La primavera avanza e alla fortezza quasi ogni giorno arrivano mercanti, a volte in carovane, a volte in piccoli gruppi.

Un giorno un soldato informa il comandante che un figlio di Lilith vorrebbe parlargli, a proposito di Muskinoc.

Dvoboposte dice di farlo entrare: è curioso di sentire che cosa vuole quest’uomo e che cosa sa del guaritore. Non gli spiacerebbe scoprire qualche cosa di più su Muskinoc.

L’uomo arriva poco dopo. È anziano, con lunghi capelli bianchi, ma vigoroso.

- Il mio nome è Svietlonoc. Ho chiesto di parlarti per sapere se mio nipote Muskinoc è al tuo servizio.

- Sì, è qui alla fortezza, come guaritore, ma è libero di andarsene quando vuole, anche se lui dice che non può.

- Non è un tuo schiavo?

Dvoboposte ha un movimento di impazienza. Questa storia dello schiavo incomincia a dargli fastidio.

- Me l’hanno venduto, è vero. Quattro uomini stavano morendo e quando mi dissero che lui avrebbe potuto guarirli, accettai di pagare, nella speranza che potessero essere salvati. Ma non era certo mia intenzione comperare uno schiavo. Non ci sono schiavi qui.

- Quanto l’hai pagato? Sette monete d’argento?

Dvoboposte lo guarda, stupito.

- Come fai a saperlo? Te l’ha raccontato qualcuno dei soldati?

- No, non ho parlato con nessuno. Ma Muskinoc sapeva che sarebbe stato venduto per sette monete d’argento. La prima volta che me lo disse, pensai che scherzasse. Ma con il tempo ho imparato che ciò che dice diventa vero.

- Prevede il futuro?

- No, non… in parte. È complicato da spiegare.

Dvoboposte guarda Svietlonoc e dice:

- Siediti e parliamo con calma. Vorrei capire qualche cosa di più. Hai voglia di raccontarmi di lui? È qui alla fortezza da qualche mese e si è rivelato preziosissimo, ma lo conosco poco. Non parla molto di sé.

L’uomo annuisce: ciò che ha detto il comandante non lo stupisce, in qualche modo se lo aspettava. Si siede sulla sedia che gli ha indicato il comandante. Dvoboposte si sistema su un’altra sedia. Svietlonoc respira a fondo e dice:

- Io dico che Muskinoc è mio nipote e lui mi chiama zio, ma in realtà non abbiamo legami di sangue, che io sappia. Venne abbandonato davanti alla mia abitazione una notte di luna piena. Io ero al lavoro a preparare farmaci, quando qualcuno bussò. Andai alla porta, ma non c’era più nessuno. Sulla soglia era stato lasciato un fagotto, un bambino di pochi mesi.

Svietlonoc si passa una mano tra i capelli che gli ricadono sulla fronte, tirandoli indietro.

- Vivevo da solo e non riuscivo a capire perché l’avessero lasciato proprio a me e non a qualche famiglia, dove ci fosse una donna capace di prendersene cura. Io non ero certo in grado di allevarlo, non avevo tempo, né voglia, di occuparmi di lui. Ma ci sono cose che non accadono a caso, questo lo sapevo. Quando lo presi in braccio, capii che quel bambino era stato posto davanti alla mia porta, perché dovevo tenerlo io. Così feci. Non sapevo nulla di lui.

- Solo che era anche lui un figlio di Lilith.

Svietlonoc annuisce, ma non sembra convinto. Dvoboposte chiede:

- Non è così?

- Se devo dire la verità, non lo so, non lo so proprio. Muskinoc vede bene la notte, anche nel buio più completo. In questo è un figlio di Lilith più di chiunque altro. Ma tu sai che di giorno noi cerchiamo di evitare la luce molto forte, perché ci dà fastidio agli occhi.

- Sì, e allora?

- Muskinoc può fissare il sole. Può fissarlo, quando è alto in cielo. Qualche cosa che neppure voi figli di Eva siete in grado di fare.

Dvoboposte è rimasto senza parole. Dopo un momento chiede:

- E che cosa pensi che sia?

- Non ne ho la più pallida idea. Non conosco nessuna delle stirpi della Terra che veda nell’oscurità più profonda e regga la vista del sole splendente.

Rimangono entrambi un attimo in silenzio, poi l’uomo riprende:

- Incominciai a insegnargli ciò che sapevo. Muskinoc imparava molto in fretta. Fino a che non ebbe più o meno dodici anni, non notai niente di particolarmente insolito, a parte un’eccezionale memoria e una capacità di apprendimento che non corrispondevano certo alla sua età. Poi incominciarono… incominciarono a verificarsi cose che andavano oltre.

- Che cosa intendi?

- La prima volta fu quando venne da me un figlio di Lilith che aveva lavorato a lungo nel regno di Jugkrali e lì aveva contratto una malattia delle paludi. Non esiste in questa regione e io non conoscevo una cura. Dissi a Muskinoc, che mi faceva da assistente, che avrei usato alcuni ingredienti per preparare una pozione per abbassargli la febbre. Ricordo che gli dissi: “Questo non lo guarirà, ma lo farà stare meglio”. Lui mi rispose: “Dovresti aggiungere un po’ di varatrava.” Io gli chiesi perché, ma lui non sapeva dirmelo. Gli era venuta così. Provai e l’uomo guarì completamente. Successe altre volte. E allora provai a porgli domande. Di fronte a problemi che non sapevo come risolvere, gli chiedevo che cosa avremmo potuto usare e lui spesso trovava una soluzione. Non era in grado di dirmi perché mi dava quella risposta, ma funzionava sempre. Qualche volta non sapeva che dire e allora significava che non c’erano rimedi, ma era molto raro. Provai a chiedergli qualche volta come faceva a sapere certe cose, ma non era in grado di spiegarlo.

- Conoscenze innate, quindi.

- Qualche cosa del genere. Ho imparato moltissimo da lui, forse più di quanto lui abbia imparato da me. E poi…

- E poi?

- E poi ci furono altre cose. A tratti prevedeva il futuro. Un giorno mi disse che i figli di Eva avrebbero costruito una fortezza al guado. Io risi. L’idea mi sembrava folle. Sono passati vent’anni e adesso mi trovo in quella fortezza. E mi disse che sarebbe stato venduto per sette pezzi d’argento.

Dvoboposte non ha mai dato peso a quelle monete, ma sembra che davvero aver pagato abbia creato un vincolo tra lui e Muskinoc. Cerca di spiegare:

- Sì, me l’hanno venduto, ma gli ho detto chiaramente che può andarsene quando vuole. Sono felice che sia qui, in due occasioni ha salvato alcuni uomini da morte certa e tutti noi gli siamo affezionati, ma proprio per questo… tenerlo come schiavo!

- Non credo che tu possa liberarlo. In qualche modo sa che deve rimanere qui, anche se… so che rischia la vita.

- Rischia la vita? Perché?

- Non lo so. Queste sono cose che mi ha detto lui, in momenti diversi, spesso solo mezze frasi. Ma qui rischia di morire.

- In questo caso, per quanto mi dispiaccia moltissimo perderlo, è meglio che se ne vada. Preferisco saperlo vivo lontano, piuttosto che vederlo morire qui.

- Non se ne andrà. Ha un compito: deve salvare qualcuno.

- A costo della sua vita?

- Muskinoc ha una natura generosa, troppo. La vita degli altri viene sempre prima della sua.

C’è un momento di silenzio. Poi Svietlonoc aggiunge:

- Vorrei chiederti una cosa.

- Dimmi.

L’uomo sembra esitare un attimo, poi pone la domanda:

- Che rapporti ha con gli altri?

- Gli siamo tutti affezionati. Due dei soldati sono suoi amici, amici davvero. E credo che siano in tanti a volergli davvero bene.

- C’è qualcuno che lo ama?

Dvoboposte è stupito dalla domanda.

- No… non che io sappia. Non credo. Perché me lo chiedi?

Sul viso di Svietlonoc appare una smorfia.

- So che rischia di morire e che solo il seme di colui che ama e che lo ama può salvarlo. Ma tu mi dici che non ha un compagno.

C’è di nuovo silenzio, poi Svietlonoc chiede di poter vedere Muskinoc.

Dvoboposte lo accompagna. Quando Muskinoc abbraccio lo zio, fa un cenno a Lijeci ed escono insieme, lasciandoli soli.

Dvoboposte sale su una delle torri. È turbato, ma non riesce a capire perché. È molto affezionato a Muskinoc. Gli capita di pensare a lui in diversi momenti della giornata. La domanda di Svietlonoc, se Muskinoc ha un compagno, ha smosso qualche cosa dentro di lui. Che vita fa Muskinoc, qui alla fortezza? È soddisfatto? Ha due amici, a cui è profondamente legato. E tutti gli vogliono bene. Dvoboposte ripensa a quando si sono bagnati insieme. Ha desiderato quel corpo. E Muskinoc? Muskinoc desidera? Ha rapporti con qualcuno? Il pensiero che possa scopare con qualcuno è fastidioso. Dvoboposte non è stupido: si rende conto di quanto sta accadendo e non gli piace per niente. Con Muskinoc non sa come muoversi: è troppo diverso da tutti loro, da questi maschi forti e sempre in calore che vivono alla fortezza. Con lui si sente inadeguato.

Svietlonoc riparte nel pomeriggio. Tornerà a trovare il nipote. Muskinoc rimane alla fortezza: nulla è cambiato. Ma Dvoboposte si rende conto che per lui nulla sarà come prima.

 

Il giorno dopo Dvoboposte passa in infermeria.

- Sono venuto a controllare che il mio guaritore non lavori troppo.

Muskinoc ride. È raro vederlo ridere o anche solo sorridere: abitualmente ha un’espressione molto seria. Ma ha un bel sorriso, che gli illumina il volto: il bianco dei denti contrasta con il nero dei capelli, della barba e dei baffi e con il colorito scuro del volto.

- Non lavoro troppo, comandante. Abbiamo concluso la raccolta delle erbe primaverili, preparato i farmaci, sistemato tutto nei recipienti adatti. O quasi: non è che ce ne fossero molti, ma alla bottega ce li hanno procurati e stanno preparando quelli che mancano.

- Adesso però il guaritore smette di lavorare e accompagna il comandante a fare un bagno al fiume.

Lijeci guarda Dvoboposte e chiede, scherzando:

- Hai bisogno di un consulto e non vuoi che senta anch’io?

- No, sto benissimo. Vieni, Muskinoc?

Il guaritore sorride, mentre risponde:

- Come potrei dire di no a un ordine del mio padrone?

Dvoboposte non dice nulla. Il sorriso con cui la frase è stata pronunciata quasi la smentisce. Ed è un bel sorriso, dolce.

Raggiungono la più vicina delle isole, su cui ci sono diversi soldati e guerrieri. Si spogliano, posando gli abiti sulle pietre. Il comandante guarda il guaritore. Ha un bel corpo, armonioso ed elegante. Muskinoc si volta. Ha davvero un bel culo. Dvoboposte si accorge della reazione del proprio corpo. Merda!

- In acqua, pigrone!

E corre davanti, immergendosi prima che il cazzo riveli il suo desiderio. Nuota a lungo, lanciando solo un’occhiata ogni tanto per vedere se Muskinoc lo segue. Pensieri fastidiosi si accavallano nella sua testa. Sa di essere brutto, “brutto come la morte”, di corpo e di faccia. E Muskinoc non gli sembra il tipo interessato alle dimensioni del cazzo o alle scopate facili. E allora? Quali carte ha da giocare in questa partita? Nessuna.

D’improvviso si sente stanco. Ritorna verso l’isola, nuotando lentamente. Muskinoc gli si affianca. Gli sorride, senza dire niente. E Dvoboposte si sente invadere da una tristezza sconfinata.

Escono dall’acqua e si stendono al sole. Dvoboposte avrebbe voglia di tornare subito alla fortezza, ma gli sembra scortese nei confronti di Muskinoc.

- C’è qualche cosa che non va, comandante?

- No, perché me lo chiedi?

- Perché mi sembri triste.

Come cazzo ha fatto ad accorgersene?

- Pensieri, Muskinoc. Niente di che.

- Non hai voglia di parlarne?

- No, preferisco di no.

Che cosa potrebbe dirgli? Che ha scoperto di desiderarlo? Che non è solo desiderio… che… Merda!

- Non insisto, ma il tuo umore è completamente cambiato. Di colpo mi sembri triste e irritato. Mi spiace vederti così. Vorrei poterti essere d’aiuto.

- Sei sempre pronto ad aiutare gli altri. Di te stesso non ti occupi mai?

Muskinoc tace un momento.

- Non capisco. Che cosa intendi?

- Da quando sei alla fortezza non ti ho mai sentito esprimere una richiesta personale, un desiderio, qualche cosa che fosse per te e non per gli altri. A volte… a volte sembra…

- Sembra…?

- Che tu non abbia desideri.

Muskinoc china il capo, riflettendo.

- Desidero curare, guarire, aiutare. Desidero vivere.

- Vivere! Vivere… vivere è tante cose…

- Quali cose, per te?

- Fare il mio dovere fino in fondo.

- Sì, vale anche per me. Anche se i nostri compiti sono diversi.

- Godere ciò che la vita può offrirmi. Una chiacchierata con un amico, un bagno al fiume, una scopata…

- Anch’io amo parlare con un amico e fare un bagno al fiume. Quanto alle scopate… non ho avuto modo di provare, ma a giudicare da quanto vi date da fare voi figli di Eva, devono essere una bella cosa.

- Non hai mai…? Mai?

Muskinoc scuote la testa.

- So che per me desiderio e amore verranno insieme, ma non so… che cosa succederà poi.

Dvoboposte è turbato.

- Non capisco. Normalmente non è così per i figli di Lilith: anche voi scopate, come noi.

- Certo, ma io sono così. Non mi chiedere perché, non lo so. Non ho scelto io di essere come sono.

Dvoboposte pensa che se Muskinoc fosse diverso, forse sarebbe possibile scopare con lui. Provare a costruire un rapporto a partire dal sesso. O almeno togliersi la voglia. Ma così…

Dvoboposte vorrebbe che Muskinoc se ne andasse: ha bisogno di rimanere solo con il suo malumore. Ma l’ha invitato a bagnarsi e non vuole essere scortese con lui. Cerca un altro argomento:

- Che cosa vedi nel futuro, Muskinoc? C’è qualche cosa che ci riguarda?

- Non vedo nulla in più di quello che ti ho già detto, sul pericolo che ci minaccia. Ciò che so arriva fino a lì. Poi c’è una porta.

- Una porta? Che cosa intendi?

- Una porta chiusa. Se si aprirà, vedrò altre cose del futuro, ma ora è chiusa. Se non si aprirà, non ci saranno altre cose.

Ora Dvoboposte è inquieto.

- Stai parlando di morte?

- Credo di sì.

- E come è possibile aprire la porta?

- Non dipende da me.

Dvoboposte ripensa a quanto gli ha detto Svietlonoc: Muskinoc morirà se non riceverà il seme dell’uomo che ama e da cui è riamato. Ma il guaritore non gliene ha parlato: forse è qualche cosa di troppo personale. Forse non vuole dirgli chi ama, se ama. Meglio così: Dvoboposte ne soffrirebbe.

Dvoboposte è pentito di aver invitato Muskinoc al fiume. Deve cercare di evitarlo, deve toglierselo dalla testa.

 

*

 

Zaomale ha infine raggiunto il lago dei Sette Cigni Neri. Il viaggio ha richiesto diversi giorni: i siskri si sono rifiutati di portarlo in un’area della foresta che ritengono maledetta. Non hanno neanche voluto avvicinarsi, perché temono la vendetta di Vrac il Lupo, di cui conoscono la ferocia: se per qualche motivo l’incantatore si irritasse per la visita di Zaomale, se la prenderebbe anche con chi lo ha portato al castello. Ci sono incantesimi che possono fermare il movimento delle ali mentre si è in volo e questo significa precipitare e schiantarsi al suolo. I siskri preferiscono non correre ulteriori rischi: la spedizione alla fortezza, che avrebbe dovuto portare loro ricchezza, si è conclusa con una strage. Gli unici siskri che si avvicinano al castello di Vrac sono quelli al suo servizio, che di certo non portano altri, se non per ordine del loro padrone.

