche il guaritore dorme.

Dvoboposte dice, piano:

- Sono felice di vedervi guariti.

Gli risponde uno dei soldati, anche lui parlando sottovoce:

- E noi siamo felici di poterti vedere. L’altro giorno, quando mi sono reso conto che non riuscivo più a tenere gli occhi aperti, ho pensato che non mi sarei svegliato mai più.

Il guaritore ha aperto gli occhi e con una certa fatica si mette a sedere. Rivolto a Lijeci dice:

- Non mi hai chiamato.

- Non è mezzogiorno. Manca ancora un poco.

L’uomo annuisce e con uno sforzo si alza. Si mette la tunica sporca e stracciata con cui è arrivato. Si avvicina al letto di Jakhrab. Gli mette la mano sulla gola, poi sul cuore e infine sui genitali. Sulla bocca storta per il gonfiore delle labbra appare quello che forse è un sorriso.

- In serata si sveglierà, guarito. Lijeci, per favore, dammi le erbe che ho portato ieri sera e il mortaio.

Il medico porge quanto l’uomo gli ha chiesto. Dvoboposte lo osserva tritare le erbe e poi porgere il mortaio a Lijeci.

- Falle cuocere dieci minuti con il succo di sladatrava. Scusa, ma io non ce la faccio a stare in piedi.

Mentre il medico prende le erbe, Dvoboposte si avvicina.

- Adesso è ora che il guaritore guarisca se stesso. Che cosa possiamo fare per te? Di che cosa hai bisogno, per curarti?

L’uomo lo guarda, con l’unico occhio aperto. Dvoboposte si rende conto che non sa neanche il suo nome. Intanto il guaritore risponde:

- Adesso completo la cura per l’ufficiale. Poi… sì, ho bisogno di cure. Lijeci mi aiuterà.

È Lijeci a rispondere:

- Sì, Muskinoc. E non appena questi quattro rompicoglioni si saranno tolti dai piedi, non ti lascerò alzarti dal letto, a costo di legarti, fino a che non ti avrò rimesso in piedi.

Dvoboposte ride, mentre registra che il guaritore si chiama Muskinoc. Poi dice:

- Spero che tra i quattro rompicoglioni tu non includa anche me.

- No comandante, non mi permetterei mai. Ho detto quattro, non cinque. Ma solo perché potresti farmi impiccare nel recinto esterno, adesso che hai trovato qualcuno molto più bravo di me a curare.

Ridono tutti.

- Potrebbe essere un’idea. Prima però me lo rimetti in sesto.

Lijeci si volta verso Muskinoc, pronto per una battuta, ma guardando il guaritore la voglia di scherzare gli passa.

- Povero amico mio, come ti hanno conciato.

C’è un momento di silenzio. L’allegria di prima si è spenta. È Muskinoc a cercare di rianimarli, indicando Jakhrab:

- Non sono messo peggio di com’era messo lui. E con l’aiuto di Lijeci ne verrò fuori anch’io.

Mentre il medico finisce di preparare il farmaco, Dvoboposte si rivolge a Muskinoc.

- Visto che devo sgomberare i rompicoglioni, quando possono alzarsi i soldati?

- Loro tre possono alzarsi quando vogliono. Non hanno più bisogno di stare a letto. Direi di evitare sforzi di qualunque genere oggi. Anche domani dovrebbero prendersela con un po’ di calma, ma ormai non corrono più rischi. L’ufficiale è meglio che rimanga qui questa notte, anche se è fuori pericolo e questa sera riprenderà coscienza. Avrà bisogno di qualche giorno in più di riposo. È andato molto vicino alla morte.

- Ma grazie a te se l’è cavata. Grazie davvero, Muskinoc. Quei pezzi d’argento che ho pagato sono stati i soldi meglio spesi in vita mia. Ancora una cosa, anche se da quel che mi hai detto so già la risposta: non sono più contagiosi, vero?

- Non lo sono mai stati. Non è una malattia, è un veleno, quello che li ha colpiti.

- Un veleno?

- Non so dove siano stati e perché, ma probabilmente sono finiti in una trappola.

Dvoboposte rimane un attimo pensieroso. Dovrà cercare di capire, ma non è il momento di porre tante domanda a Muskinoc, che è esausto. Si limita a dire:

- Adesso io vado. Mi porto via questi tre rompicoglioni, ma prometto di non metterli sotto subito.

I soldati ridono e scherzano tra di loro, mentre si rivestono. Sulla porta Dvoboposte si rivolge a Lijeci:

- E tu rimettimi in sesto Muskinoc, altrimenti davvero ti appendo alla forca, come monito per tutti i medici incapaci.

E mentre tutti ridono, Dvoboposte esce, accompagnato dai tre soldati.

Boratni è sulla porta. Vedendo i soldati uscire sorride, ma quando si accorge che Jakhrab non è con loro, il sorriso si spegne.

Dvoboposte scuote la testa, sorridendo.

- E va bene, Boratni, entra. Ma promettimi che se il guaritore ti dice che non puoi stare, uscirai. No, non mi basta. Promettimi che farai tutto quello che ti dirà.

- Se ha salvato Jakhrab, può anche dirmi di ammazzarmi e lo faccio.

- Se non fai quello che ti dice, impicco anche te.

Il guerriero aggrotta la fronte e chiede:

- Chi altri vuoi impiccare?

- Nessuno, scherzavo con Lijeci.

E mentre si allontana, seguito dai tre soldati, il comandante pensa che impiccherebbe volentieri quelli che hanno ridotto il guaritore in quello stato.

 

Boratni entra nell’infermeria. Prevenendo un’obiezione di Lijeci, dice:

- Il comandante mi ha detto di chiedere al guaritore se posso restare.

Mentre lo dice il suo sguardo cerca Jakhrab. Quando lo vede dormire serenamente, sorride. Muskinoc risponde:

- Puoi rimanere. Puoi sederti vicino a lui, se vuoi. Non lo svegliare: è bene che dorma ancora qualche ora.

Boratni annuisce. Prende una sedia e l’accosta al letto, dall’altra parte rispetto al guaritore. Contempla a lungo Jakhrab. Solo dopo un buon momento, alza lo sguardo su Muskinoc. È la prima volta che lo guarda in faccia e non è davvero una bella vista.

- Amico, di qualunque cosa tu abbia mai bisogno, sappi che puoi contare su di me. Per qualunque cosa. E se mi chiedi di ammazzare quei figli di puttana che ti hanno conciato così, lo farò con enorme piacere.

Muskinoc scuote la testa. Dopo un po’ dice che intende stendersi nuovamente per dormire. Chiede di essere chiamato a metà pomeriggio. Si spoglia e Lijeci gli spalma nuovamente l’unguento. Boratni lo guarda e rabbrividisce: ha spesso visto ferite gravi, amputazioni e cadaveri, ma tanti lividi ed escoriazioni così, mai. Prova rabbia nei confronti di chi lo ha colpito con tanta ferocia.

Poi lo sguardo torna a Jakhrab e un sorriso gli appare sulle labbra. Si sta riprendendo, presto si sveglierà come si sono svegliati gli altri. Vorrebbe accarezzargli il viso o almeno una mano, ma non vuole destarlo. Il guaritore ha detto che è meglio che dorma ancora un po’. Lancia ancora un’occhiata al guaritore, che ora riposa. Spera che anche lui si riprenda.

 

Quando si sveglia, Muskinoc esamina nuovamente Jakhrab, poi si rivolge a Boratni:

- Puoi svegliarlo, ora.

Boratni esita.

- Non è… non ha bisogno di dormire ancora?

- Dormirà questa notte. Adesso va bene se rimane qualche ora sveglio.

Ancora incerto, quasi timoroso, Boratni appoggia una mano sulla destra di Jakhrab e lo scuote leggermente. Il convalescente apre gli occhi. Lo guarda, per un attimo senza capire, poi si mette di scatto a sedere.

- Che cosa… stavo male… tutto scompariva… Che cosa è successo?

È Lijeci a rispondergli: Boratni non ci riuscirebbe. Ha un groppo in gola che si scioglierebbe in pianto, se cercasse di parlare. Si limita a stringere la mano del suo compagno, tanto forte da fargli male, ma non se ne accorge.

- Sei arrivato molto vicino alla morte, Jakhrab. Saresti morto la notte scorsa se Muskinoc non ti avesse salvato.

Jakhrab guarda lo sconosciuto che è seduto vicino al letto, dalla parte opposta rispetto a Boratni.

- Grazie, non ti conosco, ma a quanto pare ti devo la vita e ti ringrazio.

Poi sorride e aggiunge:

- Spero che non ti abbiano picchiato per avermi salvato.

Muskinoc scuote la testa. Boratni trova la voce per dire:

- No, ma poi io e te cerchiamo quelli che l’hanno conciato così. Perché io ho due cose da dirgli, a quelli.

Jakhrab guarda Muskinoc e risponde a Boratni:

- Sì, vengo con te. Credo di avere due cose da dirgli anch’io.

Più tardi cenano tutti e quattro insieme. Arriva l’ora di mettersi a dormire. Boratni sa che dovrebbe andarsene, ma chiede:

- Guaritore, posso rimanere? Dormo a terra, se…

Muskinoc lo guarda e risponde:

- Puoi dormire accanto a lui. Farà bene ad entrambi. Ma per scopare è meglio che aspettiate almeno ancora un giorno.

Jakhrab sorride. Il guaritore ha capito il legame che li unisce.

- Grazie.

Boratni si stende accanto a Jakhrab, che si sposta un po’ per fargli posto. Si sente felice. Gli pare di non essere mai stato tanto felice nella sua vita, forse neppure il primo giorno in cui lui e Jakhrab hanno scopato, al fiume. Allora non si amavano. Si piacevano, si trovavano bene l’uno con l’altro e i loro corpi si erano cercati e trovati. L’amore è venuto dopo. Boratni stringe la mano di Jakhrab e questa stretta è tutto quello che vuole ora dalla vita. Per il resto c’è tempo.

 

Il mattino seguente Jakhrab e Boratni lasciano l’infermeria e Lijeci si concentra sulle cure per Muskinoc. Dvoboposte passa subito dopo pranzo a chiedere notizie. Il guaritore gli dice:

- Comandante, avrei bisogno di cercare alcune erbe per curarmi. E magari anche qualcun'altra che qui può sempre servire.

- Certo, quando vuoi uscire? Adesso?

- Sì, una prima uscita adesso. Poi, quando avrò recuperato un po’ di forza, ho bisogno di uscire di notte.

- Come vuoi. Ti faccio accompagnare, se non hai niente in contrario. Ci tengo a te.

- Va bene. Mi aiuteranno a portare ciò che serve. Qui non c’è molto.

Lijeci interviene:

- Credo che dovrai dargli una paga, comandante: mi sta insegnando un sacco di cose.

Muskinoc si rivolge a Lijeci:

- Non deve pagarmi. Sono il suo schiavo. Mi ha comprato.

Dvoboposte interviene:

- Non dire cazzate, Muskinoc. Non sei uno schiavo. Ma del futuro parleremo dopo. Adesso devi rimetterti in sesto.

Dvoboposte manda un ufficiale e quattro guerrieri con Muskinoc. Tornano con parecchie erbe e il guaritore dà a Lijeci tutte le istruzioni per farle seccare o trasformarle subito in farmaci e unguenti.

 

In serata Jakhrab e Boratni passano in infermeria. Muskinoc è disteso, il corpo nudo ricoperto di unguenti di colori diversi.

Vorrebbero chiedergli come sta, ma il guaritore li precede:

- Come ti senti, Jakhrab?

- Benissimo. Mi sembra di essere del tutto guarito.

- Lo sei. Devi soltanto evitare grandi sforzi, per due o tre giorni.

Boratni passa una mano sui capelli di Jakhrab, in un gesto affettuoso istintivo. Muskinoc ha un mezzo sorriso e aggiunge:

- Scopare una volta non è uno sforzo, ma è meglio solo una volta al giorno.

