Il caffetano nero Due guardie spingono con
violenza Moshe Maslovat nella cella. Con le mani
legate dietro la schiena, il prigioniero non è in grado di mantenere
l’equilibrio e cade sul pavimento lurido. Riesce però a girarsi su un fianco e
ad attutire la caduta: batte la spalla, ma non è una botta troppo forte.
Rimane disteso fino a che la porta non viene chiusa e il minuscolo locale
sprofonda nel buio. Allora si mette a sedere e appoggia la schiena contro il
muro. Rabbrividisce, perché le lunghe ore trascorse in viaggio, legato sul
carro, gli hanno fatto penetrare il freddo nelle ossa. La cella, piccola,
buia e fetida, presenta almeno un vantaggio: offre un riparo dal vento ed è
assai meno gelida della strada. Le guardie decidono di
andare all’osteria: ormai sono vicino a Leopoli e di certo non c’è il rischio
che qualcuno cerchi di liberare il prigioniero. Lungo la strada, soprattutto quando
attraversavano i boschi più fitti, erano sempre molto vigili, perché potevano
essere attaccati da briganti. Adesso, in una cittadina e per di più ormai
nelle vicinanze di Leopoli, non hanno più nulla da temere. Due di loro però devono
rimanere a sorvegliare il prigioniero, per cui stabiliscono di estrarre a
sorte chi sarà di turno. Il sergente prende dieci fili di paglia e li spezza,
in modo da ottenerne otto più lunghi e due nettamente più corti. Poi li
stringe in mano, facendo sporgere solo un pezzo di ognuno, in modo che non si
possa vedere quali sono i due steli più corti. Tutti gli uomini prendono un
filo. I due cui tocca la paglia più corta bestemmiano, ma non possono certo
opporsi al loro superiore: se non fosse stato il sergente a gestire l’estrazione
a sorte, non accetterebbero il risultato, dicendo che qualcuno ha
imbrogliato. Così non c’è spazio per rimostranze. Rimarranno di guardia al
prigioniero. Il sergente e gli otto
soldati fortunati si dirigono alla taverna. Le due guardie rimaste si mettono
a chiacchierare. Imprecano contro la loro sfortuna e si consolano pensando
che dopodomani saranno a Leopoli e il prigioniero rimarrà nelle segrete del
castello fino all’esecuzione. - A Leopoli potremo andare
anche noi alla taverna: in questo buco del culo di posto, che cosa vuoi che
ci sia? A Leopoli ce ne sono di molto migliori di quelle che puoi trovare
qui. Le parole di Benedykt non consolano l’altra guardia, Miron. Entrambi sanno che a Leopoli andranno in qualche
bettola da quattro soldi: non possono permettersi altro. Ma è inutile
recriminare. - Sì, hai ragione, Miron. Ma che cazzo… la scalogna mi perseguita. Proprio a
me doveva toccare… Dalla sua cella Moshe non
può vedere le due guardie, sul pianerottolo in cima alla gradinata, ma può
sentire i loro discorsi. Non ha sonno: ha dormicchiato durante il viaggio,
sul carro dove lo tengono legato come una bestia portata al macello. Ed è
proprio quello che lui è: un animale condotto al macello. Moshe sa che la sua vita è
alla fine. Entro due giorni saranno a Leopoli, dove sarà giustiziato. La sua
morte sarà orribile, perché dovrà costituire un esempio per tutti. Non sa se
gli verrà riservato il rogo o se lo squarteranno. Se accettasse di
convertirsi forse verrebbe decapitato, una fine assai meno dolorosa. A Moshe
poco importa della religione, ma non vuole che la sua vita si concluda con un
atto di viltà. Moshe ha paura della
sofferenza e della morte che lo attendono, ma non ha rimpianti: se potesse
tornare indietro, rifarebbe tutto quello che ha fatto, pur sapendo a che cosa
va incontro. Il pensiero va a un giorno di quindici anni prima, al suo primo
incontro con la morte. L’inverno era alla fine, ma la neve copriva ancora i
campi e sulle strade l’acqua gelava nei solchi lasciati dai carri. * L’inverno è alla fine, ma
la neve copre ancora i campi e sulle strade l’acqua gela mei solchi lasciati
dai carri. Il disgelo ha incominciato a gonfiare i corsi d’acqua, che spesso
straripano e rendono impraticabili i guadi, allagano i villaggi, trascinano
con sé chi sottovaluta la forza della corrente e anche qualche baracca
costruita troppo vicino alla riva. Moshe torna dal funerale
della madre. Ora è solo al mondo: non si è ancora sposato, anche se ormai ha
diciannove anni. Il matrimonio non lo attraeva e sua madre non gli ha mai
messo fretta: in fondo le faceva piacere che per il momento non ci fosse
un’altra donna in casa. Per i nipoti c’è tempo. Il tempo non c’è stato: la
malattia l’ha portata via in una settimana, com’era successo al marito due
anni prima. Qualcuno sospetta che entrambi siano stati vittime di una
maledizione, ma non si sa chi possa avergliela lanciata contro: Yoram Maslovat e sua moglie non avevano nemici e non erano