È sera. Il sole è tramontato oltre le montagne e sulla foresta è scesa l’ombra. Il cielo non è ancora buio, ma l’acqua del lago ha un colore plumbeo.  

In mezzo allo specchio d’acqua sorge un’isoletta, su cui si innalza un castello: la dimora di Vrac il Lupo. Zaomale sente un brivido corrergli lungo la schiena. Della sua ferocia ha sentito più volte parlare. Ma il desiderio di vendetta è più forte della paura.

Guardandosi attorno scorge, non molto lontano dal punto in cui si trova, un pontile, a cui è attaccata una barca: l’unico modo per raggiungere il castello, se non si può contare su un essere volante.

Zaomale si muove lungo la riva del lago. C’è un grande silenzio tutt’intorno, come se nel bosco non ci fossero animali. Raggiunge l’imbarcadero e lega il cavallo a un albero. Dieci pali reggono il pontile: cinque hanno in cima teschi di lupo, cinque crani umani: l’avvertimento è chiaro. Zaomale scende nella barca. Si sente il grido della civetta, segno di malaugurio. Zaomale rabbrividisce, ma non desiste: scioglie l’ormeggio e rema verso il castello. È a disagio, perché sa bene che la sua visita può infastidire Vrac e questo per lui significherebbe la morte. Ma vuole vendicarsi di Dvoboposte che ha ucciso i suoi fratelli e ha fatto strage dei loro uomini, due volte: tre anni fa, quando con una spedizione sgominò la banda, e pochi giorni fa, quando c’è stato l’attacco alla fortezza. Zaomale avrà pace solo quando il comandante sarà morto. E con lui anche il guaritore.

 

All’isola c’è un altro imbarcadero. Anche qui il pontile è retto da dieci pali, su ognuno dei quali è infilato il cranio di un uomo o di un lupo.

Zaomale lega la corda a uno dei pali, poi sale. Nuovamente, più lontano, risuona il grido della civetta.

Si avvia verso la porta del castello. Al suo arrivo i battenti si schiudono, senza che si veda qualcuno muoverli. Zaomale si trova in una sala, al centro della quale un essere sembra attenderlo: è alto forse metà di un uomo, ha la testa di forma molto allungata e di colorito verdastro, con due piccole corna che gli spuntano tra i fitti capelli neri.

Zaomale si avvicina. L’essere si volta e, girando la testa dalla sua parte, gli fa cenno di seguirlo. Salgono una scala, fino a raggiungere una sala. Al centro della sala c’è il negromante, in piedi. È nudo e solo un velo nero nasconde in parte il viso e il petto. In mano ha un bastone, forse uno scettro. Davanti a lui un braciere sotto cui arde un fuoco. Un fumo scuro sale.

Zaomale fa per avvicinarsi, ma non riesce: sembra che ci sia un muro invisibile che gli impedisce di procedere.

- Che cosa vuoi, figlio di Eva? Perché sei giunto qui?

- Ho bisogno di te. So che sei un incantatore molto potente.

Vrac tace. Zaomale continua:

- Sai che gli uomini hanno costruito una fortezza al guado. Il comandante ha fatto uccidere i miei fratelli. E quando ho cercato di vendicarli, ho perso tutti i miei uomini, a causa di un guaritore.

- Tu vuoi provocare la morte dei tuoi nemici?

- Sì. Puoi fare un incantesimo che faccia morire il comandante e il guaritore?

Vrac ride.

- Non è difficile. Qual è la loro natura? Sono entrambi figli di Eva? Che cos’altro sai di loro?

- Dvoboposte, il comandante del forte, è un figlio di Eva. Ha una quarantina d’anni ed è considerato un ufficiale molto esperto. Del guaritore non so il nome, ma è un figlio di Lilith.

- Ne sei sicuro? Perché se non fosse vero l’incantesimo potrebbe non avere l’effetto desiderato.

Zaomale non ha motivo per dubitare della natura di Muskinoc.

- Sì, certo.

- Io posso creare un incantesimo su due oggetti, che provocheranno la loro morte se li terranno con sé per ventiquattro ore.

- Devono tenerli addosso?

- Non necessariamente. Ma non devono regalarli prima che siano passate ventiquattro ore: se li gettano o li vendono, non cambia nulla, moriranno ugualmente. Ma se li regalano, la morte colpirà colui a cui sono stati donati.

- Che oggetti sono?

- Si può usare qualunque cosa: una moneta, un’arma, una stoffa, un gioiello. Mi darai tu questi oggetti e io li caricherò con la maledizione.

- Il guaritore sa combattere i veleni.

- Quello che preparerò non è un veleno, figlio di Eva, è un incantesimo. E nessun guaritore può combattere un incantesimo.

- Va bene.

- Però bada, per l’incantesimo ho bisogno di qualche cosa di loro. La cosa migliore sono parti del corpo: dei capelli, dei peli, le unghie tagliate, un po’ di sangue o di seme.  Altrimenti qualche oggetto che appartenga loro, anche solo qualche filo di un loro abito, un’arma, un gioiello o una moneta che gli rubi. Non una moneta con cui ti pagano.

Zaomale non si aspettava la richiesta dell’incantatore. La faccenda costituisce una complicazione: non sarà facile impadronirsi di un oggetto di proprietà del comandante e di uno del guaritore. 

- Cercherò di procurarmeli.

- Basta poco, anche un lembo di stoffa di un loro abito. Se ci riuscirai, preparerò gli oggetti da donare, un dono di morte.

C’è una domanda che Zaomale deve porre.

- Che cosa chiedi per preparare l’incantesimo?

- Che cosa puoi offrirmi?

- Posseggo ancora alcune pietre: diamanti, zaffiri, rubini, smeraldi. E poco oro.

Vrac annuisce.

- Dieci pietre vanno bene. Ma non bastano. I miei lupi hanno bisogno di cibo. Voglio il corpo di un giovane, un figlio di Eva. Ma lo voglio vivo.

Zaomale pensa a Drogotreci. Un buon modo per vendicarsi.

- Lo avrai. Te lo porterò insieme agli oggetti che servono.

 

*

 

- Jakhrab, oggi pomeriggio mi sostituisci tu alla fortezza. Io mi faccio un bagno al fiume.

- Certo, comandante.

- Boratni, vieni anche tu al fiume?

Boratni non è di servizio. Non gli spiacerebbe rimanere con il suo uomo, anche se l’ufficiale sarà piuttosto occupato nelle varie incombenze, ma l’invito del comandante gli fa pensare che Dvoboposte gli voglia parlare.

- Volentieri, comandante.

Anche oggi sono diversi i soldati e i guerrieri sparsi tra le numerose isole di questo tratto di fiume. Queste lingue di terra offrono angoli tranquilli, in cui dedicarsi a diverse attività: è possibile bagnarsi, scherzare, lottare, scopare, rilassarsi al sole, chiacchierare. Non c’è molta intimità, perché facilmente c’è qualche soldato che passa, ma a nessuno importa essere visto.

Boratni e Dvoboposte raggiungono uno degli isolotti. Si bagnano a lungo, poi tornano a terra.

Il comandante non è tipo da girare intorno agli argomenti che vuole affrontare.

- Ti sei deciso a diventare soldato, Boratni? Se ti arruoli, ti nomino ufficiale, te l’ho detto.

Boratni è incerto. Arruolarsi comporta un impegno di cinque anni. Preferisce non avere vincoli, per cui ha scelto di rimanere un guerriero libero, ma sa benissimo che ormai la sua vita è alla fortezza: non potrebbe separarsi da Jakhrab. E soffrirebbe anche a lasciare Muskinoc e lo stesso comandante, a cui è affezionato.

Un anno fa il comandante ha fatto a lui e a due guerrieri, tra cui Zlatorat, la stessa proposta. Gli altri hanno accettato, Boratni ha rifiutato: non è ambizioso e ha preferito non rinunciare alla sua libertà e sapere di potersene andare in qualsiasi momento. Adesso però la situazione è cambiata.

Dvoboposte coglie l’esitazione di Boratni.

- Se mi dici di no sei una testa di cazzo e non ti tengo più al mio servizio.

Boratni ride e lo guarda:

- Non faresti mai una cosa del genere, comandante.

- E perché non dovrei farlo? Posso.

In effetti qualsiasi guerriero libero può essere allontanato.

- In primo luogo perché ti priveresti di uno dei tuoi migliori guerrieri.

È vero e lo sanno entrambi, anche se il comandante ride e dice:

- Di chi stai parlando? Non di te, spero.

La provocazione viene ignorata.

- In secondo luogo perché se cerchi di separarmi da Jakhrab, fai una brutta fine.

- Allora non ti rimane che accettare la proposta.

- Credo che ti dirò di sì, comandante. Ma prima voglio parlarne con Jakhrab.

- D’accordo. Vedo con piacere che ogni tanto sai essere ragionevole. Ci facciamo un’altra nuotata?

- Va bene.

Dvoboposte si alza e si dirige verso l’acqua. Boratni lo segue. Mentre camminano verso l’acqua osserva la schiena del comandante. Ha già avuto modo di notare in passato che ci sono tante cicatrici: si direbbero frustate. Sa che Dvoboposte è stato catturato in battaglia ed è stato schiavo per quasi un anno.

Entrano in acqua e nuotano verso nord, poi ritornano all’isoletta.

Boratni osserva:

- Certo che la tua schiena è un campo di battaglia, comandante. È un ricordo di quando sei stato schiavo?

Dvoboposte non ha mai parlato a nessuno dei mesi trascorsi in schiavitù. Quando è tornato dalla prigionia, non aveva voglia di raccontare: il ricordo era umiliante e doloroso.

- Sì.

Boratni ha colto un’esitazione nelle voce del comandante.

- Preferisci non parlarne?

- Non ne ho mai parlato, è vero, ma se hai piacere di saperlo, ti posso raccontare.

A Boratni Dvoboposte racconta volentieri: è affezionato a questo guerriero libero, che tra poco sarà un ufficiale, e sa che è sensibile e riservato. Non ne parlerà con nessuno.

- Dimmi. Com’è che fosti catturato?

- Fu durante la guerra tra Usredkral e Istokrali. Io sono nato nel regno di Usredkral e combattevo per il re. In battaglia fummo sconfitti. Io fui ferito a una gamba e in faccia.

Dvoboposte mostra la grossa cicatrice alla coscia destra. Quella in faccia la conoscono tutti.

- Non riuscivo a reggermi in piedi e fui catturato. Tutti noi presi prigionieri venimmo distribuiti ai guerrieri di Istokrali come schiavi. Il mio padrone mi fece curare, perché voleva che mi rimettessi in sesto in fretta e potessi lavorare, ma un giorno, quando venne a parlare con il medico che mi stava assistendo, arrivò proprio mentre mi cambiava la fasciatura. Ero nudo e mi vide…

- Rimase fulminato alla vista del tuo cazzo.

Dvoboposte ride.

- Più o meno. Quel giorno mi fece spostare in una cella a parte e nella notte venne a trovarmi. Io facevo fatica a stare in piedi, ma il cazzo funzionava.

- E quando mai il tuo cazzo non ha funzionato? Sei un gran toro.

Boratni parla per esperienza: ha provato, prima di mettersi con Jakhrab.

- Insomma, io rimanevo disteso e lui me lo accarezzava, facendomelo diventare duro, e poi si impalava. Lo faceva tutti i giorni. Ma l’idea che uno schiavo glielo mettesse in culo lo infastidiva. Mi umiliava, insultandomi. Alcune volte mi pisciò addosso, dopo essersi fatto inculare, e minacciò di farmi uccidere. In qualche modo doveva essere chiaro che io ero uno schiavo e che lui avrebbe potuto ammazzarmi in qualsiasi momento. Più volte minacciò di castrarmi.

- Se le cose stavano come mi dici, non credo che lo avrebbe fatto.

- Ci andò vicino. Due volte fece venire il boia per farmi castrare, ma poi, quando questi stava mettendosi al lavoro, lo fermò, lo congedò, si mise a succhiarmelo e alla fine si fece inculare.

- Per quel motivo incominciò a frustarti?

- Sì. Era il suo modo di vendicarsi, di affermare il suo potere su di me.

- Merda! Dev’essere stato un incubo.

- Sì, lo fu. Fortunatamente si arrivò a un accordo di pace, che prevedeva la liberazione dei prigionieri. Fu allora che mi tagliò il lobo dell’orecchio: voleva che portassi per sempre un segno della mia schiavitù.

- Non l’hai cercato? Per ammazzarlo, intendo.

- No, ormai c’era la pace. Ma chiesi al re di essere inviato a Samar. Avevo bisogno di andare lontano, di cancellare quello che era successo, di ricominciare altrove.

Boratni annuisce.

- Capisco che tu non ne parli volentieri. Sono brutti ricordi.

- Sì, ma mi ha fatto piacere raccontartelo.

Mentre lo dice, Dvoboposte pensa che parlerebbe volentieri a Boratni di ciò che prova per Muskinoc, ma il guerriero e il guaritore sono amici e poi… è una sofferenza che forse è meglio tenere per sé.

 

*

 

Zaomale ha raggiunto la Torre del Corvo. Qui ha inviato un siskri a chiamare Drogotreci, che arriva in serata.

Zaomale lo accoglie sorridendo.

- Buone notizie: possiamo uccidere il comandante, con un oggetto incantato che ne provocherà la morte. E voglio uccidere anche il guaritore: Snaogar mi ha detto che è vivo, in qualche modo deve essere riuscito a scampare.

Zaomale non lascia trapelare la sua rabbia e Drogotreci non sospetta nulla. Ritiene comunque necessario giustificarsi, visto che avevano ricevuto l’incarico di uccidere Muskinoc:

- Lo avevamo lasciato per morto.

- Dev’essere una brutta bestia, di quelle che non muoiono mai, ma non ha importanza: questa volta sistemeremo anche lui.

Zaomale racconta quanto gli ha detto Vrac, senza fare riferimento al prezzo da pagare. Conclude dicendo:

- Quindi dobbiamo procurarci qualche cosa del comandante e del guaritore. Bisogna capire come possiamo fare.

Drogotreci riflette un momento, poi dice:

- Alla fortezza nessuno mi conosce. Il comandante mi ha visto, una sera, ma per pochi minuti. Se mi taglio la barba e i capelli non mi riconoscerà. Posso fare in modo di avvicinarmi a lui. So che talvolta si bagna al fiume. Ci penso io a procurarmi qualche cosa di suo.

- Come pensi di fare?

- In qualche modo ci riuscirò. Del guaritore invece non posso occuparmi: mi ha visto benissimo quando lo abbiamo menato. 

- Bisogna che trovi un modo di avvicinarmi a lui.

- Alla fortezza qualcuno può riconoscerti?

- No, nessuno mi ha mai visto. Non ero con i miei fratelli quando li catturarono.

- Puoi farti guarire da lui.

- Simulando una malattia? C’è il rischio che si accorga che è una finta, se è bravo come dicono.

- Puoi prendere qualche veleno: se è davvero bravo, ti guarirà. In ogni caso puoi farti dare anche l’antidoto da chi ti procurerà il veleno, per sicurezza.

Zaomale annuisce. L’idea è buona: Carobni potrà dargli il veleno e l’antidoto.

- Sì, questa può essere una via per entrare in contatto con lui e prendere qualche cosa di suo. Ci penserò.

- E poi c’è il problema dei doni incantati. Dobbiamo capire che cosa possiamo dare all’uno e all’altro. E come. Non possiamo tornare e dirgli semplicemente: “Ci siamo visti un’unica volta, ma ho deciso di farti un regalo”.

Zaomale annuisce, sorridendo: Drogotreci non tornerà alla fortezza, perché rimarrà nelle mani di Vrac e sarà sbranato dai lupi.