Boratni ride. Gli sembra che il guaritore gli abbia letto in testa una domanda che non osava porre. Poi chiede:

- Tu come stai? Vogliamo vederti rimesso in sesto in fretta, come è stato con Jakhrab.

- Con Jakhrab era più facile: era un avvelenamento, con le cure giuste si fa in fretta. Per me ci vorrà un po’ più di tempo.

Il guerriero è sorpreso:

- Un avvelenamento?

- Sì, ma non so come sia avvenuto.

Jakhrab interviene:

- Me l’ha chiesto il comandante, ma io non mi sono accorto di nulla: nel giro di perlustrazione non è successo niente di particolare. So solo che lungo la via del ritorno io ho incominciato a stare male e dopo di me anche gli altri.

Muskinoc è molto stanco. Jakhrab e Boratni non si fermano a lungo, per non affaticarlo. Raggiungono la cameretta dove dorme Jakhrab. In questi giorni Boratni è del tutto libero: il comandante non l’ha inserito nei turni di guardia. Sa che ha bisogno di stare con Jakhrab.

Nella camera accendono una lucerna e si guardano.

Boratni prende Jakhrab tra le braccia e lo bacia sulla bocca. Poi, lentamente, incomincia a spogliarlo.

- Se non ti avesse salvato, mi sarei ucciso.

Non aveva nessuna intenzione di dirlo, ma gli è venuto alle labbra. Jakhrab intuisce che in questi giorni Boratni ha sofferto più di lui, infinitamente più di lui. Lo accarezza.

- Mi spiace per quanto hai sofferto.

- È tutto finito, grazie a Muskinoc. Gliene sarò grato, per sempre.

Boratni bacia di nuovo l’amico, poi finisce di spogliarlo. Non fa caldo, per cui lo solleva di peso, nonostante Jakhrab sia più alto di lui, e lo mette sul letto. Gli mette sopra una coperta e si spoglia in fretta, poi si stende su di lui. Si baciano, a lungo, ma il desiderio preme in entrambi, i loro cazzi si tendono.

- Non pensavo che avremmo ancora potuto…

Boratni cerca di scacciare il pensiero: l’angoscia dei giorni scorsi si è dissolta, ma ha lasciato una traccia profonda in lui, un’inquietudine che non si placa.

- Prendimi, Jakhrab. Voglio sentirti dentro di me.

Ride e aggiunge:

- Voglio sentire il tuo cazzo che mi scava in culo, che mi dice che sei vivo e stai bene. Se te la senti.

- Se me la sento? Mi sembra di stare benissimo, Boratni. E il mio cazzo non è intenzionato ad abbassare la testa tanto presto.

Boratni scivola di fianco, a pancia in giù. Allarga un po’ le gambe. Jakhrab avvicina il viso al culo dell’amico e lo morde con decisione.

- Cazzo! Se hai fame, facciamo un salto alla dispensa. Qualche cosa da mangiare te lo danno.

- Il tuo culo è molto più gustoso.

Jakhrab morde ancora, poi i morsi si trasformano in baci, ma il desiderio è troppo forte. Lascia colare un po’ di saliva sull’apertura, poi si stende su Boratni e il suo cazzo preme contro il buco, lo forza ed entra dentro.

Boratni geme, forte. Pensa che Jakhrab è vivo, che lo sta inculando e una gioia immensa lo invade, più forte ancora del piacere.

Jakhrab accarezza la testa di Boratni, i radi capelli corti. Sa quanto il suo amico ha sofferto. Gli bacia il collo, la nuca, una guancia.

- Ti amo, Boratni.

E di colpo prova vergogna per le parole che ha detto e imprime al movimento del suo culo un ritmo più deciso, affondando il cazzo nella carne calda, fino a che i coglioni sbattono contro il culo di Boratni, e poi ritraendolo, in un movimento energico, che strappa gemiti all’amico.

- Ti faccio male?

- Sì, sì! Ancora, ancora!

Il movimento brusco fa davvero male a Boratni, che è abituato a cavalcare assai più di quanto lo sia a essere cavalcato, ma adesso, sentire che Jakhrab lo sta fottendo, che è vivo, forte, possente, è la sensazione più bella che possa provare. Vuole ancora di questo dolore, che gli dice che l’incubo è finito.

Jakhrab ci dà dentro con forza e il piacere sale, mentre ogni volta il suo cazzo affonda nel culo che lo accoglie e poi si ritrae. Due volte esce, ma rientra, deciso, rioccupa il territorio che ha lasciato e si lancia in avanti, in una corsa senza fine.

E quando il piacere infine esplode e il suo seme si sparge nelle viscere di Boratni, anche Boratni viene. Hanno goduto insieme e ora rimangono distesi, uno sull’altro, le mani di Jakhrab si muovono in lente carezze e la sua bocca ripete:

- Ti amo, Boratni.

Quando il cazzo perde durezza e volume, Jakhrab scivola di lato e si stende sulla schiena. Boratni si stende sopra di lui. Lo bacia e lo guarda. Sorride.

- Sei bellissimo, come fai a stare con uno brutto come me?

- Sei proprio una testa di cazzo.

Boratni copre il viso di Jakhrab di baci: piccoli baci sul collo, sul mento, sulle guance; baci ardenti sulla bocca, in cui le loro lingue si incontrano e giocano a rincorrersi, piccoli morsi alle orecchie e al mento.

- Sei bellissimo.

- Lo sei anche tu.

Boratni ride. Nessuno gli ha mai detto che è bello.

- Bugiardo!

Il desiderio cresce nuovamente. Si rendono conto di avere tutti e due il cazzo duro, teso.

Boratni mormora:

- Non dovremmo…

- Prendimi, Jakhrab. Voglio sentirti dentro di me.

Boratni scuote la testa.

- Il guaritore ha detto…

- Mi prendi tu, non faccio nessuno sforzo.

Boratni vorrebbe dire di no, ma il desiderio è troppo forte.

- Voltati, maialino in calore.

Jakhrab esegue. Allarga le gambe. Sente il peso del corpo di Boratni su di lui, poi la pressione del cazzo che dilata l’apertura ed entra. Boratni lo sta prendendo, lo sta possedendo, come lui l’ha posseduto. Gli piace sentire il calore di questo cazzo che scava dentro di lui, gli piace anche il dolore che prova, quando la pressione diviene più forte e le spinte più vigorose. Gli piace sentire i baci di Boratni, i suoi morsi, le sue carezze. E il piacere cresce ancora, fino a che Jakhrab si rende conto di essere sul punto di venire. Non dovrebbe, il guaritore ha detto… ma ciò che il guaritore ha detto non ha più importanza, conta solo il piacere che cresce e infine esplode. Nuovamente vengono entrambi insieme, con un grido soffocato.

Rimangono immobili, uno sull’altro. Quando il respiro si è calmato, Boratni dice:

- L’abbiamo fatto due volte. Non avremmo dovuto.

Jakhrab ride e dice:

- Non lo facciamo domani, così ci mettiamo in pari.

Sanno tutti e due che non è vero, che domani lo faranno di nuovo.

- Però adesso dormi tra le mie braccia.

E Boratni stringe Jakhrab e insieme scivolano nel sonno.

 

 

I giorni passano. Muskinoc sta decisamente meglio. Ci sono ancora parecchi lividi e alcune escoriazioni, ma adesso riesce a camminare abbastanza spedito, zoppicando solo un po’, parla senza difficoltà e può aprire anche l’occhio sinistro.

Dvoboposte è passato a trovarlo. Lo ha fatto diverse volte in questi giorni, ma più che altro per sapere come stava. Visto che la situazione è migliorata, ora è intenzionato a porre alcune domande. Muskinoc ha appena finito di mangiare. Non consuma i pasti con i soldati: Dvoboposte preferisce non esporlo alla curiosità degli altri prima che si sia rimesso. Inoltre Muskinoc non mangia carne o pesce, ma solo vegetali, miele, uova, latte e formaggio.

- Muskinoc, vedo che stai meglio e mi fa molto piacere. Te la senti di rispondere a qualche domanda?

- Certo, comandante.

- Allora, una prima domanda riguarda Jakhrab e i soldati. Tu mi hai detto che sono stati avvelenati. Hai qualche sospetto su come possa essere successo? Nessuno di loro quattro ha la più pallida idea di come sia venuto in contatto con il veleno. Hai parlato di una trappola. Che cosa sai?

- Purtroppo so ben poco. Quel tipo di veleno si ricava da alcuni funghi. Se avessero mangiato quei funghi, sarebbero morti nel giro di poche ore. Altro modo di venire in contatto con quella sostanza in natura non c’è. Questo vuole dire che qualcuno ha sparso le spore velenose nell’aria mentre passavano o, più probabilmente, ha preparato una trappola, che è scattata quando loro sono passati, magari un filo teso tra due alberi: toccandolo hanno fatto rovesciare un contenitore che ha sparso nell’aria le spore. Se Jakhrab era il primo, ne ha respirato una dose maggiore.

- Non capisco. Perché secondo te hanno messo questa trappola?

Muskinoc allarga le braccia.

- Non lo so. Qualcuno che non vuole figli di Eva nelle sue vicinanze. O magari una prova.

- Una prova?

- Per vedere se quel veleno funziona con i figli di Eva e poterlo usare in altre occasioni.

Dvoboposte riflette sulle parole del guaritore. Se fosse vera l’ultima ipotesi, un pericolo potrebbe incombere sulla guarnigione della fortezza.

- Esseri volanti potrebbero spargere quel veleno nell’aria?

- Un siskri potrebbe farlo, sì.

Qualche volta dalle torri della fortezza si vedono in lontananza esseri volanti: krilorai, che hanno grandi ali con penne nere; siskri, che hanno ali verdastre di forma allungata, costituite da membrane; leptir, con grandi ali sottili, molto colorate, che li fanno assomigliare a farfalle.

I Krilorai sono creature dei monti, che vivono in pace. Anche i Leptir non hanno ambizioni e non sono avidi: impossibile coinvolgerli in un’impresa guerresca, anche se la loro bellezza può far impazzire di desiderio un uomo. Tra i Siskri invece sono presenti le stesse passioni che albergano tra i figli di Eva e tra i figli di Lilith. Non sono una stirpe guerriera, ma possono mettersi al servizio di altre forze.

Il guaritore aggiunge:

- Non mi sembrerebbe una grande idea: colpirebbe alcuni uomini, ma di certo non tutti. E comunque anche quelli colpiti potrebbero guarire.

- Potrebbero guarire perché ci sei tu in grado di farlo.

- Sì, ma anche se non ci fossi io, verrebbero colpiti quelli che si trovano nel cortile. Qualcun altro che esce subito dopo, magari. Poi il veleno si deposita a terra e se uno non va in giro a piedi nudi, non corre grandi rischi.

- Va bene. Rifletterò un po’ su quello che mi hai detto. E se ti viene qualche altra idea, fammelo sapere.

- Certo, comandante.

- E adesso la seconda domanda, che riguarda te. Vorrei che tu mi raccontassi che cosa è successo e perché sei arrivato qui in quelle condizioni.

Muskinoc non risponde subito. China la testa, poi la rialza e fissa Dvoboposte. Ha grandi occhi scuri, come tutti i figli di Lilith.

- Vivevo nelle terre a Nord del guado. Sono stato allevato da un guaritore, che mi ha insegnato a riconoscere le erbe e a preparare farmaci. Sono diventato un guaritore anch’io.

- E uno molto bravo, da quello che ho visto. D’altronde l’aveva detto anche quello che ti ha venduto.

- Già. Sono stati loro a catturarmi. Volevano che preparassi un veleno il cui effetto si manifestasse solo dopo qualche ora, ma che uccidesse in fretta, in modo da non dare il tempo di curare. Hanno cercato di ammorbidirmi, come ti hanno detto, ma non ci sono riusciti. Allora hanno deciso di impiccarmi. Prima però si sono divertiti ancora un po’. Credo che… gli piaccia far soffrire.

