Nudo maschile sdraiato A Giovanna Salvatore Quesada percorre
il cunicolo e poi scende lungo il tunnel inclinato, una delle diverse vie
d’accesso ai sotterranei di Napoli. Si infila sul capo la maschera di pelle nera,
che lascia scoperti solo gli occhi e la bocca. Così nessuno può riconoscerlo.
Come sempre in queste occasioni, indossa un vecchio paio di pantaloni logori
e una camicia aperta sul petto: sono abiti da uomo di fatica. Dell’uomo di
fatica Salvatore ha il fisico robusto: spalle larghe, braccia e gambe
muscolose, mani possenti. Salvatore ha una piccola
lanterna cieca: nei sotterranei nessuno porta torce o lanterne molto
luminose; tutti preferiscono l’oscurità che avvolge e nasconde. Salvatore ha
con sé anche il coltello, che tiene sempre a portata di mano: sa che qui
sotto si può incontrare di tutto. Salvatore percorre un
lungo tratto, fino a una vecchia cisterna: qui due anni fa fu trovato il
cadavere mutilato di un marinaio. Aveva la metà superiore del corpo immersa
nell’acqua e la metà inferiore sul bordo. Gli avevano calato i pantaloni e lo
avevano castrato, dopo averlo strangolato con un laccio. Il colpevole non è
mai stato ritrovato, ma a Napoli sono tanti i delitti impuniti. Costeggiando
la cisterna, Salvatore porta istintivamente la mano al coltello. Superata la cisterna,
Salvatore si cala con cautela lungo un piano in forte pendenza, fino a
raggiungere un cunicolo in cui può passare solo una persona per volta; di qui
passa nello stanzone che è la sua meta. Salvatore conosce il locale, che è
immerso nell’oscurità: solo alcune lanterne o candele rischiarano qualche
angolo, accanto a figure maschili appoggiate alle pareti. Salvatore posa la lanterna
su uno scalino e la apre un po’, in modo che il raggio di luce lo illumini
dal collo alle gambe. Poi anche lui si appoggia alla parete e rimane in
attesa: preferisce farsi scegliere. Quando si avvicinava a qualcuno e veniva
respinto, il rifiuto gli bruciava. Alcune ombre passano.
Qualcuna indugia a osservare Salvatore, a valutarlo. Un uomo si avvicina, si
ferma un attimo e poi scompare. Salvatore aspetta, senza fretta. Sa che prima
o poi qualcuno si fermerà. Un altro maschio si
avvicina con la sua lanterna e la alza, per osservare il viso di Salvatore,
ma vedendo la maschera si allontana: parecchi uomini indossano maschere qui
sotto, ma alcuni dei frequentatori evitano coloro che hanno il viso coperto. Poco dopo si avvicina un
terzo uomo. Dev’essere sui trent’anni. Con un gesto deciso appoggia la destra
sulla patta dei pantaloni di Salvatore. Questi sente la pressione della mano,
mentre il sangue affluisce al pesce. L’uomo sorride, stringe il bastone che
sta rapidamente irrigidendosi e con il capo fa un cenno interrogativo a
Salvatore, che annuisce. L’uomo toglie la mano e si dirige verso un’apertura
bassa che si apre poco oltre. Si infila nel cunicolo e Salvatore lo segue,
tenendo la lanterna. L’uomo sembra sapere molto bene dove sta andando. Dopo
due svolte entra in un piccolo locale. Salvatore è contento che l’uomo abbia
scelto un posto appartato, senza spettatori. Molti preferiscono farsi vedere
e qualche volta a Salvatore è capitato di scopare sotto lo sguardo di cinque
o sei ombre: la faccenda non gli va molto a genio. L’uomo guarda Salvatore,
sorride di nuovo, si slaccia la cinghia, abbassa i pantaloni e si appoggia a
pancia in giù su una grossa pietra. Salvatore guarda quel culo
che gli si offre. C’è stato un periodo in cui desiderava qualche cosa di più:
un po’ di tenerezza, di calore umano; un abbraccio, un bacio. Ma ci ha
rinunciato da tempo e in ogni caso sa che sarebbe assurdo cercarlo qui. Chi
scende in questa rete di cunicoli cerca una rapida scopata e nient’altro. Va
bene così. Salvatore abbassa i pantaloni. Appoggia le mani sulle natiche dell’uomo
e le divarica. Osserva l’apertura che gli si offre. Sputa sul buco e sparge
la saliva con due dita. Sputa di nuovo, nel palmo della mano, e si inumidisce
la cappella. Avvicina la sua arma
all’ingresso e la introduce, con molta lentezza, perché sa di avere uno
strumento formidabile. L’uomo sussulta e mormora: - Cazzo! Salvatore sorride e
prosegue la sua avanzata, piano. Quando è giunto al termine, si ferma, perché
l’uomo abbia il tempo di abituarsi allo spiedo. Poi incomincia il lento
movimento avanti e indietro, facendo penetrare ogni volta il cazzo fino in
fondo e poi ritraendolo fino a farlo uscire. Per tre volte lo estrae
completamente e poi lo immerge di nuovo, ogni volta con un movimento più
deciso, che strappa all’uomo un gemito. Salvatore procede, implacabile. Sul
viso scivolano gocce di sudore e lungo la schiena scorre un piccolo rivolo.
Anche l’uomo disteso sulla pietra suda abbondantemente e geme, piano.
Salvatore è contento di sentire il piacere di questo corpo che sta
penetrando. Vorrebbe che l’uomo parlasse, gridasse il suo piacere, lo
provocasse con parole forti, ma qui sotto tutto si svolge quasi in silenzio. Salvatore procede,
affondando l’arma e ritraendola, in un movimento continuo che pare non avere
mai fine. Infine sente un gemito più forte, quasi un grido che l’uomo non
riesce a soffocare, e allora imprime al suo movimento un ritmo più intenso,
in un crescendo violento, finché sente il piacere esplodere. È un’ondata che
dai coglioni risale al cazzo teso e poi invade tutto il corpo, cancellando il
buio del locale in un’ondata di luce accecante e lasciando Salvatore esausto.
Salvatore accarezza una
guancia dell’uomo, in un gesto di ringraziamento. Vorrebbe dirgli grazie con
le parole, ma qui non si usa. Si ritrae, si pulisce e si riveste. Il cazzo è
ancora teso: ci vuole sempre un buon momento prima che il sangue incominci a
defluire. Intanto l’uomo si è alzato e rapidamente rassettato. Scompare senza
dire nulla. Salvatore esce anche lui dal locale e raggiunge lo stanzone in
cui ha incontrato l’uomo. Mentre attraversa la
stanza, diretto all’uscita, la luce di una lanterna illumina la parte
inferiore del corpo di qualcuno che sta arrivando. Salvatore vede una mano
nera e indugia un attimo. Non è abituato a incontrare negri, anche se adesso
che ci sono i francesi ogni tanto in giro se ne vede qualcuno. Qui sotto è la
prima volta che ne trova uno. Anche ora che è molto vicino, il viso scuro si
intravede appena, ma l’uomo solleva un po’ la lanterna, che ora lo illumina
meglio e getta un po’ di luce anche su Salvatore. Salvatore nota che la
destra è priva del mignolo: il dito appare troncato di netto. L’uomo lo sta
guardando, a Salvatore sembra quasi di leggere una sfida in quello sguardo.
Salvatore si sposta di lato, lasciando passare lo sconosciuto, e si
allontana. * Jules Bonhomme
non si volta a guardare l’uomo che si dilegua nell’oscurità alle sue spalle.
È abituato alla curiosità altrui: sa che non è così frequente vedere neri
nelle città italiane. A Genova era la stessa cosa. Ma, nonostante
l’abitudine, a volte Jules prova un senso di fastidio. Jules guarda gli uomini
appoggiati alla parete. Si avvicina a uno e ne illumina il viso, ma questi,
quando vede che è un nero, mormora qualche cosa in napoletano e gira la testa
dall’altra parte. Jules scarta l’uomo seduto poco oltre e si ferma davanti a
un altro che indossa abiti di buon taglio. Alza la lanterna. Deve avere
venti-venticinque anni. È un bel giovane, dai lineamenti eleganti. Jules lo
guarda senza sorridere. Attende un cenno. L’uomo lo fissa, poi annuisce. Jules gli fa un cenno e si
avvia. Passa attraverso una porta in uno stanzone vicino. Appoggia la
lanterna per terra e si volta. L’uomo si avvicina. Jules gli poggia le mani
sulle spalle e lo forza a inginocchiarsi davanti a lui. L’uomo sembra
riluttante, ma cede quasi subito. Jules si slaccia la cintura e abbassa i
pantaloni. L’uomo guarda ammirato il bel boccone di carne che gli si offre.
Avvicina la bocca e avvolge la cappella, incominciando a lavorarla con gusto.
Jules lo guarda fare, soddisfatto. Gli piace metterlo in bocca e in culo ai
bianchi, quegli stessi che per le strade lo guardano con curiosità,
sentendosi superiori. Gli piace fottere i bianchi. L’uomo si dà da fare,
lecca e succhia, una mano accarezza i coglioni di Jules, poi entrambe si
posano sui fianchi del nero e stringono con forza. Con la coda dell’occhio
Jules nota qualcuno intento a osservare la scena. A Jules non dispiace. Gli
piace che altri uomini lo guardino mentre fotte: quasi gli sembra che gli
tiri di più. Questo è il posto ideale per chi ama essere osservato mentre
scopa. A volte si formano capannelli di curiosi. Un altro uomo si avvicina.
Passa dietro di lui. Jules sta in guardia: non intende farsi inculare da
nessuno. Ma l’uomo si inginocchia dietro di lui e Jules sente una carezza
umida scorrere lungo il solco, poi un morso leggero a una natica, poi di
nuovo la lingua che scende, indugia sull’apertura, risale, ritorna a
stuzzicare. Jules sorride. Uno che gli succhia il cazzo, un altro che gli
lecca il culo. Che cosa può desiderare di più? L’uomo dietro di lui ci sa
fare, eccome. Quella lingua che scorre gli trasmette i brividi. E anche
quello che glielo sta succhiando non se la cava male. Jules sente che il piacere
si addensa e che presto deflagrerà. Allora afferra con la mano i capelli
dell’uomo davanti a lui e lo forza a lasciare la preda. - Mettiti contro la
parete. L’uomo lo guarda, un
attimo incerto, poi annuisce e si alza. Si cala i pantaloni e le mutande, si
volta contro la parete, allarga le gambe e si appoggia. L’uomo che stava
leccando il culo a Jules si interrompe. Jules si avvicina alla parete, si
sputa sulla mano, inumidisce un po’ l’apertura, poi avvicina il suo grosso
cazzo nero e spinge dentro. L’uomo sussulta: Jules deve avergli fatto male. - Toglilo un momento. Jules storce la bocca, ma
si ritrae. Quando l’uomo fa un cenno con il capo, Jules lo infilza
nuovamente. L’altro uomo riprende a leccare il culo di Jules e a
mordicchiargli le natiche ogni volta che lo spiedo di Jules scompare completamente
nel culo dell’uomo che sta fottendo. Ogni tanto una mano si infila tra le
gambe di Jules e accarezza delicata i coglioni. Cazzo! Questo ci sa davvero
fare! Diversi curiosi si sono
avvicinati. Devono essere tre o quattro, ora. Jules dà volentieri spettacolo:
estrae il suo cazzo completamente e lo affonda di nuovo nel culo dell’uomo
più e più volte. L’uomo che gli lecca il culo si ferma ogni volta, per poi
riprendere il suo lavoro. Quello che Jules sta inculando respira
affannosamente e a un tratto geme più forte. Dev’essere venuto, ma a Jules
poco importa: continua a fotterlo con energia. Ora Jules sente che il
piacere è vicino. Imprime al movimento del suo culo una brusca accelerazione
e il suo seme si rovescia nelle viscere dell’altro uomo, strappandogli un
suono roco. Jules rimane immobile un momento, sentendo ancora la lingua del
secondo uomo scorrergli tra le natiche. Poi Jules si stacca,
costringendo anche l’uomo dietro di lui a spostarsi. L’uomo che ha inculato
si toglie, si riveste e se ne va senza dire nulla. Jules fa un passo verso la
parete per pisciare. Alla luce della lanterna può vedere la macchia umida
sulla parete, dove l’uomo è venuto. L’uomo che ha ripreso a
leccargli il culo dice: - Aspetta. È una voce profonda. Jules gira la testa verso
lo sconosciuto e sorride. Se l’uomo vuole bere il suo piscio, direttamente
alla fonte, può accomodarsi. A Parigi qualche volta gli è successo. Uno dei
pittori per cui ha posato andava matto per il suo piscio. L’uomo passa davanti a lui
e si inginocchia, prendendo in bocca l’arma di Jules, che incomincia a
pisciare. Guarda l’uomo che ingoia il suo piscio e poi, quando Jules ha
finito, passa la lingua intorno alla cappella per pulire bene. Si ritrae,
contempla il cazzo di Jules e lo riprende in bocca, lo accarezza con la
lingua, lo succhia un po’. È davvero bravo, questo succhiacazzi, il suo
uccello sta alzando di nuovo la testa. Jules si dice che questa troia lo farà
venire una seconda volta. Ben venga. Intanto un’altra ombra si
avvicina per guardare ancora la sua arma. Jules si volta verso di lui e
sorride, un sorriso che è una sfida: vuole unirsi anche lui? Può leccargli il
culo, se vuole. Ma l’uomo rimane immobile a osservare. L’uomo passa la lingua
lungo l’asta tesa, scende ai coglioni, li lecca, poi la lingua risale fino
alla cappella e la bocca inghiotte. Le mani accarezzano i coglioni, li
stuzzicano un po’, poi le braccia si alzano, si infilano sotto la camicia,
scivolano sul torace fino ai capezzoli, che stringono. Jules lascia che
l’uomo faccia. Questa troia ci sa fare, è bravo a succhiare cazzi, a leccare
culi. Sa come far godere un maschio. E nuovamente la tensione
in Jules sale, fino a diventare intollerabile. E allora Jules afferra l’uomo
per i capelli e incomincia a fotterlo. Quando il cazzo di Jules gli entra
tutto in bocca, l’uomo ha difficoltà a respirare; quando infine Jules gli
lascia un attimo di pausa, l’uomo inspira con un verso che è quasi un
rantolo. Con poche spinte energiche Jules viene e si stacca. L’uomo respira
affannosamente e tossisce. Il finale non deve essere stato di suo gradimento,
ma a Jules non gliene fotte un cazzo. Jules si sistema e risale.
Esce in superficie. Dal buio dei sotterranei passa alla dolce luce della sera
napoletana. Percorre il vicolo in cui
si trova l’ingresso ai sotterranei e svolta in una strada più ampia. Dopo
pochi passi un uomo si avvicina a lui. Gli parla in francese. - Scusate se vi disturbo.
Mi chiamo Ferdinando Ruffo. Vi ho già notato per strada e volevo chiedervi
una cosa. Se non vi spiace, vi offro un bicchiere di vino, qui alla taverna,
così possiamo parlare tranquillamente. Jules è perplesso di
fronte alla proposta dello sconosciuto, ma non c’è motivo per rifiutare un
buon bicchiere. Bere gli piace e di denaro per pagarsi il vino Jules ne ha
poco. Si siedono in una taverna
e, dopo essersi presentato come un mercante di quadri, Ferdinando gli spiega: - Ho un amico pittore, che
cerca un modello per un quadro di soggetto orientale, l’harem di un sultano
arabo. Cercava un negro che fosse disposto a posare per lui, ma non è facile
trovarne uno disposto a posare. Voi mi sembrate il soggetto adatto. Jules sorride. Quello di
modello per pittori (e scultori) è stato il suo lavoro per tre anni, a
Parigi. E ora questo sconosciuto glielo ripropone, senza sapere nulla di lui. - Perché no? Se la paga è
buona… - Vi farò parlare con il
pittore, maître Matelot. A Parigi Jules ha avuto
modo di vedere alcune volte il pittore Gaspard Matelot. Non ha mai posato per lui, non gli ha mai
parlato. Matelot potrebbe riconoscerlo? È
difficile, per tanti europei i neri sono tutti uguali. Ma se invece
sospettasse che lui è Jules Bonhomme, ricercato per
omicidio? Magari non sa neanche che Jules è ricercato. Mentre Jules riflette,
Ferdinando insiste: - Credo che possiate
ottenere buone condizioni. Se avete voglia di venire con me, vi posso portare
da lui. Jules esita. Ferdinando
intende davvero presentarlo al pittore o ha altre intenzioni? Potrebbe averlo
visto nei sotterranei o quando è uscito: l’ha avvicinato a pochi passi dallo
sbocco. Se si tratta di scopare, a Jules non dispiace. È venuto da poco due
volte, ma questo non gli impedisce di certo di venire una terza volta. L’uomo
che ha di fronte non è bello, ma a Jules poco importa. - Va bene, verrò. - Allora passiamo un
momento a casa mia, che è sulla strada, e poi andiamo da maître Matelot. Jules sorride. Se l’uomo
lo vuole portare a casa sua, è per scopare. Va bene. Jules spera che la
faccenda del pittore non sia una storia: un po’ di denaro farebbe davvero
comodo, se non altro per far stare zitto quel rompicoglioni del padrone di
casa. Ferdinando abita in una
bella casa, ben arredata. Dev’essere un tipo danaroso. Questa è una buona
cosa. Magari sgancerà qualche moneta. Ferdinando invita Jules ad
accomodarsi e gli sorride: - Posso offrirvi un altro
bicchiere di vino? Un po’ migliore di quello della taverna! - Perché no? Jules si chiede se l’uomo
non voglia ubriacarlo, perché non opponga resistenza. Jules regge bene il
vino. Può bere ancora diversi bicchieri prima di sentire qualche effetto. Ferdinando tira fuori una
caraffa in cui c’è solo un fondo. Ferdinando riempie un bicchiere e lo porge
a Jules. Poi prende una seconda caraffa, piena, e versa il vino in un secondo
calice. - Alla vostra carriera
come modello! Bevono entrambi. Il vino è
delizioso, ma lascia in bocca un retrogusto leggermente amaro. Ferdinando sta sorridendo,
ma Jules ha difficoltà a mettere a fuoco l’immagine. Non capisce che cosa gli
stia succedendo. Solo mentre scivola a terra intuisce che nel vino c’era
qualche sonnifero. Jules si risveglia
sentendo un liquido caldo scorrergli in faccia. Apre gli occhi. Davanti a lui
c’è Ferdinando, che gli sta pisciando sulla testa. Jules ha uno scatto di
rabbia, ma si accorge che non può muoversi: è bloccato, il corpo disteso su
un tavolaccio, le braccia legate dietro la schiena, le gambe divaricate, con
i piedi che poggiano a terra e le caviglie legate alle gambe del tavolo. Non
ha più gli abiti. È nella mani di questo figlio di puttana che l’ha narcotizzato
e poi legato. - Schifoso bastardo… Ferdinando ride e passa
dietro di lui. Jules non può più vederlo. Improvvisamente Jules
sente una pressione contro il buco del culo. Quel figlio di puttana sta per
violentarlo. In Jules si ridestano ricordi di un passato lontano, quando,
ancora ragazzino, il padrone della piantagione lo prendeva. Jules bestemmia e
insulta l’uomo, che per tutta risposta spinge con forza. Jules sussulta e non
riesce a reprimere un urlo. Il cazzo che sta entrando nelle sue viscere è
enorme e durissimo, tanto che Jules per un momento si chiede se l’uomo non lo
stia stuprando con un bastone. Ma il dolore è troppo forte per lasciare
spazio a riflessioni e cresce ancora, mentre l’uomo affonda la sua arma nel
culo di Jules, dilaniandogli le viscere. A un certo punto Jules sente la
carne lacerarsi e la vista gli si annebbia. L’uomo è arrivato in
fondo, ma tra i loro corpi non c’è altro contatto. Poi l’uomo ritrae il cazzo
e lo affonda di nuovo. Una nuova ondata di dolore, intollerabile, sovrasta
Jules, che non riesce a trattenere un urlo. Jules chiude gli occhi, mentre il
corpo è percorso da un tremito. Di nuovo l’arma affonda
nella carne, lacerando, poi si ritrae. Le spinte proseguono a lungo, senza
lasciare a Jules un attimo di tregua. Quando l’uomo, per due volte, estrae il
cazzo completamente, un po’ di sangue cola dall’apertura martoriata. Ferdinando, se quello è
davvero il suo nome, prosegue nella sua azione implacabile e Jules lo sente
ridere di fronte ai suoi gemiti e alle grida di dolore che cerca invano di
soffocare. - Adesso che hai provato
il cazzo di un vero maschio, è ora di crepare. Ferdinando si china su di
lui. Jules ne sente il peso sulla schiena. Un cappio passa intorno al suo
collo. - Bastardo maledetto!