- Una cosa per volta. Incominciamo a capire come ottenere ciò che ci serve. E parlando con il comandante e il guaritore, faremo in modo di capire che oggetto possono gradire. In ogni caso, se mi guarisce dal veleno, non è strano che io gli porti un regalo quando ripasso dalla fortezza.

- Sì, questo è vero.

 

L’indomani Zaomale si reca da Carobni. Come Muskinoc e Svietlonoc, questo figlio di Lilith conosce le erbe, i farmaci e i veleni, ma non è un guaritore. Talvolta cura chi è in grado di pagarlo, ma lo fa solo in cambio di oro o argento. E per un compenso è disponibile a preparare veleni che procurano la morte o rendono sterili.

Zaomale ha accolto l’idea di Drogotreci: prenderà un veleno e si farà curare da Muskinoc.

Carobni vive in una dimora sotterranea nella Foresta Purpurea. Per accedervi occorre arrampicarsi su un grande albero secolare, la cui chioma si allarga, tanto fitta da impedire ai raggi del sole di raggiungere il suolo. Salire non è difficile, perché ci sono rami che si staccano dal tronco a diverse altezze. Là dove il tronco termina ramificandosi, si apre una cavità, al cui interno una scala a chiocciola conduce fin sotto terra.

Man mano che si scende, il buio diventa sempre più fitto e per un figlio di Eva è quasi impossibile vedere.

Carobni lo ha visto arrivare e accende una lanterna che diffonde una tenue luce. Zaomale scende l’ultimo gradino e passa nella stanza sotterranea in cui il negromante riceve i visitatori: è l’unico locale della dimora che conosce. Carobni è seduto a una scrivania, su cui ci sono il calamaio con l’inchiostro, una penna e una pila di fogli.

- Benvenuto, Zaomale.

- Salute a te, Carobni.

- Che cosa ti porta da me, Zaomale? Di che cosa hai bisogno?

- Mi serve un veleno che sia mortale, ma per cui esista un antidoto. Deve dare una morte lenta, in almeno tre giorni e dev’essere possibile contrastare il suo effetto fino all’ultimo minuto. Non deve dare dolori molto forti. E una volta preso l’antidoto, non devono rimanere danni.

- Vuoi anche l’antidoto?

- Sì, certamente. La persona non deve assolutamente morire.

Zaomale non intende spiegare che sarà lui a prendere il veleno: non è il caso di mettere altri a conoscenza dei suoi progetti. Difficilmente Carobni andrà a raccontare ciò che lui gli ha chiesto: chi vende veleni sa che gli conviene essere molto riservato. Ma è sempre più prudente non dare troppe informazioni.

- Va bene. Ciò che chiedi non è difficile.

- E poi ho bisogno anche di un narcotico potente.

- Da somministrare insieme al veleno o comunque alla stessa persona?

- No, a una persona diversa. Qualche cosa che faccia addormentare appena lo si beve e che non abbia un gusto forte: chi lo berrà non deve accorgersi della sua presenza nel liquore.

- Va bene. Sono cose che ho pronte, non richiedono nessuna preparazione specifica. Da quel che mi dici, vuoi dosi singole di tutto.

- Esatto.

- Aspettami qui.

Il negromante esce dalla stanza. Zaomale rimane solo e si guarda intorno. Nella penombra che avvolge il locale può scorgere appena le pareti, dove a tratti sporgono le radici degli alberi. Si chiede se tutta la dimora sia così o se in altri locali le pareti siano di pietra o mattoni o altro materiale.

Carobni torna con tre piccole fiale.

- Trasparente il narcotico, che non ha colore, non ha odore, non ha gusto. Nessuno può accorgersi della sua presenza. L’effetto è immediato: pochi attimi. Blu il veleno, che dà la morte in tre giorni. Rosso l’antidoto.

Zaomale paga tre monete d’oro: da tempo si rivolge a Carobni quando ha bisogno di veleni e sa quanto il negromante si fa pagare.

Mette le tre fiale in una tasca e si congeda. Mentre risale lungo la scala, pensa che ormai non ha più molto oro e gli sono rimaste anche poche pietre preziose, quelle ottenute con l’ultima grande razzia, compiuta quattro anni fa con i suoi fratelli. Ma l’importante è ottenere la vendetta. Poi, una volta morti il comandante della fortezza e il guaritore, penserà a che cosa fare.

 

 

Una carovana è arrivata alla fortezza. Si fermerà per la notte e poi si dirigerà a Samar. Ci sono molti mercanti che vengono dalle terre degli Aldebri. Come spesso succede, a essi si sono uniti altri che viaggiavano da soli: anche se la presenza della guarnigione alla fortezza ha reso tutta la zona più sicura, chi si sposta individualmente corre più rischi.

Uno degli uomini che si sono uniti alla carovana ha incominciato a stare male poco prima dell’arrivo alla fortezza. Alloggia alla locanda, nel recinto esterno. Inizialmente non vuole che sia chiamato il medico: pare convinto che sia solo la stanchezza del viaggio e che passerà tutto con un po’ di riposo. Il mattino seguente la carovana riparte per Samar. L’uomo non è in grado di viaggiare e si ferma alla locanda.

Dalla carovana si staccano anche alcuni altri mercanti: quelli che intendono raggiungere le terre popolate dai figli di Lilith, ripartono anche loro in mattinata, diretti verso Nord; quelli invece che intendono fare affari alla fortezza o riposarsi per qualche giorno si fermano.

È un giorno di sole e dopo la partenza della carovana, Dvoboposte scende al fiume a bagnarsi. Non ha invitato nessuno: è di cattivo umore, come ormai avviene molto spesso. Da alcuni giorni evita il più possibile di incontrare Muskinoc: non passa in infermeria e se lo vede in cortile si tiene lontano. Prima di scendere al fiume si sincera che non sia anche lui a bagnarsi. Ma se di giorno può evitarlo, la notte il guaritore ritorna nei suoi sogni, in modo ossessivo.

Dvoboposte si cerca un angolo tranquillo: non ha voglia di parlare con altri. Si spoglia e si getta in acqua. Nuota a lungo, poi torna a riva. Mentre si siede sull’erba per asciugarsi al sole, dall’acqua esce un giovane. È un bel ragazzo, alto, biondo, con i capelli molto corti e senza barba. Ha un corpo snello ed elegante, coperto da una leggera peluria bionda. Si dirige verso il comandante, che solo ora nota gli abiti lasciati a pochi passi dai suoi.

Il giovane si ferma davanti a lui. Gli sorride.

- Buongiorno. Tu sei il comandante della fortezza, vero?

- Sì.

- Io sono Zadhrab, un guerriero libero. Ho accompagnato la carovana di mercanti che è arrivata ieri.

- Come mai non hai proseguito fino a Samar?

- Ormai avete fatto piazza pulita dei briganti e i grossi convogli non hanno più bisogno di una scorta. Mi hanno congedato. Magari arriverà una carovana diretta verso Nord o qualche mercante che ha bisogno di un guerriero.

In effetti non è raro che i mercanti si rivolgano alla locanda per trovare qualche guerriero libero disposto a fargli da scorta, ma l’intenzione di Drogotreci è quella di ripartire non appena avrà ottenuto ciò che gli serve.

Dvoboposte annuisce. Non è molto interessato a proseguire il discorso. Preferirebbe che il giovane lo lasciasse solo con i suoi pensieri, anche se sono pensieri bui.

Drogotreci sorride e si passa una mano sul petto e poi sul ventre, come per togliere un po’ dell’acqua. Poi la mano scende al cazzo. Guarda Dvoboposte e il suo sorriso si allarga. Si accarezza ancora un momento il cazzo.

Il comandante ha capito. Perché no? Se non può avere l’unico corpo che desidera, che sia il corpo di questo giovane, bello e armonioso. Ma non intende prendere l’iniziativa. È Drogotreci a parlare:

- So che qui al fiume molti guerrieri si divertono. Si bagnano, lottano, scopano.

- È vero.

- E mi hanno anche detto che tu sei un gran toro da monta. A giudicare dall’attrezzatura, mi sembra probabile. È vero anche questo?

- Dovresti chiedere a chi ha provato, Zadhrab. Quando si tratta di scopare, tutti i maschi sono convinti di fare faville, anche quando fanno pena.

- Conosco un altro sistema.

- Credo di sapere qual è.

- Mi permetti di verificare?

- Perché no?

Drogotreci si inginocchia davanti al comandante, che è rimasto seduto. Lo odia e desidera vederlo morto, ma il cazzo che ha di fronte è davvero uno spettacolo. Si china in avanti e lo prende in bocca. Lo sente grande e caldo tra le labbra. Incomincia a succhiare e il cazzo si riempie di sangue, cresce e si irrigidisce. Non ci vuole molto perché sia teso e svettante, grande e minaccioso. Di rado in vita sua Drogotreci ha visto un cazzo di queste dimensioni. Continua a succhiare e a leccare, poi lo lascia andare e lo osserva, inquieto.

- Credo che il culo mi farà male per un po’.

- Se non vuoi…

Per quanto ormai abbia il cazzo teso, Dvoboposte potrebbe benissimo rinunciare. Il desiderio è forte, ma è desiderio di un altro corpo, dalla forma meno slanciata, di un altro viso, dai capelli scuri, di un altro maschio.

- Accetto il rischio, sono convinto che ne valga la pena.

Drogotreci si mette a quattro zampe. Dvoboposte si alza. Guarda il culo che gli si offre, elegante, snello, con poche tracce di una lieve peluria bionda. Un gran bel culo, anche se non è quello che desidera. Ma è stupido continuare a pensare a un uomo che non sarà mai suo. Dvoboposte lascia colare un po’ di saliva sull’apertura e la sparge con un dito. La cappella è già stata abbondantemente lubrificata.

Si appoggia sul corpo che sta per possedere. C’è un attimo in cui si dice che non ha senso, non ha nessun senso, ma scaccia il pensiero ed esercita una leggera pressione del cazzo contro il buco del culo. Indugia un attimo, poi, lentamente, con piccoli movimenti che si interrompono e riprendono, spinge, facendo entrare l’arma. Quando il cazzo è tutto infilato nel culo di Drogotreci, si ferma, per dargli il tempo di riprendere fiato e abituarsi a questa presenza ingombrante.

Il giovane prova dolore, perché non ha mai sperimentato un cazzo di queste dimensioni, ma accanto al dolore vi è piacere: è bello sentire dentro di sé questo sperone di carne, grande, duro, forte, caldo. Per quanto odi profondamente l’uomo che ora incomincia a fotterlo, lentamente, Drogotreci deve ammettere che è una delle migliori scopate della sua vita.

Dvoboposte chiude gli occhi: senza vedere può illudersi che sia un altro il corpo che le sue mani stringono, un altro il culo in cui il suo cazzo si muove avanti e indietro, a ritmo regolare, lentamente, per non fare male. È assurdo.

Procede, senza darsi tregua, e sente il giovane gemere, incapace di trattenersi: in Drogotreci il piacere cresce a ogni spinta e si dilata, oltre ogni limite. Gli sembra di sprofondare in un abisso senza fine. La realtà si annulla e c’è un momento in cui pensa con orrore che solo questo vorrebbe, per sempre. Essere lo schiavo dell’assassino dei suoi fratelli e aspettare ogni giorno il momento in cui il padrone lo fotte.

E infine, quando ormai il tempo è stato cancellato, il piacere esplode. Drogotreci emette un grido strozzato, mentre il suo seme si sparge sull’erba. Dvoboposte accelera le spinte e viene anche lui, con un suono sordo, una specie di grugnito. Il suo sborro si riversa nelle viscere del giovane.

Dvoboposte si stacca e si stende a terra. Drogotreci si lascia andare, prono. Non ha mai goduto tanto. Lentamente riprende fiato. Guarda accanto a sé l’uomo che lo ha fottuto. Sorride e dice:

- Sei un vero stallone, comandante.

Dvoboposte ghigna. C’è sofferenza nel suo ghigno, ma Drogotreci vi legge solo un sorriso. Il comandante si alza e rientra in acqua. Si allontana nuotando. Spera che il giovane se ne vada: sarebbe meglio così. Ma quando ritorna è ancora lì, sorridente.

Dvoboposte va a sedersi vicino a lui.

- Senti, posso chiederti una cosa? È un po’ buffa, lo so. Ti metterai a ridere.

Dvoboposte non è di umore ridanciano. Chiede:

- Dimmi.

- Dalle mie parti si dice che mettendo sette peli di uno stallone in un infuso, si ottiene una bevanda che infonde vigore e che permette di scopare tre volte al giorno. Posso prenderti sette peli? O magari otto e nove, per sicurezza?

Dvoboposte non si aspettava una simile richiesta. L’idea lo diverte e per un attimo lo distoglie dai suoi pensieri. Scuote la testa, sorridendo.

- Nessuno mi aveva mai chiesto i miei peli. Ne ho un’infinità, come vedi: posso ben dartene qualcuno. Vanno bene tutti o devi prenderli in una zona particolare?

- Vanno bene tutti, ma quelli vicino al cazzo sono più efficaci.

Nel basso ventre il comandante ha una vera foresta. Si alza, raggiunge i suoi abiti e prende il coltello, con cui si taglia un ciuffo di peli. Li porge a Drogotreci.

- Non li ho contati, ma ce ne sono in abbondanza.

- Grazie, comandante. Non diventerò uno stallone come te, ma mi farò qualche buona scopata.

Drogotreci mette i peli in un fazzoletto, lo richiude con cura e lo fa scomparire in una tasca interna. Ha ottenuto ciò che voleva: i peli per l’incantesimo che farà morire colui che glieli ha dati. Magari, prima di dargli l’oggetto incantato che ne provocherà la morte, cercherà di scopare ancora una volta con lui.

- Ora devo andare. Grazie, comandante. Vedo se qualcuno ha chiesto di un guerriero alla locanda, altrimenti vado a cercare altrove. In ogni caso, quando ripasserò di qui spero di ritrovarti.

Dvoboposte annuisce. Non ha voglia di mentire, di dire che sarà contento di rivederlo e di scopare ancora con lui. In bocca ha solo un gusto di cenere.

- Buon viaggio, Zadhrab.

 

Tornato alla locanda, Drogotreci parla con il locandiere.

- Il comandante mi ha fatto un grosso favore. Mi piacerebbe, se ripasso alla fortezza, portargli un dono, che so, un monile, un ciondolo, una tunica, un pugnale. Sai se c’è qualche cosa che potrebbe fargli piacere?

- Non mi sembra che sia interessato ai monili, non l’ho mai visto con gioielli. Ma credo che possa gradire un buon pugnale. È un valoroso guerriero.

Drogotreci annuisce. Sarà un pugnale a provocare la morte del comandante, non perché penetrerà il suo corpo, ma attraverso un incantesimo.

Subito dopo pranzo, Drogotreci parte. Ha ignorato Zaomale, come se non lo conoscesse, anche se sono arrivati con la stessa carovana. Lo aspetterà alla Torre del Corvo.

 

Nel pomeriggio il mercante che si è ammalato chiede assistenza. Il locandiere manda un garzone a chiamare Lijeci, che dopo aver parlato con il malato, decide di farlo portare nell’infermeria: non sa che cosa possa avere l’uomo; sospetta un avvelenamento, ma su questo solo Muskinoc può pronunciarsi con sicurezza. Lijeci ha imparato parecchio in questo periodo, ma i casi di avvelenamento sono molto rari e non ha acquisito un’esperienza sufficiente.

Zaomale ormai si regge in piedi a fatica. Il veleno che gli ha dato il negromante non provoca dolore, ma una grande stanchezza.

Nell’infermeria un uomo sta lavorando, triturando alcuni semi in un piccolo mortaio. Dev’essere il guaritore, quel figlio di puttana che ha mandato a monte il piano. Creperà presto, il maledetto.

A un cenno di Lijeci, i due uomini che hanno accompagnato Zaomale, trasportandolo quasi di peso, lo depongono su un letto. Poi si congedano, ma uno dei due si rivolge a Muskinoc, per dirgli:

- Grazie ancora per la medicina. Non ho più nessun dolore.

- Bene, mi fa piacere.

Mentre risponde, Muskinoc posa il mortaio e si avvicina al letto.