Dvoboposte sente un rabbia feroce assalirlo. Tace, mentre Muskinoc continua:

- Intanto è arrivato uno di loro, che era stato qui, e gli ha detto che alcuni soldati si erano ammalati. Hanno pensato che se non potevano avere il veleno, potevano guadagnare qualche cosa vendendomi come schiavo. Hanno discusso un momento. Ho capito che qualcuno gli aveva dato l’ordine di uccidermi, se non gli producevo il veleno. In realtà…

Muskinoc si ferma.

- Dimmi.

- In realtà credo che fosse loro compito uccidermi comunque. Uno di loro insisteva sul fatto che erano stati pagati per “sistemare definitivamente la faccenda”, ma il capo voleva recuperare un po’ dei soldi che non avrebbero ottenuto, visto che non potevano avere il veleno.

Dvoboposte annuisce. Quei cinque fottuti bastardi prima o poi gli capiteranno tra le mani. Adesso però gli preme sapere altro.

- Quello che vorrei capire è chi vuole quel veleno e soprattutto l’uso che intende farne, se riguarda noi. Tu non hai nessuna idea?

- No, assolutamente.

- Va bene così. Grazie. E adesso pensa a guarire del tutto.

- Comandante, per guarire completamente ho bisogno di uscire la notte del plenilunio.

- Dopodomani, quindi.

- Esatto. Me lo consenti?

- E me lo chiedi, Muskinoc? Sei libero di uscire quando vuoi. Anche di andartene, ma questo mi spiacerebbe molto, lo confesso.

- Non posso andarmene. Sono tuo schiavo.

Dvoboposte ha un moto di impazienza.

- Non sei mio schiavo, te l’ho già detto. Sei libero.

Muskinoc scuote la testa

- No, non posso andarmene. Sarò tuo schiavo fino a che non ti avrò salvato la vita. Solo allora sarò libero.

Dvoboposte scuote la testa.

- Non capisco. Perché dici questo?

- So che è così. Non mi chiedere come lo so. Lo so.

Il comandante è perplesso, ma preferisce rimandare il discorso a un altro momento. Adesso quello che conta è che Muskinoc si rimetta completamente in sesto. Perciò gli dice:

- Muskinoc, un’unica cosa. Io non vorrei mai che tu finissi un’altra volta nelle mani di quei bastardi.

Muskinoc sorride, un sorriso storto, perché il viso è ancora gonfio.

- Preferirei evitarlo anch’io.

- Allora ti farei accompagnare da un gruppo di soldati e guerrieri.

- Grazie. Per una parte del tempo sarò incosciente, per cui una protezione mi serve. E mi va bene avere un aiuto per ciò che devo fare. C’è un posto dove posso espormi alla luce della luna senza essere visto? Non vorrei mettere in pericolo la vita di chi mi accompagna.

Dvoboposte riflette un momento.

- Se non hai bisogno di andare nel bosco, ti proporrei gli avvallamenti in riva al fiume. La luce lunare vi arriva, ma sono abbastanza profondi, per cui solo dall’alto si può vedere chi c’è dentro. E sono molto vicini, per cui non occorre fare tanta strada.

- Perfetto.

 

La notte del plenilunio Jakhrab guida il gruppo di soldati che accompagna il guaritore: sono gli stessi che ha salvato dalla morte. Con loro c’è anche Boratni, che porta un flacone pieno di un farmaco.

Costeggiano il fiume fino a raggiungere un’area dove il terreno è molto irregolare e forma profondi avvallamenti. I soldati si dispongono intorno, in punti in cui sono poco visibili, ma da cui possono controllare che nessuno si avvicini. Jakhrab e Boratni rimangono con Muskinoc, che ha richiesto il loro aiuto.

Il guaritore si spoglia completamente, poi si stende sul fondo dell’avvallamento che il terreno forma in quel punto.

- Boratni, versa il liquido, prima sulla faccia, poi sul corpo, come ti ho detto.

Il guerriero esegue. Toglie il tappo del flacone e, con molta cautela, versa il farmaco sul viso di Muskinoc, poi sul collo, sul cuore, sul ventre, sui genitali. Poi ne spruzza quanto rimane sulle braccia e sulle gambe.

Il guaritore si addormenta immediatamente. Il petto si alza e si abbassa in un respiro regolare e profondo. Jakhrab parla pianissimo:

- È un effetto del farmaco?

- Sì, mi ha detto che si sarebbe addormentato subito.

La luce lunare illumina per intero il corpo, che lentamente si trasforma. Le ferite e i tagli sembrano scomparire, i gonfiori si riducono. Progressivamente i segni delle percosse subite scompaiono.

- Ma… come è possibile?

- Non lo so, ma lui lo sa.

- Gli sarò grato per sempre per ciò che ha fatto, Jakhrab.

- Anch’io.

Il tempo passa lentamente. Le tracce di quanto Muskinoc ha subito scompaiono progressivamente, rivelando i lineamenti regolari del viso e le linee armoniose di un corpo forte.

- È un bel maschio.

- Jakhrab! Brutto stronzo! Mi vuoi fare ingelosire?

L’ufficiale sorride:

- No, di sicuro. Era un puro apprezzamento.

Jakhrab volta la testa verso Boratni e lo bacia sul collo.

Quando la luna si sposta e l’avvallamento sprofonda nell’ombra. Muskinoc si desta e si mette a sedere. Si riveste.

- Possiamo andare. Grazie.

- Grazie? Per essere rimasti seduti all’aperto in una bella notte di luna?

- Magari avreste potuto passare questa bella notte in altro modo. O mi sbaglio?

Boratni ride. Jakhrab scuote la testa. Si avviano verso la fortezza.

Muskinoc si muove agile e sicuro. C’è nel suo movimento una naturale eleganza.

- Se non fossimo rimasti tutto il tempo vicino a te, mi verrebbe da pensare che qualcun altro ha preso il tuo posto.

Muskinoc ride.

- I farmaci usati in questi giorni hanno preparato la guarigione e la luce della luna ha completato la trasformazione.

 

Il giorno dopo Muskinoc parla con Dvoboposte:

- Vorrei aiutare Lijeci a raccogliere un po’ di erbe, in modo da avere a disposizione rimedi per le varie malattie e anche per eventuali avvelenamenti. Va bene?

- E me lo chiedi? Certo che mi va bene! Stai facendo qualche cosa di utile per tutti noi. Però preferisco che non usciate da soli, per cui, se non hai niente in contrario, vi assegno alcuni uomini.

Muskinoc annuisce, poi dice:

- Ti chiedo però una cosa: è meglio che non si sappia che sono qui. Non so spiegarti perché, ma… sarebbe meglio così.

- Va bene. Avviserò i soldati di non parlare di te con quelli che vivono nel recinto esterno, anche se ormai molti devono saperlo, e soprattutto con i mercanti, quando incominceranno ad arrivare.

 

Nei giorni seguenti nell’infermeria ferve un’intensa attività. Muskinoc raccoglie erbe, fiori, funghi, felci, foglie, radici, frutti e altro materiale vegetale con Lijeci. Dvoboposte li fa sempre scortare da un gruppo di soldati: ai tre gruppi che si occupano di pattugliare lungo le piste che portano alla fortezza si aggiunge così un quarto gruppo che accompagna i due a raccogliere vegetali. I soldati osservano curiosi, ma dopo un po’ si annoiano. È comunque un lavoro che fanno volentieri, perché Muskinoc ha salvato i loro compagni e perché sanno che quelle erbe potranno servire anche a loro.

Il guaritore descrive a Lijeci le diverse erbe, gli spiega dove trovarle e quando raccoglierle.

- Questa è utilissima per la febbre autunnale, ma serve il fiore. Bisogna aspettare la tarda primavera per poterlo raccogliere.

Alcuni materiali si trovano anche in inverno, ma per altri bisogna attendere la primavera o addirittura l’estate. Ci sono anche alcuni alberi di cui bisogna raccogliere le foglie o i frutti in autunno.

Lijeci scopre un mondo vegetale di cui conosceva pochissimo. Ogni tanto pensa a qualche malato e chiede consiglio al guaritore:

- Dici che questo fungo va bene per le donne che non possono avere figli. Lo posso dare alla moglie del locandiere, che è sterile?

- Sì, certo. Ma sei sicuro che sia lei a essere sterile e non il marito?

Lijeci allarga le braccia.

- Non lo so…

- Ti consiglierei di preparare qualche cosa per entrambi. Per lei questo fungo, poi ti spiego come utilizzarlo. Per lui cerchiamo le radici della felce notturna, ma dobbiamo coglierle di notte. Poi li chiami tutti e due e gli dai le istruzioni. Sono due farmaci che non fanno male.

Quando tornano nell’infermeria, preparano i farmaci necessari. Il locale a fianco si riempie di vasi con erbe essiccate, polveri, frutti e radici e di flaconi con liquidi di diversi colori. Ogni vaso o flacone ha un nome e Muskinoc e Lijeci tengono un registro, su cui vengono annotati tutti gli elementi necessari: la preparazione richiesta, l’efficacia, le controindicazioni, la durata del periodo in cui il farmaco è efficace. Lijeci ha venticinque anni in più di Muskinoc, ma ora è l’allievo che il maestro guida alla scoperta di un mondo.

Muskinoc vuole che Lijeci sia in grado di curare da solo, se un giorno lui non dovesse più esserci. Lijeci non si stupisce: pensa che il guaritore intenda andarsene, per tornare dalla sua gente.

All’interno della fortezza diversi soldati si rivolgono a Muskinoc per qualche dolore o malattia. Molti vedono scomparire malanni che li accompagnano da mesi, se non da anni. Perfino i danni permanenti provocati da vecchie ferite vengono in parte sanati. I soldati sono tutti affezionati al guaritore. Sanno che non devono parlare della sua presenza con nessuno al di fuori della fortezza e mantengono il segreto, anche se qualche voce circola.

A Lijeci si rivolgono anche coloro che vivono nel recinto esterno e i viaggiatori di passaggio. In questo caso Lijeci visita e Muskinoc assiste, ma non cura mai direttamente: chi lo vede pensa che sia un assistente del medico. Quando Lijeci non sa che cosa fare, Muskinoc gli fornisce le indicazioni necessarie nel piccolo magazzino adiacente all’infermeria, in modo che il paziente non si accorga che la cura viene prescritta dal guaritore e non dal medico.

I soldati sono molto contenti della presenza di Muskinoc. Scherzano sull’argomento:

- Chissà se il guaritore riesce anche a rendere Valinor intelligente?

- È un guaritore, non un mago!

Il soldato Valinor guarda i due amici e commenta:

- E voi siete due stronzi! 

 

Boratni e Jakhrab passano quasi ogni giorno a trovare Muskinoc, qualche volta separatamente, più spesso insieme. Si trovano bene con il guaritore e sono curiosi di conoscerlo meglio, ma non vogliono apparire invadenti.

Jakhrab chiede:

- Ti fermerai alla fortezza, Muskinoc?

Boratni aggiunge:

- Per noi sarebbe una gran cosa.

- Mi hanno venduto al comandante. È lui a decidere.

- Ma di certo non ti terrà come schiavo: non ci sono schiavi qui. E dopo quello che hai fatto, poi!

- Sono suo schiavo. Non dipende da me e neppure da lui. Ne abbiamo già parlato. Non so come spiegarlo.

Spesso Muskinoc non riesce a spiegare il perché di cose che sa. Non insistono: non vogliono certo forzarlo. Tra loro nasce un rapporto d’amicizia e finiscono per raccontarsi le loro vite.