Schifoso! Ferdinando ride e dà uno
strattone alla corda. Jules sente che il respiro gli manca. Riesce ancora a
far entrare un po’ d’aria, con fatica, ma Ferdinando sta stringendo. - No! No! No! La corda si stringe ancora
e Jules non riesce più a emettere suoni. Gli sembra che mille aghi roventi
gli stiano penetrando nel collo. Sente la mano di Ferdinando palpargli i
coglioni e poi il cazzo, che si sta tendendo per effetto del soffocamento. - Spero che tu sia
contento di crepare con il cazzo duro. Un bel pezzo per la mia collezione. Ferdinando ride e la sua
risata è l’ultimo suono che Jules sente mentre il mondo svanisce in un rogo
nero. * Dopo essersi congedato
dalla regina Carolina, Gaspard Matelot
lascia il ballo. Attraversando la sala sorride ancora alla contessa di Bellavista,
che lo guarda ammirata. Sulla porta fa un mezzo inchino alla duchessa di Chaumont, rispondendo al suo sorriso. Mentre scende le scale del
palazzo reale di Capodimonte, anche Gaspard
sorride: è pienamente soddisfatto della serata. Tutte le dame si sono contese
l’attenzione di maître Matelot, il grande pittore francese che ha ritratto la
regina e alcune nobildonne. Tutte vorrebbero posare per il pittore in voga. L’unica preoccupazione di Gaspard è la situazione politica: Napoleone è stato
sconfitto, il trono del cognato, Gioacchino Murat,
vacilla. Il dominio francese a Napoli ha i giorni contati. La faccenda a Gaspard dà molto fastidio: qui lavora moltissimo ed è
conteso dal fiore dell’aristocrazia napoletana e dai nobili francesi scesi in
Italia al seguito di Gioacchino e di Carolina, re e regina di Napoli. A Gaspard
Napoli piace moltissimo. È una splendida città, un vero paradiso per un
artista, un gioiello immerso in una baia di una bellezza incomparabile, un
museo all’aria aperta. E poi ci sono i suoi abitanti, le belle donne, i
maschi, i ragazzini: in una città in cui la povertà infierisce, un po’ di
denaro permette di soddisfare i propri desideri, senza porsi limiti. E là
dove il denaro non apre le porte, lo fa spesso la fama. Gaspard
non si nega nulla. Gaspard è un uomo felice, che ora cammina
fischiettando per le vie di Napoli, mentre segue il servitore che regge la
torcia. Scendono fino al mare: Gaspard ha voluto un
appartamento che affacciasse sulla baia, sopra il vecchio magazzino che ha
affittato come atelier. Sono quasi arrivati
quando, svoltato un angolo, incrociano un uomo che cammina rapido. L’uomo si
ferma, sorpreso, pare quasi spaventato. L’ora è ormai molto tarda e non si
aspettava di incontrare qualcuno. La luce della torcia gli illumina il viso e
Gaspard lo fissa, ammirato: questo giovane, che
deve avere meno di trent’anni, è bellissimo, di una bellezza maschia. Gaspard si dice che è il modello che cerca per il Cristo
alla colonna, il dipinto che gli hanno commissionato i frati. Gaspard si avvicina all’uomo, che lo guarda,
incerto. Gaspard sorride e dice, mescolando molte
parole francesi al suo italiano zoppicante: - Perdonatemi si parlo sensa voi conoscere. Sono Gaspard
Matelot, pittore. Siete il modello parfait per un quadro che io devo dipingere, Cristo, Jesù, alla colonna. Volete voi posare per me? L’uomo appare sorpreso: in
effetti ricevere una proposta di questo genere per strada, nel cuore della
notte, non è proprio abituale. Gaspard sorride e
insiste: - Capisco che la mia
proposta è inattendue, se voi potete dire dove
posso voi trovare, verrò chez vous
domani, ne parliamo. L’uomo gli risponde in un
francese corretto ed elegante: di certo non è un popolano. - Mi spiace, ma abito
lontano da Napoli. Gaspard prosegue la conversazione in francese,
più a suo agio: - Allora non mi resta che
invitarvi a fermarvi qui e posare per me. Potrei pagarvi una locanda o
ospitarvi nel mio atelier. L’uomo apre la bocca per
dire qualche cosa, di certo intende sottrarsi all’invito, ma un improvviso
pensiero lo fa tacere. Dopo un momento di silenzio, risponde: - Se davvero potete
ospitarmi nel vostro atelier, forse potrei farlo… - Venite con me. Vedendo che l’uomo esita
ancora, Gaspard aggiunge: - Se domani mattina avrete cambiato idea,
potrete sempre andarvene. L’uomo annuisce. - Va bene. Mentre percorre l’ultimo
tratto che lo separa dall’atelier, Gaspard si rende
conto di non aver nemmeno chiesto allo sconosciuto il suo nome. Lo farà poi. L’atelier è grande: Gaspard è un pittore importante e accettando l’invito
della regina, ha preteso un atelier consono alla sua fama. - Ecco, vedete, lì c’è un
pagliericcio. - Per me andrà benissimo.
Ma posso fermarmi a una sola condizione. - Ditemi. - Non desidero che nessuno
sappia che sono alloggiato qui. - L’unica a saperlo sarà
la domestica che vi porterà i pasti. Le dirò di mantenere il silenzio. - Va bene, vi ringrazio.
Domani mattina mi spiegherete che cosa vi aspettate da me. - Non avete mai posato
come modello? L’uomo sorride. - No. - Domani mattina ne
parleremo. Gaspard è contento. L’incontro con quest’uomo è
stato un colpo di fortuna. È un Cristo perfetto. E in un modo o nell’altro Gaspard se lo porterà a letto. Di solito preferisce i
ragazzini o le giovani donne, ma un uomo così bello… Ha tutte le intenzioni
di gustare il suo culo. - Un’ultima cosa, come vi
chiamate? - Già, non vi ho neppure
detto il mio nome. Mi chiamo Raffaello. Prima di dire il suo nome,
l’uomo ha esitato. Probabilmente Raffaello non è il suo vero nome, ma non ha
importanza. Gaspard si alza relativamente presto, anche se
ieri sera è rientrato molto tardi. È impaziente di lavorare con il suo nuovo
modello. Mentre fa colazione, si chiede se il suo misterioso ospite non se ne
sia andato via durante la notte. Raffaello potrebbe aver cambiato idea. Ma l’ospite è al suo posto
e dorme sul pagliericcio. Il telo gli copre solo il ventre, lasciando
scoperto un corpo forte e armonioso. A Gaspard si
drizza immediatamente. Sarebbe ben contento di spogliarsi e stendersi su Raffaello,
ma non è detto che questi gradirebbe. Gaspard è
forte, ma anche Raffaello lo è ed è più giovane. Gaspard
sa che raggiungere il suo scopo non sarebbe facile. Perderebbe il modello,
con il rischio di non ottenere ciò che desidera. Gaspard prende un album da disegno e incomincia
a stendere uno schizzo del giovane che dorme. La testa, la curva del collo,
l’arco della schiena, le braccia. Poi un secondo schizzo solo del viso, preso
dall’altra parte. Mentre Gaspard sta disegnando,
Raffaello si sveglia. Per un attimo lo guarda, sembra non capire bene dove si
trova, poi sorride e dice, in italiano: - Vi siete già messo al
lavoro. Subito ripete la frase in
francese. Gaspard risponde, sorridente: - Un modello che dorme,
immobile: la condizione perfetta per un pittore. - Non mi sarei dovuto
svegliare… Gaspard posa il suo album. - Ho già completato uno
schizzo. Vado a dire alla cameriera di portare la colazione. - Vi prego, che nessun
altro sappia che io sono qui. - Non vi preoccupate. Perché Raffaello non vuole
che si sappia che lui è qui? Anche questa notte, quando gli si è avvicinato,
sembrava quasi spaventato. Essere avvicinati a notte fonda in un vicolo da
uno sconosciuto può suscitare inquietudine, ma è solo questo? O Raffaello ha
qualche cosa da nascondere? Se è così, da chi scappa? È un delinquente o
anche solo un disertore in fuga dall’esercito? O si è infilato nel letto di
qualche donna e adesso la famiglia gliela vuole far pagare? A uno così non
sono molte le donne che direbbero di no. Quando Gaspard
torna, Raffaello si è già rivestito. Gaspard non si
preoccupa: si spoglierà poi, per la posa. Dopo che Raffaello ha
mangiato, Gaspard gli spiega che cosa vuole da lui.
Gli propone ciò che offre di solito ai suoi modelli, più il vitto e
l’alloggio: un trattamento generoso, ma sul bel napoletano Gaspard vuole fare una buona impressione. Raffaello
accetta il compenso e gli chiede quanto tempo dovrà posare per il quadro. In
questo periodo Gaspard ha alcuni altri lavori: non
intende certo rinunciare a dipingere il ritratto delle grandi dame che
gliel’hanno chiesto. Farà in modo però di concentrarsi su questo quadro,
perché difficilmente Raffaello sarebbe disposto a fermarsi nell’atelier per
un mese o due. E in ogni caso farsi desiderare un po’ dalle grandi dame è una
buona cosa. Quando tutto è pronto, Gaspard invita Raffaello a spogliarsi e a mettersi
intorno ai fianchi il telo che gli porge. Raffaello esegue senza nascondersi
e Gaspard, che intanto finge di essere occupato a
preparare tutto l’occorrente, ha modo di ammirarlo. Un corpo da sogno e un
culo fantastico. Gaspard fa assumere a Raffaello diverse
posizioni, per studiare quella più adatta. - Ora provate a chinare la
testa e lasciarvi andare, come se fossero solo le corde a sostenervi. Come
nella Flagellazione del Caravaggio. La conoscete? Raffaello fa un cenno con
la testa ed esegue. - Va bene così? - Sì, siete perfetto. Raffaello è davvero
perfetto. Gaspard aggiunge: - Ma voi stareste bene in
qualsiasi posizione. - Grazie. Raffaello abbozza un
sorriso, ma non sembra particolarmente soddisfatto dell’elogio. Gaspard non insiste. Arriverà al suo scopo, in un modo o
nell’altro. Adesso però l’importante è non spaventare il modello. Non prima
di aver preparato il quadro. Gaspard lavora tutto il mattino. Infine gli
sembra di aver trovato la posizione giusta. La schizza sull’album dei
disegni, poi si ferma. - Oggi pomeriggio non
lavoriamo. Verrà a posare la marchesa di Honfleur,
una delle dame di compagnia della regina. Raffaello si guarda
intorno, di colpo inquieto. - Non c’è un posto dove
posso stare? - Non volete andarvene un
po’ a spasso? Non potete mica passare tutto il tempo chiuso qui dentro! - Magari la notte, ma in
pieno giorno no. Raffaello sorride e
aggiunge: - Ci sono alcune persone
che preferisco non incontrare. Fin lì, Gaspard ci è arrivato da solo. Prova a chiedere. - Qualche marito o padre o
fratello? Raffaello alza le spalle. - Diciamo così. - Va bene. Di là c’è
un’altra stanza. Potete usarla quando viene qualcuno. Raffaello apre la porta
che gli ha indicato Gaspard e dà un’occhiata al
locale. - Per me va benissimo. - Ma non venite di qui per
nessun motivo quando sono impegnato con qualcun altro. Parecchi non amano che
altri li vedano mentre posano, soprattutto se si sono spogliati. - D’accordo. Non c’è nessun problema se
Raffaello vede la marchesa e viceversa. Ma Raffaello deve abituarsi a
rimanere nella stanza quando Gaspard è impegnato
nello studio, perché in alcuni casi dopo la seduta c’è un momento più
piacevole. Non certo con la marchesa, che non si concederebbe a un pittore e
in ogni caso non nello studio. Ma ci sono modelli più disponibili. Anche
Raffaello, nelle intenzioni di Gaspard, sarà
disponibile. Magari Raffaello non è della stessa opinione, ma a questo si
provvederà a tempo debito. - Questo Cristo alla
colonna sarà perfetto. I frati saranno soddisfatti. Poi però vi farei anche
un ritratto, un nudo disteso, di schiena. Che ne dite? Raffaello guarda Gaspard. Non risponde subito. - Vedremo. Non so quanto
tempo potrò fermarmi. - Vedremo. Nei giorni seguenti, Gaspard lavora alacremente. Sulla tela il disegno è stato
tracciato e Gaspard incomincia a stendere il
colore, nelle ore del mattino, in cui i raggi del sole non raggiungono
direttamente la stanza. Gaspard non ama le
atmosfere cupe e contrastate del Caravaggio, il suo riferimento è piuttosto Ingres, con cui ha lavorato. Preferisce una luce
uniforme, in cui ogni dettaglio è visibile. Raffaello è un buon
modello, docile e paziente. Di giorno non esce mai. La sera Gaspard è sempre impegnato, ma una volta rientrando ha
trovato sulla soglia Raffaello. Ogni tanto durante le
sedute Gaspard fa qualche complimento a Raffaello,
che però non sembra darsene per inteso. Con la scusa di correggere la
posizione, talvolta tocca il corpo di Raffaello e il viso, ma, anche se il
giovane non reagisce in modo negativo, è chiaro che non gradisce questo
contatto. Con le buone sembra esserci poco da fare. Anche se sono passati a
darsi del tu, Raffaello non sembra disponibile. Gaspard si dice che deve rivolgersi a
Ferdinando. L’occasione arriva pochi
giorni dopo. * - Buongiorno, Ferdinando.
Accomodatevi. Come state? - Bene, grazie. E voi, Gaspard? - Bene. Qual buon vento vi
porta? - Vengo a chiedervi se
avete voglia di fare un giretto dall’Asciurtata,
questa sera. Ho saputo che ha sotto mano merce nuova, di pregio. Ferdinando vede che gli
occhi di Gaspard brillano. Non si stupisce: il
pittore è un porco e la prospettiva di fottere un bel culetto lo accende
subito. - Molto volentieri. - Passo da voi verso le
undici. Va bene? - Benissimo. Sarò pronto. Scambiano ancora due
parole, poi Ferdinando si congeda. Ferdinando va volentieri dall’Asciurtata con il pittore. Matelot
è un uomo famoso, per cui le autorità, se scoprissero qualche cosa,
dovrebbero muoversi con i piedi di piombo. Questo è un bel vantaggio: da
quando il capitano Quesada ha incominciato a
indagare sulla prostituzione dei ragazzini, bisogna essere cauti. Ai bei
tempi in cui c’era il principe di Palermo, era una festa andare dall’Asciurtata o dal Guercio in dieci o dodici: nessuno si
sarebbe certo permesso di indagare sul fratello del re e sulla sua compagnia.
Ma adesso il principe è in esilio in Sicilia con il fratello e quel fottuto Quesada dà la caccia a chi vende il culo dei ragazzini.