Lijeci gli spiega:

- Muskinoc, quest’uomo è Pravedan, un mercante che è arrivato ieri con la carovana. Non stava bene già ieri sera e oggi è peggiorato.

- Che cosa ti senti, Pravedan?

- Sono stanco, non riesco a stare in piedi. E ho i brividi.

- Dolore?

- No, nessun dolore.

- Hai bevuto o mangiato qualche cosa di particolare? Sei stato a contatto con dei malati?

- No… forse, però… ho bevuto un po’ di vino che mi aveva regalato un altro mercante, in segno di conciliazione, perché in passato avevamo avuto alcuni contrasti. Non vorrei… io mi sono fidato, ma forse ho fatto male.

- Ce la fai a spogliarti?

Zaomale annuisce, ma quando cerca di sfilarsi la tunica, si rende conto che davvero non ci riesce. Di colpo ha paura. Si dice che ha l’antidoto nella sua sacca, nella locanda, e che questo guaritore sa quello che fa. Non deve preoccuparsi.

Muskinoc si china su di lui e lo solleva a sedere. Con l’aiuto di Lijeci gli sfila la tunica e gli abbassa i pantaloni. Gli mette una mano sulla fronte:

- Temperatura normale.

Poi gli posa un mano sul polso:

- Battito lento, troppo lento.

Una mano si poggia sul cuore.

- Sì, batte piano.

Muskinoc poggia una mano sul fegato e preme. Zaomale sente una fitta: il dolore non è violento, ma la pressione è fastidiosa.

- Ha fatto male, vero?

- Sì.

- Molto?

- No, non molto.

- Se premo ti viene da vomitare?

Muskinoc preme un po’. Zaomale avverte un senso di nausea.

- Sì.

- Direi che sei stato avvelenato.

Una mano del guaritore scende all’inguine. Preme. Di nuovo una fitta, più forte, questa volta. Quello stronzo di Carobni gli aveva detto che non avrebbe avuto dolore! Non aveva previsto la visita.

- Male più forte, vero?

- Sì.

Muskinoc annuisce.

- Veleno, senza dubbio. Adesso vediamo quale.

Muskinoc guarda le pupille di Zaomale e intanto spiega a Lijeci.

- Le pupille sono un po’ dilatate e la sclera ha assunto una sfumatura verdastra, vedi?

- Sì. Non l’avevo notato.

- È anche questo un veleno che si ricava da un fungo, molto comune nella Foresta Purpurea. Dà la morte in tre giorni.

Zaomale si dice che il guaritore è davvero in gamba. Si finge preoccupato:

- Morirò?

- No, non morirai. L’antidoto si prepara facilmente. Abbiamo tutto quanto serve. Tra un po’ non avrai più nessun sintomo.

Muskinoc va a prendere due flaconi. Un liquido, più denso, ha un colore biancastro, mentre il secondo è azzurrino. Poche gocce del secondo liquido trasformano il primo, che diviene trasparente e assume un colore rosso intenso: come l’antidoto di Carobni. Muskinoc versa in un bicchiere.

- Bevi.

Zaomale beve. Appena ha finito, incomincia a sudare, ma il senso di stanchezza svanisce.

- Rimani disteso un po’, Pravedan. Quando te la senti, puoi rivestirti e andare.

Zaomale resta a letto. Spera che si presenti l’occasione di rimanere da solo con il guaritore. Altrimenti gli parlerà in presenza di Lijeci.

La fortuna sembra assisterlo, perché il medico esce pochi minuti dopo. Allora Zaomale si alza e si riveste.

- Grazie per avermi salvato.

- Non è stato difficile. Ti consiglio però di parlare con il comandante per l’avvelenamento.

- Ormai chi mi ha dato il veleno sarà lontano. So chi è e mi guarderò da lui.

- Come vuoi.

Zaomale ha finito di rivestirsi.

- Senti, mi hai salvato la vita e vorrei testimoniarti la mia gratitudine. Sono un mercante di stoffe. Non ho merce con me, ora, ho venduto tutto, ma ripasserò e allora vorrei portarti un dono. Mi prometti che lo accetterai?

Il guaritore lo guarda e Zaomale si sente a disagio. Gli sembra che quello sguardo entri dentro di lui.

- Che cosa vuoi donarmi? Non mi faccio pagare per le cure.

- Solo una tunica, fatta con una delle mie stoffe. Niente di particolare, non commercio in tessuti di pregio. Ma mi farebbe davvero piacere.

- Va bene.

- Ho bisogno di prendere le misure. Puoi prestarmi una tua tunica? Te la riporto oggi stesso.

Nuovamente Muskinoc guarda Zaomale.

- Va bene. Ripassa tra un’ora e ti darò una mia tunica. Non posso dartela subito.

 

Zaomale esce. Muskinoc rimane immobile nell’infermeria. Cerca di capire ciò che sa. Non ha un’idea di chi sia Zaomale, ma sa che vuole la sua morte. Non lo teme: non potrà fargli del male. Sospetta però che anche il comandante sia in pericolo. Deve parlargli.

Quando Lijeci rientra, gli chiede:

- Lijeci, puoi darmi una tua tunica? Te la restituisco più tardi.

La richiesta stupisce il medico: Muskinoc non chiede mai niente.

- Certo. Ma, scusa la curiosità, a che ti serve?

- A sfuggire alla morte e ingannare un assassino.

- Puoi spiegarmi?

- La tunica servirà a preparare un incantesimo di morte per il proprietario.

Lijeci è alquanto turbato. L’idea che qualcuno possa voler uccidere Muskinoc lo angoscia.

- Quindi morirò io al posto tuo? Non ci crederei neanche se me lo dicessi tu, perché so che saresti disponibile a morire tu al posto di chiunque altro.

- No, naturalmente. L’incantesimo sarà mortale per il proprietario della tunica, se gli verrà donata. Ma verrà regalata a me, perciò non avrà nessun effetto.

- Non sarebbe il caso di far arrestare quest’uomo?

- Con che accusa? Di aver detto che mi vuole regalare una tunica?

- Il comandante ha un potere assoluto su tutti coloro che sono nella fortezza.

- Ma non può condannare qualcuno solo per quello che io dico. No, non ha senso. Ma devo parlare anche con lui. Mi dai la tunica?

- Certo che te la do. Se è per salvarti la pelle, ti do tutto quello che vuoi.

Lijeci gli porta una tunica. Muskinoc ne controlla con attenzione le condizioni. Vuole poter verificare se in qualche modo verrà manomessa.

Poi passa da Dvoboposte.

- Posso parlarti un momento, comandante?

Dvoboposte cerca di nascondere il proprio turbamento. Con un cenno indica la sedia dall’altra parte del tavolo che gli serve come scrivania e dice:

- Certo, dimmi.

- Ieri o oggi hai incontrato un uomo che si fa chiamare Pravedan?

- No, nessuno con quel nome.

Muskinoc descrive brevemente Zaomale, per essere sicuro che Dvoboposte non abbia  avuto nessun contatto con lui.

- No, direi proprio di non aver visto nessun che corrisponda alla tua descrizione.

- Scusa se insisto, ma qualcuno oggi ti ha chiesto qualche cosa di tuo?

Dvoboposte scuote la testa, perplesso.

- No. Direi proprio di no.

- Perfetto. Non dare niente a nessuno. C’è un pericolo, qualcuno che vuole la tua morte.

Solo al momento in cui Muskinoc esce, a Dvoboposte vengono in mente i peli. È una cosa ridicola, non può avere nessuna importanza. Se si trattasse di un’altra faccenda, richiamerebbe comunque Muskinoc e glielo direbbe, ma non ha voglia di raccontargli che ha regalato un po’ di peli a un giovane: dovrebbe in qualche modo dirgli che ha scopato, per giustificare la richiesta dei peli. Non vuole parlare di questo con il guaritore.

 

Mentre Muskinoc era assente, Zaomale ha riportato la tunica. Il guaritore e il medico l’esaminano con cura.

- Guarda qui, Lijeci: sono stati tagliati alcuni fili in questo punto dove la tunica era un po’ logora.

- Sì, è vero. Quindi serviranno…

- …per un incantesimo di morte. Che andrà a vuoto. A ogni buon conto, non accettare regali da nessuno per un po’.

Lijeci ride. Mette una mano sulla testa di Muskinoc, scompigliandogli i capelli, in una carezza affettuosa. Vuole bene al guaritore, come se fosse suo figlio. Vorrebbe vederlo felice e non solo sereno. Percepisce che a Muskinoc manca qualche cosa, che c’è una parte di lui che attende. Sorride e nasconde la sua commozione con una battuta:

- Una buona scusa per intascarli tutti tu.

Muskinoc ride. Nessuno dei due prende regali, di nessun genere.

 

Zaomale parte il mattino dopo. In serata raggiunge la Torre del Corvo. Ai piedi della rovina, emette tre volte un fischio prolungato. Poco dopo compare Drogotreci.

- Hai fatto?

- Sì, ho alcuni fili della tunica del guaritore. Anche tu hai fatto, visto che sei partito prima di me.

- Certo. Ho un po’ di peli del comandante.

- Peli? Come cazzo hai fatto?

- Non è stato difficile.

- Sicuro che siano suoi?

- Certo, li ha tagliati davanti a me.

- Perfetto. Adesso dobbiamo procurarci gli oggetti che doneremo. Al guaritore ho promesso una tunica: gli ho fatto credere di essere un mercante di stoffe e che per gratitudine per avermi guarito volevo donargli un abito. Per il capitano, hai capito che cosa possiamo regalargli?

- Un pugnale. Non porta monili, ma ama le armi. Glielo regalerò personalmente.

Zaomale sorride. Pensa che Drogotreci non avrà occasione di donare l’arma, perché non tornerà dal castello sul lago.

- Hai fatto amicizia con il comandante, vedo.

- Era l’unico modo per avere qualche cosa di suo. Avevo anche pensato di rubare un oggetto di sua proprietà mentre lui si bagnava, ma avrebbero potuto vedermi, magari se ne sarebbe accorto lui stesso. Non volevo correre rischi.

- Ci hai scopato, vero?

Drogotreci si irrigidisce.

- Sì, e allora?

- Niente, per carità. Io avrei fottuto volentieri il guaritore, che è un bell’uomo.

Zaomale ride. Poi aggiunge:

- Ma con che scusa ti sei fatto regalare i peli?

- Gli ho detto che mettendo i peli di un maschio vigoroso in un infuso, si ottiene una bevanda che rafforza il desiderio e la potenza.

- Bella idea.

Zaomale pensa che quando donerà il pugnale incantato al comandante, dovrà fare riferimento all’incontro con Drogotreci.

- Ma non gli hai dato il tuo nome, vero?

- No, certo, mi sono presentato come Zadhrab.

Zaomale memorizza il nome: gli servirà quando donerà al comandante il pugnale.

- Adesso dobbiamo procurarci un pugnale e una tunica. Mi farò portare da un siskri al mercato davanti alla fortezza degli Aldebri, dove posso comprarli.

 

Zaomale convoca un siskri e dice che vuole essere portato alla fortezza degli Aldebri. Partono che è ancora buio: i siskri non amano volare di giorno nelle aree abitate da altri popoli. Giungono nei pressi della fortezza poco prima dell’alba. Zaomale scende e si ferma nel bosco. Il siskri ripasserà a prenderlo dopo il tramonto.

Nascosto dagli alberi, Zaomale assiste all’apertura della porta della fortezza e all’allestimento del mercato esterno, dove si vendono le merci di minor pregio: per i gioielli e gli oggetti d’oro, argento e platino, il mercato si tiene all’interno. Figli di Lilith che vivono nella zona portano alcune merci, soprattutto generi alimentari, ma anche recipienti e strumenti. Alcuni mercanti, perlopiù figli di Eva o di Lilith, sistemano i tessuti e gli abiti. Due nani allestiscono un banco che vende strumenti di vario genere, tra cui alcuni per il lavoro in miniera. Hanno anche armi e Zaomale conta di prendere da loro il pugnale: i nani sono bravi a lavorare i metalli e fabbricano buone lame.

Nel mercato c’è già un certo movimento, anche se diversi venditori non hanno ancora finito di sistemare la merce: mercanti, contadini e artigiani che vendono approfittano della relativa quiete per acquistare ciò di cui hanno bisogno, prima che arrivino altri acquirenti. Non conviene aspettare il momento in cui il mercato smonterà, perché è vero che è più facile spuntare un buon prezzo a fine giornata, ma c’è il rischio di non trovare più ciò che si sta cercando e la scelta è minore.

Infine i banchi sono tutti pronti e i visitatori arrivano, prima pochi per volta, poi in numero maggiore. Zaomale rimane ancora tra gli alberi: non ha fretta, perché ha tutto il giorno a disposizione. Cercherà ciò che gli serve nel mercato esterno: non gli interessano abiti intessuti di fili d’oro e d’argento, né pugnali con manici preziosi su cui scintillano diamanti o rubini. Ha bisogno di una tunica di buona fattura e qualità della stoffa, ma non lussuosa, e di un pugnale con una bella lama. I doni devono essere graditi, anche se i due destinatari non avranno molte occasioni di farne uso.

Infine esce dal bosco e si mette a gironzolare tra i banchi. Osserva con cura quello dei nani: ci sono davvero alcuni ottimi pugnali. I venditori di tessuti sono diversi e hanno quasi tutti tuniche già pronte: sono capi di vestiario molto semplici, che non devono aderire al corpo come una camicia o un paio di pantaloni, per cui vengono vendute già cucite, in tre o quattro misure. Dopo aver girato il mercato e confrontato i prezzi, Zaomale sceglie al banco dei nani un bel pugnale, con una buona lama: non vuole che, disprezzando il dono, Dvoboposte lo regali a qualcun altro. Prosegue il suo giro e osserva le tuniche in vendita su due banchi. Muskinoc non è il tipo da amare gli abiti raffinati, per cui la scelta cade su una tunica di buon tessuto, molto semplice e non vistosa.

Zaomale è soddisfatto degli acquisti.

Mangia un boccone a un banco dove si preparano pasti caldi per i venditori e gli acquirenti, poi gironzola ancora per il mercato. Compra anche un po’ di un liquore, a cui mescola il narcotico che gli ha dato Carobni. Infine ritorna nel bosco, dove attende che il siskri venga a prenderlo.

In un’ora di volo il siskri lo porta a una radura vicino alla torre: un percorso che a cavallo richiederebbe quasi due giorni. Drogotreci lo attende sotto un albero. Al suo arrivo si alza e gli va incontro.

- Hai trovato tutto?

- Certo: di tuniche e pugnali ne vendono a bizzeffe.

Raggiungono la torre e, come altre volte, salgono al primo piano per dormire.

Una volta sistemati per la notte, Zaomale dice:

- Ora possiamo metterci in viaggio per il Lago dei Sette Cigni.

- Vengo anch’io, questa volta?

Zaomale sorride nel buio. Certo che verrà Drogotreci: è parte del prezzo da pagare per l’incantesimo. Ma lo scoprirà troppo tardi.

- Sì, andremo tutti e due.

- Va bene.

 

Il mattino dopo recuperano i cavalli e si mettono in viaggio. Ci vogliono tre giorni per arrivare alla dimora di Vrac. Nell’area della foresta che attraversano vivono alcuni figli di Lilith, oltre a diverse creature dei boschi, ma queste e quelli preferiscono evitare i figli di Eva, per cui i due viaggiatori non fanno nessun incontro. Man mano che si avvicinano al castello del lago, il bosco diventa più silenzioso: è un’area da cui tutti gli esseri viventi preferiscono tenersi lontano.

L’ultima sera si fermano a dormire a poche miglia dal castello. Quando sorge la luna il silenzio che ha accompagnato le ultime ore del loro cammino lascia il posto a ululati lontani. Un branco però si muove nelle vicinanze, perché ora l’urlo cupo dei lupi risuona molto vicino. I cavalli nitriscono, spaventati, e si agitano. Drogotreci si sveglia e rimane un momento in silenzio ad ascoltare, la mano sull’elsa della spada. Anche Zaomale si è destato.