Jakhrab proviene da una stirpe guerriera:

- Mio padre è al servizio del re di Spadkral. Ho due fratelli maggiori e tutti e tre siamo soldati. Il re doveva mandare alcuni uomini a Samar e io mi sono proposto. Poi il comandante mi ha scelto per venire qui a Dubokvoda. Mi ha chiesto se ero disponibile e io ho accettato. Mi incuriosiva questa terra selvaggia dove non ci sono insediamenti umani. Gusto dell’avventura, curiosità. Ho visto un po’ di mostri, il peggiore dei quali è senza dubbio Boratni.

Jakhrab e Muskinoc ridono. Boratni si limita al suo abituale:

- Brutto stronzo!

Anche a lui però scappa un sorriso. E con la mano accarezza il collo del compagno, poi gli scompiglia i capelli.

- E tu, Boratni?

- Mio padre era un contadino, sempre nel regno di Spadkral. Anch’io ho due fratelli, uno maggiore e uno minore, ma non mi è mai piaciuto lavorare in campagna. Sono sempre stato una testa di cazzo, pronto a menar le mani. Una volta ho difeso una ragazza da un soldato che le aveva messo le mani addosso e voleva prenderla a forza. Mentre lottavamo sono arrivati altri soldati e hanno fatto fatica a togliermi quel bastardo dalle mani. Pensavo che l’ufficiale mi facesse impiccare, ma invece mi propose di arruolarmi. Per cinque anni sono stato soldato, poi ho scelto di diventare un guerriero libero. Ho risposto alla convocazione del governatore di Samar, quando hanno deciso di costruire la fortezza, e così mi ritrovo qui.

- Hai voglia di raccontarci qualche cosa di te, Muskinoc?

Muskinoc annuisce. Esita un attimo, poi incomincia.

- Non so chi fossero i miei genitori. Fui abbandonato davanti alla casa di un guaritore, un figlio di Lilith, che vive in una radura della foresta, in uno dei piccoli insediamenti che ci sono sparsi in tutta l’area. Fu lui a insegnarmi a curare. Ma crescendo mi rendevo conto che sapevo cose che nessuno mi aveva insegnato. È difficile da spiegare. Ci sono molte cose che so, ma non sono in grado di spiegare perché le so. È come se me le dicesse una voce da dentro. Sapevo che sarei stato venduto qui alla fortezza.

- Sai delle cose del futuro, allora.

- Sì.

- E che cosa prevedi?

- So che un pericolo ci sovrasta, ma non chiedetemi quale: non lo so.

 

I tre amici possono parlare di tutto. Muskinoc è sempre molto franco e Boratni pensa che non debba aver mai mentito in vita sua. Una volta dice loro:

- È bello vedervi insieme, vedere che vi amate. Quando ti ho visto entrare nell’infermeria, quella sera, mentre cercavi con gli occhi Jakhrab, ho capito. Ti si leggeva in faccia l’angoscia dei giorni e delle notti precedenti e il tuo sollievo quando hai visto che Jakhrab dormiva tranquillo.

- Sono stati i giorni peggiori della mia vita. Credevo di impazzire. Quando il comandante mi ha detto che Jakhrab era fuori pericolo… mi sono messo a piangere come un bambino.

A nessun altro Boratni lo confesserebbe, ma a Muskinoc può dirlo.

 

La primavera arriva. Le uscite di Muskinoc e Lijeci proseguono. Incominciano a passare i primi mercanti. Tra poco arriveranno le grandi carovane, formate dai mercanti che portano merci preziose e preferiscono viaggiare insieme per sicurezza. Da quando al guado di Dubokvoda è stata costruita la fortezza e sono stati sterminati molti briganti, il viaggio è meno rischioso, ma è sempre meglio essere prudenti.

 

Un bel giorno di sole Jakhrab e Boratni convincono Muskinoc a scendere con loro al fiume. Fino a ora il guaritore è uscito dalla fortezza quasi solo per raccogliere le erbe. Raggiungono uno degli isolotti vicini alla riva. Si spogliano e nuotano nel fiume. Muskinoc è un buon nuotatore: non ha la potenza di Boratni, ma è molto agile e si muove con grande sicurezza.

Come al solito ci sono altri guerrieri, sparsi tra le varie isole. Alcuni sono impegnati in un torneo di lotta, uno dei passatempi preferiti degli uomini della guarnigione. Una coppia si apparta e si mette a scopare.

Boratni vede che Muskinoc li osserva. Sorride e chiede:

- Dove vivevi, non avevi qualcuno? Un compagno o una compagna, intendo.

- No, non ho mai amato, Boratni. E non ho mai neppure scopato.

I due amici sono stupiti. Muskinoc ha almeno trentacinque anni, forse qualcuno di più.

- Né con uomini, né con donne?

- No, con nessuno. Ma so che sarebbe un uomo.

- Ma… Non desideri?

- Non provo desiderio. Nessuno.

Boratni e Jakhrab sono rimasti senza parole. Muskinoc sembra come loro. Perché non desidera?

Infine Jakhrab riesce a dire:

- Da che cosa dipende? Non c’è rimedio? Tu che conosci tutte le erbe e i farmaci… Hai perfino curato il piede del maniscalco, che Lijeci pensava di dover amputare!

Muskinoc scuote la testa.

- Non è una malattia. Sono così. Il desiderio si risveglierà se amerò e sarò amato.

- Mi sembra incredibile, Muskinoc, anche se tante cose di te sono incredibili. Davvero non hai mai amato?

- No. Amerò una volta sola. E…

Muskinoc si interrompe, poi riprende:

- Inutile parlarne ora. Non so che cosa accadrà. La mia vita e la mia morte sono legate a quell’amore.

 

Malgrado le belle giornate di sole, alla fortezza c’è un certo malcontento tra i soldati e i guerrieri. Il rifornimento di sale non è arrivato e il cuoco è costretto a salare pochissimo il cibo.

Dvoboposte parla con il magazziniere, che si occupa degli approvvigionamenti.

- Comandante, non so che dire. Il sale viene portato due volte l’anno, all’inizio dell’autunno e all’inizio della primavera. Arriva dalle montagne, dalle miniere. Fino a ora è sempre arrivato regolarmente, ma adesso sono in forte ritardo.

- Manderò a chiedere sale a Samar. Spero che ne abbiano anche per noi.

- Dubito, poiché spesso si servono anche loro del sale delle montagne.

 

Proprio il giorno seguente, nel primo pomeriggio, arriva finalmente l’atteso carico di sacchi di sale.

Tutti sono contenti: in serata finalmente si mangerà qualche cosa di più gustoso.

Poco dopo il carro con i sacchi di sale arrivano Zlatorat e quattro soldati che sono andati in perlustrazione. Per loro il cuoco ha tenuto da parte un po’ di cibo, ma Zlatorat, quando lo assaggia, osserva:

- Non sa di niente. Eppure mi hanno detto che il sale è appena arrivato.

Il cuoco dice:

- Non ho ancora aperto i sacchi. Lo faccio subito e ne trituro un po’ per voi. Certo che hai delle belle pretese.

- Una bella pretesa, mangiare decentemente?

Poco dopo il cuoco sparge un po’ di sale sul cibo.

- Finalmente un piatto che sa di qualche cosa!

 

Il cuoco sta ultimando la cena: tra non molto ci sarà il primo turno del pasto serale. Zlatorat ha riposato nel pomeriggio e vuole parlare con Jakhrab, che mangerà con il primo gruppo. Esce in cortile per cercarlo e di colpo barcolla. Fa due passi e cadrebbe a terra se due soldati non lo vedessero e non lo sostenessero appena in tempo. Dalla bocca gli esce una schiuma rossastra e non riesce a respirare. Gli occhi sono dilatati dal terrore.

Lo afferrano e lo trasportano di corsa all’infermeria. Muskinoc lo fa stendere su uno dei letti e gli esamina le pupille. Poi prende un flacone e gli versa qualche goccia sulla bocca.

Intanto un soldato si precipita dentro dicendo che due guerrieri stanno malissimo.

Muskinoc risponde:

- Fateli portare subito qui. Di corsa. E controllate che non sia qualcuno nelle camerate o da qualche altra parte che sta male.

I due soldati vengono trasportati in infermeria. Hanno gli stessi sintomi di Zlatorat.

Poco dopo viene portato un terzo soldato, che ha già perso coscienza. Qualcuno osserva:

- Sono i soldati che sono andati con Zlatorat in ricognizione.

Muskinoc chiede:

- Sono tutti qui?

- No, ne manca uno. Erano quattro soldati.

- Cercatelo, presto.

Intanto Dvoboposte è stato informato e arriva mentre due guerrieri trasportano nell’infermeria l’ultimo soldato, anche lui incosciente e con la bava alla bocca. Sembra non respirare più.

- Che succede?

- Zlatorat e i quattro soldati che sono andati in ricognizione con lui. Stanno morendo. Bredan forse è già morto.

Dvoboposte vede che c’è troppa gente in infermeria. Li fa uscire tutti.

- Aspettate qui fuori. Se ci sarà bisogno di qualcuno, vi chiamerò.

Nell’infermeria rimangono Muskinoc, Lijeci e i cinque moribondi, oltre a Dvoboposte, che rimane vicino all’ingresso, senza dire nulla: non vuole disturbare il guaritore. Si rende conto che la situazione è grave e che ogni secondo è prezioso.

Muskinoc si muove in fretta. Impartisce ordini secchi a Lijeci e passa da un uomo all’altro rapidamente. Dvoboposte ammira la sicurezza di Muskinoc e l’efficienza di Lijeci: formano una coppia eccellente, che probabilmente ognuno dei sette re sarebbe felice di avere al suo servizio. Ma il caso – o il destino – li ha fatti finire in una fortezza sperduta all’estremo confine occidentale delle terre abitate dai figli di Eva e non in una delle corti regali. Buon per la guarnigione, che ha a disposizione i migliori medici.

Dvoboposte spera che riescano a salvare i suoi uomini. Teme che Bredan sia già morto e il rantolo e il respiro affannoso degli altri gli fanno pensare al peggio. Vorrebbe chiedere, ma evita di farlo. Rimane in silenzio, pronto a intervenire se c’è bisogno di lui.

Muskinoc ha versato loro qualche cosa in gola e poi un altro liquido sugli occhi. Si ferma più a lungo con Bredan, a cui somministra anche un altro farmaco.

Lentamente la situazione cambia. Gli uomini smettono di rantolare e il respiro diventa meno affannoso. Anche l’ultimo soldato sembra riprendere a respirare.

Dopo un buon momento tutti e cinque respirano regolarmente. Zlatorat e tre dei soldati riprendono coscienza nell’arco di pochi minuti. Tutti chiedono, ma Muskinoc li zittisce:

- Tacete, ora.

I quattro non dicono più nulla. Si guardano e osservano il guaritore, che ora spalma un unguento sul petto del soldato che è ancora incosciente, poi gli versa un liquido in gola, goccia a goccia. Tutti seguono come ipnotizzati i movimenti di Muskinoc, lenti e precisi.

La sua voce li riscuote:

- Lijeci, dà a loro quattro da bere l’estratto di jakatrava. Solo due dita.

Il medico versa in un boccale due dita da un flacone e lo porge a uno dei soldati. Questi beve, con una smorfia di disgusto: è amarissimo. Ma beve senza dire nulla e gli altri fanno lo stesso: ciò che dice il guaritore si fa, senza discutere. Sanno benissimo di essere stati tra le braccia della morte e ancora non sembra loro vero di averla scampata.

Bredan rimane incosciente. Muskinoc si fa portare un altro farmaco da Lijeci e glielo somministra. Poi si siede su una sedia accanto al letto.

Si rivolge agli altri.

- Scusate, ma non era il tempo per le domande. Lui era in pericolo mortale.

È Zlatorat a parlare, dicendo ciò che anche gli altri pensano:

- Credo che lo siamo stati tutti, vero, Muskinoc? Io ero sicuro di stare morendo.

- Sì, senza cure sareste già morti.

