Ritorno a Karanük Fermo la moto sul ciglio
della strada e guardo la valle. Poi tiro giù la cerniera dei jeans e mi metto
a pisciare. Abbasso lo sguardo. Il vento devia il getto verso sinistra. Alzo gli
occhi e fisso nuovamente la valle, senza smettere di pisciare. Che senso ha essere venuto
qui? Probabilmente nessuno. Sono una testa di cazzo.
Scrollo le spalle. La notizia l’ho vista su
Internet. Poche righe, su un sito inglese dedicato all’emigrazione: un
afghano, entrato clandestinamente in Turchia, violentato e ucciso in questa
valle; nel testo era scritto che i casi di migranti stuprati devono essere
numerosi nell’area, anche se non vengono denunciati. L’ho scoperto per caso,
non cercavo nulla del genere. Ho solo digitato il nome della valle, un nome che conosco benissimo, da quel giorno di trent’anni
fa. * - Cazzo, Matteo, sai
quello che è successo a Luigi Bezzoni? Conosco abbastanza Luigi,
alla SAI siamo entrati quasi insieme, due anni fa, ed eravamo i più giovani,
gli unici due nuovi nel ramo sinistri. Ha quattro anni in più di me, è
sposato da un anno ed è simpatico. Non lo vedo da tre settimane: so che
andava in vacanza in Turchia. Temo che abbia avuto un
incidente, anche se Piero, il collega che mi parla, sembra più divertito che
angosciato. - No, che cosa gli è
successo? Piero ridacchia e scuote
la testa. - In Turchia, in una valle
dell’interno, verso il confine con l’Iran... Piero si interrompe e
ridacchia di nuovo. - Be’? Che cazzo è successo? - Dormivano in tenda, lui
e la moglie. Sono stati aggrediti. Una dozzina di uomini. Immagina che cosa
volevano. Piero ride ancora, poi
aggiunge: - Diciamo che quelli non
scopavano da un po’. Guardo Piero allibito. Se hanno
violentato la moglie, non capisco proprio che cosa ci sia da ridere. - Ma stai scherzando? - No, ma neanche quelli.
Li hanno violentati tutti e due. - Tutti e due? Cazzo! - Puoi dirlo! - Ma non è possibile. Chi
te l’ha detto? - Luigi. Lo racconta a tutti. Non ci credo. Vorrei
andare a parlare con Luigi, ma ho un lavoro urgente da finire. Gli parlerò in
mensa, tanto manca solo mezz’ora. Mangiamo spesso
insieme. All’ora di pranzo passo
nel suo ufficio. Lui sta parlando con un collega. - Ciao, Matteo. - Ciao, Luigi. Bentornato.
Vieni a mangiare? - Sì, sì. Vengo subito. Il collega con cui sta
parlando mi guarda e apre la bocca come se volesse dirmi qualche cosa, poi
guarda Luigi e ci rinuncia. Esco con Luigi e scendiamo
in mensa. Vorrei chiedergli delle vacanze, ma dopo quanto mi ha detto Piero,
esito. Mi sembra di fare il ficcanaso. - Tutto bene, Luigi? Lui annuisce. Poi dice: - Non sai che cosa mi è
successo in vacanza?! Preferisco mentire. - No, dimmi. Mi dice il nome di un
posto: - Karanük. * La valle del Karanük è lunga e ampia. È percorsa da una strada che
supera un passo e immette su un altopiano. Il villaggio che porta lo stesso
nome del fiume è piccolo: qualche centinaio di case abbarbicate sul fianco
della montagna. Trent’anni fa non c’era nemmeno una locanda. Non credo che ci
sia neppure adesso. Su Internet si diceva che la valle è poco frequentata ed
è rimasta come secoli fa. Non è così, qualche
cambiamento è avvenuto anche dalla prima volta che ci sono stato: la strada è
stata asfaltata, vedo i pali della luce e sicuramente ci sono più case. Ma
l’aspetto della valle non è molto diverso da allora. Un luogo spoglio, poco
accogliente. Terreno brullo, a parte qualche orto, e piccole macchie di
alberi. Un gregge su un pendio. Ho finito di pisciare, ma
rimango ancora un momento con il cazzo fuori. Il paese è lontano, sull’altro
lato della valle, e difficilmente qualcuno può vedermi, ma restare così è
assurdo. D’altronde nulla in questo viaggio ha senso ed essere qui ora meno
ancora di tutto il resto. È la vita che non ha un senso. Quante cazzate mi vengono
in testa! Mi infilo il cazzo nei pantaloni e risalgo in sella alla moto. Il
sole è ancora alto in cielo: sono partito molto presto, per essere sicuro di
arrivare qui prima del tramonto. Voglio che mi
vedano. * - Karanük? - È un villaggio, vicino a
un fiume che ha lo stesso nome. Siamo arrivati là di pomeriggio, tardi. Ci
siamo accampati: viaggiavamo con la tenda. Non per risparmiare, ma perché in
quelle regioni è meglio dormire in tenda. Nelle locande non sai mai quello
che trovi. Non che i turchi siano sporchi, ma noi abbiamo altre idee sulla
pulizia. Luigi sorride e mi guarda.