Drogotreci è nervoso:

- Questi fottuti lupi!

- Vrac è chiamato il Lupo. Comanda su di loro.

- Merda! Ce n’è un fottio e sono vicini. Non sarà il caso di metterci su un albero?

- E lasciare che i lupi sbranino i cavalli? No, di certo. Comunque non credo che attaccheranno. Questi branchi sono sotto il controllo di Vrac e lui sa benissimo che siamo diretti al castello. Non li scatenerà contro di noi.

Mentre lo dice Zaomale sorride, al pensiero che il suo compagno sarà divorato proprio da questi lupi che ora ululano vicino. Nel buio Drogotreci non può vedere il suo sorriso.

I lupi rimangono nelle vicinanze, ma non li attaccano. Zaomale si riaddormenta, ma Drogotreci rimane sveglio a lungo.

Il mattino infine i lupi smettono di ululare. Prima di rimettersi in cammino, mangiano un boccone. Zaomale tira fuori una fiaschetta e dice:

- Oggi festeggiamo: tra un’oretta saremo al castello e trasformeremo il pugnale e la tunica in due strumenti di morte per i nostri nemici. Bevi?

Drogotreci prende la fiaschetta.

- Che cos’è?

- Un liquore molto buono che ho preso al mercato della fortezza degli Aldebri.

Drogotreci beve il liquore, senza sospettare che contenga il narcotico. Dopo aver bevuto, porge la fiaschetta a Zaomale, ma mentre lo fa viene preso da una sonnolenza che gli impedisce di tenere gli occhi aperti.

- Ma che cazzo…

Ondeggia e poi cade di lato.

 

Quando si risveglia, si accorge di avere le braccia saldamente legate dietro la schiena, le gambe ugualmente bloccate e di essere nudo.

- Che cazzo…

- Ti sei svegliato, Drogotreci?

- Perché mi hai legato?

- Perché adesso pagherai. Avete venduto il guaritore invece di ucciderlo. Avete fatto fallire il piano.

- Te l’ho detto, credevamo che fosse morto.

- Non credevate un cazzo! Lo avete venduto, figli di puttana. Per sette monete lo avete venduto e per quei sette pezzi d’argento tutti i miei uomini sono morti.

Drogotreci sa che è inutile mentire. Se Zaomale conosce anche il prezzo, vuol dire che è stato informato.

- Che cosa intendi fare?

- Ti consegnerò a Vrac il Lupo. È il prezzo che devo pagare per la mia vendetta.

Drogotreci rabbrividisce all’idea di finire nelle mani dell’incantatore. Che cosa farà di lui? Le voci che ha sentito sono terribili.

- Non lo fare. Chi darà il pugnale al comandante?

- Glielo darò io, da parte tua. Ma che cosa farò ormai non ti riguarda più.

Drogotreci sa che è inutile chiedere pietà. Cerca di liberarsi dalle corde, ma si rende conto che è impossibile. Sarà consegnato a Vrac. Di nuovo si chiede che cosa farà di lui.

Zaomale parla ancora:

- Prima però mi gusto il tuo culo.

- Merda! Bastardo!

Zaomale solleva Drogotreci e lo mette con il petto appoggiato su un tronco d’albero caduto a terra, in modo da esporre il culo. Drogotreci ha le caviglie legate e non può  allargare le gambe. Zaomale gli poggia le mani sulle natiche e le divarica. Guarda l’apertura, che adesso violerà.

- Ti sei fatto inculare dal comandante, troia. Adesso te lo metto in culo anch’io.

Drogotreci potrebbe replicare che l’ha fatto solo per ottenere i peli per l’incantesimo, ma ormai non avrebbe senso. Tace.

Zaomale si toglie la tunica, si abbassa i pantaloni e si accarezza il cazzo finché non è bello duro e teso verso l’alto. Lo avvicina all’apertura e poi spinge con violenza, forzando la carne. Drogotreci geme: il dolore è stato violento.

- Bastardo!

Zaomale ride e incomincia a fottere questo bel culo che ha a disposizione. Drogotreci è un bell’uomo, giovane, snello e ben proporzionato. È un piacere fotterlo. Ed è un piacere fargli male: una piccola punizione in più per il tradimento che ha fatto fallire l’attacco alla fortezza. Per sette pezzi d’argento questo figlio di puttana e i suoi fratelli hanno mandato a monte il piano.

Zaomale fotte con energia: vuole provocare il maggior dolore possibile. Gli spaccherebbe volentieri i coglioni, ma non vuole che Vrac abbia da ridire, per cui evita di farlo. Spinge a fondo, si ritrae, poi spinge di nuovo. Due volte il cazzo esce completamente, poi affonda di nuovo fino a che i coglioni toccano contro il culo. E infine Zaomale viene. Sono parecchi giorni che non scopa e il suo seme si rovescia nelle viscere del prigioniero.

Zaomale si ritrae. Si pulisce con la tunica di Drogotreci, poi lo carica sul cavallo, fissandolo in modo che non cada. Dal culo cola un po’ di sborro a cui qualche goccia di sangue dà un colore leggermente rosato. Zaomale sorride. Lega le briglie del cavallo alla sella del proprio, sale e si avvia.

All’imbarcadero lega i due cavalli a un albero, poi si carica Drogotreci su una spalla e lo deposita nella barca.

- Li vedi i teschi, bastardo? Magari ci sarà presto anche il tuo.

Zaomale ride. Poi si mette ai remi e attraversa il lago.

 

 

Ad attenderlo c’è il piccolo essere dal colorito verdastro, che gli fa strada al primo piano. Qui lo attende Vrac e Zaomale può infine depositare il fardello che si porta sulle spalle. È tutto sudato: per quanto sia forte, il peso che si è portato dietro non è certo leggero.

- Questa è la preda per i tuoi lupi.

Vrac sorride. Un sorriso da lupo. Zaomale non vorrebbe essere al posto di Drogotreci.

Da una tasca tira fuori una piccola borsa con le dieci pietre promesse.

- E queste sono le pietre.

- Bene. Hai portato con te il necessario?

- Certo.

Zaomale si sfila la sacca che ha a tracolla. Ne estrae la tunica e il pugnale.

- Questi sono i due doni.

Poi prende i due piccoli contenitori che ha portato con sé:

- Questi sono fili di una tunica del guaritore, il figlio di Lilith, a cui andrà la veste. E questi sono peli del corpo del comandante, il figlio di Eva, a cui andrà il pugnale.

- Perfetto

Vrac batte le mani. Compaiono due servitori, che hanno teste di lupo su corpi maschili, ricoperti da un fitto pelame grigio.

- Portate il prigioniero nella cella.

I due prendono Drogotreci, uno per le gambe, l’altro per le spalle, e lo portano via, senza dire nulla.

Poi l’incantatore si rivolge a Zaomale.

- Adesso preparerò l’incantesimo.

Zaomale è curioso di vedere Vrac all’opera. Chiede:

- Posso assistere?

- Sì, ma non puoi dire nulla. Seguimi.

Passano in un locale a fianco, che è evidentemente il laboratorio.

Vrac posa una ciotola su un sostegno.

- Per questo incantesimo ci vogliono sette ingredienti.

Vrac prende un flacone, pieno di un liquido verdastro.

- Il primo è il veleno di un maschio di vipera, raccolto nel terzo plenilunio d’autunno: è il veleno che ucciderà le vittime.

Vrac fa scendere sette gocce di veleno nella ciotola. Sorride.

- Il secondo ingrediente è il seme di un bandito impiccato a una forca, raccolto dopo la sua morte. Dev’essere di uno dei tuoi uomini, Zaomale, perché l’ho preso alla fortezza.

Zaomale apre la bocca per chiedere come ha fatto a raccoglierlo, ma un’occhiata di Vrac gli rammenta l’impegno a tacere.

- Il seme che per l’ultima volta è stato emesso, quando ormai la vita si era spenta, è foriero di morte.

Quando versa le sette gocce del seme nel veleno, si sente un gorgoglio, come se il liquido ribollisse.

Poi Vrac prende un laccio di cuoio.

- Un laccio usato per strangolare a tradimento un maschio senza colpe, un laccio che gli ha tolto il respiro e gli ha dato la morte. Il respiro mancherà alle vittime dell’incantesimo ed essi moriranno come l’uomo ucciso da questa corda.

L’incantatore lascia cadere il laccio nel recipiente e si sente uno sfrigolio, come se stesse bruciando, ma sotto la ciotola non è acceso nessun fuoco.

Zaomale si sente a disagio. Si pente di aver chiesto di assistere. Vorrebbe essere fuori da questa stanza, lontano da quest’uomo diabolico.

- Il sangue di un uomo ucciso dal fratello per avidità serve perché il veleno possa entrare nel sangue.

Zaomale si chiede come Vrac possa essersi procurato questi ingredienti. A tratti lo assale il dubbio che stia giocando sulla sua credulità.

L’incantatore versa molto sangue, fino a riempire completamente la ciotola. Come farà a far stare gli altri ingredienti?

- Succo di un albero di tis piantato dove è stato sepolto un giovane maschio violato dal suo assassino. Così il veleno violerà coloro che subiranno l’incantesimo, entrando dentro i loro corpi, anche se loro non lo vorrebbero.

Anche del succo viene versata una buona quantità, ma il liquido non trabocca: sembra invece ritrarsi.

- Spine di cetern, il cui veleno procura paralisi e morte per asfissia: potenzia l’effetto del laccio e impedisce ogni difesa. Coloro che riceveranno i doni non potranno sottrarsi, come se fossero paralizzati.

Vrac prende una manciata di spine e le fa cadere nella ciotola.

- E infine testicoli di un assassino, che abbia stuprato almeno tre maschi. Anche questi li ho presi da uno dei tuoi uomini.

Zaomale rabbrividisce. Ha capito a chi appartengono i coglioni che ora Vrac tiene in mano: Tezak amava stuprare le vittime delle loro rapine, prima di ucciderle. Ma come può saperlo Vrac?

- Testicoli di un maschio, perché le vittime sono maschi. Testicoli di uno stupratore, perché egli stuprerà coloro a cui è destinato l’incantesimo, donando loro la morte contenuta nel suo seme.

L’incantatore fa cadere nella ciotola le due sfere. Si avverte di nuovo uno sfrigolio, poi il liquido ribolle e infine si ritrae. Al fondo della ciotola rimangono solo poche gocce.

Vrac prende due piccoli contenitori e vi versa il veleno ottenuto. In una lascia cadere i peli di Dvoboposte, nell’altra i fili della tunica di Muskinoc. Come prima, il veleno sembra ribollire e poi ritirarsi fino a ridursi a poche gocce. Vrac prende la ciotola in cui ha gettato i peli e ne rovescia il contenuto sul pugnale. Scende un liquido abbondante, certamente molto di più di quanto può contenere il recipiente. Esso copre il pugnale e poi scompare. Vrac ripete l’operazione con la seconda ciotola e la tunica.

- I due oggetti sono pronti. Il pugnale porterà la morte a colui a cui sono stati tagliati i peli, purché accetti il regalo e non lo doni ad altri. Colui a cui apparteneva la tunica morirà se accetterà questa in dono. In tre giorni faranno effetto.

Vrac sorride e Zaomale sente un brivido corrergli lungo la schiena. Si accorge di essere sudato, come dopo aver trasportato a spalle Drogotreci.

- So che il comandante è un maschio valoroso e verrò a prendere i suoi testicoli: sono un ingrediente utile in diversi incantesimi. E anche gli occhi del figlio di Lilith potranno servirmi per gli incantesimi notturni.

Zaomale è sempre più a disagio, ma ormai è giunto il momento del congedo.

Vrac fa un gesto con la mano.

- Prendi i tuoi doni e vai.

Zaomale non se lo fa ripetere: non ha proprio voglia di rimanere un minuto di più nel castello. Prende la tunica e il pugnale, si inchina, senza dire nulla, e passa nella stanza a fianco, poi scende rapidamente le scale. Non c’è nessuno al piano terreno. Raggiunge l’imbarcadero, sale sulla barca e rema fino a riva. Carica i due doni incantati sulla sella del suo cavallo e si avvia. Porta con sé anche il cavallo di Drogotreci: lo rivenderà.

 

Nel castello Vrac ha raggiunto la cella sotterranea. Guarda Drogotreci, steso su un pagliericcio, e sorride.

- I miei lupi hanno fame, non mangiano da giorni, ma oggi si sazieranno. Prima, però… mi divertirò un po’ con te.

Incomincia a spogliarsi. Quando volta il prigioniero per stendersi su di lui, questi cerca di divincolarsi, disperatamente. Non è tanto l’idea di essere nuovamente stuprato, a turbarlo, quanto la coscienza che poi sarà dato in pasto ai lupi.

Ma Drogotreci è legato e Vrac non fa fatica a tenerlo ben fermo.

- È inutile che ti agiti tanto. Oggi te lo pigli in culo e poi ti darò ai lupi.

Drogotreci continua a dimenarsi e Vrac perde la pazienza. Si solleva di scatto, prende il giovane per i capelli e lo forza ad alzarsi. Ora sono uno di fronte all’altro e Drogotreci può vedere il cazzo enorme di Vrac, teso come la lama di una spada: solo qualche incantesimo può averlo reso tanto grande. E mentre lo pensa due colpi lo prendono allo stomaco, mozzandogli il fiato e le gambe. Drogotreci si affloscia, mentre un velo gli cala davanti agli occhi.

Vrac lo rimette in posizione e poco dopo, al dolore che gli sale dal ventre, si aggiunge un nuovo, più violento, dolore al culo, che il negromante infilza lentamente, ma senza fermarsi un attimo. Drogotreci geme. Vorrebbe urlare, ma non ha neppure più fiato. Vrac spinge e il palo che è entrato in culo a Drogotreci avanza ancora. La sofferenza cresce, è lancinante: le dimensioni del cazzo sono mostruose e gli sembra che un coltello gli stia aprendo le viscere.

- Hai un bel culo, ragazzo!

Vrac ride, mentre dà una spinta più decisa, che fa entrare il cazzo ancora più a fondo. Drogotreci sente che le sue viscere vengono squarciate.

L’incantatore ritrae il cazzo e poi lo spinge in avanti. Ad ogni affondo, il dolore esplode e il prigioniero si morde il labbro per non urlare. Quando il palo si ritrae, Drogotreci ha un attimo di sollievo, ma il cazzo affonda nuovamente dentro di lui, lacerandogli la carne.

Vrac procede, instancabile, e Drogotreci fluttua in un mondo buio, in cui nessuna sensazione arriva a lui, se non quelle del palo che gli lacera le viscere e del peso del corpo che lo schiaccia. Il negromante gli stringe il culo con le dita e continua ad avanzare e ad arretrare, a un ritmo costante. Non ha fretta e vuole far durare il suo piacere.

Ora Vrac accelera il ritmo, spingendo più intensamente. Drogotreci affonda la faccia nel pagliericcio, per soffocare i gemiti. Ha sperato che l’uomo fosse alla fine, ma Vrac prosegue, muovendo il culo velocemente e infilandogli il cazzo a fondo a ogni spinta. Il dolore cresce ancora. Drogotreci chiude gli occhi.

L’incantatore infine ringhia e, dopo diverse altre spinte vigorose, si affloscia su di lui.

Drogotreci ha sentito il culo riempirglisi di sborro. Il cazzo del negromante perde volume e consistenza, il dolore rimane molto forte.

- Spero che la tua ultima scopata ti sia piaciuta.

Vrac si alza. Muove la mano e chiamati dal suo gesto appaiono tre servitori. Uno si inginocchia davanti a lui e gli pulisce il cazzo dal sangue di Drogotreci, leccandolo. Gli altri due prendono il prigioniero e lo portano in un grande pozzo sotterraneo, illuminato da una serie di torce. I servitori sciolgono le corde.

Drogotreci si alza, a fatica. Il dolore al culo è violento e lungo l’interno delle gambe cola sangue misto a sborro.

Si guarda intorno. Le pareti sono verticali e non offrono appigli: impossibile arrampicarsi. Ci sono due uscite, sbarrate da inferriate. Da una sono usciti i servitori. Adesso l’inferriata dell’altra si solleva. I lupi entrano nel pozzo.