Come se non si fosse sempre fatto! Il barone di Roccamara
è stato arrestato. Un barone! Ma il barone non nascondeva le sue simpatie per
i Borboni, anche se non li aveva seguiti nell’esilio in Sicilia, e Quesada è riuscito a fargli passare un po’ di guai, solo
per essersi preso qualche ragazzino di dieci o dodici anni, che di certo il
culo lo avevano dato via altre volte. Un altro motivo per cui
Ferdinando va volentieri con Gaspard è che il
pittore ignora il reale costo della vita a Napoli, per cui paga per entrambi,
naturalmente senza saperlo. Ferdinando bussa alla
porta di Gaspard. Due colpi, una pausa e poi ancora
un colpo, il segnale convenuto. In queste occasioni non ci si fa vedere dalla
servitù: misura di prudenza forse eccessiva, ma Ferdinando preferisce non
correre rischi. L’Asciurtata
riconosce Ferdinando e sorride, deferente. Ferdinando non se ne stupisce:
anche se ormai non viene spesso come un tempo, ogni tanto porta clienti
nuovi, che pagano sempre. E poi era molto amico del principe di Palermo e
prima o poi il Re Nasone tornerà e con lui tutta la corte. Non è un mistero
che questi francesi non dureranno più molto. E allora, in culo al capitano Quesada e a tutti quelli che impediscono a chi compra di
divertirsi un po’ e a chi vende di fare il proprio onesto lavoro. Ci sono diversi ragazzini,
dai dieci ai sedici anni. Merce buona, come sempre: l’Asciurtata
ci sa fare. Matelot si prende un ragazzino molto giovane,
Ferdinando invece ne sceglie uno con qualche anno in più, che dice di
chiamarsi Pascale. L’Asciurtata
lo fa accomodare in una stanza. - Stenditi, Pascale. Il ragazzo sembra
spaventato. Ferdinando sorride: evidentemente Pascale
conosce la sua fama. Dopo che avrà avuto modo di sperimentare di persona, Pascale potrà raccontare in giro che è proprio vero quello
che dicono di Ferdinando Cazzodiferro. Una volta che il ragazzino
si è steso, Ferdinando gli copre la testa con un telo, come fa sempre, e poi
si mette al lavoro. La faccenda va avanti per
un po’. Il ragazzino geme più volte, ma Ferdinando si muove con la dovuta
cautela: non vuole che ci siano problemi, ci sono già stati altre volte e
adesso che non c’è il principe a proteggerlo, è meglio fare attenzione. Quando infine ha concluso,
Ferdinando toglie il telo. Pascale si alza, con una
smorfia sul viso, e dice: - Vossignoria ce l’ha
davvero di ferro. Ferdinando sorride. Il
ragazzino lo racconterà agli altri. A Ferdinando piace che si dica di lui che
è molto dotato e instancabile. Più tardi, quando escono
insieme, Gaspard gli dice: - Sentite, Ferdinando, ho
bisogno del vostro aiuto. Ferdinando si chiede di
che possa aver bisogno il pittore. Non certo di denaro: anche questa volta ha
pagato per entrambi, sia pure senza saperlo. - Ditemi. Se posso… - Ho nel mio studio un
modello, un uomo che ha un culo incredibile. Ma non ne vuole sapere. - E allora? - Avrei bisogno di qualche
cosa per farlo dormire. Ferdinando ride. - Volete qualche cosa che
lo faccia dormire mentre vi gustate il suo culo, in modo che non se ne
accorga? O vi basta che non possa sottrarsi? - Mi basta che non possa
sottrarsi. - Sì, così è meglio, c’è
più gusto. Vi manderò domani con il domestico ciò che serve. Dovrete
farglielo bere insieme al vino, perché non ne senta il gusto. Dopo un’ora non
sarà più in grado di muoversi, per almeno due o tre ore. Vi bastano? - Mi bastano, grazie,
Ferdinando. Siete davvero un amico. * Il Cristo alla colonna è
quasi completato. Gaspard è molto soddisfatto del
risultato, assai meno della mancanza di progressi nel suo rapporto con
Raffaello, che anche nei momenti in cui non posa, non si dimostra molto
socievole e risponde quasi sempre in modo evasivo. Sembra essere diffidente e
Gaspard evita di esporsi. Gaspard chiede a Raffaello di posare ancora per
il nudo disteso. Raffaello non sembra entusiasta. Gaspard
gli fa vedere come dovrebbe mettersi, gli chiede di lasciargli almeno
tracciare qualche schizzo. Infine Raffaello accetta. Per Gaspard
non è facile controllarsi guardando Raffaello steso sul tessuto, il culo
perfetto appoggiato su un lato, la curva della colonna vertebrale. - Ti avranno detto in
tante che sei bellissimo, Raffaello. Raffaello può parlare:
anche se muove la bocca non disturba Gaspard,
perché il volto non è visibile. Ma Raffaello tace. Gaspard prosegue, conscio di correre un rischio. - Te l’avranno detto anche
molti uomini. Come dargli torto? Raffaello continua a
tacere. Gaspard non dice più nulla. Quando infine lo schizzo è
completato, Raffaello si alza e si riveste in fretta. - Uno di questi giorni me
ne vado. Non posso stare qui per sempre. - Come vuoi, ma avvisami
il giorno prima, così posso farti ancora qualche schizzo. Un modello come te
non è facile trovarlo e voglio ancora provare a immaginare qualche nuovo
soggetto, un San Sebastiano, ad esempio. Gaspard potrebbe concludere il suo pensiero: “E
soprattutto gustare il tuo culo.” - Va bene. Ma i giorni passano e
Raffaello non se ne va. È chiaramente nervoso. Il lungo periodo di
confinamento gli pesa ed è normale: un giovane di certo non può avere molta
voglia di starsene tutto il giorno rinchiuso in una stanza. Ma deve aver
combinato qualche cosa di grave per condurre questa vita da recluso. Di certo
ha qualche buon motivo per rimanere a Napoli, anche se può girare solo con il
buio. Probabilmente è qualche amorazzo. Ma com’è che riesce a vedere la sua
bella se i parenti sanno della relazione e lo cercano? Oppure tutti lo
credono partito e lui ne approfitta per raggiungere la donna? In ogni caso Gaspard può dedicare qualche ora ogni giorno a dipingere
il nudo sdraiato di Raffaello. Questo quadro lo terrà per sé: non intende
metterlo in vendita. Un mattino Raffaello è
seduto alla finestra. Appare nervoso e si agita sulla sedia. Non appena Gaspard entra, gli comunica che in serata partirà. È
molto pallido. Non deve aver chiuso occhio in tutta la notte. Gaspard sorride e dice che gli mancherà il suo modello
preferito. Gli fa ancora qualche schizzo, anche se Raffaello sembra non
riuscire a stare fermo. Gaspard si chiede che cazzo
gli è successo, ma in fondo non gliene importa molto. Più tardi gli porta di
persona il pranzo, contrariamente al solito, ma non si ferma a mangiare con
lui. Gaspard ripassa un’ora dopo. Raffaello è steso a
terra e lo guarda, con le pupille dilatate, cerca di dire qualche cosa, ma
non riesce a parlare. Gaspard sorride mentre si
china su di lui e incomincia a spogliarlo. - Un po’ di sonnifero nel
vino è l’ideale, mio caro Raffaello. Il mio amico dottore è stato molto
gentile a darmi l’occorrente. E io non posso lasciarti partire senza farti un
regalo. Raffaello farfuglia parole
senza senso. Gaspard gli sta calando i mutandoni e
ammira il corpo indifeso che tra poco sarà suo. - Sei bellissimo,
Raffaello. Gaspard lo volta sulla schiena e gli stringe con
forza il culo. - Questo bel culo tra poco
sarà mio. Gaspard ride. Si solleva e si spoglia. Gli basta
guardare il culo di Raffaello perché gli diventi duro. Gaspard preme le mani sulle natiche e le
divarica. Sputa due volte sull’apertura. Poi si sputa sul palmo
della mano, inumidisce la cappella e si stende su Raffaello. Avvicina la
punta al buco del culo e spinge in avanti. La carne cede, senza troppa
resistenza, e Gaspard si chiede se questo bel culo
è vergine. Ma non gliene fotte niente. Ora questo culo è suo. Gaspard avanza, deciso, fino in fondo. Raffaello geme. - Ti piace, eh, troia? Gaspard ride, esaltato dal suo trionfo. Si
appoggia sul corpo di Raffaello e assapora il calore del suo corpo, la
stretta della carne intorno al suo cazzo. È splendido. Gaspard si ritrae fino a uscire ed entra una
seconda volta, con una spinta decisa. - Ma…le…detto. La voce di Raffaello è
impastata e Gaspard non capisce che cosa gli sta
dicendo il giovane, ma non ha nessuna importanza. Gaspard manovra il suo pennello con vigore, a
lungo, godendo ogni istante di questo corpo che sta prendendo. E infine
viene, spargendo il suo seme dentro il culo di Raffaello. - Non so se mi puoi
capire, ma io adesso me ne vado. Per le dieci, non devi essere più qui,
altrimenti chiamerò i gendarmi e dirò che mi hai rubato dei soldi. Gaspard si riveste e se ne va. Tornerà solo a
notte, dopo la festa da ballo. Ma in serata farà controllare che Raffaello se
ne sia davvero andato. Gaspard si prepara per il ballo. È soddisfatto.
Ha completato il Cristo alla colonna e il nudo sdraiato, ha un sacco di
schizzi che potrà utilizzare e soprattutto ha gustato il più bel culo che gli
sia mai capitato di vedere. Prima di uscire, Gaspard dà le istruzioni: se Raffaello sarà ancora nello
studio, ci penseranno alcuni tipi decisi, chiamati da un servitore, a farlo
sgomberare. Ma quando Gaspard rientra, il servitore gli dice che nello studio
non c’era più nessuno. * - Merda! Oh, merda! Gennarino non dice nulla.
Lascia che Salvatore Quesada, capitano dei gendarmi
incaricato delle indagini, esprima tutta la sua rabbia. Sa benissimo che
cercare di calmarlo significherebbe solo rischiare che il capitano scarichi
la sua ira su di lui. - Merda! Questa volta Quesada ha urlato che devono averlo sentito anche a
Pozzuoli. Gennarino non capisce il
perché di questa rabbia. Certo, la scena che si presenta davanti ai loro
occhi non è propriamente piacevole: il cadavere di un uomo con i pantaloni
abbassati di rado lo è e se il corpo giace in una pozza di sangue, questo non
contribuisce a rendere lo spettacolo più gradevole. Ma di morti ammazzati Quesada ne deve aver visti un fottio nella sua vita,
anche alcuni fatti a pezzi, oltre a quelli che ha mandato a Satanasso
direttamente: Quesada è abituato ad affrontare
delinquenti di ogni tipo e in qualche caso mors tua vita mea, in senso letterale. Gennarino ha sentito
raccontare spesso le imprese di Quesada e una volta
che l’ha visto a torso nudo ha potuto anche vedere le cicatrici delle due
coltellate che il capitano si è preso al torace: in quell’occasione l’ha
scampata per un pelo. Salvatore Quesada si avvicina al cadavere, con circospezione: non
vuole cancellare nessuna traccia. Di solito gli altri fanno rimuovere il
cadavere dopo un rapido esame del luogo del delitto, ma Quesada
è molto attento. Gennarino è pienamente convinto che abbiano fatto bene ad
affidargli il suo incarico, anche se questo ha provocato mugugni: quando
c’erano i Borboni faceva carriera chi era amico dei potenti, non chi valeva
davvero. - E questo, che cazzo è? Gennarino, che si è
avvicinato timoroso, seguendo i passi del capitano per evitare di prendersi
una lavata di capo, sporge la testa oltre il corpo massiccio di Quesada e guarda. Dal culo del morto sporge un pennello. - Gli hanno infilato un
pennello in culo. Quesada si volta verso di lui, come se volesse
divorarlo: - Non me n’ero accorto.
Grazie per avermelo detto. Gennarino vorrebbe non
aver aperto bocca. Ma ormai il danno è fatto. E allora tanto vale lanciarsi:
sa benissimo che Quesada si sfogherà e poi sarà
meno intrattabile. - Perché è tanto
arrabbiato, capitano? - Oh, cazzo! Ma sai chi è
il morto? - Un pittore. Un pittore
francese, no? - Oh, cazzo! È, no, era, maître Matelot,
pittore di corte. Ha ritratto la regina e metà della nobiltà napoletana. E
l’hanno ammazzato in questo modo! Gennarino incomincia a
capire: una morte di questo genere farà scalpore e la corte vorrà che si
scopra subito il colpevole. Subito significa questa sera o domani. E poiché Quesada non è il tipo da acchiappare il primo vagabondo
che trova e incolparlo di un delitto che non ha commesso, l’orizzonte appare
alquanto tempestoso. Il peggio però deve ancora
venire. Sempre muovendosi con cautela, Quesada è
passato dall’altra parte del cadavere e ora può vedere la faccia, voltata di
lato. - Che cazzo ha in bocca? Quesada si china. - Merda! Quesada appare troppo sconsolato per essere
davvero furioso. - Che cos’è, capitano? - Ha il pesce in bocca. E
mi sa anche le palle. - Santo cielo! Lo hanno
castrato? Quesada fulmina Gennarino con un’occhiataccia e
gli dice, sarcastico: - Non so, magari le palle
sono quelle di qualcun altro. Tu le tue ce le hai ancora? Più a scopo scaramantico
che per verificare, Gennarino si tocca le palle e risponde, sorridendo: - Direi di sì. Se me le
tagliavano, me ne accorgevo. - Allora saranno le sue. Verificare non è possibile
senza muovere il cadavere, che è riverso sulla pancia, ma l’ipotesi del
capitano è plausibile. Gennarino giura che starà zitto. La faccenda si annuncia
davvero brutta. Di un delitto del genere questa sera parlerà tutta Napoli. - Gennarino, manda
qualcuno a chiamare il dottor Belli e che nessuno entri qui. Di’ che mi
chiamino quando arriva. Mentre Gennarino dà i due
ordini, Quesada fa ancora un giro di controllo. Poi
passano tutti e due nell’abitazione del morto, per parlare con la domestica. Maria è accasciata su una
poltrona, certamente quella del pittore, su cui mai avrebbe osato sedersi
finché il suo padrone era in vita (questa almeno è la versione ufficiale:
Gennarino, che anche se ha solo vent’anni sa come funziona il mondo, pensa
che probabilmente Maria si sedeva sulla poltrona quando il padrone era a
divertirsi altrove). Maria all’arrivo del
capitano riprende a piangere disperatamente, invocando santi e madonne,
imprecando contro il feroce assassino e dicendo a Quesada
che deve trovarlo subito. Quesada assiste
impassibile alla sceneggiata e poi passa all’azione. - Allora, tu hai trovato
il cadavere. - Sì, eccellenza. E Maria riprende a
singhiozzare. L’interrogatorio si preannuncia alquanto impegnativo. - Perché sei andata nello
studio? - Il padrone mi aveva
ordinato di pulire bene. E io sono scesa per pulire. - Sapevi che il signor Matelot era nello studio? - No, sì, io… non sapevo
se c’era o no. Mi aveva detto che dopo pranzo dovevo pulire bene e io sono
scesa per pulire e… Maria scoppia di nuovo a
piangere. Gennarino si rende conto che a Quesada
stanno girando i coglioni, ma il capitano sa che deve lasciar sfogare la
donna. Dopo un po’ chiede: - Che ora era? - Erano le quattro. Sono
scesa e… Quesada incomincia a perdere la pazienza.
Interrompe: - Sì, va bene. Sai se il
signor Matelot aspettava qualcuno? - No, eccellenza, non mi
diceva niente dei suoi appuntamenti. Quesada annuisce. - Sai se il signor Matelot aveva dei nemici? Maria guarda Quesada un momento, poi sbotta: - Ma è stato quel tipo a
ucciderlo, quel porco che posava nudo per lui. Il padrone lo ha sbattuto
fuori e lui è tornato per vendicarsi e lo ha ucciso! Gli occhi di Quesada si illuminano. - Raccontami tutto, dall’inizio. Maria respira a fondo e si
lancia: - Oltre un mese fa, il
padrone ha trovato uno, che ha ospitato nello studio, gli faceva da modello.
Sembrava una persona per bene, un giovane ammodo e invece era un assassino! - Tu l’hai visto, vero?
Sei in grado di descriverlo. - Certo, ma è inutile: ci
sono tutti gli schizzi che il padrone gli ha fatto! E poi il ritratto di
schiena. E il Gesù alla colonna che hanno ritirato i frati. Gennarino giurerebbe che Quesada adesso sta sorridendo. Se l’assassino ha un volto,
presto avrà anche un nome e si può sperare di acciuffarlo. Un buon passo
avanti. - Per quanto tempo
quell’uomo è rimasto nello studio? - Ma fino a ieri,
eccellenza. - Per oltre un mese? - Sì, di giorno se ne
stava rintanato nello studio, non voleva farsi vedere da nessuno, quel porco
fottuto. Non voleva farsi vedere da nessuno perché pensava già di ammazzare
il povero padrone. - Perché dici che non
voleva farsi vedere da nessuno? - Il padrone me lo disse.
E disse pure che non dovevo far sapere a nessuno che c’era un ospite nello
studio. - E quando qualcuno posava
per il pittore? - Quel porco stava nella
stanza accanto. - E non usciva mai? - Di giorno no, ma di
notte sì, quasi tutte le notti, eccellenza. A incontrare i suoi compari! - Sai chi incontrava? - Io? E come faccio a
saperlo? Mica me lo raccontava. Ma qualcuno incontrava pure, non andava mica
in giro tutta la notte per far prendere aria alle gambe. Quesada annuisce. - E ieri se n’è andato? - Sì, ha mangiato pranzo.
Gliel’ha portato il padrone. Poi ha detto a Tommaso che quel porco se ne
doveva andare e che lui doveva controllare. - Hai sentito tu? - No, me l’ha detto
Tommaso, che doveva controllare. Il padrone non lo voleva più. - E lui se n’è andato? - Sì, quando è diventato
buio. Ma è tornato per uccidere il padrone, quel porco fottuto! - Lo hai visto? - No. - E come fai a dirlo? - Eccellenza, il padrone
lo sbatte fuori dopo un mese e il giorno dopo qualcuno lo ammazza. E chi
altro può averlo ucciso, il povero signor Matlò,
che era buono come il pane? Quesada annuisce. - Adesso scendiamo nello
studio e mi fai vedere il ritratto dell’assassino. Maria sgrana gli occhi. - Nello studio?
Gesummaria! Nello studio no! C’è ancora… c’è ancora…? Il cadavere c’è ancora e
nessuno deve aver toccato niente, in attesa del dottor Belli. - Va bene, dimmi solo che
quadro è. - Un uomo nudo, sdraiato,
di schiena. - E gli schizzi, dove
sono? - Il signor Matlò ne teneva alcuni in camera sua. - Vammeli a prendere. Mentre Maria esegue, Quesada si rivolge a Gennarino: - Va nello studio e guarda
un po’ dove si trova questo quadro con l’uomo di schiena. Io non ho visto
niente del genere. - Vado subito. - Ah, Gennarino, non
toccare niente o ti mozzo le mani. Quesada sorride e aggiunge: - E magari anche le palle. Gennarino si tocca e,
sorridendo, scende nello studio. Ci sono alcuni quadri a cui Matelot stava lavorando, ma nessun ritratto maschile.
Gennarino passa anche nella stanza accanto allo studio, ma non trova niente
neanche lì. Quando torna su, Quesada sta esaminando alcuni schizzi, che gli porge.
L’uomo ritratto è giovane, non deve avere nemmeno trent’anni. Ha un bel viso
e un bel corpo. E anche un bel culo e un bel pesce, come si vede in alcuni
degli schizzi. Gennarino sospetta che a Quesada uno
così piacerebbe. Quesada non parla in giro dei suoi
gusti, ma Gennarino è sveglio ed è abbastanza sicuro che a Quesada i bei culi piacciano. Qualche volta Gennarino ha
anche pensato di provare con il capitano. Gli piacciono le femmine (e lui
piace alle femmine), ma ha vent’anni ed è curioso. E adesso che ha rotto con
Filomena, il desiderio preme. Intanto il capitano
chiede: - Chi è questo Tommaso? - È l’uomo di fatica che
il padrone impiegava ogni tanto, quando aveva qualche lavoro pesante da far
fare. Ieri mi ha detto di chiamarlo. Ho sentito che gli diceva che quel porco
che stava nello studio se ne doveva andare, di passare a vedere in serata,
alle dieci, e se c’era ancora di sbatterlo per strada. - Eri presente quando il
tuo padrone ha parlato con Tommaso? - No, eccellenza, mi aveva
detto di andarmene. - E allora come fai a
sapere che cosa gli ha detto? - Eccellenza… stavo
andandomene… ma ho sentito. Quesada annuisce. Gennarino si dice che la donna
origliava, ma non è molto rilevante. Intanto Quesada
gli dice di andare a chiamare questo Tommaso. In base alle indicazioni di
Maria non fa fatica a trovarlo. Davanti alla casa ci sono già parecchie
persone che discutono animatamente del delitto. Tommaso conferma la
versione di Maria. - Ti ricordi esattamente
che cosa ha detto il signor Matelot? - Ha detto qualche cosa
come: “Quel porco deve andarsene.” - Ha proprio usato la
parola “porco”? - Eccellenza, sì. - Ne sei sicuro? - Eccellenza, sì. Intanto è arrivato il
dottor Belli, il medico che collabora con i gendarmi. Belli ha superato la
quarantina, ha un viso gioviale e un corpo appesantito dall’amore per la
buona tavola. Salvatore Quesada lo conosce da un anno, da quando si occupa delle
indagini nei casi di omicidio. Ha fama di sapere il fatto suo. - Buongiorno, dottore.
Sempre che possa essere un buon giorno quello che ti porta un cadavere… Belli ridacchia. - Nel mio lavoro di
cadaveri ne vedo tutti i giorni. - Veda un po’ questo
cadavere qui, allora. Il dottore si muove con
precauzione. È abituato alle indagini criminali e bada bene a non spostare
nulla. Guarda il pennello che sporge dal culo del morto e inarca le
sopracciglia. - Particolare curioso! Con un fazzoletto il
dottore afferra il pennello e tira. Ci vuole un buon momento per farlo uscire
tutto: è un pennello molto lungo. Quesada osserva: - Anche quello che ha in
bocca è curioso. Il dottore passa
dall’altra parte, dà un’occhiata e scoppia a ridere. Poi commenta: - Mi sa che sia una storia
di corna. Forse maître Matelot ha conquistato una nobildonna di troppo e il
marito non ha gradito. - L’altrieri abbiamo
trovato quel negro, in quello scantinato, anche lui senza più gli attributi.
E oggi questo. Mi chiedo se possa esserci un legame… - Sì, mi hanno portato il
negro, ma quello era morto da più di un mese. Poi Belli si china sul
cadavere e comunica: - Questo invece dev’essere
morto da poco più di un’ora. - Quindi verso le quattro… - Sì, direi di sì. Il dottore solleva il
corpo su un lato e lo fa ricadere sulla schiena. Come previsto, il pittore è
stato mutilato. Ben piantato nella ferita c’è il coltello che l’assassino ha
usato. Due ferite più in alto sono state probabilmente le prime inferte. Belli annuisce. Poi dice: - Potete farlo portare da
me. Non credo che aprendolo ricaverò niente di nuovo, ma staremo a vedere.