C’è una strana luce nei suoi occhi. Sembra spiritato. Anche il suo sorriso
non è naturale. - Sì, anch’io viaggio spesso
in tenda. Costa anche di meno. - Oh, nei paesini in
Turchia le locande costano poco. Ma noi ci siamo accampati in riva al fiume.
No, non in riva, più in alto. Abbiamo cotto la pasta sul fornello, sai che ci
portiamo dietro la pasta, no? Io non so proprio rinunciarci. Abbiamo mangiato
e più tardi ci siamo infilati nella tenda e a nanna. Avevamo macinato un
sacco di chilometri, eravamo stanchi, ci siamo addormentati subito. Siamo in coda per prendere
da mangiare, ma Luigi parla forte. Sembra non rendersi conto che ci sono
altre persone. Alcuni si scambiano un cenno d’intesa. La notizia dev’essere già circolata. - Adesso prendiamo da
mangiare, poi mi racconti. Dopo che ci siamo serviti
tutti e due, guido Luigi a un tavolo appartato, per quanto lo permetta la
ressa. Ci sediamo. Luigi guarda
il vassoio, senza toccare nulla. Alza gli occhi e mi dice, a voce troppo
alta: - Sono arrivati nel cuore
della notte. Undici uomini. Sono entrati nella tenda. Ci hanno immobilizzati e poi ci hanno violentato. - Oh, cazzo! - Me lo hanno messo in
culo in undici, Matteo. In undici. Vorrei esprimergli la mia solidarietà, ma Luigi si mette a ridere. È evidente che è
ancora sotto shock. La risata finisce e mi guarda con un’espressione
stralunata. Io gli dico: - Perché sei tornato al
lavoro, Luigi? Hai bisogno di riposo, di riprenderti. Luigi sorride, un sorriso
che sembra appiccicato sulla sua faccia. - È successo sei giorni
fa, martedì scorso. Eravamo già sulla via del ritorno. Avevamo l’aereo da
Ankara venerdì. - Ti sei fatto vedere da
un medico? - No, no, io… lì no, non volevamo. Volevamo
solo andarcene il più presto possibile. Mi fa male, ma niente di grave. Un
po’ di sangue. Un po’ di febbre. Lo guardo. Sì, di certo ha
la febbre: ha gli occhi lucidi. - Fatti vedere,
Luigi. Può esserci un’infezione, qualche malattia. Fai gli esami, per essere sicuro. E tua moglie? Luigi annuisce e sorride
ancora. - Eh sì, anche lei… Scoppia a ridere. Poi
smette di colpo e mi guarda come se mi vedesse solo ora. Ripete, senza più
sorridere: - Eh sì, anche lei… * Al bivio prendo la strada
che scende verso il fiume. Anche questa è asfaltata. Scendo fino al ponte e
poi risalgo sull’altro versante. Raggiungo il paese e cerco un locale che
faccia da bar. Ce n’è uno in una piazzetta. Ce n’era uno già trent’anni fa,
me lo ricordo, ma non so se è lo stesso. Il gestore non è certo quello di
allora, perché non deve avere più di quarant’anni, ma, a giudicare dalle
condizioni, le sedie potrebbero essere le stesse. Dopo tanti anni di vacanze
in Turchia so esprimermi in un turco alquanto rudimentale,
ma sufficiente per farmi capire. Ordino il pide,
la focaccia con formaggio. Si avvicina un uomo sulla trentina, che si rivolge
a me: - Ho sentito che parli
turco. Ma sei un turista. Non è una domanda. - Sì, conosco un po’ il
turco. - Ti fermi a dormire qui
in paese, vero? Ormai è tardi per superare il passo. Non è così tardi, ma io
conto di fermarmi e voglio che lo sappiano. - Sì, mi fermo qui. L’uomo sorride, contento. - Ti posso affittare una
camera. - No, grazie, ho una tenda
con me. Preferisco dormire in tenda. - No, in tenda qui, no. È
pericoloso. - Perché è pericoloso? - Ci sono ladri e
assassini. Hanno ucciso un uomo, qualche mese fa. Alzo le spalle. - Non ho molti soldi, non ho
niente di valore. Perché dovrebbero uccidermi? - No, vieni a dormire da
me. Non costa molto. Ti faccio pagare poco, un
prezzo da amico. - Grazie, ma preferisco la
tenda. - È pericoloso. Alzo le spalle e non
rispondo. Mi sto stufando. Lui ci prova ancora un momento, poi si alza e se
ne va, ma sulla porta si volta per mettermi in guardia, con un tono quasi
minaccioso: - Ti ho avvisato. Poi non
ti lamentare. Io finisco di mangiare,
pago e risalgo in moto: è ora di montare la tenda. In realtà mancano ancora almeno
due ore al tramonto e ci metto dieci minuti a sistemare tutto, ma voglio che
mi vedano, che sappiano che sono lì. Magari mangerò ancora un boccone, prima