 

Dvoboposte sta rientrando nella fortezza. Ha parlato con il capomastro che sta dirigendo alcuni lavori sulla cinta esterna. Gli si avvicina un uomo, che gli sorride e gli dice:

- Comandante, scusa se ti disturbo. Ho un dono per te.

Dvoboposte aggrotta la fronte.

- Un dono? Non ti conosco.

- No, certo. Mi è stato affidato da un amico che hai conosciuto… al fiume. Vi siete… bagnati insieme. Si chiama Zadhrab.

Zaomale ghigna mentre lo dice. A Dvoboposte dà fastidio l’ammiccamento dell’uomo e lo manderebbe via volentieri, ma questi prosegue:

- Zadhrab ha avuto un dono da te, che gli è servito molto. E per ringraziarti mi ha affidato questo pugnale.

Così dicendo, porge l’arma.

Dvoboposte la prende in mano. È una bella lama.

- Va bene. Ringrazia Zadhrab per il dono.

Senza dire altro, saluta e se ne va. Non ha voglia di chiedere notizie di Zadhrab, di sapere se ripasserà alla fortezza. Spera di non rivederlo più. È assurdo, lo sa benissimo: Zadhrab non ha fatto altro che offrirglisi e Dvoboposte ha goduto, ma l’umore del comandante in questi giorni è sempre tetro.

Zaomale lo guarda allontanarsi. Spera che la sua agonia sia lunga e dolorosa.

Lascia passare un po’ di tempo, poi raggiunge l’ingresso del recinto interno e chiede di poter parlare con il guaritore. Lo lasciano passare, controllando che vada direttamente nell’infermeria.

Zaomale bussa ed entra. Muskinoc sta curando un malato. Si volta e lo guarda. Si salutano, poi Zaomale dice:

- Vedo che sei al lavoro e non ti disturberò. Ti avevo chiesto di accettare un dono per ringraziarti di avermi salvato la vita. Ti ho portato questa tunica. Non è una stoffa di lusso: non tratto capi pregiati, ma la qualità è buona e spero che l’apprezzerai.

- Accetto questo dono e lo terrò per me.

Zaomale si stupisce che Muskinoc non ringrazi, ma ha accettato ed è quello che conta. Saluta e se ne va. Ha fatto quanto doveva. Torna alla locanda, ritira le sue cose e se ne va.

Muskinoc ha finito di curare.

Guarda la tunica: non potrà fargli nessun danno. Ma di certo anche il comandante ha ricevuto un dono. È ora di morire.

Muskinoc guarda fuori dalla finestra. Non conoscerà l’amore. La porta non si aprirà mai. Non ha importanza. Quello che conta è salvare il comandante.

 

In questo periodo Dvoboposte è molto occupato, sia per i lavori in corso al recinto esterno, sia perché è la stagione in cui c’è un grande viavai di mercanti e il comandante deve sovrintendere a tutte le operazioni di controllo. Muskinoc è costretto a rimandare il colloquio fino a sera. Solo dopo la cena ha la possibilità di parlargli da solo.

- Comandante, oggi hai ricevuto un dono.

Dvoboposte è stupito.

- Chi te l’ha detto?

- Nessuno, ma credo che sia così. Mi sbaglio?

- No, non ti sbagli. Mi hanno regalato un bel pugnale, un’ottima lama.

Muskinoc annuisce.

- Ti chiedo di donarmelo, per favore.

Dvoboposte è allibito. Muskinoc non ha mai chiesto niente per sé, sembrava non sapere neanche in che cosa consistesse il dono, perché lo chiede? E un pugnale, per di più, un’arma, che se ne fa uno che non maneggia armi e non mangia neppure carne?

- Perché lo vuoi? Che te ne fai di un pugnale?

- Non te lo posso spiegare, ma ti chiedo di darmelo.

La richiesta è assurda, ma c’è una chiara urgenza nella voce del guaritore e a lui Dvoboposte non può negare niente.

- Va bene, te lo vado a prendere, ma mi piacerebbe davvero capire perché lo vuoi.

- Scusami se non te lo posso dire.

Dvoboposte va a prendere l’arma e la porge a Muskinoc.

- Eccolo.

- È mio, ora?

- Sì. È tuo.

- Grazie, comandante.

Dvoboposte lo guarda uscire, scuotendo la testa. Non sa di avergli regalato la morte.

Muskinoc torna in infermeria. Si siede su un letto, al buio. Accarezza la lama. È contento di aver salvato il comandante, ma c’è una grande tristezza dentro di lui.

 

Quattro giorni sono passati. Zaomale è rimasto nelle vicinanze, in modo da poter avere notizie dalla fortezza. Il comandante e il guaritore stanno bene. Eppure secondo il negromante il veleno doveva fare effetto in tre giorni, per cui dovrebbero essere morti entrambi. Non osa ripresentarsi da Vrac, per cui decide di tornare da Snagaor.

Il siskri lo porta in volo fino all’ingresso.

Snaogar lo attende nella grande sala. Zaomale depone nella ciotola le pietre preziose che costituiscono il prezzo del consulto: gli pesa separarsene, perché ormai gliene sono rimaste pochissime, ma riuscire a vendicarsi è ciò che gli importa più di tutto. Deve sapere se davvero gli incantesimi non hanno fatto effetto e in questo caso come può rimediare.

A un cenno di Snaogar, incomincia a parlare.

- Mi avevi detto che l’incantesimo di Vrac avrebbe ucciso il comandante e il guaritore, ma sono entrambi vivi.

Snaogar guarda il libro che come sempre tiene davanti a sé e scuote la testa.

- Quanti errori! Il guaritore è solo in parte un figlio di Lilith e l’incantesimo avrebbe avuto un effetto limitato, ma non l’ha colpito, perché non ti aveva dato la sua tunica, ti aveva dato quella di un altro.

- Non è possibile!

- Ti avevo avvertito che anche lui prevede il futuro, ciò che lo riguarda, almeno. Sapeva che volevi ucciderlo.

- Allora non morirà?

- Non è detto. Ha attirato su di sé l’incantesimo destinato al comandante. Si è fatto donare il pugnale.

- Ma allora dovrebbe essere morto!

- Su di lui il veleno agisce più lentamente. Sono passati quattro giorni. Tra tre giorni sarà morto, se non interverrà qualche cosa.

- Non è sicuro che muoia?

- No, potrebbe esserci una via d’uscita anche per lui.

- E il comandante? Non morirà?

- No, lui sicuramente no.

Zaomale ripensa alle profezie della consultazione precedente.

- Mi avevi detto… mi avevi detto che se avessi fallito sarei morto.

- Così è scritto.

Zaomale è angosciato. Non vuole morire: ha accettato di correre il rischio, trascinato dal desiderio di vendetta, ma ora, di fronte alla morte, tutto il resto svanisce. Ha paura.

- Che cosa posso fare per non morire?

Snaogar scuote la testa e tace. Zaomale insiste e la voce gli si incrina:

- Non c’è niente che possa fare?

- Il destino è segnato. Ormai non c’è più spazio per cambiamenti.

Zaomale guarda il veggente. È incredulo, non riesce ad accettare l’idea di dover morire. Deve andarsene, allontanarsi da queste terre, raggiungere uno dei sette regni e stabilirsi lì, dove nessuno lo possa trovare. Sì, andare via, lontano, lasciarsi alle spalle tutto ciò che è stato e ricominciare.

Balbetta un addio, riprende la lanterna e risale lungo la scalinata.

Quando esce sullo spuntone roccioso, si accorge sgomento che il siskri non c’è più. Dove si era posato c’è solo una pozza di liquido.

Zaomale si avvicina. Oltre la roccia, più in basso, può vedere il corpo del siskri: è stato ucciso e il liquido che si vede alla luce lunare è il suo sangue. Ma chi…

La risposta arriva prima che Zaomale abbia potuto formulare la domanda. La terra vibra, come scossa da un tremito. Zaomale si volta e vede due giganti, con le mazze in mano: sono stati loro a uccidere il siskri.

Si volge verso la dimora del Veggente, ma la parete non presenta più nessuna apertura: non esiste più un ingresso. Un gigante ha alzato la mazza.

Zaomale scappa. Si intrufola tra le rocce, poi si lascia scivolare lungo il pendio e al fondo corre verso le aree dove l’ombra è più fitta. Un gigante salta e la sua mano si protende per afferrare il fuggitivo, ma Zaomale fa in tempo a passare tra le rocce. Vede uno spazio sotto una grossa pietra e ci si infila. Si accorge che può spingersi ancora più sotto: c’è una cavità naturale. Procede, scendendo un po’, fino a dove il buio è più completo. In alto può vedere una striscia più chiara, l’apertura attraverso cui è entrato. Qui non possono raggiungerlo: anche se lo avessero visto e provassero a infilare la mano, non riuscirebbero ad arrivare al fondo.

A un certo punto qualcuno passa davanti all’apertura: di certo è uno dei giganti, che forse lo fiuta, ma non riesce a individuare il punto in cui si trova. La terra vibra e si sente un rumore di rocce che vengono spostate. Zaomale rabbrividisce: se spostando la roccia riuscissero ad afferrarlo? O se chiudessero il passaggio e non potesse più uscire? O se delle rocce lo schiacciassero?

Un gigante si affaccia all’apertura. Non può vederlo, ma di certo ne sente l’odore. Il gigante infila la mano e il braccio, tastando nell’oscurità. Zaomale scivola ancora più in basso, fino al fondo della cavità, dove si acquatta, trattenendo il respiro. Il gigante cerca ancora, poi ritira la mano. Si sentono altri rumori e il terreno vibra ancora. Zaomale rabbrividisce.

Dopo un po’ però le vibrazioni cessano, i rumori si spengono. I giganti devono essersi allontanati. Zaomale decide di fermarsi nel suo rifugio: non osa uscire e gli sembra che non riuscirebbe a stare in piedi. Suda e ha i brividi. Chiude gli occhi. Dopo un po’ si addormenta.

Si sveglia quando ormai il sole è apparso oltre le montagne a oriente, sopra l’altopiano dove sorge Samar, e un po’ di luce arriva anche nella cavità in cui si trova. Risale fino all’apertura e guarda, senza sporgersi. Tutto sembra tranquillo. Allora mette la testa fuori e controlla. Nessun pericolo in vista.

Esce dal suo rifugio. Si trova sul fianco della montagna, tra dirupi e pietraie. Non sarà facile scendere fino al fiume.

Si avvia, muovendosi con cautela, guardandosi sempre intorno. Cerca di evitare i tratti in cui sarebbe visibile da lontano, ma non sempre può scegliere. Più volte è costretto a risalire, perché il pendio lungo cui scende finisce in un baratro.

È stanco, affamato e soprattutto assetato: non ha portato con sé cibo o bevande, contando di tornare subito dopo la consultazione. Potrà bere alla Grande Corrente, che a tratti appare tra i massi, ma gli ci vorranno ancora diverse ore per raggiungerla.

Trova infine un sentiero che scende verso il fiume: ora procedere diventa molto più facile e rapido. Verso mezzogiorno arriva a una terrazza naturale in cima a una parete rocciosa. Di lì può scorgere la Grande Corrente, che non è più lontana.

Si riposa un momento. Ora è più calmo. È scampato ai giganti e potrà dissetarsi. Ne approfitterà anche per bagnarsi, perché è in un lago di sudore.

L’ultimo tratto non presenta nessuna difficoltà: è infine al fiume. Si china e beve a lunghi sorsi. Poi si spoglia e scende in acqua. Rimane vicino alla riva, perché in questo tratto il fiume è più stretto e la corrente è impetuosa.

Dopo essersi rinfrescato, esce dall’acqua e si stende al sole, in un punto riparato. Chiude gli occhi. Ha bisogno di riposare ancora un po’. La luce del sole filtra attraverso le palpebre abbassate. Il sonno lo avvolge in fretta.

Un rumore lo desta. Apre gli occhi. Davanti a lui c’è un gigante, un Solitario. È in calore e si accarezza il grosso cazzo che svetta.

Un’ondata di panico travolge Zaomale. Fa per alzarsi, ma il gigante lo ha già afferrato.

Zaomale grida disperatamente, pur sapendo che è del tutto inutile: nessuno verrà in suo soccorso e di certo il gigante non si impietosirà.

Il gigante lo stende a terra, bloccandolo senza difficoltà con un braccio. Zaomale sente la pressione della mano sulla schiena, che lo inchioda al suolo.

Poi avverte contro il culo la pressione del cazzo del gigante. Urla. Una spinta violenta, una seconda, una terza, che sono come pugni di pietra.

E infine la carne cede e il cazzo del gigante gli entra in culo, squarciandogli le viscere. Zaomale grida, mentre il gigante lo possiede. Poi non ha più la forza di gridare: escono soltanto gemiti e singhiozzi.

Il gigante viene in fretta: i Solitari ci mettono pochi minuti. Si ritrae, il cazzo coperto di sangue, e si allontana, senza guardare la sua vittima, che giace incosciente a terra, in una pozza di sangue.

Zaomale muore dopo un’ora, senza aver ripreso conoscenza.

 

Nella fortezza nessuno riesce a capire che cosa abbia il comandante. Non lo riconoscono più: negli ultimi giorni non lo si vede mai scherzare, pare sempre essere di cattivo umore e preferisce starsene da solo. Sono tutti stupiti del cambiamento avvenuto in lui.

Anche adesso che è sceso al fiume a bagnarsi, si è appartato. Gli uomini hanno capito che non vuole compagnia e si tengono alla larga.

Dvoboposte si trova ad affrontare un nemico da cui non riesce a difendersi: il sentimento che prova è qualche cosa di nuovo. Se amasse un altro uomo, gli proporrebbe di scopare, ma Muskinoc gli appare irraggiungibile. E poi, chi potrebbe amarlo? “Brutto come la morte” lo ha definito Zlatorat e l’ufficiale ha ragione.

È proprio Zlatorat ad avvicinarsi. Si viene a sedere di fianco a lui. Dvoboposte lo ignora. L‘ufficiale gli sta simpatico e Dvoboposte non se l’è mai presa per le sue battute, pungenti ma non cattive.

Zlatorat lo sta fissando e sorride. Il comandante non può continuare a ignorarlo.

- Che hai da guardare?

- Niente, comandante. Mi stavano venendo certi pensieri…

- Che pensieri?

Zlatorat sorride.

- Pensavo che hai un signor cazzo e dicono che sei proprio bravo a scopare.

Dvoboposte è sorpreso.

- Ma non dicevi che sono brutto come la morte?

- Sì, lo sei, ma mi piace il tuo cazzo.

Dvoboposte ride. C’è molta amarezza nella sua risata, ma Zlatorat non è in grado di coglierla. Non ha voglia di scopare, ma nella notte ha sognato Muskinoc e poco è mancato che venisse mentre in sogno lo spogliava. Meglio svuotare i coglioni.

- Se ci tieni a gustarlo, possiamo rientrare alla fortezza.

Dvoboposte preferisce non dare spettacolo.

- Molto volentieri, comandante.

Dvoboposte si riveste. Mentre si dirigono alla fortezza, pensa che non ha senso, non ha nessun senso. Non gli importa di scopare con Zlatorat, anche se ha un bel corpo forte e gli sta simpatico. Ma ha senso rimanere casto e sognare Muskinoc la notte? O farsi le seghe pensando a lui?

Nella camera Dvoboposte si spoglia. Non c’è spazio per la tenerezza, per le carezze. Quello che Zlatorat vuole è una buona scopata. Quello che Dvoboposte vorrebbe è altro, ma non può averlo. E allora si tratta solo di svuotare i coglioni.

Guarda Zlatorat, già nudo davanti a lui, il viso incorniciato dalla barba scura, le spalle larghe, ben tornite, il ventre coperto da un fitto pelame scuro, le braccia e le gambe muscolose. Non un bell’uomo, ma un maschio vigoroso e comunque molto più appetibile di lui. Eppure non gli interessa davvero, non è l’uomo che Dvoboposte desidera.