Quando avrete trovato l’assassino, verrò da voi: sono curioso di capire
perché gli ha infilato un pennello in culo e lo ha mutilato. - Vedremo. Sappiamo che
faccia ha e lo prenderemo. Belli appare incuriosito. - Come fate a sapere che
faccia ha? Qualcuno l’ha visto? - Matelot
l’aveva ritratto molte volte. Sempre che sia davvero lui, l’assassino, ma
tutto induce a pensarlo. A proposito… Gennarino, hai trovato il ritratto? - No, capitano. Non c’è
nessun nudo, né di maschio, né di femmina. - L’assassino se lo sarà
portato via, senza pensare agli schizzi. - Uscito con un quadro
sotto braccio, in pieno giorno? Quesada guarda Gennarino come se fosse
deficiente. - Ha staccato la tela dal
supporto e l’ha arrotolata. Probabilmente era su quel telaio lì. In effetti vicino a una
delle finestre c’è un grande telaio senza tela. Gennarino non dice più
niente. * Salvatore è di pessimo
umore. Come ha previsto, sta succedendo il finimondo con questa storia del
pittore. Maître Matelot
di qui, maître Matelot
di là, in tutta Napoli non si parla d’altro. Il colpevole deve essere
trovato. Salvatore ha diffuso la
descrizione dell’uomo ritratto negli schizzi. Si vedrà se salterà fuori
qualche cosa. - Quel che potevamo fare,
l’abbiamo fatto. Ora di andare a casa, Gennarino. Gennarino annuisce. Escono insieme e si
avviano. Gennarino abita lontano, ma la strada che percorre di solito passa
davanti a casa di Salvatore, per cui quando escono insieme camminano
affiancati per un tratto. - Vedrà che lo troveremo,
capitano. Abbiamo il suo ritratto. Salvatore sorride.
Gennarino, vedendolo nervoso, cerca di apparire fiducioso. È un bravo
ragazzo, anche se non sempre prende il lavoro seriamente come dovrebbe. Parlano ancora un momento,
poi arrivano all’abitazione di Salvatore. Al momento di congedarsi, Gennarino
dice: - Ho una sete terribile,
capitano. Non mi offrireste un bicchiere di vino? Salvatore è un po’
sorpreso dalla richiesta. Gennarino si è fatto offrire altre volte un
bicchiere in qualche taverna: è uno a cui piace bere un po’, senza esagerare.
Ma non si è mai invitato a casa di Salvatore. Dire di no gli sembrerebbe
scortese. - E va bene. Vieni su. Gennarino si guarda
intorno, curioso. Salvatore prende la caraffa di vino e ne versa un po’ in due
bicchieri. - Siediti, Gennarino. Gennarino si siede e
sorseggia il vino, senza dire niente. Lo guarda, con un sorriso divertito. - Che cazzo hai,
Gennarino? - Io? Niente, niente…
perché me lo chiedete? - Perché hai in testa
qualche cosa, Gennari’, non mi dire di no. - E voi lo sapete che cosa
ho in testa? Il sorriso di Gennarino
ora è malizioso. Salvatore incomincia ad avere qualche sospetto. - Se te lo chiedo, è
perché non lo so. No? Gennari’, ogni tanto potresti provare a usarlo, il
cervello. Tanto per tenerlo in allenamento. Gennarino ride. - Datemi ancora da bere. - Ti vuoi ubriacare a mie
spese? Bada, che non ti ospito per la notte. A tornare a casa ti arrangi. E mentre lo dice,
Salvatore versa un po’ di vino. Non tanto: non vuole che Gennarino si
ubriachi. - Ma come, capitano, per
strada mi volete far dormire? Non avete un letto per me? Salvatore ha capito. È un
po’ perplesso: a Gennarino piacciono le donne e si vanta delle sue conquiste,
fin troppo. A Salvatore dà fastidio sentirlo raccontare ciò che ha ottenuto
dall’una e dall’altra, gli sembra poco rispettoso sputtanare così una donna
che si è concessa. - C’è un unico letto,
Gennari’. E in quello ci dormo io. - Non è grande abbastanza
per due? Salvatore ghigna. - Ci si starebbe molto
stretti. A meno di non dormire tu sotto ed io sopra. - Perché no? Salvatore scuote la testa,
ma qualche cosa si sta svegliando nei suoi pantaloni. Gennarino è un bel
ragazzo. Salvatore non ci avrebbe mai provato, non gli sembrava proprio il
caso. Ma se è il ragazzo a farsi avanti, in effetti, perché no? Quasi come un’eco dei suoi
pensieri, Gennarino ripete: - Perché no? Inutile menare il can per
l’aia. Salvatore pone la domanda diretta: - Gennari’, hai deciso che
vuoi gustare il pesce? Ti sei stufato della fessa? - No, capitano, la fessa è
la cosa più bella del mondo. Ma… Gennarino abbassa gli
occhi: - …mi piacerebbe provare. Salvatore scuote il capo,
ma il cazzo ha alzato la testa. - E va bene. Andiamo di
là, Gennari’. Salvatore si alza e fa
strada. Gennarino segue. Quando vede il letto, esclama: - Il letto è grande per
dormire in due. E per strada volevate farmi dormire, capitano! Salvatore si volta e
guarda Gennarino, poi lo afferra e lo stringe a sé. Fa per baciarlo sulla
bocca, ma Gennarino non sembra entusiasta dell’idea. Salvatore non vuole
forzarlo. Lo lascia. - Sei sicuro di quello che
vuoi, Gennari’? Gennarino annuisce. - E va bene. Salvatore incomincia a
spogliare Gennarino. Gli apre la camicia e lo accarezza. Gennarino è un bel
ragazzo ed è piacevole passare le mani sulla pelle morbida, far scivolare a
terra la camicia, poggiargli le mani sui fianchi. Salvatore prova di nuovo
l’impulso di baciarlo, ma lo reprime. Gli slaccia la cintura e gli cala i
pantaloni. Salvatore preferisce gli uomini della sua età o con qualche anno
in meno, ma Gennarino ha proprio un bel corpo, snello e glabro. Ora Gennarino è nudo. - Be’, Gennari’, devo fare
tutto io? Gennarino sorride. - Agli ordini, capitano. Gennarino incomincia a
spogliare Salvatore. Quando gli toglie la camicia, esclama: - Uh, che foresta! Salvatore è piuttosto
peloso, lo sa. Gennarino esita un
momento, poi cala i pantaloni e le mutande. Fissa, smarrito, la mazza
formidabile del capitano, ormai perfettamente tesa e pronta per l’uso. Alza la
testa e guarda Salvatore negli occhi. - Capitano, non so se ce
la faccio… - Puoi usare la bocca, se
preferisci. Gennarino scuote la testa. - Se vuoi rinunciare, non
c’è problema. Se no usiamo un po’ di olio. Gennarino deglutisce. - Proviamo con l’olio, capitano.
Ma quando vi hanno fatto, hanno esagerato. Salvatore ride. - Stenditi sul letto,
Gennarino. Io vado a prendere l’olio. Quando Salvatore rientra
nella camera, Gennarino è steso sul letto, a pancia in giù. Volta la testa a
guardare il capitano. Fissa ancora la mazza tesa e scuote il capo,
preoccupato. Salvatore guarda il culo
del giovane. - Gennari’, non ti
preoccupare. Se ti faccio male, mi tolgo. Un po’ di male, Salvatore
sa benissimo che glielo farà. Salvatore si versa un po’
d’olio sulle dita, poi le avvicina al culo di Gennarino e incomincia a
passarle intorno all’apertura, con un movimento rotatorio. Le dita si
spingono progressivamente più avanti, fino a che l’indice entra, vincendo la
resistenza della carne. Salvatore si dice che Gennarino non mente: per lui
dev’essere la prima volta. Dovrà fare molta attenzione a non fargli male. Salvatore versa ancora due
gocce d’olio sulle dita e ripete l’operazione. Questa volta l’anello di carne
cede. Salvatore spinge avanti il dito medio, facendolo penetrare in
profondità. Gennarino geme. - Ti fa male? - No, no, capitano. Non…
non è male. Salvatore sorride. - Se invece del dito ci
mettiamo un bel pesce, è ancora meglio. - Sì, ma ci vorrebbe una
sardina, non un tonno come il suo. Salvatore ride. - Il tonno è meglio delle
sardine. È molto più gustoso. - Sarà. Salvatore toglie il dito.
Appoggia le mani sul culo di Gennarino. Guarda le proprie dita, tozze e rese
scure dal sole e dal pelame, sulla carne chiara di Gennarino. Stringe con
forza. - Ah! Traditore! Salvatore si appoggia su
Gennarino, lo bacia sulla nuca. - Mi fate il solletico! - Adesso ti infilzo. Salvatore si stende su
Gennarino, schiacciandolo con il proprio peso. Lo stringe tra le braccia, poi
si solleva, con le mani afferra di nuovo le natiche del giovane e le allarga.
Guarda il buco e avvicina la cappella, dove già brilla una goccia, fino a che
questa incomincia a dilatare l’anello di carne. Gennarino mugola. Salvatore si ferma un
momento, poi si china, assesta un morso deciso alla spalla di Gennarino e,
mentre Gennarino si lamenta, spinge dentro la sua arma. Gennarino sussulta. - Mi volete divorare? Mi
infilzate allo spiedo e poi mi sbranate?! Salvatore ride. - Hai ancora fiato,
Gennari’? Salvatore aspetta un
momento che Gennarino si rilassi, poi spinge in avanti e il suo cazzo scivola
più a fondo. L’olio favorisce l’avanzata e Gennarino non si tende. - Allora, Gennari’, che ne
dici? - Che non è male, ma certe
volte, come dicono, il troppo stroppia. - Per alcuni è troppo,
magari per altri non è abbastanza. - E per chi mai il vostro
pesce non è abbastanza? Per turare un cannone forse non è abbastanza. Salvatore ride. In effetti
nessuno si è mai lamentato che il suo cazzo non fosse abbastanza. Del troppo
qualcuno sì, più d’uno. Salvatore si muove con
lentezza e intanto le sue mani accarezzano il corpo di Gennarino. È piacevole
far scorrere le mani su questa carne morbida. Anche se Salvatore preferisce
uomini più virili, è proprio bello accarezzare questo corpo e intanto
infilzarlo. Salvatore non arriva fino
in fondo, perché si accorge che Gennarino si sta tendendo. Si ferma e lo
accarezza ancora. Lo bacia sulla nuca. - E che fate, capitano,
pure i baci? Non sono mica una femmina. Salvatore scuote il capo.
È stato uno sciocco, per la tenerezza non c’è posto. Salvatore arretra e poi
avanza di nuovo. Per un po’ lo fa con molta lentezza, badando bene a non
spingersi troppo a fondo. Poi, avvertendo che Gennarino ormai si è rilassato,
imprime al suo movimento un ritmo più deciso, badando solo a limitare sempre
la sua avanzata. Gennarino geme, più volte.
Sono gemiti di piacere. La cavalcata è di suo gradimento e Salvatore ne è
contento. Salvatore accelera ancora
il ritmo. Gennarino geme senza ritegno, ora. Salvatore sente che il piacere
tende il suo corpo e poi infine esplode nel seme che si riversa nel culo di
Gennarino. Salvatore chiude un attimo gli occhi, mentre l’ondata lo travolge,
poi si abbandona sul corpo di Gennarino. Dopo un momento, si gira su un
fianco, afferra il cazzo del giovane, ormai teso, e muovendo rapidamente la
mano lo porta in fretta al piacere. Rimangono un buon momento
così, il cazzo di Salvatore, ancora rigido, in culo a Gennarino. Poi
Gennarino si stacca e si mette a sedere. Sorride a Salvatore, che è rimasto
disteso. - Vuoi fermarti a dormire
qui, Gennari’? Gennarino scuote la testa. - No, adesso vado,
capitano. Salvatore non si stupisce.
Nel loro rapporto da parte di Gennarino c’era solo curiosità. Ha fatto
l’esperienza e ora se ne torna a casa. - Va bene. Ricordati domani
mattina, prima di venire in sede, di passare dal dottor Belli, che ti dà il
referto. - Sarà fatto, capitano. Il giorno dopo Salvatore
si chiede dove cazzo è finito Gennarino. Gli ha detto di passare dal dottor
Belli a ritirare i risultati dell’esame del cadavere, ma ormai è quasi
mezzogiorno: perché cazzo non arriva? Salvatore manda un altro
gendarme da Belli. Quando ritorna, l’uomo lo informa che Gennarino è passato
dal dottore e ha ritirato un foglio su cui Belli aveva scritto quello che
aveva trovato, niente di nuovo, a quanto pare. Salvatore non sa spiegarsi
perché Gennarino non è arrivato. È inquieto. Gennarino è giovane, esuberante,
sempre pronto a inseguire una gonnella, ma è uno che lavora sul serio e se ha
ricevuto un compito, lo esegue. Come è possibile che non si presenti? Il motivo lo scopre il
mattino dopo. Gli comunicano che hanno trovato un cadavere in un passaggio
sotterraneo a San Giuseppe. Uno dei gendarmi che sono stati chiamati ha
riconosciuto il morto: Gennarino Esposito. In tasca ha ancora il referto
scritto dal Belli, quello glielo hanno lasciato. Ma cazzo e coglioni no,
glieli hanno tagliati di netto. Salvatore guarda il corpo
mutilato di Gennarino. Intorno al collo c’è il segno lasciato dalla corda che
lo ha strangolato. Come il negro che hanno trovato pochi giorni fa. Salvatore si accascia su
una sedia, sconsolato. In qualche modo si sente responsabile di questa morte
orrenda, anche se non ha fatto nulla che possa aver messo in pericolo il suo
aiutante. Che cosa è successo? Perché Gennarino è stato ucciso? Perché è
stato mutilato? La mutilazione fa pensare
agli altri due omicidi, quello del pittore e quello del negro. È lo stesso
assassino? Salvatore non ha messo in relazione i due omicidi precedenti, che
sono avvenuti a distanza di tempo, anche se i cadaveri sono stati scoperti a
due giorni l’uno dall’altro. Ma forse questo legame esiste. E forse… il
marinaio trovato nei sotterranei, due anni fa, anche lui era stato mutilato
allo stesso modo. C’è un pazzo che si aggira per Napoli uccidendo e castrando
le sue vittime? Non è Salvatore a seguire
il caso del negro, ma a questo punto è bene che se ne occupi. Chiama il
collega, Lorenzo Vicari, che è di grado inferiore al suo, e gli chiede i
dettagli. - Che cosa avete scoperto
del negro? - Poco. Era francese o
almeno parlava francese. Viveva con uno che sembrava essere italiano, ma non
di Napoli, forse uno del Nord. Il negro è scomparso un lunedì, due o tre
giorni dopo è scomparso anche l’altro, senza dire nulla, senza nemmeno pagare
la pigione. Pare che l’italiano sia passato parecchie volte da uno dei vicini
a chiedere notizie del negro. Quando gli hanno detto che l’avevano trovato
morto, era sconvolto. Salvatore ha un’idea.
Prende la cartella in cui ha sistemato gli schizzi di Matelot
e ne estrae un ritratto. - Sentite, prendete questo
ritratto e sappiatemi dire se è lui l’uomo che abitava con il negro e dopo la
sua scomparsa veniva a chiedere notizie. Vicari se ne va e
Salvatore si chiede se la sua idea ha qualche base. Se è così, se l’uomo che
viveva con il negro è il modello di Matelot,
l’assassino dev’essere lui. Ma perché passava a chiedere se c’erano notizie
del negro? Il vicino dice che quando ha saputo della sua morte, era
sconvolto. Lo era davvero o fingeva? Difficile saperlo. Vicari gli saprà dire. Di
lui Salvatore ha parecchia stima, sa che è puntiglioso nel suo lavoro. Vicari torna due ore dopo.
Ha interrogato il vicino, il padrone di casa e una donna che veniva a fare le
pulizie. Nessun dubbio, tutti e tre hanno immediatamente riconosciuto l’uomo
ritratto: il modello di Matelot era proprio l’uomo
che stava con il negro. L’uomo che con ogni probabilità ha ucciso entrambi.
Mentre attendeva Vicari, Salvatore ha continuato a ragionare sulla faccenda e
adesso gli sembra di avere le idee chiare: quell’uomo ha ucciso il negro e ha
nascosto il cadavere, sperando che non venisse fuori. Per quello andava a
chiedere notizie. Stava da Matelot, perché sapeva
che, trovato il corpo del negro, i gendarmi sarebbero andati alla sua
abitazione e l’avrebbero beccato. Lui non voleva farsi trovare, ma non poteva
scappare: per qualche motivo doveva restare a Napoli. Forse aveva già ucciso
qualcuno nello stato da cui veniva e non poteva tornarci. Quando il corpo è
stato trovato, con ogni probabilità avrebbe ancora voluto rimanere da Matelot, ma il pittore l’ha mandato via. Perché?
Sospettava dell’omicidio? In ogni caso l’uomo ha ucciso Matelot
ed è scomparso nel nulla. E quasi sicuramente ha
ucciso anche Gennarino, visto che ha mutilato allo stesso modo i tre corpi. Ma perché dovrebbe aver
ucciso Gennarino? Salvatore decide di
passare dal dottor Belli, che ha visto tutti e tre i cadaveri. Belli lo accoglie
sorridente, ma poi il sorriso lascia il posto a un’espressione seria: - Mi spiace per il vostro
assistente, capitano. Salvatore annuisce. Poi,
senza perdere tempo, pone la domanda per cui è venuto: - Dottore, avete visto la
mutilazione del negro e di Gennaro Esposito. Pensate che possa essere stata
la stessa persona a mutilare i due corpi? - Non è facile dirlo. Il
corpo del negro era molto mal ridotto. Ma il taglio era molto netto, come
quello di Esposito. - E anche quello di Matelot? - Sì, anche quello. - Qualcuno che sa
maneggiare bene il coltello. - Sì. Il coltello. - Ma perché? Belli allarga le braccia. - Questo è compito vostro
scoprirlo. Salvatore annuisce. - Sì, avete ragione. Ci
riuscirò, in un modo o nell’altro ci riuscirò. - Buona fortuna, capitano. * C’è stata una grande festa
a Napoli per il rientro dei sovrani legittimi. La città è esplosa di gioia,
tutta la popolazione sembrava voler abbracciare il Re Nasone, come viene
chiamato Ferdinando IV. Una settimana dopo il
rientro dei sovrani, qualcuno bussa alla porta di Ferdinando. La domestica
annuncia un nome, che Ferdinando conosce bene. Ferdinando ordina di far
accomodare immediatamente l’ospite. Quando l’uomo, intabarrato in modo da non
mostrare il volto, entra, Ferdinando si inchina. - Altezza! Che piacere
rivedervi! Il principe Tommaso di
Palermo si libera del mantello. - Lasciate perdere i
convenevoli, Ferdinando. Sono riuscito a sottrarmi alla solita noia dei
festeggiamenti, con tutti quegli scassapalle.
Voglio divertirmi a modo mio. Dopo nove anni a Palermo… Ferdinando sorride. - Una bellissima idea.
Sono stati tempi duri, senza di voi, principe. Con quel capitano che ha pure
fatto arrestare il barone di Roccamara. - Quello stronzo la
pagherà, ve lo assicuro. Ditemi, Ferdinando, sono sempre l’Asciurtata e il Guercio a trovare la merce migliore? - Il Guercio l’hanno
ammazzato, è stato il padre di uno dei ragazzi. Ma l’Asciurtata
è viva e vegeta ed è sempre lei a offrire merce di valore, principe. Non
certo la Locena. La Locena
è una puttana che commercia anche lei in ragazzini, ma quello che vende non
vale molto: non è mai stata in grado di offrire merce buona. Salvatore
aggiunge: - So che in questo momento
l’Asciurtata ha merce di ottima qualità. - Ditele che voglio merce
sopraffina per giovedì sera: devo rifarmi, dopo tutti questi anni. Se me ne
trova uno vergine è meglio. D’accordo? Non è una domanda.
Ferdinando sa benissimo che un rifiuto non è previsto. - Senz’altro, principe.
Sapete che ogni vostro desiderio è un ordine. Il principe si congeda.
Ferdinando è contento. La morte di Matelot e le
inchieste di Quesada hanno reso più difficili le
visite dall’Asciurtata, ma adesso che è tornato il
principe, riprenderanno a divertirsi senza tanti problemi. Dopo la prima volta ce ne
sono altre. I vecchi amici si ritrovano e adesso c’è sempre una comitiva di
otto o nove persone: i soliti, a parte due che sono morti e un terzo a cui
non tira più; il loro posto è stato preso da altri. * Giacomo è un po’
preoccupato. Lo ha scelto quello che chiamano Ferdinando Cazzodiferro.