di coricarmi, se avrò fame. * Quando lascio Luigi per
rientrare in ufficio, vado dal vicedirettore e gli suggerisco di rimandare a
casa Luigi. Lui è già informato della situazione e quando gli spiego che
Luigi è ancora sotto shock, mi dice che lo farà. In effetti
verso sera Piero mi dice che Luigi è tornato a casa. Il vicedirettore gli ha
consigliato di andare dal medico. Luigi ritorna solo la
settimana successiva. È più calmo e non parla più dell’argomento. Faccio in
modo di mangiare con lui e scopro che il medico gli ha prescritto dei
tranquillanti: in effetti mi sembra un po’
intontito. Ha fatto una serie di esami, di cui non ha ancora i risultati. Nei giorni seguenti cerco
di stargli vicino. Mi rendo conto che ha bisogno d’aiuto e che in ufficio c’è
poca solidarietà. Il suo comportamento al ritorno ha suscitato ilarità e
molti non sembrano ancora comprendere il dramma che Luigi ha vissuto. Lo
vedono solo come un episodio curioso da raccontare. Capisco bene che nel
rimanere vicino a Luigi da parte mia non c’è solo solidarietà. Ciò che gli è
successo mi turba profondamente, per motivi che non confesserei a nessuno: la
violenza di gruppo che lui ha subito, io l’ho spesso sognata. So benissimo
che immaginare di essere vittima di uno stupro non ha niente a che fare con
subirlo davvero: una fantasia violenta può essere eccitante, tradotta in realtà
rischia di diventare un incubo. In realtà mi è già accaduto di essere
violentato, ma in situazioni del tutto diverse. È stata una violenza anche la mia prima
volta, una mezza violenza. Avevo quindici anni e c’era un uomo che mi piaceva
e che mi stava dietro. L’avevo lasciato fare, spingendomi ogni volta più
avanti, ma fermandolo sempre prima che mi prendesse. Anche se non me la
sentivo di farmi inculare, lo provocavo. Finì che una volta, quando io gli
dissi di fermarsi, non si fermò. Era forte e non
fece fatica a tenermi fermo. Mi prese con la forza. E mentre mi inculava, io venni, in un delirio di piacere. A volte mi
chiedo se è per quello che ricerco ancora la violenza. Mi è
successo altre due volte, con uomini che ho incontrato mentre andavo a
caccia. Uno mi invitò da lui, ma quando arrivammo a casa sua, il suo
comportamento mi diede fastidio e dopo un po’ decisi di andarmene. Lui non mi
lasciò uscire. Era un ercole: mi bloccò e mi stuprò senza difficoltà. Senza
difficoltà anche perché io non opposi davvero resistenza. La sua brutalità mi
soggiogava. E non fu molto diverso con quei due che mi
presero in un vicolo cieco dietro la discoteca, tra i bidoni di
rifiuti e la puzza di piscio. Anche quella volta venni
mentre mi prendevano. Una violenza di gruppo è
tutt’altra storia. Qualche tempo dopo Luigi
mi racconta che ha ritirato gli esami e che non ci sono problemi particolari;
adesso mi appare decisamente sollevato. Uscendo insieme, andiamo al bar e si
confida. Mi racconta ancora di quella notte, il cui ricordo lo perseguita, e dei problemi con sua moglie. Io gli
consiglio una terapia di coppia che li aiuti a superare lo shock. Lui mi
ringrazia perché gli sono stato vicino e mi dice che non vuole più parlare
della faccenda, vuole solo dimenticare. * Prendo la strada
dell’altra volta. Tutto è come me lo ricordavo: il gruppetto di case vicino
al paese e poi la pista sterrata che sale. Arrivo al gruppetto di alberi. Mi
ero accampato qui, su un terreno erboso, non lontano da un grande faggio. Il
paese non è visibile, nascosto dietro una curva della strada. Gli alberi
coprono anche le poche case di una borgata non lontana. Fermo la moto e di nuovo
mi chiedo che senso ha quello che sto facendo, che cosa mi illudo di
ottenere. Ho cinquantaquattro anni. Penso al ragazzo afghano. La notizia era
data in poche righe. Assalito, stuprato e ucciso, probabilmente per aver
cercato di resistere. Poi non se n’è parlato più. Ho cercato notizie per
diversi giorni, ma non c’è più stato niente su siti inglesi o italiani. C’era
qualche cosa su un sito tedesco, ma non ci capisco una mazza. Che cosa accadrà questa