Zlatorat si stende sul letto e allarga le gambe, guardando la formidabile attrezzatura del comandante. È impaziente di gustarla.

Dvoboposte annuisce. Si avvicina al letto, poggia le mani sul culo e divarica le natiche. Gli piace sentire la carne soda cedere sotto la pressione delle dita. Osserva l’apertura che si offre. Sputa, poi con due dita sparge un po’ di saliva. Quando un dito si intrufola, Zlatorat geme.

Dvoboposte si mette tra le gambe dell’ufficiale, avvicina il cazzo, ormai teso, al buco del culo e lo spinge dentro, lentamente. Il gemito di Zlatorat diventa più forte.

- Sì, sì!

Dvoboposte avanza ancora, fino in fondo. Lascia a Zlatorat il tempo di abituarsi alla sua poderosa mazza, poi dà inizio alla cavalcata, che dura a lungo. Dvoboposte è un bravo stallone e sa alternare spinte vigorose e movimenti lenti, che infiammano il desiderio di Zlatorat. Questi geme sempre più forte, finché non emette un grido strozzato e viene. Allora Dvoboposte accelera il ritmo e dopo alcune spinte vigorose viene dentro il culo di Zlatorat.

Dvoboposte esce e si alza. Zlatorat si mette a sedere sul letto. Il movimento provoca un po’ di dolore e una contrazione sul viso.

- Cazzo, comandante! Che meraviglia!

Dvoboposte annuisce, mentre si rimette i pantaloni. Si chiede che senso ha quello che ha fatto. Nessuno.

Anche Zlatorat si riveste.

 

 

Muskinoc sa che ormai non manca molto. Due, tre giorni. La morte lo attende. In fondo lo prevedeva: le immagini del futuro che gli sono comparse in alcune occasioni non riguardavano mai il periodo successivo all’attacco alla fortezza. La porta è rimasta chiusa e non sarà aperta.

L’amore non è arrivato o, meglio, è arrivato, ma Muskinoc sa che non è ricambiato: l’uomo che ama da tempo lo ignora.

Muskinoc sa che è inutile, ma non vuole lasciare nulla di intentato: proverà a parlare con il comandante, cercherà di dirgli ciò che prova. Non ha mai amato, non sa come si esprimono i sentimenti, ma vuole almeno fare un tentativo.

Prende la scala interna che dall’infermeria conduce al piano superiore. Mentre sta per infilarsi nel corridoio che porta alla camera del comandante, la porta della stanza si apre e Zlatorat ne esce. Muskinoc si ferma, nell’ombra: non vuole che altri sappiano del colloquio.

Dvoboposte si affaccia alla porta. È a torso nudo.

Zlatorat, che è già nel corridoio, dice:

- Avevo ragione. Sei bravo a scopare. Il culo mi fa male, ma va bene così.

Muskinoc si è messo contro la parete. Quando il comandante richiude la porta, torna indietro. Sorride, un sorriso triste. Entra nell’infermeria, dove non c’è nessuno. Si siede su una sedia e guarda il riquadro luminoso della finestra. I suoi giorni si stanno avvicinando alla fine. L’aveva pensato. Ha conosciuto l’amicizia e a Boratni e Jakhrab è immensamente grato per questo. Ha scoperto l’amore, ma un amore senza speranza.

 

Il giorno dopo Muskinoc si sente molto stanco. Ormai non manca molto.

Jakhrab osserva:

- Sei pallido, Muskinoc.

- Lo so.

- E ti muovi più lentamente. Che cosa c’è che non va?

- I miei giorni alla fortezza si avviano alla fine.

Jakhrab non ha capito il senso della frase. Chiede:

- Intendi andartene?

Muskinoc tace un momento, poi risponde:

- Sì, me ne andrò.

- Mi spiace che tu te ne vada…

Boratni invece ha intuito: ha una maggiore sensibilità e il legame che lo unisce al guaritore è più profondo. Alla frase di Muskinoc si è sentito gelare e non è riuscito a parlare. Ora trova a fatica le parole per chiedere:

- Muskinoc, ci stai dicendo che… che morirai?

Muskinoc alza lo sguardo su di lui e sorride, un sorriso mesto:

- È così, Boratni.

Jakhrab chiede:

- Ma perché? Come è possibile?

- Su di me pesa un incantesimo mortale.

- Tu sai curare tutte le malattie, conosci i veleni. Qual è il rimedio?

- Non esiste. O, meglio, non esiste in questo caso.

- Perché non esiste?

Boratni non può accettare l’idea che Muskinoc muoia.

- Perché non esistono le condizioni necessarie. Non dipende da me, Boratni.

- Non c’è niente che noi possiamo fare?

- No.

- Chi può fare qualche cosa?

Muskinoc scuote la testa.

- Nessuno. Vi posso spiegare, ma dovete giurare che non riferirete mai a nessuno ciò che vi dirò.

Boratni risponde:

- Ne parliamo tra poco. Adesso noi due dobbiamo fare una cosa, ma poi torniamo.

- Va bene.

A Jakhrab non risulta che abbiano nessun impegno, ma Boratni deve avere qualche cosa in testa, per cui lo asseconda.

Quando sono fuori, Boratni dice:

- Vieni con me.

Raggiunge un angolo del cortile dove non sono visibili dalle finestre dell’infermeria. Si ferma e dice:

- Dobbiamo salvare Muskinoc.

- Certo! Ma come possiamo fare, Boratni?

- Credo che ci sia una via d’uscita, ma lui non vuole dirla, magari perché metterebbe a rischio la vita di qualcun altro. Non so, ma dobbiamo capire che cosa si può fare. Tu te lo farai raccontare. Io ascolterò nascosto, così non sarò vincolato da nessun giuramento.

Jakhrab annuisce.

- Non mi piace ingannarlo, ma se in questo modo possiamo capire come salvarlo, va fatto.

- Lasciamo passare un momento.

Qualche minuto dopo i due rientrano in infermeria. Boratni dice:

- Io devo parlare con il comandante. Torno più tardi. Intanto tu spiega a Jakhrab.

Si dirige alla porta interna, la apre e la richiude dietro di sé, lasciando però uno spiraglio. Non può vedere dentro, ma può sentire.

Jakhrab si siede su uno dei letti, vicino alla porta interna. Muskinoc si siede vicino a lui.

- Raccontami tutto, Muskinoc. Cos’è questo incantesimo?

- Jakhrab, ti impegni a non riferire a nessuno ciò che ti dirò? Puoi raccontarlo a Boratni, ma solo dopo che anche lui si sarà impegnato a tacere.

- Va bene. Mi impegno. Ora dimmi.

Muskinoc annuisce.

- L’incantesimo dev’essere stato fatto su richiesta di Zaomale: è lui che vuole la morte mia e del comandante, per vendicarsi del fallimento della spedizione e prima ancora, da quel che ho capito, dell’impiccagione dei suoi tre fratelli.

- Sì, li catturammo quando avevamo appena incominciato i lavori di costruzione della fortezza.

- Zaomale ha fatto preparare due oggetti incantati, per darci la morte, e ce li ha donati.

- Ma come? È venuto alla fortezza?

- Sì, due volte. La prima si è fatto curare da me, per un veleno che probabilmente aveva preso lui stesso. Non sto a raccontarti i dettagli, ma mi ha regalato una tunica che avrebbe dovuto darmi la morte.

- Per quello…

- No. Sapevo che il suo dono sarebbe stato di morte e ho fatto in modo di sventare la minaccia.

- E allora?

- In qualche modo ha contattato il comandante, non so come: la prima volta che era venuto alla fortezza non gli aveva parlato. Quando è tornato, gli ha donato un pugnale.

- Anche quello è un dono incantato, che dà la morte?

- Sì.

- Allora anche il comandante è in pericolo. Per quello in questi giorni…

Muskinoc lo interrompe di nuovo:

- No. Me lo sono fatto regalare. Così ho attirato su di me l’incantesimo.

- E così morirai al posto suo. Non potevi dirgli di gettarlo via?

- No, l’incantesimo avrebbe avuto ugualmente effetto. Poteva liberarsene solo regalandolo e insieme al dono avrebbe regalato anche la morte.

- E tu l’hai preso su di te. Perché?

- Sono fatto così, Jakhrab.

Sì, Muskinoc è fatto così. Jakhrab si sente angosciato. Non può accettare che il suo amico muoia per aver salvato il comandante.

- Non c’è rimedio?

- Ci sarebbe: il seme di un uomo che amo e che mi ama.

- Muskinoc, non ami qualcuno?

- Sì, posso dirtelo, ma giura che non lo dirai a nessuno, che non racconterai a nessuno ciò che ti dirò.

- Mi sono già impegnato.

- Fallo di nuovo.

Jakhrab si sente un po’ in colpa: anche se non lo racconterà a nessuno, sta facendo in modo che Boratni venga a saperlo, senza essere vincolato a un giuramento. Sta ingannando Muskinoc, ma lo fa per salvarlo.

- Va bene, te lo giuro.

- Amo il comandante, ma a lui non importa nulla di me.

- E il suo seme potrebbe salvarti?

- Solo se lui mi amasse, ma non è così.

- Bisogna che tu gli parli.

- No!

- Gli posso parlare io.

- No! Hai promesso, Jakhrab.

- Ma perché no?

- Perché lui non mi ama. E non voglio che si senta in colpa perché non può salvarmi.

Boratni lascia il suo posto dietro la porta e sale la scala: lui non ha promesso niente e non intende perdere un minuto. Bussa alla porta del comandante, sperando di trovarlo: sa che deve far presto.

Dvoboposte ha sbrigato alcune incombenze e poi è tornato in camera, come fa spesso in questi giorni. Di solito non rimane mai nella sua stanza durante il giorno, ma ormai non ha più voglia di vedere nessuno e se non ha un impegno, si isola.

Si è disteso sul letto, ma quando sente bussare si alza.

- Avanti.

Boratni entra.

- Comandante, posso parlarti?

- Certo, Boratni.

Boratni chiude la porta dietro di sé. Dvoboposte gli fa segno di sedersi e fa altrettanto.

- Comandante, Muskinoc si sta spegnendo.

Dvoboposte apre la bocca. La sensazione è quella di un colpo vibrato allo stomaco, forte, troppo forte per riuscire a respirare ancora. A fatica chiede:

- Che cosa dici?

- Tu non ti sei accorto di niente perché non passi più a trovarlo. Posso chiederti perché?

Dvoboposte non risponde. Chiede invece:

- Che cos’ha? Perché dici che si sta spegnendo?

- Un incantesimo. Si è fatto donare da te il pugnale incantato, che ti avrebbe fatto morire, in modo da attirare su di sé la morte che ti era destinata.

- Non è possibile. Non questo.

Dvoboposte sente che gli manca il fiato. Il dolore lo schianta. Non può tollerare l’idea di aver provocato la morte di Muskinoc. Perché non ha sospettato, non si è poste domande? Muskinoc che gli chiede il pugnale che ha appena ricevuto in dono. Muskinoc, un pugnale! E lui non si è neanche chiesto il perché! Coglione! Come ha potuto essere così idiota? Non può essere, non può. Ci deve essere una via d’uscita, un modo per salvarlo!

- Ma lui conosce…

Boratni lo interrompe:

- Sì, conosce i veleni e i rimedi, ma c’è un solo modo per fermare questo incantesimo.

Una speranza si accende in Dvoboposte. Se c’è un modo, allora lo salveranno.

- Qual è?

- Ti ho fatto una domanda, comandante. Perché non vai mai a trovarlo? E non mi dire che hai troppo da fare.

- Potrei risponderti che non sono cazzi tuoi.

- Non lo sono, hai ragione. Ma non te lo chiedo per me, te lo chiedo perché riguarda la vita di Muskinoc. Non ti importa niente di lui?

- Dovrei sbatterti in cella, Boratni.

- Puoi farlo, se vuoi. Ma rispondi alla mia domanda.

Dvoboposte si appoggia allo schienale della sedia. Cede, di colpo. In fondo ha voglia di liberarsi del peso che porta dentro o almeno di condividerlo con qualcuno e Boratni è la persona più adatta.

- Mi importa di lui. Troppo. Non vado a trovarlo perché voglio togliermelo dalla testa. Voglio smettere di sognarlo la notte. Vorrei poter scopare o anche solo farmi un sega senza pensare a lui. Soddisfatto ora?

Boratni annuisce, raggiante.

- Sì, comandante. Perché se quello che provi, e che non hai coglioni per chiamare con il suo nome, è amore, allora puoi salvare Muskinoc.

Dvoboposte è completamente disorientato.

- E come?

- Muskinoc può essere salvato solo dal seme dell’uomo che ama, se quell’uomo ricambia il suo amore.

Il ricordo del dialogo con lo zio di Muskinoc ritorna nella mente del comandante. Sì, aveva detto la stessa cosa.

- E allora? Che c’entro io?

- Sei più stupido di quanto pensassi. Non ti sei reso conto che anche lui…

Dvoboposte guarda Boratni, senza davvero capire.

- Che cazzo stai dicendo?

- Ti ama. Non l’hai capito?

- Non è possibile.

Boratni scuote la testa, impaziente. Dvoboposte chiede:

- Mi vedi, Boratni?

- Certo che ti vedo.

- E pensi che Muskinoc potrebbe amare uno come me?

- Sei proprio scemo, comandante, se credi che uno come lui guardi la bellezza. Ma non ha importanza: tu lo ami e lui ti ama. Puoi salvarlo. Adesso io e te andiamo in infermeria e tu parli con Muskinoc. E lo guarisci. Io sto fuori con Jakhrab e impediamo a chiunque di entrare. Oggi gli altri possono morire tutti. Oggi guariamo il guaritore.

Boratni si alza. Dvoboposte lo guarda, immobile.

- Muoviti!

Dvoboposte scuote la testa, ma si alza.

- Si direbbe che sia tu il comandante.

Boratni sorride.

- Mi sa che oggi è meglio se ci scambiamo i ruoli.

Dvoboposte annuisce:

- Sì, perché altrimenti dovrei sbatterti in cella. Mi hai dato dello scemo e dello stupido. E mi hai anche detto che sono senza coglioni.

Boratni ride. Il sollievo che prova sapendo che Muskinoc non morirà lo rende allegro.

- Scemo e stupido sono la stessa cosa, in pratica è un insulto solo, anzi, direi che più che un insulto è una descrizione della realtà. Ma è inutile discuterne. Questa sera se vuoi puoi farmi impiccare, ma prima salvi Muskinoc.

Scendono per la scala interna e raggiungono l’infermeria.

Muskinoc e Jakhrab sono seduti in silenzio.

Dvoboposte guarda Muskinoc. Come ha fatto a non accorgersi delle condizioni in cui si trova?

Boratni dice:

- Jakhrab, il comandante deve parlare con il guaritore e io e te ce ne andiamo.

Jakhrab guarda Boratni e annuisce, senza dire nulla. Si alza e segue il compagno.

Non appena sono fuori e Boratni ha chiuso la porta, chiede:

- Hai potuto fare qualche cosa, Boratni?

- È fatta! Anche il comandante lo ama.

Jakhrab sorride.

- Che sollievo!

 

Dvoboposte è di fronte a Muskinoc. Non ha aperto bocca. Finalmente riesce a dire:

- Sei pallido, Muskinoc. E anche smagrito. Ma rimani bellissimo.

Muskinoc sorride. Non dice nulla. Dvoboposte coglie un leggero tremito. Non sa bene da che parte incominciare, per cui prova a dire, scherzoso:

- Tu che te ne intendi di farmaci, ne conosci qualcuno che possa trasformare un uomo brutto come la morte in un bel maschio?

Muskinoc lo guarda perplesso, poi risponde:

- No. Non conosco farmaci di questo tipo.

- Ma come faccio a fare una dichiarazione d’amore con questa faccia?

Muskinoc ha intuito. Il suo cuore accelera i battiti.

- Pensi che cambierebbe qualche cosa? Hai così poca stima dell’uomo che ami?

- No, ma vorrei avere qualche cosa di più da offrire.

Muskinoc scuote la testa. C’è di nuovo un leggero tremito. Forse lo stare male gli impedisce di controllare pienamente le reazioni del suo corpo.