Dvoboposte fa due passi avanti.

- Posso chiederti qualche cosa, Muskinoc?

Il guaritore non si volta verso il comandante: continua a controllare il soldato che ancora dorme. Ma risponde:

- Sì, certamente. Direi che la situazione è sotto controllo e che se la sono cavata.

- Che cosa è successo, Muskinoc?

- Sono stati avvelenati, comandante. Lo stesso veleno usato per Jakhrab e gli altri, ma loro l’hanno ingerito, insieme a un’altra sostanza che ha ritardato l’effetto.

Dvoboposte si rivolge all’ufficiale:

- Avete mangiato o bevuto qualche cosa, durante la ricognizione?

È Zlatorat a rispondere.

- No, comandante. Nulla. Abbiamo mangiato quando siamo tornati. Le cose che il cuoco ci ha dato.

Dvoboposte apre la porta. Comunica ai soldati in ansia che sono tutti fuori pericolo e ordina di chiamare il cuoco. Non gli sembra il caso di far uscire gli uomini, anche se adesso sembrano stare bene. Sono tutti piuttosto scossi.

Il cuoco arriva subito.

- Kuhar, che cosa hanno mangiato loro?

- Loro? Le stesse cose che hanno mangiato tutti. Gliele ho tenute da parte. Ma è esattamente quello che ho dato agli altri.

- Qualcuno può aver avvelenato il cibo che avevi messo da parte?

- Non è possibile. C’ero io in cucina. Nessuno si è avvicinato e loro hanno mangiato esattamente…

Il cuoco si interrompe, poi dice:

- A meno che… il sale!

- Il sale?

- Ho aggiunto il sale che era appena arrivato. Zlatorat si lamentava che il cibo non sapeva di niente.

Zlatorat lo guarda e dice, truce:

- Io avevo chiesto del sale, non del veleno.

Dvoboposte dice ad alta voce, come riflettendo:

- Allora potrebbe esserci del veleno nel sale.

Poi si rivolge a Muskinoc.

- Muskinoc, puoi scoprire se c’è del veleno nel sale?

- Certo. Lasciami solo qualche minuto: voglio essere sicuro che anche questo soldato si riprenda.

Dvoboposte annuisce, anche se il guaritore non può vederlo, perché gli dà la schiena. Guarda Muskinoc, chino sul soldato, e pensa che questo figlio di Lilith dà sempre la priorità alla cura di chi sta male. Per lui ogni vita è importante. A volte, ripensando a quando ha guarito Jakhrab e i quattro soldati, sembra che la vita degli altri sia più importante della sua.

 

Infine Bredan riapre gli occhi.

- Che cosa è successo? Non riuscivo a respirare.

Dvoboposte risponde:

- Veleno. Puoi ringraziare Muskinoc, che vi ha tirati tutti fuori, quando avevate già due piedi nella fossa.

- Grazie, Muskinoc.

Al ringraziamento si uniscono anche gli altri. Non hanno potuto farlo quando hanno ripreso i sensi, ma ora possono parlare.

Zlatorat dice:

- Non so come tu sia giunto qui, non credo che ce lo meritassimo, ma evidentemente dobbiamo aver fatto qualche buona azione, tanto tempo fa.

Qualcuno ride. Un altro risponde:

- Tu? Dev’essere stato davvero molto tempo fa.

Muskinoc si alza.

- Preparo l’occorrente e poi possiamo andare. Questione di un attimo.

Prende un po’ della bevanda che ha utilizzato per combattere il veleno, un liquido rosso, e la mescola con un’altra, di un azzurro quasi trasparente. Agita un momento la boccetta in cui ha versato i due liquidi, che assumono un colore rosa, e non appena la schiuma in superficie si dissolve, dice:

- Possiamo andare.

In cucina c’è un recipiente in cui il cuoco ha versato il sale tritato. Muskinoc versa due gocce del liquido nel recipiente. Il sale diventa viola.

- Veleno.

- Vediamo i sacchi.

Nel magazzino ci sono i sacchi di sale. Uno è aperto. Muskinoc versa nuovamente poche gocce sul sacco aperto. In un attimo tutto il sale diventa viola.

- Veleno, tutto avvelenato.

Controllano gli altri sacchi. Il risultato è lo stesso.

Dvoboposte annuisce

- Ecco perché non arrivava il sale. Volevano che finissimo le riserve, per essere sicuri che questa sera mangiassimo tutti il veleno. Nel giro di qualche ora saremmo morti. Tutti.

Muskinoc annuisce:

- Un veleno che non agisce subito, perché così tutti sarebbero stati colpiti. Se fosse stato un veleno a effetto immediato, sarebbero morti solo i primi; sarebbe bastato che il cuoco assaggiasse quello che aveva preparato perché morisse e l’intero piano andasse a monte.

 

Dvoboposte dà ordine che nessuno lasci la fortezza interna. Non sa se nel recinto esterno possa esserci qualche traditore, in grado di comunicare con il nemico, per cui preferisce non correre rischi.

Poi indice una riunione degli ufficiali.

Racconta quanto è accaduto e ciò che ha scoperto grazie a Muskinoc.

- E adesso dite che cosa pensate.

Jakhrab è il primo ad esprimersi.

- Saremmo morti tra qualche ora. Soldati e guerrieri all’interno della fortezza. Non gli uomini della cinta esterna. Mi chiedo…

Dvoboposte ha intuito ciò che l’ufficiale vuole dire: è la stessa cosa che ha pensato lui.

- Se questa notte la fortezza non verrà attaccata?

Jakhrab annuisce.

- Sì, questa notte o domani. Ma questa notte mi sembra l’ipotesi più probabile. Tutti noi morti, a parte magari uno o due che per qualche motivo non avrebbero mangiato cena. Più nessuna difesa.

- Un attacco aereo, forse: una volta dentro la fortezza, occupare anche la cinta esterna sarebbe un gioco da ragazzi.

Un altro ufficiale osserva:

- Se vogliono occupare la fortezza. Altrimenti, se vogliono distruggere tutto, basta lanciare frecce incendiarie dalle torri.

- Il problema è capire le loro intenzioni.

- E che forze dovremo affrontare.

- Una cosa è certa: dobbiamo sfruttare il vantaggio che ci dà la sorpresa. Dobbiamo fargli credere che siamo tutti morti.

Dvoboposte annuisce.

- Abbiamo alcune ore per organizzarci. Ci rivediamo un po’ subito dopo cena. Una cena senza sale, mi sa.

 

Dvoboposte passa in infermeria. Vuole parlare ancora con il guaritore.

- Muskinoc, vorrei chiederti alcune cose, capire che cosa ne pensi.

- Dimmi, comandante.

- La prima è questa: chi voleva da te il veleno e ha dato ordine di ucciderti potrebbe essere lo stesso che ha cercato di avvelenare Jakhrab e gli altri? Facendoti uccidere era sicuro che tu non potessi intervenire a salvarci.

- Sì, è possibile, se in qualche modo sospettava che io potessi trovarmi alla fortezza e intervenire. Non so come potrebbe aver pensato a questo, visto che io non avevo mai detto a nessuno che sarei venuto qui, ma può aver letto qualche antica profezia o parlato con qualcuno che sa leggere i segni.

- In questo caso ha ottenuto proprio il risultato opposto a quello desiderato. Ma dimmi una cosa: perché affermi di non aver detto a nessuno che saresti venuto qui? Sapevi che saresti arrivato?

- Sì, lo sapevo. Non chiedermi come. Te l’ho già detto: ci sono cose che so, ma non so spiegare. Cose che accadranno. Venire qui non era mia intenzione, ma sapevo che sarebbe successo.

- Sai qualche cosa di quello che accadrà questa notte?

Muskinoc scuote la testa.

- No. Nulla. Non prevedo il futuro, ma a volte so che accadrà una cosa.

 

 

È notte. La fortezza è avvolta nel silenzio: nessun passo risuona sulle mura o nel cortile, non si sente nessuna voce umana. Non ci sono torce o lanterne: tutte le stanze sono immerse nel buio e solo la luce lunare permette di scorgere parecchi corpi stesi a terra nel cortile, immobili. Nulla si muove.

Il siskri vola lentamente, basso sopra il fiume. Arrivato al guado, si dirige verso la fortezza, salendo rapidamente con un volo a spirale, che lo porta fino alla cima della torre più alta. Di lì gira tre volte sul cortile, abbassandosi progressivamente, poi risale e si allontana verso est, da dove è venuto.

Qualche minuto dopo contro il cielo si stagliano una ventina di figure alate. Man mano che si avvicinano alla fortezza, è possibile vedere che ognuna di esse porta sulle spalle un uomo.

Arrivati vicino alla fortezza, due di queste figure si staccano dalle altre, spingendosi fin sopra il cortile. Dopo un rapido giro di ricognizione, ritornano vicino alle altre. Un uomo alza un braccio e tutto il gruppo si muove, supera le mura e scende all’interno. Atterrano nel cortile, tra i corpi immobili stesi al suolo.

- Tutti morti. Carobni ha fatto un buon lavoro.

- Non c’è proprio nessun segno di vita, nella fortezza.

- Hanno cenato tutti e sono morti tutti. Benissimo. Adesso facciamo un giro di perlustrazione, per verificare che nessuno sia scampato, anche se direi proprio che non è così. Poi ci occuperemo del resto.

L’uomo si guarda intorno, poi dice:

- Allora, vi dividete in gruppi di due…

Una voce risuona, forte, alle spalle degli uomini riuniti, interrompendo quello che parla:

- Credo che tu abbia sbagliato i conti.

Dai locali che si affacciano sul cortile stanno uscendo uomini armati che si dispongono intorno ai nuovi arrivati.

- Dei sopravvissuti! Merda!

Gli assalitori si preparano a combattere, ma mentre avanzano per affrontare l’avversario, gli uomini stesi a terra si alzano e li attaccano. Gli assalitori si trovano presi tra due fuochi e in netto svantaggio numerico: ci sono almeno due o tre guerrieri a fronteggiare ognuno degli attaccanti. Cercano di resistere, ma sono incalzati da tutte le parti. Alcuni cadono, colpiti. Non c’è nessuna possibilità di difendersi, per cui il combattimento si conclude subito.

L’uomo che guida il gruppo salta su un siskri e grida:

- Via, via, presto!

Il siskri si leva in volo.

I fratelli Drogorato si lanciano verso i siskri, allontanando a spintoni i loro compagni che stanno cercando di fare altrettanto. Ma uno dei soldati colpisce Drogorob alla coscia, mentre questi già sta salendo sul siskri. La lama penetra in profondità e quando il siskri si alza in volo, Drogorob cade a terra. Un altro dei fratelli, Drogosne, non riesce a raggiungerli e viene bloccato dai soldati. Gli altri tre salgono in groppa alle loro cavalcature alate e insieme a loro solo un altro degli assalitori: molti siskri, comprendendo il rischio mortale, si stanno levando in volo, senza aspettare gli uomini. Qualcuno di loro viene ucciso prima di riuscire a decollare.

Anche per quelli che sono riusciti a staccarsi da terra la morte è in agguato: dalle torri i soldati scagliano lance e frecce. Uno dei fratelli Drogorato viene raggiunto da una freccia che gli attraversa il petto. Grida e cerca di reggersi ugualmente, ma non riesce più a stare a cavalcioni sul siskri: ondeggia e infine precipita, sbattendo contro una torre e poi sfracellandosi nel cortile. Un altro vede la sua cavalcatura abbattuta da una lancia mentre già sta per superare le mura e cade con un grido di angoscia. Riesce ad aggrapparsi con le mani al cammino di ronda, ma le braccia non reggono a lungo: quando cedono, precipita nel cortile, infilzandosi sulle lance che tre soldati hanno levato, vedendolo cadere.

Solo sette siskri scampano e solo due di loro portano uomini: Drogotreci, il minore dei fratelli, e colui che guidava il gruppo.