notte? Magari niente. C’è stato un omicidio quattro mesi fa, è facile che non
vogliano rischiare: se venisse assalito un turista europeo, ci sarebbero
indagini approfondite. E se mi uccidessero? Anche
se non resisto, potrebbero uccidermi, per non rischiare una denuncia: loro
non possono sapere che non li denuncerei, che sono venuto per questo, per
riprovare ancora l’ebbrezza della violenza. Ha senso essere venuto per
questo? Ho cinquantaquattro anni, non ventiquattro. Mi sono molto appesantito
e di certo non sono più giovane. Le prime volte che venivo in Turchia, quando
camminavo per le strade di qualche città erano in tanti a cercare di
attaccare bottone con me. Se entravo in un hammam, c’era sicuramente qualcuno
che si avvicinava. Da parecchi anni non è più così, ormai sono io che devo
prendere l’iniziativa e non è detto che ci stiano. Negli hammam quelli che si
avvicinano ancora vogliono essere pagati. Sono vecchio, ormai: questa è la
verità. Probabilmente sono venuto
per niente: non sono più una preda che valga la pena cacciare. Ma allora perché cazzo
sono venuto qui, quando so benissimo che potrebbero
anche uccidermi. Sono venuto qui pur sapendo di
rischiare la pelle. Il pericolo mi ha sempre eccitato, fa parte della mia
natura. Le botte non mi fanno paura, ne ho prese tante. Ma la morte? Quelli
hanno ucciso un ragazzo. Era un immigrato clandestino, sapevano che nessuno
si sarebbe occupato del suo omicidio. Perché sono qui? Non
succederà niente. * Sono passati nove mesi dal
ritorno di Luigi, che ormai si è ristabilito. In qualche modo ha superato lo
shock. Della sua esperienza non parla più e i colleghi non dicono più nulla,
a parte quel coglione di Filippo che ogni tanto fa delle battutine: ce l’ha con Luigi perché lo vede come rivale per una
possibile promozione. Le vacanze si avvicinano.
Io le ho prese a luglio. Quando parliamo dell’estate, Luigi mi pone la
domanda di rito: - Dove vai? - In Turchia. Mi guarda un attimo, senza
parole. Io sorrido: - L’avevo già deciso
l’anno scorso. Voglio vedere la costa e i siti archeologici. - Stai lontano dalle zone
più interne. Annuisco. Non posso dirgli
che le regioni più interne sono esattamente la mia meta. Che andrò proprio a Karanük. Cambio argomento. - Voi dove andrete? - Noi rimaniamo in Europa,
di sicuro. Credo Spagna. O Portogallo. Tu vai in moto? - Sì, come al solito. - È lunga fino in Turchia. - Scendo fino a Brindisi,
poi in traghetto a Patrasso e di lì, attraversando la Grecia, arrivo in
Turchia. - È lunga
lo stesso. Fa’ attenzione. - Farò attenzione,
Luigi. Cambio argomento. Non gli
spiego che è stato quello che è successo a lui a farmi decidere. Non gli dico
che cosa sto cercando. Mi giudicherebbe folle. * Ho appena finito di
montare la tenda, quando sento il rumore del motore di un’auto. È ancora
chiaro, il sole è appena tramontato. L’auto si ferma vicino alla tenda. Ne
scende un poliziotto. Ha qualche anno in meno di me, un corpo vigoroso e un
viso dai lineamenti duri. Si rivolge a me in inglese: - Buonasera. - Buonasera. - Mi spiace, ma non può
mettere la tenda qui. Noto che parla un inglese
perfetto. Mi stupisce: in queste aree interne l’inglese non lo conosce quasi
nessuno, al massimo masticano un po’ di tedesco perché hanno passato qualche
anno in Germania. - Ma perché? È terreno
privato? Posso pagare il proprietario. - No, non è questo, è
pericoloso. Hanno ucciso un ragazzo, qualche mese fa. Stuprato e ucciso. È
meglio che cerchi una camera in paese. Posso indicarle qualcuno che affitta a
gente di passaggio. E adesso? Che cosa posso
dirgli? Che sono venuto proprio per questo? Che spero di provare di nuovo la
violenza? Che il rischio non mi spaventa? - No, non mi piace dormire
in locanda e ormai è tardi per andare da un’altra parte. L’uomo mi guarda,
infastidito. - Mi dia i documenti. Li prendo dalla tasca
della giacca. Controlla il passaporto e la patente. Me li rende. Poi ripete: - No, non può stare qui.
Smonti la tenda e si cerchi una camera in paese o vada in un’altra valle. La faccenda mi scoccia.