Dicono che ce l’abbia duro come una lama di Toledo e grosso come un cannone.
Giacomo è curioso di veder questo cazzo di cui nel loro ambiente si parla
molto, ma Ferdinando non vuole essere visto: mette sempre un telo sulla testa
del ragazzo che sceglie. Giacomo ha una mezza idea.
Quasi quasi… Quando Ferdinando lo
infilza, Giacomo si agita, in modo da far scivolare un po’ lo straccio che
gli copre la testa. - Tranquillo, non ti
muovere tanto. Giacomo rimane fermo. Il
cazzo che adesso si fa strada dentro di lui è davvero grosso e duro come
pietra. Giacomo è assolutamente deciso a vederlo. Sa che rischia di prendersi
una bella lavata di capo e magari anche le botte, per cui infila una mano
sotto lo straccio e lo solleva solo un po’, girando la testa. Quando
Ferdinando si ritira, come fa sempre prima di venire, Giacomo solleva un po’
di più lo straccio e guarda. Ciò che vede lo lascia
senza parole: Ferdinando ha in mano un cazzo di legno, perfettamente
sagomato. Giacomo incomincia a ridere, una risata che cerca invano di
controllare, mentre Ferdinando, che non si è accorto di niente, ha messo via
il cazzo di legno e sta prendendo una vescica ripiena, quella che
evidentemente usa per iniettare in culo un po’ di liquido e far credere di
essere venuto. La vista della vescica fa
perdere a Giacomo ogni controllo. La risata lo scuote tutto. - Che hai? La voce di Ferdinando è
dura, ma Giacomo continua a ridere. Ferdinando si stende su di
lui. Solleva lo straccio e lo guarda. Giacomo non riesce a smettere di
ridere. - Che hai, stronzo? Giacomo infine si calma, scuote
la testa e dice: - Il famoso pesce di cui
parla mezza Napoli… di legno. Ride ancora. - Sta zitto! - E la vescica… - Sta zitto! E smettila di
ridere! Ma Giacomo non riesce a
smettere. Quando infine si calma, dice, serio: - Non dirò nulla, ma voi
mi darete qualche cosa, vero, eccellenza? Ferdinando dovrà dargli
parecchio, per farlo stare zitto. Giacomo è contento di aver guardato. Ora ce
l’ha in mano, il famoso Cazzodiferro. - Sì, ti darò qualche
cosa. Ferdinando prende un
cuscino. * Ferdinando continua a
premere anche quando non c’è più nessun segno di vita nel corpo su cui è
steso. Non vuole correre rischi. Poi controlla che il
ragazzo sia davvero morto e si riveste. Non c’era altra strada. Il
ragazzo non sarebbe stato zitto. Ha dovuto farlo di nuovo. Ferdinando rimane dietro
la tenda e aspetta che il principe abbia finito. Quando lo vede uscire, apre
un po’ la tenda e gli fa cenno di entrare. Il principe guarda il
cadavere del ragazzo. - Di nuovo, Ferdinando! Ferdinando alza le spalle. - Il cuore ha ceduto,
principe. Il principe scuote la
testa. La faccenda gli dà fastidio, ma Ferdinando sa che il principe si
occuperà di sistemare tutto. - Me ne occupo io,
Ferdinando, ma… - È successo, principe. Un
errore. Tutti li commettiamo. Il principe lo guarda.
Ferdinando sa benissimo che cosa sta pensando il principe. Si chiede se
Ferdinando non abbia ancora in mano quelle carte che gli ha dato da tenere
quando i Borboni sono dovuti scappare in Sicilia. Il principe gli ha poi
mandato una lettera con l’ordine di distruggerle, ma Ferdinando si è guardato
bene dal farlo: sono troppo preziose quelle carte. Ferdinando ha aperto con
cura il plico suggellato e ha potuto scoprire tutti i particolari della
congiura per uccidere il Re Nasone e far salire sul trono il principe.
L’arrivo dei francesi ha mandato a monte i piani, ma se quei fogli finissero
nelle mani sbagliate, per il principe sarebbe l’esilio, per molti degli altri
la pena capitale. - E va bene, ma… Il principe non conclude
la frase. Ferdinando osserva: - Quesada
indagherà. Quel fottuto bastardo non ascolta nessuno. - Bene, sarà l’occasione
per saldare i conti con quello scassapalle. * - Capitano, quest’affare
scotta. Fate attenzione a non bruciarvi. Salvatore Quesada guarda Pietro Russo, il gendarme che ha preso il
posto di Gennarino come suo assistente. - Perché mi dici questo,
Pietro? Russo si morde un labbro.
Salvatore riprende: - Chi ti ha consigliato di
avvisarmi? - Capitano, che questa
faccenda scotta, lo sapete anche voi. Russo non ha risposto.
Salvatore annuisce. - Hai ragione, lo so
anch’io. Non ho bisogno che qualcuno mi avvisi. - Come volete, capitano. - Puoi andare, Pietro. Russo esce. Salvatore
guarda la porta. Sa benissimo che rischia grosso. I suoi superiori non lo
vedono di buon occhio. Lo sospettano di simpatie per i francesi, gli
rimproverano di aver fatto arrestare un nobile fedele ai Borboni durante
un’altra indagine, quando era re Murat. Poco
importa che questo nobile acquistasse ragazzini e bambini. Adesso la faccenda è
peggio, molto peggio. Non c’è solo un nobile, ce ne dev’essere un fottio. Tre
nomi son venuti fuori. Questa inchiesta sarà fermata, Salvatore lo sa. Ma può
non indagare sull’assassinio di un ragazzino da parte di un cliente? L’Asciurtata è in carcere, come pure due dei suoi
collaboratori. Salvatore ha presentato la richiesta di interrogare tre uomini
che sicuramente hanno partecipato alla serata durante la quale il ragazzo è
stato assassinato. Ma sono nomi troppo grossi. Salvatore sa di aver firmato la
propria condanna. * I lazzari fanno ancora
festa per il ritorno del Re Nasone, ma adesso è tempo di regolare i conti. Al
capitano Quesada il benservito viene dato in
fretta: il tenente Toledo non ha tempo da perdere con quest’uomo sospettato
di simpatia per i francesi. - Capitano Quesada, siete congedato. Quesada non sembra stupito, ma chiede: - Posso conoscere i motivi
del mio congedo? Toledo non mena il can per
l’aia: - Manifesta incapacità.
Non avete scoperto l’assassino del pittore francese, quel Matelotte.
Avete perfino provocato la morte del vostro aiutante, quel poveretto, come si
chiamava… Non parliamo poi dell’ultima indagine, su quel ragazzino: una vera
vergogna. Siete giunto a conclusioni affrettate, pensavate addirittura di
infangare alcuni nobiluomini, tra le famiglie più insigni di questa città. Il
vostro posto sarà preso da qualcuno più capace. Quesada apre la bocca. Toledo non lo lascia
parlare e intima: - Tacete! Non voglio
sentire una parola di più su questa storia. L’indagine sarà chiusa. Quel
ragazzo è stato ucciso da qualche delinquente. - Quel ragazzo veniva
prostituito da alcuni trafficanti che offrono giovani di 14-15 anni, a volte
anche meno… - Basta! Vi ho detto che
non voglio sentire più nulla. Avete lanciato accuse infamanti contro persone
rispettabili. Vi siete servito delle indagini per colpire famiglie leali ai
legittimi sovrani. - Non potete… Toledo è furente. - Basta! Uscite
immediatamente da questa stanza. E dimenticatevi di questa indagine. Vi
proibisco di parlarne con chiunque. Quesada si volta e se ne va senza salutare. Il principe di Palermo
entra nella stanza. Ha seguito la conversazione oltre la porta. - Quell’uomo è testardo. Il tenente Toledo si
inchina di fronte al fratello del re. Il principe aggiunge: - Credo che abbia bisogno
di un’altra lezione. * La lezione arriva due sere
dopo. Sotto la pioggia battente,
Quesada torna a casa dalla taverna dove ha bevuto,
troppo, ripensando al ragazzino assassinato e all’indagine che stava portando
avanti, nonostante le complicità e le minacce. Sapeva che glielo avrebbero
impedito, ma non aveva voluto cedere. Licenziato su due piedi,
con infamia. Svolta un angolo e si
trova in un passaggio buio. Dall’ombra escono in quattro. Due gli bloccano le
braccia, gli altri due incominciano a riempirlo di pugni in faccia, al
torace, al ventre. Salvatore cerca di difendersi, ma c’è poco da fare: è una
gragnuola di colpi che lo tramortiscono. Il sangue gli cola dal naso e da un
labbro, ma le botte non si fermano. Salvatore è intontito dai colpi. Perde il
controllo della vescica, ma non se ne rende neanche conto. Altri colpi,
ancora. Lo stanno ammazzando di botte. Quando infine i due che lo
tengono la lasciano andare, Salvatore cade a terra. Lo prendono ancora a
calci: al torace, in faccia, ai coglioni. Uno degli aggressori gli pesta una
mano con il tacco dello stivale. Il viso è una maschera di sangue. Poi uno dei quattro si
china su di lui e gli punta alla gola il coltello. Salvatore si dice che è
finita. - La prossima volta ti tagliamo
la gola. Per questa volta ti lasciamo un piccolo ricordo. Salvatore sente la lama
aprirgli una guancia. I quattro lazzari
scompaiono. Salvatore rimane disteso, incapace di muoversi, sotto la pioggia
che lava via il sangue. * Salvatore Quesada beve, seduto alla taverna. Beve troppo, lo sa.
Certe sere si alza barcollando e fa fatica ad arrivare a casa. Salvatore sa
che se continuerà così, diventerà uno di quegli ubriaconi che ha sempre
guardato con pena mista a disprezzo. Deve andarsene da Napoli, solo così può
trovare la forza di ricominciare. Qui non c’è spazio per lui. Ripensa all’inchiesta e al
pestaggio, sei mesi fa. Ha una fibra forte, se l’è
cavata, la polmonite non l’ha ucciso, anche se ci è mancato poco. Ci sono
voluti sei mesi, ma ora le ferite e le fratture sono guarite e sono rimaste
solo alcune tracce delle botte prese: la cicatrice della coltellata e altre
più piccole in faccia, la cartilagine del naso rotta, una certa rigidità di
due dita della destra. Ma per sua fortuna lui è mancino. Al pensiero di quanto è
accaduto, Quesada ha uno scatto di rabbia. Muove
bruscamente la mano per afferrare il bicchiere, ma questo si rovescia. - Merda! - Gliene porto un altro,
capitano. Alla taverna lo chiamano
ancora capitano, anche se sanno benissimo che è stato congedato. - Lascia stare. Me ne
vado. Salvatore Quesada paga e se ne va. Passa davanti alla chiesa dei
Frati. Quante volte c’è entrato, a vedere il Cristo alla colonna? Matelot ha dato a Gesù l’immagine del proprio assassino.
Che ironia! Salvatore ha ancora a casa
gli schizzi del pittore. L’immagine di quell’uomo scomparso nel nulla gli
ritorna spesso in mente. Anche oggi Salvatore entra e si avvicina all’altare
dove è esposto il quadro. C’è un frate con cui ha avuto modo di parlare più
volte. Non gli ha mai detto che l’uomo del dipinto è un assassino, ma gli ha
raccontato che lo cercava per risolvere un caso. Adesso non ha più casi da
risolvere. Il frate si avvicina. - Buongiorno, signor Quesada. - Buongiorno, fratello. - Speravo di vedervi, volevo
dirvi una cosa. Salvatore non riesce a
immaginare che cosa possa volergli dire l’uomo. - Ditemi. - L’altro giorno sono
venute due signore, una di Genova, l’altra di Parigi. La signora di Parigi,
una bella donna piuttosto prosperosa, era in visita in Italia con il marito e
la signora di Genova e il marito li accompagnavano. I due signori non
c’erano, avevano qualche impegno… chissà che cosa saranno andati a fare…
Insomma, dicono che hanno un impegno e poi vanno in certe case… Salvatore sa che il frate
chiacchiera troppo e lo ascolta un po’ distratto, mentre fissa il volto di
Gesù nel quadro. - …insomma, la signora di
Genova guarda il Gesù e rimane senza parole. Salvatore si fa più
attento e fissa il frate. - Insomma, l’ha riconosciuto.
Dice che è un signore di Genova, di una famiglia di mercanti, gente che vende
olio da generazioni. Molto ricchi, pare. Questo che il povero Matelot ha usato come modello per il Cristo è uno che
voleva diventare pittore. È persino andato a studiare pittura a Parigi. Salvatore non dice nulla.
Gli sembra quasi che interrompendo il frate, questi potrebbe perdere il filo.
- È stato via a lungo.
Prima a Parigi, poi è venuto qui, ma lei non lo sapeva, non lo sapeva nessuno
dove fosse, lei l’ha capito vedendo il ritratto. Adesso è di nuovo a Genova.
Dipinge. Ma si vede poco in giro. - Vi ha detto il suo nome? Il frate sorride. - Sì, ho pensato che
avreste voluto saperlo e gliel’ho chiesto. Si chiama Simone Fieschi. Salvatore vorrebbe
abbracciare il frate. Di colpo gli sembra di aver ritrovato la voglia di
vivere. Simone Fieschi, pittore, di una famiglia di
mercanti. Commercianti di olio. Più che sufficiente per ritrovarlo. Salvatore si alza e si
dirige verso casa. Non ha la più pallida idea di che cosa farà quando si
troverà di fronte l’assassino, ma ci penserà durante il viaggio. Gli sembra
di aver ritrovato uno scopo nella vita. * Salvatore non ci mette
molto a preparare i bagagli. Ci mette anche tre schizzi fatti da Matelot. Se li è tenuti lui, quasi tutti, non sa nemmeno
perché. Durante il viaggio sulla
nave che risale lungo la costa, da Napoli a Genova, Salvatore si chiede che
cosa farà. Non può far arrestare quell’uomo: non ha nessun potere a Genova,
che ormai fa parte del Regno di Sardegna. E non avrebbe nessun potere neanche
a Napoli, dove non è più nessuno. Ma a Napoli almeno potrebbe denunciarlo. Lo
vedrà e gli parlerà. Vuole sapere. Non è detto che l’uomo accetti di
rispondergli. Ma Salvatore vuole provarci, vuole trovare una risposta alle domande
che si pone, chiudere il caso dell’assassinio del pittore Matelot,
del negro e di Gennarino. Tre morti. Salvatore ha con sé la pistola. Vuole
far confessare l’assassino, anche se questi dovesse ucciderlo. Per farsi
ammazzare dal vino nelle bettole di Napoli, può anche farsi ammazzare a
Genova. Salvatore non è mai stato
a Genova, ma non è venuto per visitare le chiese e guardare i palazzi. Dà
appena un’occhiata a questa città schiacciata sulla collina, che nei suoi
vicoli stretti e nella presenza del mare potrebbe ricordare Napoli, ma è un
altro mondo. Non ci vuole molto a scoprire dove hanno bottega i Fieschi, né a risalire alla residenza del giovane Simone,
il “bel Simone”, come lo chiamano, che sta in una borgata a qualche miglia
dalla città. Il giorno dopo il suo arrivo, nel primo pomeriggio, Salvatore è
davanti alla casa del pittore. Al servitore che apre,
Salvatore si presenta e dice che avrebbe bisogno di parlare con il signor Fieschi per un ritratto. Spera che il suo accento
napoletano non lo tradisca: Salvatore parla bene l’italiano, ma è evidente
che non è genovese e non ci vuole un grande orecchio per capire da dove
viene. Il servitore ritorna poco
dopo, dicendo che il padrone non riceve nessuno. Forse il servitore ha colto
il suo accento e ha riferito al padrone, forse gli ha detto che il visitatore
ha una faccia da delinquente, forse Simone Fieschi
è davvero occupato. Salvatore ha un’arma e intende usarla. Tira fuori dalla
cartella che ha sotto il braccio uno degli schizzi che Matelot
ha fatto di Simone e lo porge al servitore, dicendogli: - Dategli questo e ditegli
che non intendo andarmene finché non mi avrà ricevuto. Lo sguardo del servitore è
eloquente: se Salvatore non se ne andrà, ci penserà lui a sbatterlo fuori. Il
servitore è un marcantonio e in uno scontro fisico Salvatore non è sicuro di
riuscire ad avere la meglio, nonostante la sua esperienza. Il servitore scompare e
ritorna poco dopo. - Prego, eccellenza,
accomodatevi. Salvatore segue il
servitore. È appena entrato in una stanza che dev’essere lo studio del
pittore, quando sente la canna di una pistola premergli contro la schiena.
Salvatore si dice che è stato un coglione: sapeva bene di dover incontrare un
assassino. - Non vi muovete. Il servitore lo sta già
perquisendo. In un attimo gli ha tolto la pistola. - Controlla che non abbia
anche un coltello, Andrea. Andrea controlla, ma
Salvatore non ha altre armi. - Sedetevi. Salvatore si volta e
guarda Simone. E anche se sa di essersi cacciato in una situazione di merda,
non può fare a meno di dirsi che Simone è davvero bello, come nel quadro del
Cristo alla colonna, come negli schizzi. Forse anche di più. Simone fa un cenno,
indicando una poltroncina, e Salvatore si siede. Anche Simone si siede, su
una sedia e a distanza di sicurezza. Tiene la pistola puntata e Salvatore sa
benissimo che l’uomo sparerà, se lui cercherà di saltargli addosso. - Va’ pure Andrea. Il servitore esce dalla
stanza, ma di certo rimarrà nelle vicinanze. Salvatore sorride e
osserva: - Davvero una bella accoglienza.
Dicono che noi napoletani siamo molto calorosi, ma voi ci battete. Simone rimane impassibile.
Si limita a dire: - Avete richiesto di
vedermi. Ditemi quello che volete. - Per prima cosa vi avviso
che ho comunicato che sarei venuto da voi. Se mi uccidete, sarete scoperto. Salvatore sta bluffando,
ma la risposta di Simone lo spiazza: - Non ho mai ucciso
nessuno e non intendo farlo, a meno che voi non mi costringiate. Certo che il tizio ha una
bella faccia tosta: ne ha fatti fuori tre e dice che non ha mai ucciso
nessuno. Salvatore decide che non è
il caso di menare il cane per l’aia. - È inutile che mentiate
con me, signor Fieschi. Simone aggrotta la fronte. - Mentire? Sembra davvero non capire. - Credo che abbiate già
ucciso, più di una volta. Simone appare irritato. - Ascoltate, so benissimo
chi vi manda. Non cercate di gettarmi fumo negli occhi. Ditemi che cosa
volete. Salvatore si sente a
disagio. La reazione di Simone non è quella che si aspettava. - Allora diciamo che sono
venuto qui per parlarvi di tre omicidi commessi a Napoli. - Tre? Di nuovo Salvatore ha
l’impressione che Simone non menta. È abituato a interrogare assassini e
criminali di ogni genere e di solito è in grado di capire quando un uomo
mente. Non sempre, ovviamente. Salvatore alza il pollice
della sinistra e vi appoggia l’indice della destra. - Un negro di cui tuttora
non conosciamo il nome. Sul viso di Simone passa
un’ombra, mentre dice: - Si chiamava Jules Bonhomme e veniva da Haiti. Salvatore annuisce, un po’
stupito. Tende l’indice della sinistra e vi appoggia quello della destra: - Il pittore francese Gaspard Matelot. Simone ha un fremito, si
direbbe di rabbia, ma non dice nulla. Salvatore continua, appoggiando
l’indice della destra sul medio della sinistra. - Gennarino Esposito, che
aveva appena vent’anni ed era il mio aiutante. Simone guarda Salvatore
come se non capisse. Salvatore riprende: - Voi non ne conoscevate
il nome, ma è stato ucciso il giorno dopo il signor Matelot. Simone sembra non sapere
che dire. Poi chiede: - Il vostro aiutante… Voi
chi sareste? Simone sembra dubitare
della sincerità della risposta che darà Salvatore. - Ero un capitano dei
gendarmi e indagavo su alcuni degli omicidi che venivano commessi. Simone appare alquanto
perplesso. - Non mi credete? - Se devo essere sincero,
no. - Chi pensate che io sia? - Qualcuno al servizio di
un assassino, un uomo di cui non conosco il nome. Salvatore sorride. L’idea
lo diverte davvero, perché è sempre più convinto che Simone non stia
mentendo. - Io ero convinto che
aveste ammazzato tre uomini e voi siete convinto che io sia al servizio di un
assassino. - Sì, dell’assassino di
almeno due di quegli stessi uomini, forse anche del terzo, non so, non so
nulla di lui. Ma lo ripeto: credo che stiate mentendo. - Io invece incomincio a
pensare che voi non mentiate, anche se quando sono arrivato avrei messo la
mano sul fuoco che eravate voi l’assassino. - Vi sareste bruciato. La conversazione è a un
punto morto. Simone è perplesso, Salvatore sospetta di essere giunto a
conclusioni del tutto errate a Napoli. - Sentite, siete
disponibile a rispondere a qualche domanda? Io vi dirò che cosa so e se voi
mi risponderete, forse… Simone è diffidente, ma
Salvatore vede che anche lui è perplesso. - Io indagavo sui casi di omicidio.