La fuga del capo spegne ogni tentativo di resistenza. Nel cortile gli ultimi assalitori si arrendono. Nove degli attaccanti sono morti e altri nove prigionieri, di cui tre feriti. Tra la guarnigione solo tre uomini sono stati colpiti.

Dvoboposte dà gli ordini. Fa portare subito in infermeria i soldati feriti, in modo che Lijeci e Muskinoc possano curarli, e dà ordine di legare i prigionieri e portarli nelle celle. 

Poi manda due ufficiali e otto soldati a fare un giro di ricognizione completo, anche se è chiaro che nessuno degli assalitori è ancora nella fortezza, a parte quelli catturati: è bene controllare che qualcuno non si sia infilato in un angolo buio, per sfuggire alla cattura.

Stabilisce tra gli altri i turni di guardia sulle mura e sulle torri, che questa notte saranno doppi: un nuovo attacco è da escludere, ma è meglio vigilare.

Invia un altro ufficiale e quattro soldati nel recinto esterno, a controllare che tutto sia a posto, ma anche da quella parte non dovrebbero esserci problemi. C’erano alcuni guerrieri che vigilavano, oltre alle solite sentinelle sulla cerchia esterna, ma nessuno ha dato l’allarme.

Altri soldati infine, sotto la direzione di Zlatorat, dovranno occuparsi di sgomberare il cortile dai corpi, accatastandoli dove non ingombrino.

- Domani poi ci occuperemo di caricarli su un carro. Seppelliremo i siskri e impiccheremo i cadaveri degli uomini.

Zlatorat scuote la testa e mormora, pianissimo:

- Sempre il becchino mi tocca fare!

Lo sente solo Jakhrab, che è vicino a lui, e gli molla una gomitata, ghignando.

Il comandante conclude dicendo a quattro soldati di rimanere a disposizione, per andare a prendere i prigionieri per l’interrogatorio e ad altri due di fermarsi alla porta dell’infermeria, fino a che il medico e il guaritore non diranno loro che possono andarsene.

- Tutti quelli che non hanno ricevuto incarichi devono andare a coricarsi: alcuni di voi avranno i successivi turni di guardia nella notte. Tutti gli ufficiali dovranno presentarsi per una riunione nella sala, dopo aver svolto i loro compiti.

 

La riunione sta per incominciare: manca solo uno degli ufficiali, quando uno dei soldati comunica a Dvoboposte che il guaritore gli vuole parlare. Il comandante va alla porta, dove Muskinoc attende.

- Comandante, ti chiedo il permesso di curare i feriti.

- Pensavo che li avessi già…

Dvoboposte si interrompe: ha capito che cosa intende dire Muskinoc.

- Gli assalitori? Vuoi curare anche loro?

- Sì.

- Sai che tra i feriti c’è Drogorob, il capo di quelli che ti hanno quasi ammazzato?

- Sì, ho visto mentre lo portavano via.

- E vuoi curarlo?

- Sì.

Dvoboposte scuote la testa. È assurdo, doppiamente assurdo perché per questi uomini c’è solo la morte e perché il guaritore è stato quasi ucciso da loro. Ma a Muskinoc non può negare nulla.

- Verranno impiccati, ma se vuoi curarli, non sarò io a impedirtelo. Prima però voglio procedere con gli interrogatori.

Il comandante fa chiamare Boratni.

- Muskinoc vuole curare i feriti. Lo accompagnerai tu, insieme a due altri soldati. Che non faccia imprudenze. Ma solo dopo gli interrogatori.

Dvoboposte guarda il guaritore e aggiunge, sorridendo:

- È completamente pazzo, ma come faccio a dirgli di no?

Boratni sorride. È perfettamente d’accordo con il comandante.

 

La riunione non richiede molto tempo: prima di poter prendere decisioni significative bisogna interrogare i prigionieri e capire chi ha organizzato la spedizione e perché. Gli ufficiali si limitano a riferire il risultato delle operazioni di controllo. Tutto sembra essere a posto: nessuno degli aggressori è sfuggito alla cattura, a parte i due che si sono levati in volo, e non c’è stata nessuna azione contro il borgo nel recinto esterno.

Dvoboposte decide di passare agli interrogatori. Entra nella cella e guarda i nove prigionieri, per scegliere chi sentire per primo. Alcuni sono chiaramente delle bestie, disponibili a lanciarsi in qualunque impresa nella speranza di un guadagno. Da loro probabilmente non c’è molto da sapere: è difficile che possano fornire molte informazioni, a parte il nome del capo. Di sicuro i due fratelli Drogorato ne sanno di più, ma Dvoboposte preferisce interrogarli dopo essersi fatto un’idea precisa della situazione. Tra gli uomini ammassati nella cella ce ne sono solo due o tre che sembrano intelligenti e che con ogni probabilità hanno un’idea più precisa dell’impresa a cui hanno partecipato.  

Dvoboposte sceglie un uomo sui trenta-trentacinque anni, di corporatura massiccia: è un maschio forte, con cui forse sarà necessario usare metodi un po’ rudi, ma che di certo è in grado di fornire le informazioni che servono.

L’uomo viene portato in un’altra stanza sotterranea, utilizzata per gli interrogatori.

- Chi sei?

L’uomo guarda il comandante, senza dire nulla. Poi alza le spalle e risponde:

- Mi chiamo Tezak.

- Abbiamo alcune domande da farti.

Tezak ghigna.

- E perché mai dovrei rispondere? Tanto mi impiccherete.

- Su questo non posso darti torto, ma magari potresti scegliere di rispondere per arrivare alla forca sulle tue gambe e non trasportato a braccia perché non riesci più a camminare. Magari ti piacerebbe avere i coglioni non ridotti in poltiglia, le orecchie al loro posto, i denti in bocca, gli occhi nelle orbite, le unghie alle dita, le dita intere, il buco del culo non bruciato da un ferro rovente, il cazzo non ridotto a un moncherino e alcuni altri piccoli problemi. Abbiamo diversi modi per far parlare i prigionieri e ti garantisco che intendo usarli tutti. Può darsi che con te non funzionino. Se è così, dopo averli sperimentati tutti, nessuno escluso, su di te, li proveremo su altri. Sai anche tu che qualcuno con cui funzionano lo troviamo. Non è un problema.

Tezak annuisce. Si rende conto che il comandante ha ragione. Se non parla lui, parlerà qualcun altro. E tutto sommato preferisce non essere torturato per ore e ore. Che senso avrebbe? Non è un guerriero che ha rischiato la vita in una missione in nome di qualche principio o ideale: ha agito nella speranza di un buon guadagno. Ne ha ricavato la morte: non è il caso di aggiungere torture e sofferenze.

- Che cosa vuoi sapere, comandante?

- Incomincia a dirmi chi siete, chi vi guida e perché avete attaccato la fortezza.

- Siamo uomini che per un motivo o un altro hanno lasciato la loro terra, per non finire… come finiremo molto presto, lo so benissimo. Ci guida Zaomale, che è scappato, quel bastardo, dopo averci portato a morire.

- Zaomale? Della famiglia degli Zaorato?

- Sì, tre anni fa avete catturato e impiccato tre dei fratelli Zaorato. Lui è l’unico a essere scampato. Zaomale ha deciso di vendicarsi, sterminando la guarnigione. Così contava anche di riuscire a conquistare la fortezza.

Dvoboposte si chiede perché mai conquistare la fortezza: come avrebbero potuto tenerla nelle loro mani? Sicuramente da Samar sarebbe stato inviato un esercito e venti banditi non avrebbero potuto resistere a lungo.

- Pensava di poter tenere a lungo la fortezza?

L’uomo fa un cenno di diniego.

- No, ma ormai è primavera e nei prossimi giorni arriveranno alcune carovane di mercanti con carichi importanti. Occupando la fortezza, Zaomale pensava di potersi impadronire dei loro carichi: li avremmo presi di sorpresa. Prima che qualcuno riuscisse a raggiungere Samar raccontando che la fortezza era in mano nostra e che arrivassero delle truppe, avremmo avuto il tempo di conquistare il carico di almeno due o tre carovane e poi ci saremmo dileguati. Se anche fosse arrivato l’esercito prima che facessimo in tempo a scappare, saremmo fuggiti la notte sui siskri.

- Da dove siete partiti?

- Zaomale ci aveva dato appuntamento non lontano da qui, in una radura vicino a un lago.

- Sai dove si rifugia Zaomale?

- No, ci siamo ritrovati nella radura che ci aveva indicato.

- Chi altri c’è con lui?

- Nessuno, che io sappia. Ha arruolato un po’ di gente, direttamente, perché li conosceva, come i fratelli Drogorato, o attraverso altri. So che si è rivolto a Carobni, un esperto di farmaci che vive anche lui nella Foresta Purpurea. È lui che ha preparato il veleno. E poi…

- E poi?

- E poi Zaomale ha parlato con qualcuno che sapeva prevedere il futuro. Col cazzo, che sapeva prevederlo! Merda! Gli ha detto che avremmo conquistato la fortezza, se non ci fosse stato il guaritore. Ma a quanto pare non l’abbiamo conquistata.

Dvoboposte non dice nulla. L‘uomo che sa prevedere il futuro aveva visto giusto, ma per fortuna il guaritore non è stato ucciso. I vari pezzi stanno andando al loro posto. I fratelli Drogorato avevano davvero l’incarico di uccidere Muskinoc, ma per guadagnare qualche cosa hanno preferito venderlo e si sono fottuti da soli.

Dvoboposte fa interrogare altri due prigionieri, che confermano quanto ha detto il primo e non forniscono nessun altro elemento significativo. Poi fa portare Drogorob, che non può camminare. Non gli rimane molto da scoprire, ma ad ogni buon conto vuole sentire anche questo figlio di puttana.

- Allora, Drogorob, so più o meno quanto c’è da sapere. Tu mi devi dire perché avete catturato il guaritore.

Drogorob sputa a terra, senza dire nulla, e lo guarda con un atteggiamento di sfida.

- Non intendi rispondere?

Dvoboposte fa un cenno a Strasan, che fa da boia e anche da torturatore, quando serve. Dvoboposte ha scelto con cura gli uomini da tenere alla fortezza, in base ai compiti che avrebbero dovuto svolgere, e Strasan sa come far parlare un uomo. Si avvicina a Drogorob, gli abbassa i pantaloni, gli afferra i coglioni e ci giocherella un po’, con le sue mani grosse e forti. Il prigioniero si tende. A tratti una smorfia di dolore gli appare in faccia.

- Che cazzo fai?

- Ah, vedo che adesso la voce l’hai ritrovata. Intendi rispondere?

Drogorob scuote la testa. Dvoboposte fa di nuovo un cenno.

Strasan stringe con forza. Drogorob sbianca in viso. Sente la pressione sui coglioni divenire sempre più dolorosa. Infine grida:

- No, no!

- Intendi parlare?

Drogorob non dice nulla. Il boia stringe ancora. Un sorriso di soddisfazione gli appare in viso e il rigonfio nei pantaloni non lascia dubbi sul piacere che prova. Andrebbe volentieri fino in fondo, ma Drogorob grida:

- Basta! Basta!

- Allora, collabori?

Drogorob fa un cenno affermativo con il capo. Goccioline di sudore gli scendono sulla fronte.

A un segnale del comandante, il soldato allenta la presa.

- Come ti ha contattato Zaomale?

- In passato avevamo fatto alcune azioni insieme, con i fratelli Zaorato. Sapeva dove trovarci.

- Che cosa c’entra il guaritore?

- Qualcuno gli aveva parlato di questo guaritore e lo aveva avvisato che se fosse stato alla fortezza non saremmo riusciti a conquistarla. Zaomale ci chiese di catturarlo e di fargli preparare un veleno da mettere nel sale. Poi dovevamo ucciderlo.

- Ma lui non accettò di preparare il veleno.