Sono venuto qui apposta. Che cazzo vuole questo
stronzo? - No, intendo rimanere
qui. L’agente si irrigidisce. - Le ho detto che è
pericoloso. Smonti la tenda. È un ordine. Mi chiedo che cosa può
farmi. Mettermi in prigione? Non sarebbe un gran male. Mi è già capitato una
volta, in Brasile. Ovviamente mi stuprarono: un bel culo bianco per una
dozzina di neri e mulatti. Non avevo neanche trent’anni, allora. Non fu una
violenza, perché non opposi nessuna resistenza, ma se mi fossi opposto non
sarebbe cambiato nulla, a parte le botte che avrei preso. - Perché non si fa i cazzi suoi, agente? Scuote la testa, più
rassegnato che arrabbiato. - Merda! Ma perché voi
europei siete tutti delle teste di cazzo?! Ci tieni
a farti sbudellare, stronzo? Mi stupisco di nuovo di
quanto bene parli l’inglese: anche la sequenza di parolacce era perfetta. - Dove hai imparato
l’inglese? Lo parli molto bene. Lui mi guarda, scuote
nuovamente la testa, poi risponde, sarcastico: - Ho studiato a Oxford. - Dai, dove l’hai
imparato? - Sono stato
dodici anni in Inghilterra, proprio a Oxford: mio padre faceva il portiere in
un college. Ma quando ho compiuto venticinque anni, sono tornato qui. - Perché? In questo buco
di culo di posto… - Non sopportavo gli
inglesi. Sono ancora peggio degli altri, con la
puzza sotto il naso. E voi italiani non siete meglio. Qui sono a casa mia. Per un attimo mi chiedo
come fa a sapere che sono italiano, poi mi viene in mente che ha guardato i
miei documenti. - Ma parlando così bene
l’inglese non potevi trovare un lavoro migliore? Mi guarda ghignando. - Invece di fare lo sbirro
per un salario di merda? Cazzo! Sei proprio uno stronzo. Quasi quasi spero che quelli vengano a trovarti stanotte. Anche
se poi i guai li avrò io. Vedendo che ormai si è
rassegnato, gli chiedo: - Chi sono “quelli”? - Balordi della zona. Non
ho nessuna certezza, ma qualche idea su chi possano
essere ce l’ho. Gente che non scherza. Hai davvero voglia di farti inculare
da quelli e poi ammazzare? La sua domanda è una
provocazione. Chissà che cosa direbbe se gli dicessi
la verità, che voglio davvero farmi inculare. Quanto alla seconda parte della
domanda, non saprei bene che cosa dirgli. Non mi sono mai tirato indietro di
fronte a un pericolo, che si tratti di affrontare in moto una strada gelata o
di infilarmi in qualche locale sordido alla ricerca di un bel cazzo da
gustare. Potrei dire che il pericolo mi piace, spesso mi eccita e non mi
spavento se so che posso rompermi una gamba o farmi menare: di botte ne ho
prese parecchie, di fratture per incidenti in moto ne ho avute due. Ma di
solito non cerco il pericolo in sé, è solo un pizzico di peperoncino che
aggiunge sapore al momento. Forse dovrei dire che lo è stato fino a ora. Man
mano che gli anni passano, anche il peperoncino mi sembra meno gustoso. Tante
volte mi chiedo se vale la pena. E spesso mi rispondo di no. * Il viaggio è stato lungo,
ma infine ci sono arrivato. Sono a Karanük, che è
un fiume, una valle e un paese. Da queste parti Luigi e la moglie sono stati
violentati meno di un anno fa. Non sembra diverso da altri posti che ho visto
venendo qui. Villaggi poveri, terreni aridi, qualche
animale al pascolo. Guardo le case raggruppate
su un versante e penso che faccio ancora in tempo ad
andarmene. Ma so che non me ne andrò. Osservo e studio con cura la posizione
migliore per mettere la tenda. Devo accamparmi non troppo vicino al paese, ma
neanche troppo lontano. E soprattutto dev’essere un
posto solitario. Decido di passare sul ponte e cercare sull’altro versante,
dove ci sono pochissime case isolate. Vicino alla strada trovo
un gruppo di alberi e decido che mi fermerò lì. Monto la tenda e poi vado
a mangiare un boccone in paese. Sento che tutti mi guardano: non devono
vedere spesso motociclisti da queste parti. Trovo un locale dove mangio un pide, poi torno alla mia tenda. Sistemo la moto. È ora di
prepararmi per la notte. * Il poliziotto è lì che
aspetta una risposta. Io alzo le spalle. - Non credo che se la
prendano con un europeo. Sanno che non la passerebbero liscia tanto
facilmente. - Sei proprio un coglione.
Quelli se ne fottono. Ci sono stati parecchi stupri di turisti e di
clandestini in queste valli. E non tutti hanno poi potuto raccontarlo. Annuisco, senza dire nulla.
Penso, per l’ennesima volta, che sono pazzo. Ho continuato a ripeterlo, per
mesi, mentre organizzavo questo viaggio. Sono venuto qui
per farmi violentare, per rivivere un’esperienza di trent’anni fa, come se
potessi mettere indietro le lancette dell’orologio e ritornare a quando avevo
ventiquattro anni. Ma l’orologio non si ferma, se non quando si rompe. Lui, vedendomi zitto,
aggiunge: - Sei proprio deciso a
rischiare? - Sì, non ho voglia di
smontare la tenda. - Va bene, io ti ho
avvisato. Non venire a sporgere denuncia da me, domani mattina. Dopo un attimo di pausa
aggiunge, sarcastico: - Sempre che tu possa
ancora sporgere denuncia. - Dai, secondo me non
succede niente. Ti sembra che quelli si divertirebbero a stuprare uno della
mia età? Lui scuote la testa. - Sei proprio un coglione.