Non su tutti, naturalmente, di morti ammazzati ce ne sono tanti a Napoli,
come in qualunque altra città. Ma dei casi più importanti mi occupavo io.
Perciò fui chiamato per il pittore, Matelot. E voi
alloggiavate da lui. Ci siete rimasto oltre un mese. Simone annuisce. - Sì. Mi incontrò una
notte e mi disse che ero il modello ideale per il suo Cristo alla colonna. - Quello che mi ha
permesso di ritrovarvi. - Come? - Una dama genovese ha
riconosciuto il modello del quadro, ora esposto nella chiesa dei frati…, e
così ho saputo il vostro nome. Simone annuisce. - Quindi, come ci siete
arrivato voi, può arrivarci qualcun altro… - L’assassino di cui
parlate… state pensando a lui, vero? Simone ripete lo stesso
cenno con la testa. - Sentite, se davvero siete
innocente e siete in pericolo, forse posso aiutarvi. Sono stato allontanato,
per aver proseguito un’indagine che toccava un personaggio molto vicino alla
corte. Ma conosco Napoli e i suoi crimini come poche altre persone al mondo.
Fidatevi di me. Vi aiuterò. Per la terza volta, Simone
annuisce. Salvatore chiede: - Perché accettaste
l’invito del pittore? Piuttosto strano, no? Uno vi ferma la notte per strada
e vi invita a posare… Simone respira a fondo e
risponde: - Avevo bisogno di un
posto in cui nascondermi, senza allontanarmi da Napoli. Volevo sfuggire
all’uomo che mi cercava. - E non avete pensato che
il pittore potesse essere un complice di quest’uomo? - No. Conoscevo Matelot. Sono un pittore. Ho passato due anni a Parigi a
studiare pittura. Avevo avuto modo di vedere Matelot,
anche se non ci eravamo mai parlati. Non l’apprezzavo come pittore, per cui
non lo frequentavo, ma l’ho riconosciuto subito. L’offerta era ottima. - Ma se un assassino vi
cercava, perché non lasciare Napoli? Non avevate nessun legame con la città. Simone si alza, attraversa
la stanza, apre un cassetto e posa la pistola. Chiude il cassetto, si mette
la chiave in tasca e torna a sedersi. Salvatore pensa che Simone incomincia a
fidarsi, ma non è ancora del tutto convinto. Simone fissa un momento il
pavimento, poi solleva lo sguardo su Salvatore. - Non ero andato a Napoli
da solo. Salvatore attende. Simone
fa fatica a parlare, questo è evidente. Scuote la testa, poi prosegue: - A Parigi avevo
conosciuto Jules Bonhomme. Posava come modello.
Jacques-Louis David stesso, il pittore di Napoleone, lo dipinse in due dei
suoi quadri. Aveva avuto una vita difficile, molto difficile. Era stato
schiavo e il suo padrone gli aveva tagliato un dito per punirlo di una
piccola infrazione. Poi c’era stata la rivolta di Haiti… non sto a narrarvi
tutto. Giunse in Francia. Era un uomo tormentato, ma io ne fui affascinato.
Posò anche per me. Diventammo molto amici. Salvatore si chiede se si
trattava solo di un’amicizia, ma non è opportuno porre la domanda. Simone
continua: - Vi ho detto che era un
uomo tormentato e spesso violento. Venne a diverbio con un mercante di
quadri. Jules era collerico, ci fu una zuffa. L’uomo decise di farlo punire
dai suoi servitori, ma Jules ebbe la meglio, ne uccise uno e ferì l’altro.
Era stato aggredito, ma sapete, un negro, accusato da un francese… lui era il
colpevole, punto e basta. Fuggì da Parigi ed io fuggii con lui. Salvatore è piuttosto
sicuro di conoscere la risposta alla domanda che si è posto poco fa. Beato il
negro, gli viene da pensare, anche se ha fatto una brutta fine. Fa un cenno
con la testa e Simone riprende: - Venimmo a Genova. Allora
Genova, come sapete, faceva parte della Francia, se avessero scoperto Jules,
l’avrebbero arrestato. C’è un momento di
silenzio. - Mio padre non voleva
ospitarlo. Ce ne dovemmo andare. Avevo poco denaro. Napoli ci sembrò una
buona meta. Era un altro regno, anche se sotto controllo francese. Nessuno ci
avrebbe trovati. Salvatore fa solo un cenno
con il capo: non vuole interrompere il racconto. - Arrivammo a Napoli e per
due settimane tutto filò liscio. O quasi. - Perché quasi? Simone alza le spalle. - Problemi personali…
nulla di rilevante. - Scopriste che Jules
cercava la compagnia di altri uomini? Simone si alza di scatto.
Pare respirare a fatica. - Che ne sapete? Chi
siete? Simone guarda il cassetto
dove ha messo la pistola. Salvatore sa di aver fatto la domanda sbagliata.
Perché è stato tanto coglione da impicciarsi in cose che non c’entrano niente
con gli omicidi? Sempre che davvero non c’entrino niente... E ora? Salvatore decide di
giocare a carte scoperte. - Chi sono, ve l’ho detto.
Vidi Jules in uno dei locali sotterranei, Napoli ne è piena, anche se voi
forse non ci avete mai messo piede, non siete il tipo. Un luogo dove gli uomini
si incontrano. Per… per fottere, è inutile che ci giriamo intorno. Come
facevate voi e Jules, suppongo. Come facevo anch’io, che non ero tanto
fortunato da avere un uomo al mio fianco e cercavo in quei cunicoli qualcuno
che potesse desiderare il mio corpo, no, diciamo… quello che ho tra le gambe.
Altro non interessa, là sotto. Simone si siede. Rimane in
silenzio a lungo. Poi, ancora una volta, fa un cenno affermativo con il capo. - Sì, Jules vi andava
spesso. Non so perché lo facesse. Io non gli bastavo, anche se mi voleva
davvero bene. Io ne soffrivo, terribilmente. Ero innamorato. Simone china la testa, poi
la rialza. - Forse fu in uno di quei
cunicoli. Qualcuno vide Jules e lo seguì. Incominciammo a vedere qualcuno
aggirarsi vicino alla casa dove vivevamo, qualcuno che ci spiava nell’ombra.
All’inizio furono solo vaghi sospetti, ma poi ne avemmo la certezza. Pensammo
ai gendarmi, a una segnalazione dalla Francia, ma in quel caso avrebbero
arrestato Jules, perché spiarci? Jules cercò di sorprendere lo sconosciuto,
ma questi gli sfuggì. Quell’uomo entrò anche in casa nostra, due volte. La
mia biancheria scomparve. Io ero spaventato e avrei voluto andarmene, ma non
sapevamo dove. I pochi soldi che avevo con me stavano finendo. Non potevo più
neppure pagare la pigione. Fu allora che Jules scomparve. Mi illusi che si
fosse fermato per una notte da qualcuno incontrato per strada, ma non era
così. Incominciai a girare alla sua ricerca, ma mi accorsi che qualcuno
sorvegliava la nostra casa. Ebbi paura, dovevo cercare un altro posto. E una
notte, poco dopo la scomparsa di Jules, incontrai Matelot.
Mi offriva esattamente quello di cui avevo bisogno: un rifugio sicuro a
Napoli, da cui avrei potuto uscire per cercare Jules. O almeno attendere che
ricomparisse, chiedendo notizie a quelle pochissime persone con cui ero in
contatto. Simone si abbandona sulla
sedia. Chiude gli occhi. - Una notte scoprii che
Jules era stato assassinato, probabilmente il giorno stesso in cui era
scomparso: avevano trovato il suo cadavere ormai in putrefazione. Decisi di
partire e lo comunicai a Matelot. Simone tace e Salvatore
chiede: - Matelot
disse che vi aveva cacciato. Simone sorride, un sorriso
amaro. - Matelot
mi diede un sonnifero e mi violentò. A quel punto, ottenuto ciò che voleva,
gli interessava solo disfarsi di me. - Non l’avete ucciso voi,
vero? La domanda è assurda,
Salvatore se ne rende conto. Ormai sa la risposta. Simone scuote la testa.
Riapre gli occhi. - Seppi della sua morte
solo al mio ritorno a Genova. Partii il mattino seguente, dopo essermi
imbarcato la sera. Da quel che ho capito, ero già in viaggio sulla nave,
quando Matelot venne ucciso. - Non foste voi a rubare
il ritratto di schiena che vi aveva fatto Matelot,
vero? - No di certo. Rimangono zitti tutti e
due. Il sole sta calando e ora inonda la stanza di una calda luce dorata. È
Salvatore a rompere il silenzio. - Non so se voi mi
crediate, ma io vi credo. - Grazie. Io… non lo so… Salvatore si alza. - Permettetemi di tornare
domani. Dicono che la notte porti consiglio. Magari deciderete che potete
fidarvi di me. Simone lo guarda, poi
dice. - Tornate domani
pomeriggio. Ne riparleremo. * Simone si alza e cammina
avanti e indietro per lo studio. Dopo un po’ si risiede, per rialzarsi quasi
subito. Non riesce a stare fermo. Di dipingere non si parla neanche, non ha
la concentrazione necessaria. Simone decide di uscire.
Nella notte è piovuto, ma adesso il cielo è sereno. Solo verso occidente ci
sono ancora alcune nuvole che il vento sta portando lontano. C’è una bella
luce, ne verrebbe fuori una bella marina. Ma Simone non è in grado di pensare
alla pittura. Simone si chiede chi è
quest’uomo che è venuto a cercarlo. Gli sembra che Salvatore Quesada, se davvero si chiama così, non menta, ma non può
dirlo con sicurezza. Se fosse al servizio dell’assassino di Jules? Sperava di aver chiuso con
il passato, di non dover più ritornare alla sofferenza di quegli anni, del
suo amore per Jules, dei tradimenti, della miseria e poi la paura per quella
presenza minacciosa, la scomparsa di Jules, il dolore orribile alla scoperta
della sua morte, l’umiliazione dello stupro subito. Ha cercato di cancellare
tutto e in questi due anni gli è sembrato di riuscirci. Ma adesso qualcuno
l’ha trovato e come l’ha trovato Quesada, altri
potrebbero trovarlo. Deve fuggire ancora? E chi è quest’uomo? Può davvero
aiutarlo? Salvatore arriva nel
pomeriggio. Si salutano. Simone ha l’impressione che Salvatore sia un po’
diffidente, ma sostanzialmente convinto della sua innocenza. E anche Simone
si rende conto che crede alle parole di Salvatore, anche se non ne è sicuro. - Avete pensato a quanto
vi ho detto ieri? - Sì, signor Quesada. E vorrei chiedervi alcune cose. - Ditemi. - Avete parlato di un
vostro assistente che è stato ucciso. Quesada aggrotta la fronte e annuisce. - Sì, Gennarino Esposito.
Aveva vent’anni. - Gli eravate molto
affezionato? Simone si pente subito
della domanda formulata: è indiscreta. Ma Salvatore Quesada
risponde: - Sì, gli volevo bene. Era
un ragazzo sveglio, intelligente. Lavorava bene. Simone vorrebbe chiedere a
Quesada se lui ed Esposito erano amanti, ma si
trattiene: sarebbe davvero troppo. - Avete un’idea del perché
sia stato ucciso? - No, assolutamente no.
Quel giorno era passato dal dottore a ritirare i risultati dell’esame del
cadavere di Matelot, non che ci fosse niente di
interessante. Scomparve nel nulla. Lo trovammo il giorno dopo, anche lui
castrato. - Pensate che l’assassino
sia lo stesso? - Sì, ormai ne sono certo. - Ma non avete nessun
sospetto. Quesada lo guarda negli occhi. - No, sinceramente pensavo
che foste voi. Per averne la conferma ero disposto a rischiar la pelle. Ma a
quanto pare non rischiavo la pelle e non ne saprò nulla. Non da voi, almeno. - Le indagini proseguono? Quesada alza le spalle. - Figuriamoci, sono
passati quasi due anni. Il capitano che ha preso il mio posto ha altro a cui
pensare. Non conoscevo Matelot, che comunque doveva
essere un bel bastardo, da quel che mi dite. E non conoscevo il negro con cui
vivevate. Ma Gennarino… se penso a quel bastardo che lo ha ammazzato e poi
mutilato in quel modo… Quesada freme. La domanda sfugge a Simone: - Eravate amanti? Quesada china la testa. Simone si affretta a
dire: - Scusate, non sono affari
miei. Non so come mi sia venuto in mente… scusate. Quesada alza il capo e lo guarda negli occhi.
C’è una forza impressionante in quello sguardo. * - No, non eravamo amanti,
anche se una volta avevamo scopato. Non ho mai avuto amanti, io. Con questa
faccia… Chi volete che mi ami? Gennarino era curioso di provare, anche se a
lui piacevano le femmine. Me lo chiese lui. E io gli feci provare. Il giorno
dopo fu ucciso. Salvatore non sa perché
sta raccontando a quest’uomo, che lo ascolta attento, cose che non ha mai
detto a nessuno. - Non avete mai cercato
qualcuno con cui… voglio dire… - Qualcuno con cui non
fosse solo fottere? Non sono mica come voi, io. L’unica cosa di me che
interessa è quello che ho tra le gambe, ve l’ho detto ieri. Salvatore si rende conto di
aver risposto in modo molto brusco. Aggiunge: - Scusate, io… - Scusatemi voi, signor Quesada. Sono stato indiscreto. È che questa notte ho
pensato più volte a quello che mi avete detto ieri. Io… io amavo Jules, lo
amavo davvero. C’erano spesso altri uomini interessati a me, ma non mi
importava. Jules mi voleva bene, ma… non era amore il suo… era orgoglioso di
avermi conquistato, ma… Non so perché vi sto dicendo queste cose, scusatemi.
Ho dormito molto male, la vostra visita mi ha messo addosso una grande
agitazione. E adesso mi sono messo a fare domande personali e a dire cose che
non ha nessun senso raccontare a voi, che siete venuto qui per ben altro.
Comunque… io vi credo, signor Quesada. Quesada è contento della fiducia che Simone gli
dimostra. E non gli dispiace di aver detto a Simone Fieschi
qualche cosa di sé. Non gli capita mai di poter parlare liberamente con
qualcuno di questi argomenti. * Simone e Salvatore
guardano il mare. Sono usciti a fare due passi e ora, seduti sulle rocce,
fissano la distesa d’acqua che ha assunto un colore rossastro: il sole sta
per scomparire dietro le montagne e incendia le nuvole. Simone è turbato. Sono tre
giorni che trascorre il pomeriggio con Salvatore. Hanno parlato dei
misteriosi omicidi, ma anche di se stessi. Simone ha posto domande, per
cercare di capire se quest’uomo venuto da Napoli è davvero un ex-capitano dei
gendarmi o è al soldo dell’assassino. Salvatore ha risposto, senza
nascondersi, ha raccontato del suo licenziamento, del suo lasciarsi andare,
del vino, della lezione ricevuta. Poi ha posto domande anche lui. Hanno
finito per aprirsi l’uno all’altro, come a Simone non era mai capitato. Ci
sono stati momenti in cui a Simone pareva di confidarsi a un vecchio amico.
Gli ha parlato della sua sofferenza di fronte al comportamento di Jules, del
dolore per la perdita, della solitudine. E Salvatore gli ha parlato della
propria solitudine, del proprio dolore. Si sono ritrovati l’uno
nell’altro. Simone sente che può
fidarsi pienamente di quest’uomo. Ma c’è altro, Simone se ne
rende conto: Salvatore lo attrae molto anche fisicamente. Quest’uomo forte,
dai lineamenti duri, la guancia sfregiata da una cicatrice, è il tipo di
maschio che affascina Simone e la lunga astinenza esaspera il desiderio. Tra
loro non c’è stato nulla: né uno sguardo, né una stretta di mano prolungata,
ma la vicinanza di Salvatore turba Simone. Salvatore guarda il mare e
poi dice: - Mi informerò su quando
posso tornare a Napoli. Simone prova una fitta.
Gli spiace che Salvatore parta, ma proprio la sofferenza che prova gli dice
che è meglio così. Se continuassero a vedersi sarebbe molto peggio. - Che cosa tornate a fare
a Napoli? Mi dicevate che nulla vi trattiene là. - No, nulla mi trattiene a
Napoli, ma nulla mi spinge altrove. Devo decidere che farò di me. - Non avete progetti? Simone vorrebbe trovare un
motivo per indurre Salvatore a fermarsi, anche se solo un attimo fa ha
pensato che la sua partenza fosse la soluzione migliore. - Nessuno. Ma in qualche
modo mi scuoterò di dosso l’apatia di questi mesi. Salvatore fa una pausa,
poi aggiunge: - Ero convinto di aver
trovato l’assassino. E invece mi è rimasto in mano un pugno di mosche. - A che serve cercare
l’assassino, se non potete arrestarlo? - Se sapessi chi è,
qualche cosa potrei fare. In qualche modo forse riuscirei a farlo arrestare:
ho diversi amici tra coloro che lavoravano con me e che non sono stati
congedati. Se sapessi chi è e potessi trovare delle prove… Simone sembra meditare.
Salvatore aggiunge: - E temo che se non scopro
questo assassino, anche voi siate in pericolo. Simone annuisce. - C’è una cosa che non vi
ho detto. All’inizio non mi fidavo, poi… mi avete detto di aver perso il
vostro incarico e non mi sembrava più così rilevante… Avevo comunque deciso
di parlarvene prima della vostra partenza e visto che ora avete deciso di
partire… - Ditemi. - Credo di potervi dare il
ritratto dell’assassino. - Cosa? Salvatore è allibito. - Ma… credevo che non
l’aveste mai visto in faccia, mi avete sempre parlato di un’ombra che scompariva
nella notte… Simone annuisce. - Il giorno in cui Jules
scomparve, lo vidi parlare in una taverna con un uomo. Non mi avvicinai e
loro non mi videro. Non mi piacque quell’uomo, una di quelle antipatie
istintive che si provano e che attribuii a gelosia. Ma quella sera Jules non
tornò a casa. - Quindi avete visto
l’assassino. Il probabile assassino. - Sì. E quando sono giunto
qui a Genova ne ho fatto un ritratto, a memoria. - Fatemelo vedere. Simone si alza. - Vado a prenderlo. Simone torna poco dopo e
porge a Salvatore un quadro di piccolo formato. C’è solo un viso. A Salvatore
basta un’occhiata per riconoscere l’uomo: il dottor Ferdinando Belli. * La nave sta per
attraccare. Salvatore è teso, inquieto. Non avrebbe voluto che Simone venisse
anche lui a Napoli, dove la sua vita è in pericolo, ma la mattina della
partenza ha trovato Simone al porto e ha scoperto che aveva prenotato un
posto sulla stessa nave. Una pura follia, come ha cercato di dimostrargli.