- No, così perdemmo quello che ci aveva promesso Zaomale se l’avessimo convinto.

- Per quello decideste di venderlo?

- Sì. Non poteva certo lui impedirci di conquistare la fortezza.

Dvoboposte annuisce. Le cose sono andate come aveva pensato.

 

Quando l’interrogatorio si conclude, Drogorob viene riportato nella cella, insieme agli altri prigionieri. Muskinoc entra, seguito da Boratni e da due soldati. Si rivolge ai feriti.

- Sono venuto a curarvi.

Drogorob sibila:

- Tu non mi toccare.

Muskinoc lo ignora. Uno dei feriti geme in continuazione: ha un taglio alla gamba e uno al braccio. Il guaritore si inginocchia vicino a lui. Sparge un liquido sulle due ferite, facendo sussultare l’uomo, poi spalma un unguento sulla gamba e infine benda il tutto.

Il ferito lo guarda, stupito.

- Che cosa hai messo? Non mi fa più così male. È quasi passato.

- Un unguento che intorpidisce un po’ la gamba. Così senti meno il dolore, mentre la ferita si rimargina.

- Grazie.

Dopo di lui, il guaritore si occupa della ferita di un secondo prigioniero. Quando ha finito si alza e si mette davanti a Drogorob.

- Io sono disposto a curarti.

- Va’ a farti fottere, bastardo. Creperai, creperai anche tu.

Muskinoc annuisce e se ne va. Boratni ha seguito lo scambio, senza capire. Mentre risalgono le scale che portano al cortile, chiede:

- Perché quello non ha voluto farsi curare?

- È il capo di quelli che mi hanno malmenato.

Il guerriero si ferma, come fulminato.

- Quello? Io…

Boratni si è già voltato per scendere nuovamente nella cella: non sa che cosa intende fare, non ci ha pensato, ma una rabbia feroce si è impadronita di lui. Quel bastardo deve pagare. Muskinoc gli mette una mano sul braccio.

- Boratni!

Il guerriero si volta verso di lui e gli dice:

- E tu eri disposto a curarlo?

- Sono un guaritore.

- Sei…

Boratni scuote la testa. Non sa che cosa dire.

- Boratni, promettimi che non farai niente contro di lui.

Il guerriero ripete lo stesso movimento del capo.

- Ne approfitti perché sai che a te non posso dire di no.

Muskinoc sorride:

- Sì, credo che tu abbia ragione.

- E va bene, non lo meno. Mi consolo soltanto perché so che finirà impiccato presto. Però certo che tu sei…

Boratni non completa la frase. Prova un moto d’affetto per il suo amico e vorrebbe abbracciarlo, ora.

 

Il sole è spuntato. Nella cella i prigionieri si sono risvegliati.

- Ci impiccheranno. Dovevamo trovarli tutti morti… Merda! Che piano del cazzo!

- Non ha funzionato.

Tezak digrigna i denti e dice:

- Drogorob.

Drogorob alza la testa. Il dolore alla ferita lo tormenta e non ha voglia di parlare. La voce tradisce il fastidio che prova:

- Che c’è?

- Quello che è venuto a curarci, non è il guaritore? Quello che Zaomale ti aveva ordinato di uccidere?

Drogorob non risponde. Tezak insiste:

- Perché cazzo è qui, vivo? Eh? Rispondimi, stronzo!

- E che cazzo ne so?

- E che cazzo ne sai? Pezzo di merda! Hai detto che l’avevate ucciso. È stato lui a salvarli e adesso siamo fottuti.

Drogorob sa bene che l’uomo ha ragione, almeno in parte.

- Non può averli salvati lui. Il veleno dà la morte in pochi minuti da quando incomincia a fare effetto.

- Merda! È colpa tua se siamo fottuti, se hanno ammazzato gli altri e ci impiccano.

A rispondere è Drogosne, il fratello di Drogorob, l’unico ancora vivo nella fortezza:

- Piantala, Tezak. Non cambia niente, ormai.

Tezak si è alzato. Ora è davanti a Drogosne

- Non cambia niente, stronzo? Non cambia niente? Avevate il compito di farvi dare il veleno e poi ammazzare il guaritore, perché se fosse stato qui non avremmo conquistato la fortezza, ce l’avevano detto. E l’avete lasciato andare! Schifosi pezzi di merda.

Tezak sputa su Drogosne. Questi fa per alzarsi ma Tezak gli molla una ginocchiata ai coglioni: un colpo dato con estrema violenza. Drogosne strabuzza gli occhi ed emette un gemito strozzato, si piega su se stesso e crolla a terra. Tezak gli sferra un calcio in faccia, poi un secondo. Si sente il rumore delle ossa che si rompono e il sangue sgorga copioso dalla bocca e dal naso di Drogosne.

Drogorob non può alzarsi: la gamba ferita non lo regge. Grida:

- Lascialo, figlio di puttana.

Tezak si volta verso di lui.

- Ce n’è anche per te. Colpa vostra, se crepiamo.

Avanza verso Drogorob.

- Che cazzo vuoi fare? Che…

La frase si interrompe: Tezak gli ha vibrato un calcio in faccia. Drogorob sputa due denti e sangue. Gli altri seguono senza intervenire. Sanno che Tezak ha ragione e poi i fratelli Drogorato stanno sul culo un po’ a tutti: forti, belli, sicuri di sé, sempre pronti a spalleggiarsi, convinti di essere migliori degli altri.

- Merda, vigliacco…

Un secondo calcio. E poi un terzo, ai coglioni. Drogorob vede il mondo scomparire, risucchiato in un vortice di puro dolore.

I soldati fuori dalla porta hanno sentito i rumori. La cella viene aperta. Entra Boratni, che è di turno, con un altro guerriero. Vede Drogorob che vomita sangue. Si rivolge all’altra guardia e dice:

- Affari loro. Lasciamo che se li regolino come vogliono.

Boratni sa che Muskinoc non approverebbe, forse anche il comandante non sarà contento, ma l’idea che Drogorob venga malmenato gli fa piacere.

- Ma, Boratni… il comandante…

Con un cenno della testa Boratni indica Drogorob.

- È stato lui a ridurre Muskinoc in fin di vita.

Il guerriero è uno di quelli avvelenati dal sale. Guarda Drogorob e freme.

- Quel bastardo!? Quasi quasi do anch’io una mano a menarlo.

Boratni ride. I due guerrieri escono.

La furia di Tezak non si è placata.

- Ci avete fottuti, tutti, voi cinque. E avete pure provato a scappare, schifosi vigliacchi.

In effetti tre dei fratelli sono riusciti a salire sui siskri e a levarsi in volo, anche se solo uno è scampato.

Un altro dei prigionieri dice:

- Tuo fratello mi ha spinto a terra, per salire lui sul siskri, quel figlio di puttana. Sono contento che sia finito infilzato dalla lance.

Tezak riprende:

- Ci avete fottuto, ma adesso vi fotto io, bastardi.

Tezak muove le mani legate dietro la schiena, in modo da abbassarsi i pantaloni, poi si sfila le calzature e si libera dell’indumento.

Il prigioniero che ha parlato prima dice:

- Sì, fottili, come facevi con quelli che prendevamo. È quello che si meritano.

Gli altri, che fino a ora hanno seguito la scena indifferenti, prestano attenzione. Qualcuno ridacchia, osservando il grosso cazzo di Tezak: lo hanno visto diverse volte in azione, perché gli piaceva stuprare i mercanti catturati prima di ucciderli.

Tezak continua:

- Adesso mi gusto il tuo culo, figlio di puttana.

Drogorob alza la testa. Cerca di dire qualche cosa, ma Tezak gli molla altri due colpi in faccia. Poi lo volta sulla pancia e con il piede manovra in modo da abbassargli i pantaloni e scoprirgli il culo. Si siede sulle sue gambe.

- Ti fotto, bastardo, ti fotto!

Gli altri prigionieri guardano, interessati. Due si alzano, per vedere meglio.

A Tezak sta venendo duro. Il cazzo è davvero grosso e ha un colorito più scuro del resto del corpo.

- Prima di essere impiccato, mi gusto il tuo culo.

Uno degli altri prigionieri commenta:

- Poi ce lo gustiamo anche noi.

Un altro, più impaziente, dice:

- Io mi prendo il fratello.

Drogosne è ancora incosciente, ma quando l’uomo che ha parlato gli cala i pantaloni con il piede, si riscuote. Due altri calci in faccia lo ammansiscono e poco dopo anche Drogosne è pronto.

Tezak si stende su Drogorob. Con le mani legate dietro la schiena gli ci vuole un momento per centrare il buco e spingere il grosso cazzo ben dentro. Drogorob geme. Tezak fotte con energia. Vuole godere per l’ultima volta e vuole umiliare e far soffrire questo figlio di puttana che per quattro soldi ha provocato la loro rovina.

Un altro prigioniero intanto incula Drogosne. Ogni tanto uno dei due fratelli geme o cerca di muoversi, ma un calcio ben assestato spegne ogni velleità di resistenza.

Uno dopo l’altro tutti i prigionieri, tranne uno dei feriti, fottono i due fratelli: non vogliono togliersi la possibilità di godere un’ultima volta. Quando hanno finito, dal culo dei due Drogorato colano sangue e sborro.

 

Quando vengono a prenderli per impiccarli, i Drogorato non sono in grado di stare in piedi.

Dvoboposte chiede ai soldati di guardia:

- Che cazzo è successo?

Boratni si fa avanti.

- Colpa mia, comandante. Ci siamo accorti che li stavano menando, ma ho detto io di lasciar perdere.

Dvoboposte sa benissimo perché Boratni ha agito così. Annuisce.

- Va bene. Sei in punizione. Non uscirai per tre giorni.

Poi aggiunge, ghignando:

- Rimarrai nella camera di Jakhrab.

 

Gli uomini vengono portati fuori dal recinto esterno. Le forche sono state montate.

Da una già pendono i cadaveri degli uomini uccisi durante l’attacco.

A ognuno dei condannati viene passato un cappio intorno al collo. Poi una scala viene appoggiata alla trave superiore della forca e il boia sale, tenendo in mano la corda del cappio di un prigioniero. Costui è costretto a salire i gradini, perché altrimenti la corda lo strangolerebbe prima ancora dell’impiccagione. Il boia lega la corda saldamente alla trave, poi con un calcio fa scivolare dalla scala il condannato. Uno dopo l’altro tutti i prigionieri subiscono la stessa sorte. I fratelli Drogorato e i due feriti vengono sollevati con l’aiuto di due soldati.

Quando gli ultimi vengono impiccati i primi sono già morti. Qualcuno, più fortunato, viene ucciso sul colpo dal salto, che gli rompe l’osso del collo. Qualcun altro, come Tezak, agonizza più a lungo, agitandosi convulsamente e suscitando le risate dei soldati. Diversi perdono il controllo della vescica e degli sfinteri.

I cadaveri rimarranno alcuni giorni appesi, come monito per tutti i briganti.

 

Il giorno dopo l’impiccagione, Dvoboposte scende al fiume con Muskinoc, Jakhrab e Boratni. Raggiungono una delle isole e nuotano un po’ nel fiume. Poi si siedono sulle rocce.

Dal punto in cui si sono messi, si vedono le forche, sulla riva. Dvoboposte guarda gli impiccati e dice:

- Muskinoc, non so quanti di noi sarebbero ancora vivi, senza di te.

- Non ho affrontato gli assalitori.

- No, ma salvando Zlatorat e gli altri, ci hai permesso di scoprire che il veleno era nel sale. Magari ti salvavi tu, non mangiando la minestra preparata da Kuhar.

- Nel qual caso sarei di nuovo finito nelle mani dei Drogorato. Posso dire che tutto sommato avrei preferito il veleno?

- Ci credo. Ma se penso che li hai curati…

- No, Drogorob si è rifiutato. Non ha voluto farsi curare da me.