Magari non ti inculano. Ma tu sei europeo e viaggi con un po’ di soldi. - Pochi. - Sempre più di quanto
molti di questi vedranno nella loro vita. - Figurati. Di contanti ne
ho pochi. - Ma hai un bancomat, una
carta di credito, un cellulare e magari pure una macchina fotografica, una
moto. Cazzo, stronzo, ma ti rendi conto che molta gente qui non guadagna in
una vita il necessario per comprarsi quello che hai con te in questo momento? Sì, è vero. Viaggio con
poco, ma la moto vale parecchio e lo smartphone
pure. Avevo pensato alla violenza, ma non al furto. Trent’anni fa non erano
davvero interessati ai soldi, avevano preso solo il portafogli, senza cercare
altro. Ma trent’anni fa avevo trent’anni in
meno. Quando ho deciso di
tornare qui, mi sono detto che se non oppongo resistenza non hanno motivo per
ammazzarmi, ma potrebbero farlo anche solo per prendermi quello che ho senza
rischiare una denuncia, facendo scomparire il mio corpo perché nessuno lo
trovi. E potrebbero assalirmi solo per derubarmi. Proprio perché non sono
così appetibile e di fottermi non gli passa neanche per l’anticamera del
cervello. Quello che hanno stuprato e ucciso era giovane, non un vecchio. Il poliziotto ha intuito
che le sue parole mi hanno fatto riflettere. Torna alla carica: - Senti, ti do una mano a
smontare la tenda. Se vuoi ti ospito pure a casa mia. Solo per evitare di
finire nella merda quando domani ti trovano con la
gola tagliata. La sua offerta mi prende
di sorpresa. Non so che cosa dire. Lui coglie la palla al balzo: si avvicina
e incomincia a smontare la tenda. Io scoppio a ridere e collaboro, scuotendo
la testa. Quando abbiamo finito, gli dico: - Mi hai dato dello
stronzo e del coglione e adesso mi ospiti a casa tua. Lui ride e dice: - Non mi rimangio niente
di quello che ho detto. Ma un posto per dormire ce l’ho
e almeno domani non dovrò sbattermi perché hanno ammazzato un turista
italiano. I giornalisti mica lo sanno che sei uno
stronzo. E pure un coglione. Ride di nuovo. Ha una risata
simpatica. Scuoto la testa. - Mi toccherà almeno
offrirti la cena. - Direi che è il minimo.
Io di sicuro da mangiare non te lo faccio. Non sarebbe un buon affare. Sono
un pessimo cuoco. D’altronde, che cosa ti aspetti da uno che è vissuto in
Inghilterra? Rimonto tutto nella moto.
Mi sembra che la situazione sia assurda. Cinque minuti fa ero assolutamente
determinato a fermarmi, volevo rivivere la violenza, ero disposto a rischiare
la pelle. E adesso… Scuoto la testa. Guardo il
poliziotto. - Come cazzo ti chiami? - Taha. - Io sono Matteo. * Ho nascosto con cura la
carta di credito e una parte dei dollari. Luigi mi ha detto che loro sono stati derubati, ma solo di quello che gli assalitori hanno
trovato subito. Non sono stati a frugare dappertutto. Quello che gli
interessava davvero era scopare. I soldi erano un di
più. Guardo il paesaggio, ormai
appena visibile nella notte che è calata. Farei ancora in tempo a smontare la
tenda e andarmene. Potrei guidare ancora qualche ora, fino a un centro più
grosso, dove cercare un albergo. Ma non lo farò. Ho scelto la Turchia proprio
per venire qui. Entro in tenda. Mi
spoglio. Le notti sono fresche, anche se è il periodo più caldo dell’anno, ma
nel sacco a pelo starò ben caldo. Apro la cerniera. Prendo la crema
lubrificante. Mi dico che sono un idiota, ma apro la bustina e la spargo con
cura. Desidero la violenza, con tutto ciò che
comporta. Ma preferisco non trovarmi domani con lacerazioni che mi
costringerebbero ad andare in ospedale. Poi mi stendo. * A cena parliamo delle
nostre vite. Sembriamo quasi due vecchi amici che si ritrovano dopo tanto
tempo. Mi chiede se sono sposato:
la domanda che ti fanno in un sacco di paesi, quando
viaggi. Per loro un uomo della mia età dev’essere