Pensava che Simone avrebbe ceduto alle sue argomentazioni, ma non è riuscito
a convincerlo a rinunciare. L’idea che Simone rischi
di essere ucciso lo angoscia, eppure, nonostante i timori per il pericolo che
Simone corre, Salvatore è contento di averlo vicino. L’attrazione che prova
per lui è naturale: la bellezza di Simone attrarrebbe qualsiasi uomo a cui
piacciano altri uomini. È invece l’intesa che si è creata tra di loro a
stupirlo. I pochi giorni a Genova e poi il viaggio in nave li hanno
avvicinati moltissimo. Troppo, Salvatore lo sa: Simone accende il suo
desiderio e in pochi giorni è riuscito a infilarsi nei suoi sogni. E pazienza
se altro non c’è, non ci può essere: Salvatore è abituato a desiderare senza
speranza. Quello che lo spaventa è che il desiderio questa volta non è solo
la voglia di possedere un corpo. Salvatore prova qualcosa che per lui è del
tutto nuovo, qualche cosa di cui conosce benissimo il nome, ma che preferisce
non dirsi. Si limita a constatare che è bello avere Simone vicino, in
qualsiasi momento, e che anche quando Simone è lontano, il pensiero va a lui.
Scendono dalla nave e
superano rapidamente i controlli. Qualcuno riconosce Salvatore, l’ex-capitano
dei gendarmi. Salvatore ricambia i saluti, ma è teso. Ora che è arrivato,
vorrebbe che Simone non fosse qui, in pericolo. Prendono una carrozza:
Salvatore si muove abitualmente a piedi, ma ora preferisce che Simone sia
visto dal minor numero possibile di persone. E quando sono seduti nella
carrozza, Salvatore è di nuovo contento di sentire Simone al suo fianco. Salvatore porta Simone a
casa sua, dove la domestica che viene ogni giorno per qualche ora dà al
padrone il bentornato. Salvatore le dà istruzioni precise: - Non dire a nessuno che
qui c’è un ospite. Sono arrivato da solo. Un amico che è arrivato con me è
stato qui qualche ora, ma poi se n’è andato. Tu non sai dove alloggia. È una
faccenda seria, Giovanna. - Come volete voi,
capitano. Giovanna lo chiama
capitano, lo chiamerà sempre capitano, anche tra quarant’anni si rivolgerebbe
a lui chiamandolo capitano. Di lei Salvatore sa di potersi fidare ciecamente. Nella casa c’è un solo
letto. Salvatore dice che dormirà nell’altra stanza, sulla poltrona, ma
Simone non ne vuole sapere: il letto è abbastanza largo per due. Salvatore
deve rassegnarsi, anche se dormire di fianco a Simone è una tortura.
Salvatore dovrebbe dormire vestito, ma è maggio e fa caldo e di solito
Salvatore dorme nudo. Si tiene le mutande e lo stesso fa Simone. Salvatore
cerca di guardare da un’altra parte quando si corica, per non vedere quel
corpo la cui vicinanza accende il desiderio. Poi spegne la lanterna, augura
la buona notte a Simone e si volta dandogli la schiena. Ce l’ha già duro,
com’era prevedibile. Di solito Salvatore non ha problemi di sonno, ma questa
sera ci mette un bel po’ ad addormentarsi. La vicinanza del corpo di Simone è
una tentazione continua. Salvatore ha un’idea
precisa in testa: entrare nello studio del dottor Belli quando questi non c’è
e vedere se trova qualche cosa di interessante. Non è detto che ottenga
qualche risultato, magari non c’è niente. Ma se è stato Belli a uccidere Matelot e a prendere il quadro, da qualche parte dovrebbe
esserci quella tela: sarebbe la prova che cerca, anche se non sarebbe
sufficiente per denunciare Belli alle autorità. Non dovrebbe essere
difficile riuscire a entrare, magari forzando la porta: Salvatore ha una
buona conoscenza di porte e serrature, si può dire che è del mestiere.
Preferirebbe però non lasciare tracce del suo passaggio. Il problema
principale è quello di garantirsi che Belli non sia nello studio. Le cose però non si
svolgono come previsto. La mattina dopo il loro arrivo a Napoli, Salvatore
esce, raccomandando a Simone di non uscire di casa per nessun motivo e
assicurando che sarà di ritorno per il pranzo. Intende prendere contatto con
un amico di cui si fida e che può aiutarlo ad allontanare Belli dallo studio,
tenendolo occupato in modo che non rientri all’improvviso. Non ha fatto molta
strada, quando incontra proprio Ferdinando Belli. Salvatore non è contento
che il dottore sia a due isolati da casa sua: il pensiero corre subito a
Simone. - Buongiorno dottore. - Buongiorno, capitano.
Venivo giusto a cercarla. Mi hanno detto ieri sera che lei è tornato e avevo
bisogno di parlarle. Salvatore è perplesso. Si
chiede che cosa può avere Belli da dirgli: da tempo Salvatore è un cittadino
qualunque e da parecchi mesi non ha avuto modo di vedere il dottore. - Ditemi. Se posso fare
qualche cosa per voi. Ma non sono più capitano, come di certo sapete. - Lo so, lo so.
Un’ingiustizia, una delle tante a cui assistiamo quotidianamente. - Grazie, dottore. Di che
cosa volevate parlarmi? - Di una faccenda molto
delicata, di cui di certo non possiamo discutere per strada. Avete voglia di
venire nel mio studio? Lì potremo parlare in pace. - Va bene, dottore. Il dottore lo invita
proprio dove Salvatore vorrebbe andare. In presenza di Belli Salvatore non
può fare nulla, ma almeno avrà modo di osservare lo studio, di dare
un’occhiata a porte e finestre e di valutare come entrare in un altro
momento. Strada facendo, il dottore
parla di altre faccende e spara a zero sul capitano Catanese, che non riesce
a concludere un’indagine. Salvatore ascolta, ma la sua testa è altrove. Manca
da Napoli da due settimane e non ci sono grandi novità, le chiacchiere di
Ferdinando Belli non lo incuriosiscono. Si chiede invece se quest’uomo è
davvero un assassino, se ha ucciso Gennarino. Arrivati nello studio del
dottore, Salvatore esamina la serratura, senza farsi notare e poi dà
un’occhiata alle finestre. Si avvicina come per guardare fuori e senza farsi
notare toglie il fermo di una finestra che affaccia su un vicolo: gli
permetterà di rientrare più tardi, quando sarà sicuro che il dottore non sia
nello studio. - Ditemi, dottore. Di che
cosa mi volete parlare? Belli respira a fondo e
poi dice: - Della morte del vostro
assistente, il giovane Esposito, di cui forse sono indirettamente
responsabile. - Voi, dottore? Salvatore fissa il
dottore, stupito. - Sedetevi, intanto. Vi
offro un po’ di vino e poi vi racconterò. Non è una storia breve. Il dottore prende una
bottiglia e riempie due bicchieri, dando le spalle a Salvatore. - Bevete, capitano. Il dottore vuota il suo
bicchiere rapidamente. Salvatore lo imita. - Ora vi racconto. Il dottore incomincia a
parlare, ma Salvatore vede il mondo oscillare paurosamente. Che cazzo gli
succede? Il vino! Il vino! Merda! Belli ha messo qualche cosa… Che coglione
che è stato a bere senza sospettare! Quasi a fargli eco,
Ferdinando Belli sorride e dice: - Siete stato ingenuo,
capitano. Salvatore vede il mondo
scomparire inghiottito dal buio. L’ultimo pensiero, lancinante, è per Simone. A risvegliarlo è il dolore
al culo. Riapre gli occhi, ma per un momento fa fatica a mettere a fuoco.
Poggia con il busto su una superficie di legno, a pancia in giù. Qualche cosa
gli scava le viscere. Salvatore capisce: lo stanno stuprando. Cerca di divincolarsi, ma
si rende conto di avere le mani legate dietro la schiena e una corda che
stringe le caviglie, lasciando una minima libertà di movimento. Anche intorno
al collo ha una corda e non ha più nulla indosso: è completamente nudo,
inerme nelle mani del suo stupratore, del suo assassino. L’angoscia lo assale. Sa
che la sua vita è finita, ma non è questo che conta. Simone è in pericolo. Se
Belli non sa ancora che Simone è a Napoli, rischia di scoprirlo presto.
Perché non ha costretto Simone a rimanere a Genova, al sicuro? È stato folle
e ora… - Che ne dite, capitano? - Merda! Belli ridacchia. - Non vi piace sentire un
bel cazzo dentro di voi? - Merda! - Peccato, perché morirete
con questo bel cazzo in culo, capitano. Salvatore sta cercando di
capire. Si guarda intorno. Si trova in un grande stanzone, immerso
nell’oscurità. C’è una qualche fonte di luce alle spalle di Salvatore, ma non
è sufficiente a illuminare il locale. Belli ordina: - Alzatevi, capitano.
Potete camminare a piccoli passi. Badate solo a non inciampare: potreste
farvi male. Belli ride. Salvatore non capisce.
Come può alzarsi se Belli lo sta inculando? Poi Salvatore realizza che Belli
si è spostato di fianco a lui. Tiene in mano un candeliere che gli illumina
la faccia sorridente. Ma allora… Salvatore si solleva. La presenza
ingombrante nel suo culo non scompare, diventa più dolorosa. Che cos’è? - Muovetevi, capitano, non
cercate di perdere tempo, tanto la vostra sorte è segnata. Salvatore, mentre si alza
a fatica, cercando di non perdere l’equilibrio, risponde: - Vi ho detto che non sono
più capitano. Appena ha finito di
parlare, Salvatore si chiede perché l’ha detto. Che senso ha? Ferdinando Belli sorride. - Vi lascio questo titolo
per quel pochissimo tempo che vi rimane da vivere. Ma questi sono dettagli.
Sono contento di potervi mostrare la mia collezione. Non mi capita spesso di
avere ospiti ed è davvero un piacere poterla illustrare a un uomo
intelligente… anche se un po’ ingenuo. Salvatore si muove. La
corda alle caviglie gli permette di camminare a piccoli passi. Salvatore si
rende conto di avere una corda che passa intorno alla vita e tra le gambe,
una specie di imbracatura: probabilmente tiene fermo quello che ha in culo e
che non può espellere. Camminare così è una tortura. - Incominciamo di qui. Belli si avvicina a una
parete e le candele illuminano un quadro che Salvatore non ha mai visto, ma
che riconosce immediatamente: il ritratto di Simone sdraiato nudo, visto di
schiena. Poco manca che non gli sfugga il nome. Salvatore sente ancora
l’angoscia attanagliarlo. - Il soggetto di questo
quadro mi è sfuggito fino a ora, ma grazie a voi lo troverò. So che è tornato
a Napoli insieme a voi, me l’ha detto il pescatore che sorveglia per me
l’arrivo delle navi: speravo che sarebbe tornato, prima o poi. Non so dove
alloggi, sono passato a casa vostra mentre voi… dormivate, la domestica mi ha
detto che è passato da voi, ma non è vostro ospite. Non importa, lo troverò.
Questa volta non mi sfuggirà. Belli sorride, perso nella
contemplazione del quadro. Salvatore sprofonda in una sofferenza senza fine.
Perché Simone ha voluto accompagnarlo a Napoli? - Che volete da lui? - Voglio lui. Sarà mio,
per sempre… come questo. E dicendolo Belli sposta
il candeliere in modo che illumini una grande teca di vetro in cui è esposta
la mummia di un uomo sui trent’anni. È in piedi, vestito, e solo guardandogli
il viso si capisce che è da tempo un cadavere. Belli dice: - L’ho amato e ora è mio
per sempre. Come sarà mio il modello di questo quadro. Salvatore sibila: - L’avete ammazzato voi,
vero? - Certo. Non c’è altro
modo per possedere per sempre un corpo. Spegnerne la vita e conservarlo,
sottraendolo all’azione del tempo: è un atto d’amore, il più grande. Ho fatto
molta pratica e posso garantirvi che sono abile. Belli si sposta. - Adesso vi farò vedere
gli altri pezzi della mia collezione. * Ferdinando Belli si sposta
e, tenendo in alto il candeliere, tira una tenda, scoprendo una ventina di
barattoli di vetro. In tutti, immersi in un liquido di un giallo verdognolo,
vi sono attributi maschili. Ferdinando guarda
divertito Quesada, che è rimasto a bocca aperta e
ora lo fissa e dice: - Voi siete pazzo,
dottore. Ferdinando scuote la
testa. - Vi indicherò alcuni dei
pezzi più significativi. Ferdinando avvicina il
candeliere a un contenitore in cui vi è un grande cazzo teso, con un disegno
tracciato a inchiostro. - Un marinaio che si era
fatto tatuare. Lo vidi nei sotterranei e decisi che dovevo averlo. Quesada non dice nulla. Belli passa a un
barattolo dove è contenuto un altro grosso cazzo teso, nero, e prosegue: - Questo negro era legato all’uomo
che non ho ancora trovato. Era il suo amante. Lo attirai in una trappola. - Avete ucciso voi anche Matelot, vero? Ferdinando sorride. - Sì. Quel povero
coglione… - Perché? - Vidi il quadro che c’è
nella chiesa dei Frati e riconobbi l’uomo che cercavo. Mi dissi che il
pittore doveva sapere dove trovarlo. Poi mi venne in mente che qualche giorno
prima Matelot mi aveva chiesto un potente
sonnifero, in grado di far dormire un uomo o almeno impedire che potesse
reagire. Mi aveva detto che uso intendeva farne, ma non potevo sospettare la
verità: l’uomo che voleva addormentare era quello che io cercavo. Al pensiero
che avesse potuto possederlo, mi prese una rabbia terribile. Mi armai e andai
a trovarlo. Quel coglione mi raccontò ridendo la sua impresa. E io lo uccisi.
Ferdinando ripensa alla
sua rabbia quando ha scoperto di aver dato a Matelot
di che addormentare il giovane Raffaello. Matelot
ha pagato. Ora è il turno di Quesada, che con le
sue indagini del cazzo ha messo i bastoni tra le ruote a lui e al principe. Quesada tace, ma Ferdinando sa come scuoterlo.
Avvicina il candelabro a un altro barattolo. - Questo apparteneva al
vostro assistente. Quesada freme. Ferdinando ride: - Un ragazzo intelligente,
ma troppo curioso. Gli consegnai il foglio con i risultati delle mie indagini
sul corpo del pittore; lui uscì, ma un’ora dopo tornò indietro. Doveva aver
visto la tela arrotolata, quella che avevo preso nello studio del pittore.
L’avevo posata in un angolo: nel mio studio non entra nessuno se non ci sono
io. Lui invece fece in modo di entrare mentre io non c’ero. Per sua sfortuna
ritornai mentre lui stava srotolando la tela. La faccia di Quesada è davvero divertente. - Li avete ammazzati tutti
voi, questi che avete castrato? - No, che dite? Solo
alcuni. Altri mi sono arrivati già cadaveri e ho solo preso ciò che mi
serviva. Chi ritirava il cadavere per la sepoltura, non si occupava mica di
controllare se aveva ancora qualche cosa tra le gambe. Ferdinando ride. - Ci sono alcuni che sono
stati giustiziati. E poi i cadaveri dei morti ammazzati. Come quello di Matelot, anche se in questo caso l’avevo ammazzato io. Ferdinando passa oltre.
Ora si ferma davanti all’oggetto a cui più tiene: un magnifico cazzo in tiro,
posto in un contenitore più grande degli altri. - E questo è il pezzo
forte della mia collezione. Non indovinereste mai a chi appartiene. Quesada risponde, sprezzante: - A Napoleone. Ferdinando ride. Napoleone
è ancora vivo, ma il capitano ci è andato più vicino di quanto possa
immaginare. - Quasi. È di suo cognato,
il re di Napoli, Gioacchino Murat. Un vero maschio,
che ha affrontato il plotone con il cazzo duro. Quesada lo guarda perplesso. - Murat
fu fucilato a Pizzo. Non ditemi che eravate in Calabria… - Ottenni di andarci e di…
constatare la morte e preparare il cadavere per la sepoltura. Voi sapete che
ho ottimi rapporti con il principe di Palermo, fratello del re. - Quel puttaniere
bastardo, degno vostro compare. Avrei dovuto pensarci che gli tenevate
bordone. Anche voi nella banda che comprava i ragazzi da stuprare, vero? Ferdinando sorride. - Sì, anch’io mi diverto
con i ragazzini. Sono piuttosto noto come Ferdinando Cazzodiferro,
non per vantarmi. - Quindi avete ucciso voi
quel ragazzino. Ferdinando rimane stupito.
Come cazzo fa Quesada a saperlo? - Che ne sapete voi? - Non vi dirò chi me lo
riferì, ma qualcuno ci disse che il ragazzino era stato ucciso da un certo
Ferdinando, chiamato appunto Cazzodiferro. Perché
lo avete ammazzato? Ferdinando fa un movimento
con la mano, come a scacciare una mosca fastidiosa. Non intende certo
rispondere. Anche se Quesada ormai è un uomo morto,
Ferdinando non gli rivelerà che il suo arnese non funziona, non ha mai
funzionato. - Ha avuto quello che si
meritava. Come voi. Ma pensavate davvero di poter indagare su uomini nobili,
delle più antiche famiglie del Regno? Siete un coglione, Quesada.
Magari anche il principe di Palermo volevate portare alla sbarra? Quesada freme di rabbia. Ferdinando ride. - Il principe è nelle mie
mani. È un amico, ma ad ogni buon conto in quell’armadio, in uno scomparto
nascosto, si trovano carte molto compromettenti per lui e per i suoi amici.
Potrei perderlo, se volessi, in qualsiasi momento. Un attimo di pausa, poi
Ferdinando conclude: - E adesso avrete l’onore
di arricchire questa collezione. Quesada sputa. La saliva prende Ferdinando sulla
guancia. Ferdinando prende uno
straccio e si asciuga. - Non avreste dovuto,
capitano. Ferdinando afferra la
corda che blocca le mani di Quesada dietro la
schiena e lo trascina fino al tavolaccio su cui era disteso prima. Quesada si dibatte e a un certo punto riesce a liberarsi
con uno strattone e si lancia a testa bassa contro Ferdinando, che lo schiva.
Un pugno in faccia manda Quesada a terra, mentre il
sangue cola dal naso. Ferdinando afferra il prigioniero per i capelli e lo
forza a sdraiarsi supino sul cassone. Gli blocca la caviglia destra, poi con
un’altra corda blocca anche la caviglia sinistra. Tira un po’ la corda che
stringe il collo del prigioniero e la blocca, in modo che Quesada
non possa sollevare la testa. Poi scioglie la corda che lega le mani e le
blocca, prima l’una e poi l’altra. Adesso Quesada è
steso sul tavolaccio, polsi e caviglie bloccate ai lati. Ferdinando passa la mano
sul corpo del prigioniero, dal collo scende lungo il torace e il ventre fino
al cazzo. - È giunta la vostra ora.
Vi direi di pregare, ma siete di certo un miscredente, come quei fottuti
francesi che servivate. - Io servivo la giustizia,
non i francesi. Ma voi sareste un buon cristiano, Belli? Ferdinando alza le spalle.