- Conta così tanto la bellezza del corpo per voi figli di Eva?

Dvoboposte scuote la testa.

- Sei troppo serio, Muskinoc. Non ti ho mai visto ridere, ridere davvero.

Poi si dice che è inutile che continui a menare il cane per l’aia.

- Muskinoc, da tempo mi sono innamorato di te. Mi sei sempre sembrato irraggiungibile e anche oggi non ti avrei parlato, se Boratni non mi avesse quasi forzato. Vorrei poterti baciare, abbracciare, stringere. E… vorrei scopare con te.

Gli occhi di Muskinoc brillano. Una lacrima scende.

Dvoboposte gli si avvicina, gli prende il viso tra le mani, lo bacia sugli occhi e poi le sue labbra si posano sulla bocca del guaritore. È un bacio leggero, appena uno sfiorarsi.

- Andiamo in camera mia?

- Sì.

Passano dalla porta interna e salgono le scale. Dvoboposte non dice nulla: ora è incerto; non c’è traccia della tranquilla sicurezza con cui abitualmente si appresta a fottere. Ma questa non è una scopata qualunque: per la prima volta lo farà con un uomo che ama. E, soprattutto, sarà la prima volta di Muskinoc: vorrebbe che per lui fosse tutto perfetto, ma non sa da che parte incominciare. Non è mai stato il primo per nessuno.

In camera Dvoboposte chiude la porta e poi guarda il guaritore. Gli si avvicina, lo bacia e poi gli sfila la tunica con movimenti lenti e delicati, un sorriso sulle labbra.

Appoggia le mani sul suo viso in una carezza lieve, poi le fa scendere sul torace, tra la peluria leggera che lo copre. Le dita stuzzicano i capezzoli e poi stringono il petto. Il contatto gli trasmette una sensazione fortissima e accende il suo desiderio.

Muskinoc vorrebbe baciare Dvoboposte, ma non osa: si sente smarrito, incapace di muoversi. Non gli sembra possibile che davvero il comandante lo ami e lo desideri. Incerto, lascia che in questa esperienza del tutto nuova sia l’uomo che ama a condurre il gioco: lui sa come si fa, in che modo due corpi possono incontrarsi.

Dvoboposte non sembra avere fretta. Accarezza a lungo Muskinoc.

- Ti amo, Muskinoc.

Muskinoc sorride, ma è turbato. Riesce a dire:

- Anch’io ti amo, Dvoboposte.

È la prima volta che Muskinoc lo chiama per nome ed è bello sentirlo.

- Dimmelo ancora.

- Ti amo, Dvoboposte.

Dvoboposte lo abbraccia. Anche lui ha paura e non sa come muoversi. Sono tutti e due incerti, il figlio di Lilith che non ha mai scopato e il figlio di Eva che ha scopato tante volte.

Dvoboposte riprende a spogliare Muskinoc. I suoi movimenti sono impacciati, come se non avesse spogliato tanti uomini, ma gli sembra quasi di commettere un sacrilegio. Gli cala i pantaloni. Ora il guaritore è nudo davanti a lui. Dvoboposte osa appena guardarlo, ma il desiderio si accende in lui e assume una forma precisa.

La voce di Muskinoc lo riscuote:

- Posso spogliarti, Dvoboposte?

- È quello che desidero.

Dopo aver sfilato la tunica di Dvoboposte, Muskinoc gli guarda il petto segnato da tre cicatrici: un taglio obliquo al ventre, sopra l’ombelico, e due sul torace, a sinistra, molto laterali. Le sue dita percorrono i segni delle vecchie ferite, in una carezza lieve.

Esita, le dita indugiano sul petto, giocano con il pelame rigoglioso che lo copre, poi scendono a calare i pantaloni.

Muskinoc fissa affascinato il cazzo di Dvoboposte, non ancora rigido, ma già proteso in avanti. Nella sua testa si rincorrono strani pensieri. Vorrebbe stringerlo, succhiarlo, sentirlo dentro di sé. Ma non riesce a esprimere i suoi desideri, né con le parole, né con i gesti: è bloccato, confuso. Vorrebbe sapersi muovere con sicurezza, trovare i gesti giusti, le parole adatte, ma non ci riesce.

- Che cosa vuoi che facciamo, Muskinoc?

- Prendimi, Dvoboposte.

Offrirsi è la cosa più semplice: non deve fare nulla.

Dvoboposte lo guida a stendersi prono sul letto. Muskinoc allarga le gambe, senza dire una parola, spaventato e felice. Dvoboposte si siede accanto a lui e gli accarezza la schiena. È una carezza dolce, che trasmette brividi di piacere a Muskinoc. La mano scorre sul collo, sulla schiena, sul culo, poi risale e nuovamente scende. Questa volta le dita scorrono leggere sul solco, poi scendono ancora, lungo le gambe. Risalgono e premono sul solco con più forza, stuzzicando l’apertura.

Poi Dvoboposte si stende su di lui e lo bacia sul collo. Le sue mani gli scompigliano i capelli, poi ritornano ad accarezzargli la schiena e il culo. Carezze ora delicate, ora appassionate, mani che sfiorano e stringono. Muskinoc sente il piacere salire, mentre lentamente tutto il resto scompare: per la prima volta il desiderio si desta e assume una forma precisa. Il cazzo gli si tende ed è una sensazione del tutto nuova e fortissima. Dvoboposte si sposta un po’ di lato. Passa due dita umide sull’apertura e prepara la strada. Muskinoc sorride. Dvoboposte avanza fino a che Muskinoc sente la cappella premere contro il suo culo e poi forzare l’ingresso.

Dvoboposte si muove lentamente, ma il piacere che inonda Muskinoc è violento. A ogni spinta, a ogni carezza della mano, a ogni morso, gli sembra che diventi più forte, lo avvolga tutto. Muskinoc perde coscienza di tutto ciò che non è Dvoboposte, le mani che percorrono il suo corpo, la bocca che lo bacia e lo mordicchia, il cazzo che affonda dentro di lui e si ritrae in un movimento continuo.

Muskinoc si abbandona a Dvoboposte e al piacere che questa cavalcata gli trasmette, un piacere che continua a crescere, annullando tutto il resto: la stanza, la fortezza, il passato, il futuro. Tutto scompare anche per Dvoboposte: esiste solo questo corpo che stringe e che gli trasmette un piacere intensissimo. È il corpo dell’uomo che ama, non uno dei tanti che ha posseduto per soddisfare un bisogno, il corpo che ha desiderato e sognato a lungo e che gli è sempre apparso irraggiungibile.

Dvoboposte procede a lungo, rallentando la cavalcata quando si sente prossimo a venire e poi accelerando, finché il desiderio non può più essere contenuto: allora conclude con una serie di spinte più violente e rapide e il seme si sparge nel culo di Muskinoc. Il piacere lo acceca e per un momento rimane incapace di parlare o di muoversi.

Poi, quando riprende contatto con la realtà, sussurra:

- Amore mio.

Muskinoc riemerge dall’abisso in cui è sprofondato, ma sente di essere diverso. Non sono solo il piacere violento che ha provato e lo svanire della sensazione di debolezza di questi ultimi giorni: è qualche cosa che si schiude. La porta sta per aprirsi.

Dvoboposte esce da lui e lo stende sulla schiena. Lo bacia sulla bocca, sulla fronte, sul collo, sul petto, sul ventre, sul cazzo. Poi prende in bocca l’uccello di Muskinoc e incomincia a succhiarlo, lentamente. Muskinoc sente che il piacere cresce ancora, mentre le sue mani accarezzano il capo di Dvoboposte.

Infine il piacere esplode, il seme si spande nella bocca del comandante e una porta si spalanca. Oltre la porta tante immagini che si accavallano. Alcune svaniscono in fretta e Muskinoc riesce appena a intravederle, altre rimangono fisse.

Dvoboposte inghiotte il seme, poi si stende su Muskinoc e lo bacia sulla bocca.

Il guaritore lo guarda e sorride.

- Così questo è scopare. È bellissimo.

- Sono contento che ti sia piaciuto. Be’, diciamo che se non ti fosse piaciuto, mi sarei preoccupato. Sei diverso da tutti gli uomini che ho conosciuto, ma c’è un limite a tutto.

Dvoboposte sorride. Poi aggiunge:

- Sei unico, amore mio.

- Non provavo desiderio, Dvoboposte. Al fiume ho visto spesso gli uomini scopare, in tante forme diverse, ma… mi sembrava quasi un gioco, come quando da bambini ci si rincorre o ci si nasconde. Non ne capivo il senso. Ora so che cos’è il desiderio.

Sul viso di Muskinoc appare nuovamente un sorriso, mentre aggiunge:

- Ora ti desidero e vorrei farlo ancora.

Dvoboposte ride.

- Ci credo! Io vorrei farlo tutti i giorni, se tu sei d’accordo.

- Mi sembra un’ottima idea.

Muskinoc guarda Dvoboposte e un lampo di malizia gli appare negli occhi.

- Posso…

Esita, vergognandosi.

- Puoi tutto, Muskinoc.

- Posso sentire che gusto ha il tuo…

Si interrompe. Dvoboposte continua per lui:

- Il mio cazzo? Certo! Lui ne sarebbe ben contento. E io pure.

Dvoboposte ride, scivola di lato e si stende supino accanto a Muskinoc.

Questi si solleva, si inginocchia accanto al comandante e avvicina la bocca al suo cazzo. Avvolge la cappella con le labbra e incomincia a succhiare. Non sa bene come si fa, ma non deve essere difficile. E gli piace, gli piace sentire questa carne calda, che acquista volume e consistenza e nuovamente si tende. Muskinoc scopre stupito che anche in lui il desiderio si ridesta. Lascia la sua preda e fissa affascinato questa bestia gagliarda che ha nuovamente alzato la testa e sembra invitarlo. Vorrebbe afferrarla con la mano, ma prova vergogna. Dvoboposte lo vede esitante e gli chiede:

- Che c’è, Muskinoc?

- È tutto nuovo, per me. Posso toccarlo?

Dvoboposte ride. La domanda gli sembra assurda.

- Certo che puoi toccarlo!

Gli passa una mano sulla schiena, in una carezza. Muskinoc afferra la preda. Gli piace sentire questo pezzo di carne caldo e duro nella sua mano. Lo accarezza con la destra, con la sinistra stringe un po’ i coglioni, lasciando che sia il desiderio a guidarlo. È la prima volta che esplora il corpo di un maschio. Ne ha toccati molti, alla ricerca di sintomi, per curare. Non è mai stato il desiderio a guidarlo.

Poi riprende il cazzo in bocca e si rimette a succhiare, ma le sue mani giocherellano ancora con i coglioni.

La voce di Dvoboposte lo riscuote:

- Spero che ti piaccia.

Muskinoc lo guarda e scoppia a ridere. Lascia la presa per rispondere:

- Direi proprio di sì. Senti, mi metto tra le tue gambe.

Dvoboposte allarga un po’ le gambe e Muskinoc si sistema tra le ginocchia, poi riprende ad assaporare il boccone di carne che ormai gli riempie la bocca. Mentre succhia avidamente, poggia le mani sul culo del comandante e le sue dita stringono, affondando nella carne.

- Sto per venire, Muskinoc.

Muskinoc non sa che gusto ha lo sborro di un uomo: ora intende scoprirlo. La scarica è abbondante e il guaritore inghiotte. Quando ha leccato anche le ultime gocce, dice:

- Mi piace il tuo cazzo, comandante. Mi piace anche il tuo sborro, lo chiamate così, no?

Dvoboposte non risponde subito. Ha chiuso gli occhi, scosso dalla violenza del piacere: non pensava di godere di nuovo tanto.

Ora riapre gli occhi. Guarda l’uomo che ama.

- Sì, lo chiamiamo così.

Muskinoc è inginocchiato sul letto e lo guarda. Ha il cazzo duro, teso verso l’alto. Dvoboposte parla:

- Mi vuoi prendere, Muskinoc? Vuoi mettermelo in culo? Qui alla fortezza nessuno l’ha mai fatto.

- Mi piacerebbe, ma non voglio forzarti.

- Forzarmi? Io lo desidero. Voglio che tu mi prenda.

Non gli era mai passato per la testa, ma ora davvero lo desidera, vuole sentire dentro di sé il cazzo dell’uomo che ama, vuole essere suo, abbandonarsi a lui.

Dvoboposte si stende sulla pancia e allarga un po’ le gambe. Muskinoc contempla il culo che gli si offre, la fitta peluria scura che lo copre. Lo accarezza, lo stringe con le mani, forte. Contempla l’apertura.

- Inumidisci un po’ con la saliva.

Muskinoc si sputa sulle dita e poi sparge la saliva intorno all’apertura. Far scorrere le dita lungo il solco, premere, sentire la carne che cede, infilare prima il medio e poi anche l’indice ben dentro il culo, tutto è nuovo per lui, lo incuriosisce ed esaspera il suo desiderio.

Si sputa di nuovo sulla mano e sparge un po’ di saliva sulla punta del cazzo. Guarda il culo che gli si offre. Sente che tutto il suo corpo brucia e la cappella già preme contro l’apertura che sta per forzare. Le sue mani abbozzano una carezza, poi spinge il cazzo in avanti, con un movimento lento: non vuole far male.

Dvoboposte sente il cazzo entrargli in culo: una sensazione ormai dimenticata. Avverte un po’ di dolore, perché la carne cede a fatica, e insieme un’ondata violenta di piacere. Il cazzo gli si tende, per la terza volta.

Quando è arrivato quasi in fondo, Muskinoc arretra, estraendo quasi interamente il cazzo. La sensazione è tanto violenta da stordirlo. Vorrebbe urlare e per soffocare l’urlo morde la spalla di Dvoboposte, senza quasi rendersene conto. Un morso forte, che lascia il segno dei denti nella carne.

Poi spinge nuovamente in avanti. Affondare il cazzo nel culo che cede e sentirne il calore è una sensazione tanto forte che non riesce a trattenere un gemito sordo. Arriva fino in fondo e passa le mani sotto il corpo di Dvoboposte, stringendolo in un abbraccio.

Chiede, e nella sua voce ora c’è tenerezza, una dolcezza che deborda:

- Va bene così?

Dvoboposte fa fatica a trovare la voce, tanto forte è il piacere:

- Sì, va bene così.

Con un movimento rapido Muskinoc estrae quasi completamente il cazzo dal suo fodero di carne e poi lo affonda uno, due, tre, più volte. Gli sembra di non essere più in grado di controllarsi e si abbandona completamente al desiderio che lo guida. È un desiderio violento e tutto il suo corpo urla di un piacere sconfinato.

Infine il piacere esplode in entrambi e il seme di Muskinoc si riversa nel culo del comandante, che sparge il proprio sul lenzuolo.

Muskinoc si abbandona sul corpo di Dvoboposte, smarrito.

Quando recupera la capacità di parlare, Muskinoc dice:

- Non pensavo… che si potesse godere così…

- Neanch’io, Muskinoc. Ho scopato molte volte, ma con te è diverso… non avevo mai provato tanto piacere. E non capisco… sono venuto tre volte di seguito. Non mi era mai successo.

Muskinoc ride:

- È il mio seme. Il tuo ha vinto l’incantesimo e mi ha ridato la vita, il mio genera desiderio e potenza.

- Non lo sapevo. Non…

Stava per dire che Muskinoc non glielo aveva mai detto, ma pensa che se non aveva mai scopato e non provava desiderio, non poteva certo usare il suo seme.

- Non lo sapevo neanch’io. Ma adesso so più cose.

Muskinoc gli accarezza l’orecchio, la nuca, la testa. Dvoboposte pensa che è bello sentire le sue dita sulla pelle, il suo cazzo ancora duro in culo, il peso del suo corpo su di lui.

- Hai… si è aperta la porta?

- Sì.

- E che cosa hai visto? Me lo puoi dire?

- Te lo dirò. Tante cose.

- Mi basta saperne una, ora.

Muskinoc ha capito. Risponde:

- Ho visto che rimarremo insieme.

 

(2020)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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