sposato e deve avere dei figli e dei nipoti. Si
stupiscono quando gli dico che non sono sposato. Taha
però non sembra sorpreso: è vissuto in Inghilterra
parecchi anni, è abituato agli usi europei. Anch’io gli chiedo se è
sposato e lui mi dice di no, senza darmi spiegazioni. Per un momento mi
chiedo se non potremmo combinare qualche cosa, io e lui, ma nel suo
comportamento non leggo nessun indizio in questa direzione. Sondo il terreno: - Come mai non ti sei
sposato? Qui tutti gli uomini si sposano. - Sono stato in
Inghilterra a lungo. Le donne di qui… Taha alza le spalle. Poi conclude: - …avrei
potuto sposare un’inglese, ma portarla qui… Ride, scuotendo la testa,
come se avesse raccontato una barzelletta. Non me la vedo proprio un’inglese
in questo buco del culo di posto. Osservo: - Mi sembrava che per te
gli inglesi fossero tutti stronzi. Taha annuisce. - Sì, ma in Inghilterra io
mi sono abituato a un altro tipo di donna. C’era una ragazza… Si interrompe, con un gesto
della mano che sembra voler scacciare un pensiero assurdo. Non aggiunge
altro. Io non insisto. Ormai è chiaro che gli interessa la fica, non il
cazzo. Peccato. Avessi trent’anni in meno, potrei offrirmi: qui non ha una
donna, magari gli andrebbe bene anche un culo per svuotare i coglioni. Oppure
mi menerebbe. O tutt’e due le cose. Andiamo alla casa di Taha. Mi fa vedere la cameretta dove dormirò:
piccolissima, ci sta solo il letto, ma è tutta per me. Da una finestrella
entra un po’ di chiarore, ma è in alto, non posso vedere fuori, a meno di
salire sul letto. Taha mi augura la buonanotte. Io mi spoglio
completamente e mi stendo. Al buio ripenso a quella notte di trent’anni fa. * Sento il rumore di
un’auto, no: due. Sono loro, lo so con sicurezza. Ho il cuore in gola. I fari
illuminano la tenda e le auto si fermano. Poi sento il rumore delle portiere
che vengono aperte, voci forti, risate. Mi sollevo a sedere. Guardo le luci
che illuminano a giorno la tenda. Delle ombre davanti ai fari, qualcuno sta aprendo
la cerniera della tenda. La luce mi acceca, non li posso vedere in faccia,
solo le loro ombre nere davanti ai fari. Mi afferrano in due e mi trascinano
fuori. Ridono ancora, si scambiano frasi che non capisco. Io cerco di
liberarmi, gli chiedo che cosa vogliono. Il cuore va a mille. Mi forzano ad
appoggiarmi sul cofano di una delle due auto, mi tengono le braccia, mi
divaricano le gambe. Io resisto, ma mi stanno bloccando in quattro. Poi uno di loro mi posa le
mani sul culo e divarica le natiche. Ride. Le mani si staccano e poco
dopo sento contro il buco la pressione di un cazzo.
Avanza ed entra dentro di me, senza fatica. Ormai sono abituato, il
lubrificante ha favorito l’ingresso e l’uomo non è entrato con violenza. È
bella questa sensazione di pienezza. Smetto di resistere. Non mi tengono più
le gambe. Anche i due che mi bloccano le braccia non fanno più forza, uno
finisce per lasciarmi del tutto. Hanno capito che non cercherò di liberarmi.
Non possono sapere che non desidero sottrarmi, ma sanno
che, anche se lo volessi, non ci riuscirei. Gli uomini parlano,
ridono, dicono cose che non capisco. Sono allegri, eccitati. Sanno che tra
poco verrà il loro turno. Io mi abbandono completamente alle sensazioni
intensissime che mi trasmette questo cazzo che scava dentro di me. L’uomo
imprime una brusca accelerazione alle sue spinte: sembra che voglia sfondarmi
completamente. Sento il suo sborro rovesciarsi dentro di me. Lui emette un
sospiro e si stacca. Il suo posto viene subito preso da un altro. * Mi alzo, in un lago di
sudore. Vorrei essere oltre il fiume, dove avevo montato la tenda. Vorrei non
aver mai seguito questa testa di cazzo di poliziotto. Perché l’ho lasciato
fare? Perché non ho avuto i coglioni di andare fino in fondo? Fino in fondo?