- Vi strangolerò
lentamente, in modo che il vostro cazzo, un magnifico esemplare, devo
ammetterlo, diventi duro. Avrà un posto d’onore nella mia collezione, accanto
a quello del nostro re. Quesada non dice nulla. Il povero coglione si rende
conto che ormai non c’è più nulla da dire. Ferdinando incomincia a
tirare un po’ la corda, che si stringe intorno al collo di Quesada. Il cazzo del prigioniero si sta tendendo. È
davvero un bello spettacolo. Quesada emette una
specie di grugnito. Ferdinando stringe ancora. Come sempre, uccidere gli
trasmette una sensazione fortissima. Il viso di Quesada sta diventando violaceo. Il capitano è giunto
alla fine. Il cazzo è ormai rigido e teso, in tutta la sua imponenza. Davvero
magnifico. Il dottor Ferdinando Belli
sorride. Prende una cordicella e la passa intorno al cazzo e ai coglioni,
stringendo. - Taglierò qui. Ferdinando ride. Poi
afferra la corda che stringe il collo del prigioniero e riprende a tirare. Di colpo il dolore esplode
nella testa di Ferdinando e il mondo vacilla. * Simone guarda l’uomo che
ha colpito afflosciarsi. Si precipita su Salvatore. Per un attimo ha paura di
essere arrivato troppo tardi, ma quando allenta la corda che gli stringe il
collo, Salvatore respira rumorosamente. Simone fa scivolare via la corda e
guarda il viso di Salvatore. - Liberami. Simone annuisce. Guarda il
corpo di Salvatore per sciogliere le corde, ma la visione del corpo nudo è
come un pugno nello stomaco. Lo sguardo indugia sul torace e sul ventre, si
perde nella densa peluria scura e infine si blocca sul cazzo teso allo
spasimo. Simone balbetta: - Sì… sì. Con uno sforzo estremo le
mani si muovono, ma non obbediscono al cervello, scivolano lungo il corpo,
solo con fatica si fermano e poi scendono a un polso. Simone riesce a
liberare il braccio destro. Salvatore si porta la mano alla gola. Simone lo
guarda ancora, stordito, guarda il ventre, il grosso cazzo che svetta. Simone
chiude gli occhi e si china per sciogliere la corda che tiene la gamba
destra. Poi si solleva, cerca di
non guardare, ma non ci riesce, deglutisce, gli sembra di avere la gola
secca, raggiunge l’altra caviglia e questa volta le sue mani sfiorano il
polpaccio in una carezza, prima di liberare la gamba. È rimasta solo più la sinistra.
Salvatore respira, con una certa fatica, una mano appoggiata sul collo.
Simone guarda il viso, il sangue che è colato dal naso, gli occhi socchiusi.
Poi guarda ancora una volta il cazzo duro. Si china e libera anche il braccio
sinistro. Ora ha fatto. No, c’è
ancora una corda intorno alla vita e quella che stringe il cazzo e i
coglioni. Simone avvicina le mani. Gli sembra che il corpo di Salvatore
scotti. Solo mentre sta tentando di sciogliere il nodo, Simone si rende conto
che quel nodo lo può sciogliere Salvatore da solo. Ma le sue mani indugiano
un momento, non vogliono lasciare la preda. Simone si stacca, con
fatica. - Scusate… io… Non saprebbe come
continuare. Salvatore si alza a sedere, ma ha una smorfia di dolore. Si
solleva e scioglie la corda che passa intorno alla vita. Con le dita afferra
qualche cosa e lo guarda: è un cazzo di legno, perfettamente sagomato. - Merda! Salvatore getta l’arnese
sul tavolaccio. Simone ansima. Riesce a chiedere: - Come state? Salvatore annuisce. - Tutto bene. Sei arrivato
in tempo. Simone non nota il
passaggio al tu. - Come hai fatto? Simone ha bisogno di uno
sforzo per riuscire a concentrarsi sulla risposta da dare. La vista di
Salvatore nudo e con il cazzo ancora gonfio di sangue gli impedisce di
pensare e ora è cosciente anche dell’intenso odore di sudore. - Avevate detto che
sareste rientrato per pranzo. Sono le sei del pomeriggio. Qui si mangia
tardi, ma, insomma… Simone cerca di sorridere,
poi prosegue: - La domestica sapeva dove
abitava il dottore. Sono arrivato allo studio. Salvatore respira a fondo,
poi si alza. - Qui, a metterti nelle
mani dell’assassino? Sei stato folle, Simone. Potevi finire così. E mentre parla, Salvatore
prende il candelabro e illumina una vetrina in cui c’è il corpo di un uomo
nudo. Simone guarda e
rabbrividisce, senza capire. Poi spiega: - Vi pensavo in pericolo.
Avevo la pistola. Ho chiesto di voi all’osteria sulla piazzetta qui sotto. Vi
avevano visto camminare con il dottore in questa direzione. Sono entrato
anch’io, c’era una finestra che non era bloccata. Salvatore annuisce. Simone
prosegue: - C’è una botola che porta
qui, dal retro dello studio. Ho visto il dottore che vi stava strangolando.
Ho pensato di sparargli, ho la pistola, ma poi ho preferito non fare rumore.
Quel bastone era perfetto. - Perfetto, sì. Ma tu sei
stato pazzo, Simone. Meno male che Domeneddio ti ha tenuto una mano sulla
testa. Meno male per me e per te. Simone annuisce. Vorrebbe
poter chiudere gli occhi, non vedere il corpo di Salvatore a una spanna dal
suo. Vorrebbe non sentire il suo odore. Spera che Salvatore non si accorga
della sua erezione. Salvatore riprende: - Ora, Simone, te ne vai,
badando solo che nessuno ti veda uscire da qui, e mi aspetti a casa, come
peraltro ti avevo detto di fare. Simone annuisce. Vedere
Salvatore a una spanna, nudo, il cazzo mezzo in tiro, lo fa stare male,
fisicamente male. Riesce a dire: - Non ditemi che sarebbe
stato meglio se fossi rimasto a casa vostra. O a Genova. Salvatore scuote la testa. - No, no. Salvatore fa un passo
avanti e bacia Simone. Simone rimane immobile, troppo sconvolto per riuscire
a parlare. Salvatore infila la lingua nella bocca di Simone, poi la ritira e
si stacca. - Vattene, ora, prima
che... A dopo. Simone annuisce. - Capitano… non posso
esservi d’aiuto? - Hai fatto più che
abbastanza. Va’. E prima di uscire controlla che non ci sia nessuno. Simone annuisce e sale al
piano superiore. È frastornato, ma quando socchiude la porta, verifica che
non ci sia nessuno. Esce e si allontana rapidamente. Il cuore va a mille, in
testa ha una grande confusione, sulle labbra la sensazione del bacio
ricevuto, in bocca il gusto della lingua di Salvatore, negli occhi l’immagine
del corpo di Salvatore. Non è bello Salvatore, ma a Simone sembra di non aver
mai desiderato altrettanto nessun uomo. * Salvatore cerca di
cancellare l’immagine di Simone. Il desiderio è imperioso, ma non c’è tempo
per questo, ora. È il tempo di uccidere, non quello di amare. In primo luogo
controlla le condizioni di Belli. Il dottore è incosciente, ma è vivo.
Occorre fare in fretta, prima che riprenda conoscenza. Salvatore prende la corda
con cui Belli ha cercato di strangolarlo ed esamina il soffitto. Ci sono due
travi. Intorno a una si può far passare la corda. Salvatore sale su una sedia
e lega la corda, lasciando penzolare il cappio. Poi scende, raggiunge Belli e
lo trascina fino alla sedia. Belli geme: si sta riprendendo. Non c’è tempo da perdere,
ma Salvatore ha un’idea. Abbassa pantaloni e mutande al dottore e prende il
cazzo di legno. Lo infila in culo al dottore con una spinta secca. Belli
sussulta. Si è svegliato, sta cercando di mettere a fuoco. Salvatore lo solleva, se
lo mette su una spalla e sale sulla sedia. Gli fa passare il cappio intorno
al collo e lo stringe. Belli dilata gli occhi: ora ha capito e guarda con una
smorfia di orrore in viso Salvatore. Salvatore stringe il corpo
di Belli tra le braccia e molla un calcio alla sedia. Ora penzolano tutti e
due dal soffitto, Belli con il collo stretto nel cappio che lo strangola,
Salvatore che con il peso del suo corpo trascina Belli verso il basso e gli
blocca le braccia, impedendogli di liberarsi. - Paghi per tutto, dottore.
Non ammazzerai nessun altro e quel figlio di puttana del principe non ti
potrà salvare. C’è una rabbia feroce in
Salvatore, una rabbia animale che lo trascina, mentre fissa il viso stravolto
del dottore e il pensiero va a Gennarino e a tutti gli altri. Belli
si agita nella stretta mortale di Salvatore e scalcia, ma Salvatore non molla
la presa, anche se un colpo lo prende ai coglioni. Belli continua a
dimenarsi, ma i suoi movimenti rallentano. A un certo punto Salvatore sente
contro il ventre un liquido caldo: Belli sta pisciandosi addosso. Salvatore
grugnisce e salta a terra. Osserva le ultime contorsioni del dottore. Nella
stanza si sente odore di merda. Salvatore sa che ha
concluso la sua opera. Badando bene a non mettere piede nella pozza di piscio,
prende uno straccio e si asciuga il ventre. Raggiunge la parete opposta e
stacca dal muro il grande quadro con il nudo maschile, deponendolo a terra.
Cerca l’occorrente e quando l’ha trovato stacca la tela dal telaio.
L’arrotola con cura, poi si avvicina all’armadio. Non ci mette molto a
scoprire lo scomparto nascosto. Prende il blocco delle carte e le infila in
una sacca che prende da un ripiano. Infine cerca i suoi abiti
e si riveste. Guarda ancora il corpo
senza vita del dottor Belli. Si chiede quando scopriranno il suicidio del
dottore e la sua collezione. Chiude bene la botola, poi la porta della casa e
si dirige verso la propria abitazione, la tela avvolta in uno straccio. Salvatore è soddisfatto.
Ha regolato i conti in sospeso e Belli non ucciderà più nessuno. Non c’era
altro modo di fermarlo. Salvatore si affretta
verso casa. Ma man mano che si avvicina, rallenta il passo. Ora si sente
incerto. Ha baciato Simone ed è stato bellissimo. Ha colto il suo desiderio.
E ora? Simone lo desidera davvero o è stato solo un attimo? Salvatore si avvicina a
casa sua. Vede alla finestra Simone che scruta la strada. Gli sorride. Entra in casa e chiude la
porta. Simone è in piedi. Sorride, incerto. - Tutto a posto? - Sì, tutto a posto. - Avete chiamato i
gendarmi? Salvatore scuote la testa. - Belli era culo e camicia
con il fratello del re, il principe di Palermo. Diciamo che Belli si è
suicidato e la faccenda è finita lì. - Suicidato… volete dire… - Impiccato con il cappio
che aveva preparato per me. Simone annuisce. È
turbato. Salvatore si chiede se non ha fatto male a dirglielo, ma in ogni
caso non avrebbe avuto senso nasconderlo. - Non c’era altra via per
fermarlo. Simone annuisce. Poi
guarda i due involti che Salvatore ha appoggiato sul tavolo. - Che cosa sono? - Uno è un pacco di
documenti con cui conto di regolare alcuni conti in sospeso, facendoli
arrivare alle persone giuste. E l’altro… - E l’altro? - …un quadro di cui avevo
sentito parlare dalla serva di Matelot, un quadro
di cui posseggo qualche schizzo preparatorio. Salvatore ha l’impressione
che Simone sia arrossito. - Perché l’avete preso? - Perché non lo volevo
lasciare là, dove sarebbe stato trovato. Perché lo voglio tenere con me tutta
la vita. Me lo sono guadagnato. Simone sorride, un po’
dubbioso. - E che ve ne farete? - Dipende. - Dipende da che cosa? - Dipende. Adesso però
devo togliermi la corda che Belli mi aveva messo. Quella da cui non mi hai
liberato. Hai voglia di finire l’opera che hai incominciato? Salvatore sorride, ma il
cuore batte in fretta, troppo in fretta. Anche Simone sorride. - Volentieri. - Simone… c’è una cosa che
devo dirti. - Che cosa? - Chiamami Salvatore e te
la dico. - Che cosa, Salvatore? - Questa. E mentre lo dice,
Salvatore stringe Simone tra le braccia e lo bacia sulla bocca. Salvatore non ha detto
niente, ma Simone ha capito benissimo. Salvatore ora si sente più sicuro. - Spostiamoci nella
camera. Stiamo più comodi. In camera Salvatore
sbottona la giacca di Simone e la fa scivolare a terra. Simone sorride e osserva,
ironico: - Non dovevo toglierti la
corda? - Sì, devi spogliarmi, ma
vuoi mica che io rimanga nudo e tu vestito? L’abbiamo già vista questa scena.
È stata bella, ma adesso ne recitiamo un’altra. Simone annuisce e incomincia
a spogliare Salvatore. Le sue mani tremano leggermente e questo a Salvatore
piace. * Simone si ferma, guarda il
viso di Salvatore e lo bacia. Poi si stacca, guarda ancora Salvatore negli
occhi e lo bacia di nuovo. Salvatore lo afferra, lo stringe tra le braccia e
il loro bacio diventa ardente. Quando infine le loro
labbra si separano, Simone toglie la camicia di Salvatore. Guarda le due
cicatrici, che la peluria fitta copre solo in parte. Passa un dito lungo una
cicatrice, dal capezzolo sinistro verso il fegato. Salvatore dice: - Un regalo di Testadimorto. - Chi era? - Un assassino. Ne aveva
ammazzati otto. Poco mancò che io non fossi il nono. Simone annuisce. L’idea
che Salvatore abbia rischiato di essere ucciso gli trasmette un brivido. Il
suo dito passa all’altra cicatrice, poco più sotto. È più corta, ma più
profonda. - Sempre Testadimorto. Prima che la lama penetrasse più a fondo,
riuscii a bloccarlo. Salvatore scioglie la
fibbia della cintura di Simone e gli cala i pantaloni. Simone è contento di
offrirsi agli occhi di Salvatore, di quest’uomo da cui si sente attratto.
Salvatore gli cala le mutande. - Sei bello, Simone,
troppo bello. Simone corruga la fronte. - Perché “troppo”? - Non puoi capire. Simone scuote la testa,
perplesso. Poi finisce di spogliare Salvatore. Il cazzo di Salvatore è teso e
la corda che Simone non ha rimosso stringe la carne. Simone fissa affascinato
questa bestia gagliarda che ha alzato la testa, a sfidare il mondo. Vorrebbe
afferrarla con la mano, ma prova vergogna. La voce di Salvatore lo
riscuote: - Spero che ti piaccia. Simone guarda Salvatore e
scoppia a ridere. - Direi proprio di sì. Poi Simone guarda
Salvatore in viso e aggiunge: - Mi piaci tu, Salvatore.
Mi piaci. Simone vorrebbe dire
altro, vorrebbe dirgli che ha capito di amarlo, ma ha paura. Che cosa prova
Salvatore per lui? Guarda Salvatore che si
china, si toglie le scarpe e sfila i piedi dai pantaloni e dalle mutande che
aveva intorno alle caviglie. Simone lo imita. Ora sono tutti e due nudi e si
guardano. - Sei troppo bello,
Simone, troppo bello. - Smettila! Si abbracciano ancora,
poi, quando il loro abbraccio si scioglie, Simone sale sul letto e si stende
sulla schiena. Osserva Salvatore che lo
contempla un momento, poi si stende su di lui e lo bacia ancora. È bello sentire il peso di
questo corpo forte che preme. È bello sentire il solletico di questa peluria.
Simone stringe il corpo di Salvatore tra le braccia, le sue mani afferrano il
culo e le dita affondano nella carne, mentre Salvatore gli accarezza il viso. Simone guarda Salvatore
negli occhi. Gli piacciono questi occhi scuri, gli piace questo viso dai
lineamenti maschi, gli piace la cicatrice. - Prendimi, Salvatore. Salvatore annuisce, lo
bacia ancora una volta e poi si solleva. Simone si volta sulla pancia e
allarga le gambe. Si abbandona alle carezze di Salvatore, le cui mani salgono
dal culo alla nuca e poi ridiscendono, stringono le natiche, scivolano lungo
le cosce e ritornano al culo. Due dita scorrono lungo il solco, giungono all’apertura.
Simone freme. Il desiderio è violento, vorrebbe urlare a Salvatore parole
sconce, gridargli di prenderlo, ma si trattiene. C’è tempo per questo, per
abbandonarsi completamente. Salvatore morde una
natica, poi l’altra. Simone geme. Altri morsi e poi carezze e poi morsi.
Simone quasi grida: - Sì! Sì! La lingua di Salvatore, la
lingua che accarezza il solco, che indugia sull’apertura e poi un dito, due
dita. Due dita che scorrono, accarezzano, forzano, entrano, escono. - Sì!, Sì! E poi la pressione, il
bastone di carne che forza l’anello, che provoca dolore, perché è grande, è
duro, è caldo, che provoca piacere, perché è grande, è duro, è caldo.
L’ingresso lento ma continuo, che non concede pietà. L’arma che prende
possesso, che dilata, che toglie il respiro. - Sì! Sì! È roca la voce di
Salvatore che risponde al suo grido: - Sì! Sì! Tutto per te,
fino in fondo. Tutto per te. - Sì! Salvatore, sì! L’arma avanza ancora, ora
fa male, ma non importa, va bene così, anche questa sofferenza è piacere.
Simone sente la pressione ridursi fino a scomparire, ma l’arma ritorna
subito. Simone sente il cazzo dilatare nuovamente l’apertura e poi avanzare,
con decisione, riprendendo possesso del territorio abbandonato solo per un
momento, spingendosi più a fondo, aprendosi strada inesorabile. E poi
nuovamente l’arma esce completamente, per rientrare ancora una volta, con un
movimento brusco, e penetrare fino in fondo, finché a Simone pare di non
riuscire più a reggere lo spiedo terribile che lo trafigge e che lo fa gemere. Simone mugola mentre
Salvatore incomincia il suo lento movimento, che è un tormento delizioso.
Ogni ritrarsi, ogni avanzare del cazzo che ha preso possesso del suo culo gli
strappa un gemito, che talvolta Simone soffoca, talvolta gli sfugge, mentre
ogni fibra del suo corpo freme. Godimento e sofferenza si
mescolano, mentre tutto il suo corpo si abbandona al maschio che ora lo
possiede, lo fa godere e lo strazia. - Salvatore! Simone sente il piacere
crescere, espandersi nel suo corpo e infine esplodere. Grida ancora: - Salvatore! E il suo corpo è percorso
da una successione di onde che lo squassano e lo lasciano stremato. Ma
Salvatore prosegue ancora nella sua cavalcata selvaggia, a cui ora imprime un
movimento più accelerato. Simone sente, nella perfezione del suo benessere,
le fitte che le spinte di Salvatore gli procurano. E infine avverte il seme
di Salvatore spargersi nel suo culo. Salvatore lo bacia sul
collo e si abbandona su di lui. Mormora: - Amore mio. L’ha detto pianissimo, appena
un sussurro. Forse non intendeva davvero dirlo, è solo un pensiero che non è
riuscito a trattenere. Ma Simone risponde. - Ti amo, Salvatore. * Si sono amati altre due
volte, andando oltre. Adesso sono sul letto. Salvatore è steso sul lenzuolo e
stringe tra le braccia Simone, abbandonato su di lui. Salvatore guarda il quadro
arrotolato nell’angolo. - Quello lo faccio
incorniciare. - E cosa te ne farai? - Niente, lo terrò appeso. - Mi avevi detto che
dipendeva… - Sì, dipendeva da te. - Da me? - Se mi vuoi, allora il
quadro non mi serve. Se non mi vuoi, so che cosa farò ogni tanto davanti a
quel quadro. Simone ride. È bello
vederlo ridere. Simone scuote la testa. - Sei un maiale. - Forse sì. - In ogni caso se dipende
da me non ti servirà. Però… Salvatore sorride. - Però? - Ti farò anch’io un
ritratto, un bel nudo, frontale. Non si sa mai. - Mi sa che sei un maiale
anche tu. - Forse sì. Ma il quadro
potrebbe servirmi. - Se dipende da me, non te ne farai mai niente. 2015 |