C’è un momento di silenzio. Jakhrab interviene:

- E adesso che farà Zaomale?

- Da quel che hanno detto i prigionieri, non ha più nessun uomo, a parte l’ultimo dei fratelli Drogorato. Dubito che possa fare molto.

- Non credo che rinunci alla vendetta.

Muskinoc dice:

- No, non rinuncerà.

Tutti lo guardano.

- È una cosa che sai?

- Sì.

- Che cos’altro sai?

- Che la tua vita è a rischio, comandante.

- Solo la mia?

- Anche la mia.

- È possibile fare qualche cosa per sventare il pericolo?

- Ora no. Quando verrà il momento sì.

- Ma naturalmente non sai quando verrà il momento.

- Lo saprò solo quando verrà.

Dvoboposte ride. Punta l’indice contro Muskinoc e gli dice:

- A volte sembra che tu lo faccia apposta.

Muskinoc scuote la testa.

- Non è colpa mia. Non sono un indovino o un veggente.

C’è un momento di silenzio, poi Boratni dice:

- Ci facciamo un altro bagno?

Muskinoc risponde:

- Volentieri.

Si alza e cammina verso l’acqua. Dvoboposte lo guarda. Il guaritore ha un bel corpo e un gran bel culo. Al comandante piacciono i culi dei maschi adulti, assai più di quello dei giovani.

Ma è Muskinoc, il suo guaritore…

Mentre lo segue, Dvoboposte pensa che Muskinoc è buono, generoso, altruista. È diverso da tutti gli uomini che ha conosciuto. In realtà non è un uomo, dovrebbe essere un figlio di Lilith, ma questo non significa niente.

 

*

 

È notte fonda. Il cielo è coperto e solo ogni tanto la luna appare tra le nubi che il vento spinge verso sud. I due siskri volano basso, poco sopra le cime degli alberi. Giunti al fiume, uno supera la Grande Corrente e si solleva, infilandosi in una valle scoscesa. L’altro procede verso sud, avvicinandosi al guado di Dubokvoda.

La sagoma oscura della fortezza appare sempre più vicina. Il siskri si abbassa ancora, passando sotto le chiome degli alberi più alti, per evitare che dalle mura qualcuno possa vederli. Si ferma al limitare del bosco.

- Non vado oltre.

Drogotreci scende dalla sua cavalcatura.

- Va bene, aspettami qui.

- Non tardare. Voglio essere lontano prima dell’alba.

Drogotreci ha un movimento di impazienza, che reprime. Il disastro con cui si è concluso l’attacco alla fortezza ha spaventato i siskri. Alcuni hanno preferito andarsene e solo offrendo molto oro Zaomale è riuscito a mantenerne due al suo servizio. Ma non vogliono correre rischi. D’altronde i siskri non hanno una natura guerriera.

- Non temere.

Drogotreci si dirige verso la fortezza. Rimane all’ombra degli alberi: adesso che è a piedi, preferisce non essere avvistato, perché non potrebbe allontanarsi in fretta. Se uscissero uomini a cavallo per catturarlo, il siskri probabilmente si spaventerebbe e scapperebbe via.

Drogotreci giunge infine ai piedi della collina su cui sorge la fortezza. Ora le forche sono illuminate dalla luna. Drogotreci conta i corpi: è inutile, sa benissimo che i suoi fratelli sono tutti lì, ma vuole essere sicuro. Diciotto cadaveri penzolano e il vento che ora soffia dai monti porta il fetore della decomposizione. Uno di questi giorni li bruceranno, come hanno fatto in passato con gli altri banditi che hanno catturato.

 

L’altro siskri si è posato su uno spuntone roccioso sul fianco della montagna, vicino a un’apertura scavata nella pietra. Zaomale scende e raggiunge l’ingresso. Accende la lanterna che ha portato con sé e varca la soglia. All’interno una scala scende nelle viscere del monte. Zaomale la percorre, lentamente. Man mano che procede, la temperatura aumenta. Ben presto il calore diviene soffocante.

Infine la scala termina e Zaomale si trova in una vasta sala, con un alto soffitto a volta. Un uomo nudo è in piedi in mezzo alla stanza, una corona in testa, un libro aperto davanti a sé.

- Ti aspettavo, Zaomale.

Il bandito non si stupisce: sa che il veggente è in grado di leggere i segni del destino e di prevedere il futuro. Prende dalla tasca un rubino, un diamante e uno smeraldo e li depone in una ciotola: sono il prezzo da pagare per il responso.

- L’impresa è fallita, Snagaor.

- Certo.

- Avevi detto che ce l’avremmo fatta, che avremmo conquistato la fortezza.

Snagaor scuote la testa. Sa quanto è successo, con assoluta precisione, perché è scritto nel libro del passato, le cui pagine si riempiono man mano che gli eventi accadono. Mentre il libro del futuro ha spesso segni incompleti e cangianti, che non è facile leggere, quello del passato non nasconde nulla a chi è in grado di aprire le sue pagine.

- Zaomale, ti avevo avvertito. Avreste conquistato la fortezza solo se non ci fosse stato il guaritore.

Zaomale non capisce.

- Che cosa? Il guaritore? È morto.

- Il guaritore è vivo e si trova alla fortezza.

- I Drogorato mi hanno detto di averlo ucciso.

- Hanno mentito. Lo hanno venduto al comandante, per sette pezzi d’argento, il prezzo che era scritto nel libro del futuro. E lui ha guarito tutti gli uomini avvelenati. Così hanno indagato e hanno potuto capire che il veleno era nel sale.

Zaomale digrigna i denti. Quei bastardi dei fratelli Drogorato! Sono morti tutti, tranne Drogotreci. Hanno avuto quel che si meritavano. Anche Drogotreci pagherà.

- Voglio vendicarmi. Voglio distruggere la fortezza, ucciderli tutti.

Snagaor annuisce, sorridendo. Gli uomini hanno spesso progetti ambiziosi e credono di poter ottenere facilmente ciò che vogliono.

- E come pensi di fare?

- Per quello sono venuto qui. Ho bisogno di un consiglio. Ci deve essere un modo per uccidere il comandante e i soldati. E il guaritore.

- Se uccidi il comandante, anche il guaritore morirà. Questo è scritto. Ma pensi davvero di riuscirci? Come?

- Potrei rivolgermi ai giganti di Orijaski? Se decidessero di attaccare la fortezza, non credo che i soldati riuscirebbero a difenderla.

- I giganti non sono interessati alla fortezza. E non c’è modo di convincerli a fare ciò che non vogliono.

- Non credi che potrei contattare i trog? Loro sono…

Snaogar ride, una risata aspra.

- Pensi davvero di poter mettere al tuo servizio le stirpi demoniache? Non si muovono certo per soddisfare il tuo desiderio di vendetta. Verrà un giorno in cui i trog scateneranno la loro furia contro Samar e se il guardiano della porta d’Occidente non riuscirà a fermarli, porteranno morte e distruzione nei sette regni, cancellandoli dalla faccia della Terra. Ma non sarà certo per te che gli eserciti del Male si metteranno in movimento.

- E un drago? Un drago potrebbe distruggere la fortezza con il fuoco.

Snaogar ride di nuovo. Poi scuote la testa.

- Zaomale, pensi davvero di poter far venire un drago dell’Est, per distruggere la fortezza? E come credi di convincerlo? Gli andrai a parlare? Gli offrirai qualche pietra, come per un mio consulto?

- I draghi sono avidi.

- Sì, ma possiedono tesori immensi. E non si muovono certo per qualche rubino o diamante. Ma poi, come lo raggiungeresti? Ci vogliono mesi di viaggio a cavallo e nessun siskri ti porterebbe nella terre dei draghi, se è a questo che pensi.

- Ci sarà ben qualcuno che vuole la distruzione della fortezza, qualcuno che per sete di ricchezza o di potere mi aiuterà.

- Ti avrebbe potuto aiutare il Signore delle Alture, che voleva scatenare una guerra tra le stirpi. Ma ha fallito e il suo corpo è bruciato nel rogo della sua dimora. Ora non c’è nessuno che abbia il potere di distruggere la fortezza e sia disponibile a farlo.

Zaomale abbassa il capo. Non accetta di rinunciare alla vendetta.

Una nuova possibilità si affaccia alla sua mente:

- Un negromante? Un negromante potrebbe lanciare una maledizione, un incantesimo.

- Certo. Può essere una via da percorrere. Ma il guaritore è alla fortezza. Non lo sottovalutare. Anche lui è in grado di prevedere il futuro. In misura molto limitata e solo per ciò che in qualche modo lo riguarda, ma può farlo. E se vuoi uccidere anche lui, questo lo riguarda, no?

- Un negromante può riuscire a uccidere almeno il comandante e il guaritore? Che cosa vedi nel futuro?

Snaogar si concentra, poi guarda il libro che ha davanti a sé. Zaomale vede che sulle pagine appaiono segni. Alcuni sembrano lettere, altri non assomigliano a nulla che Zaomale conosca. I segni cambiano colore: prima sono neri, poi alcuni diventano rossi e altri violacei. Svaniscono, sostituiti da altri.

- Vedo un incantatore, Vrac il Lupo. Lui può aiutarti, ma è spietato. Vedo segni di morte. Due morti. Ci saranno due morti che hanno un volto.

- Cosa vuole dire, due morti che hanno un volto?

- Due morti che non sono soldati o briganti senza nome. Due uomini che tu conosci.

- Il guaritore e il comandante! La mia vendetta.

- Loro. Oppure te e qualcun altro. Ci sono due strade aperte. Il destino non è definito. 

- Saranno loro. Vrac il Lupo, hai detto? Dove lo trovo?

- La sua dimora è in riva al lago dei Sette Cigni Neri.

Zaomale ha sentito parlare di questo lago, nella parte più settentrionale della Foresta Purpurea: un’area che tutti preferiscono evitare, uno di quegli angoli dove si avverte la presenza del Male.

- Ci andrò. Lui mi aiuterà?

Snaogar guarda ancora il libro, dove i segni appaiono e scompaiono rapidamente.

- Sì, lui ti aiuterà, se accetterai di pagare il prezzo che chiede. Ma questo non significa che otterrai quello che desideri. E se fallirai troverai la morte.

- Accetto il rischio. Non fallirò.

Zaomale si congeda. Prende la lanterna e risale la lunga scala, fino a raggiungere lo spuntone roccioso, dove lo attende la sua cavalcatura.

Risale sul siskri, che lo porta in volo fino alla Torre del Corvo: questo è il luogo che ha scelto come rifugio temporaneo e dove ha appuntamento con Drogotreci.

Il giovane è già arrivato: non aveva motivo per rimanere a lungo vicino alla fortezza.

Zaomale nasconde la rabbia che prova vedendo il traditore: ci sarà tempo anche per fargliela pagare. Ora Drogotreci è animato dal suo stesso desiderio di vendetta ed è un alleato che può essere utile.

- Hai ottenuto qualche cosa?

- Sì, Snaogar mi ha detto come fare. Avremo la nostra vendetta. E chi ha provocato il fallimento della spedizione, pagherà.

Tra coloro che pagheranno, Zaomale include anche l’uomo che ora gli sta davanti, ma questo Drogotreci non può sospettarlo.

- Dovrò raggiungere il lago dei Sette Cigni Neri. Ma ne parleremo domani. Adesso sono stanco.

La Torre del Corvo è solo una rovina: il tetto e il piano superiore sono crollati da tempo. Rimane però la stanza al primo piano, raggiungibile con una scala a cui mancano alcuni gradini.

Entrano e controllano, le armi in pugno, che non ci sia nessuno. Difficile che qualcuno si fermi alla torre, perché è un posto maledetto: alcuni dicono che chi dorme tre volte alla torre troverà la morte. Nessuno dei due dà peso a queste voci. Raggiungono la stanza e si stendono a dormire.

 

(prosecuzione e conclusione del racconto)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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