Dove voglio arrivare, davvero? Provo l’impulso di
andarmene ora, di tornare a montare la tenda, ma non avrebbe più nessun
senso. Non potrebbero nemmeno sapere che c’è una preda. Raggiungo il cesso e
piscio. Poi guardo dalla finestra del corridoio la strada vuota, illuminata
da un unico lampione. - Merda! Mi rendo conto che l’ho
detto ad alta voce. Sento un rumore. Taha si è alzato e mi raggiunge. Posso vederlo alla
debole luce che proviene dalla strada. Indossa solo un paio di mutande. - Qualche problema,
Matteo? Lo guardo. - Dove lo hanno ammazzato? Rimane spiazzato. Non
risponde subito, ma ha capito. Dopo un momento dice: - In una casa abbandonata
non lontano dal colle, a duecento metri prima del bivio della strada per Tatvan. Rimaniamo zitti tutti e due
per un po’. Poi chiedo: - Come hanno fatto? Intendo… come l’hanno ucciso? Taha respira a fondo. - Con il coltello. Una
dozzina di coltellate, poi gli hanno tagliato la
gola. Annuisco. Rimaniamo a lungo così,
immobili. Io guardo fuori. Sento lo sguardo di Taha
su di me. Questa volta è lui a
rompere il silenzio: - Sei venuto per questo,
vero? Annuisco, ma non dico
nulla. Taha prosegue: - Sei un giornalista? Scuoto la testa. Lui
insiste: - Allora perché… Non rispondo. Lui insiste: - Sei uno scrittore? O solo
un ficcanaso? O che cazzo? C’è una pausa più lunga,
mentre guardiamo tutti e due fuori. Non c’è nulla da vedere, la stessa strada
vuota, in cui non passa nessuno. Penso che questa strada di merda sembra la mia vita. È un pensiero idiota, di certo nella
mia vita sono passati in tanti, tantissimi. Passati e scomparsi nell’ombra,
lasciando la strada deserta. Cazzate, lo so benissimo. Non ho mai davvero
cercato un compagno. Taha volta di scatto la testa verso di me e
mi guarda un momento, senza parlare. Io ho colto il movimento con la coda
dell’occhio, ma non dico niente. Lui riprende: - Sei venuto per farti
ammazzare? Mi rendo conto che non
sono in grado di rispondere. Non lo so. Ora non lo so davvero più. Ma questa
strada buia oltre la finestra non ha nessun senso. Taha
insiste: - Perché cazzo sei venuto qui? - Perché cazzo vivi in
questo buco di culo di posto? Anche la sua vita non ha
nessun senso. Che cazzo ci fa in questo posto di merda? Ma mentre me lo
chiedo, non sono sicuro che la mia vita a Milano sia migliore. Taha non risponde. Guardo ancora la strada
buia, poi chino la testa, mi giro e mi dirigo verso la camera. Sulla soglia
mi volto e gli dico: - Avresti fatto meglio a
lasciarmi montare la tenda. Non dice nulla. Entro e
chiudo la porta. Mi stendo. * Mi inculano,
uno dopo l’altro. Qualcuno fa in fretta, altri ci danno dentro a lungo. Mi
abbandono completamente e sento il piacere che cresce e si espande,
nonostante il dolore. L’uomo che mi sta prendendo spinge vigorosamente ora e i
movimenti del suo culo si trasmettono al mio. Sento che il piacere è troppo
forte, non può più essere contenuto e infine esplode. Il mio è un gemito di
puro godimento, ma non credo che lo capiscano. Quando l’uomo ha finito, è
il turno di un altro, poi di un altro ancora. Il culo è indolenzito, ma sto
bene così. L’ultimo uomo si ritira.
Dice qualche cosa, forte. Li sento ridere. Uno mi afferra per i
capelli, mi forza a mettermi in ginocchio. Ora ho davanti a me il cazzo di
uno di loro. Capisco che cosa vuole, ma non mi muovo subito. Il ceffone mi
arriva, violento, seguito da un secondo. L’uomo ha già alzato la mano per
colpirmi una terza volta, ma avvicino la bocca al suo cazzo e incomincio a
succhiarlo. Gli uomini ridono di nuovo. Io procedo, fino a che non sento la
scarica in bocca. Se lo fanno succhiare
altri quattro. Poi mi mollano un calcio che mi manda a terra. Risalgono in
auto. Le luci dei fari mi illuminano in pieno. Per un momento penso che mi
vogliano schiacciare, passandomi sopra, ma fanno retromarcia, girano e si
allontanano. Mi tiro su a sedere. Ho freddo, ora, rabbrividisco. Mi dirigo verso la tenda.
Entro e la chiudo. Mi tremano le mani. Mi infilo nel sacco a pelo. Chiudo gli
occhi. Cerco di respirare a fondo. * Non riesco a riprendere
sonno. I pensieri vagano per tutta la notte, ma quando spunta il giorno, so
che cosa sono venuto a cercare. Ho le idee chiare, ora. Taha si alza subito dopo di me. È silenzioso.
Mi rendo conto che non abbiamo niente da dirci. Mi offre la colazione. Ci
scambiamo solo due banalità. Quando sto per andarmene,
lui mi guarda e mi dice: - Andrai dove l’hanno
ammazzato, vero? Annuisco. Lui scuote la testa.
Aggiunge: - Conti di fermarti a
dormire là? Aspettando che quelli arrivino? Lo guardo negli occhi. - Sì. - Per farti ammazzare
anche tu, vero? Sei venuto per questo. Non è più una domanda. Ha
capito. Ho capito anch’io. Annuisco. 2015 |