tanto ricchi da poter suscitare l’invidia di altri. Vivevano dignitosamente
grazie a una piccola proprietà e soprattutto al lavoro di Yoram, che Moshe
affiancava: Yoram era un ottimo sarto e Moshe ha imparato dal padre,
dimostrando un notevole talento fin da quando era appena un ragazzino. Da due
anni manda avanti la bottega da solo e vengono a Bircza
anche da altri paesi per rivolgersi a lui. Moshe torna a casa e vede
le guardie del conte Krasulowski davanti alla sua
casa. Che cosa sono venuti a fare, quei bastardi? Le guardie del conte sono
odiate da tutti: sono brutali e avide; sanno che possono permettersi
qualunque infamia, perché il conte non li punisce mai, nemmeno quando
qualcuno di loro scatena una rissa, stupra una ragazza o picchia un contadino
o un ebreo. Contadini ed ebrei devono solo sopportare in silenzio. Chi si lamenta
rischia di avere una doppia dose di percosse e di guai. Moshe prova l’impulso di
fuggire, ma l’hanno visto e lo prenderebbero. Raggiunge la porta di casa e
vede che oltre al nutrito drappello di guardie ci sono già due prigionieri:
il rabbino Zalman e sua moglie. È il rabbino a
rivelargli il capo di accusa: l’uccisione di un bambino cristiano in
occasione della Pasqua ebraica, la Pesach. Moshe impallidisce: è
un’accusa gravissima, che comporta la morte. Sa che non potranno difendersi,
anche se l’accusa è falsa. I bambini vengono davvero uccisi: ne sono già
scomparsi cinque nella regione, ma solo un corpo è stato ritrovato. Si sa che
al conte piacciono i bambini e che è lui a farli rapire e poi uccidere,
quando non gli servono più. Evidentemente ha deciso di accusare gli ebrei,
per far ricadere la colpa su di loro. L’accusa di uccidere bambini cristiani
è stata lanciata molte volte nei secoli passati e alcuni di questi bambini,
come Simonino di Trento e Lorenzino Sossio, sono ancora oggetto di venerazione
popolare: Simonino venne perfino beatificato. I tempi sono cambiati, ma in
Polonia queste credenze sono ancora molto diffuse. Moshe sa benissimo come si
svolgerà l’indagine: verranno torturati ferocemente e molti, forse tutti,
confesseranno. Quelli che accetteranno di convertirsi alla religione
cattolica, saranno decapitati, gli altri finiranno squartati. Moshe si rende conto che
l’unica soluzione è la fuga, ma come riuscirci? Si lascia legare le mani
docilmente e segue le guardie, che passano in diverse case: quelle indicate
da chi ha lanciato l’accusa, certamente su richiesta del conte. Mentre procedono Moshe
cerca di sciogliere le corde. Non è difficile: non ha opposto resistenza e
l’hanno legato alla bell’e meglio, tanto con una dozzina di guardie intorno
non può pensare di scappare. Adesso si tratta di trovare un’opportunità. Questa si presenta quando
le guardie arrivano alla casa del rabbino Smetankas
e vogliono arrestare il secondo figlio, Asher. Il giovane Smetankas
è forte come un toro e cerca di sottrarsi all’arresto. Prende un bastone, con
cui colpisce due guardie. Le altre si fanno avanti per bloccarlo. Sono in tanti, ma Asher si
rifugia in casa e occorre stanarlo prima che fugga da una porta sul retro: la
casa degli Smetankas è molto grande ed è un dedalo
di camere e passaggi, che portano a cortili interni, su cui si affacciano
altre case. Fuori con i prigionieri è
rimasta solo una guardia. Moshe fa due passi indietro, in silenzio, raggiungendo
l’ingresso di un vicolo. Si volta e s’infila nella stradina. Si mette subito
a correre, senza girarsi per vedere se si sono accorti della sua fuga, se lo
inseguono o no. Pensa solo ad allontanarsi il più in fretta possibile. Per sua fortuna la guardia
non si accorge immediatamente della sua fuga e questo gli dà il tempo di
scomparire. Moshe è sfuggito alla
morte, per il momento almeno, ma ha perso tutto. Non può neppure tornare a
casa a prendere un po’ di cibo. Moshe si mette a camminare
di buon passo: nessuno lo sta inseguendo e se continuasse a correre,
attirerebbe su di sé l’attenzione. Mentre procede, si chiede dove andare. Ha
alcuni parenti nella cittadina, ma non può rivolgersi a loro: sicuramente è
lì che lo cercheranno. E non può neppure andare dalla sorella che vive a
Leopoli: invieranno qualcuno per cercarlo anche là. Moshe non vuole mettere
in pericolo nessuno. Gli viene in mente un
cugino che vive a Buzyn, il fabbro Szymon Goldberg, con cui in
passato ha avuto spesso contatti. Non è davvero un parente: è solo il
fratello del marito di una cugina, ma veniva a trovare i suoi genitori con
gli sposi. Dopo la morte della cugina e del consorte, uccisi dal vaiolo,
Moshe ha avuto pochi contatti con Szymon e proprio
questo è un buon motivo per cercarlo: nessuno penserà che lui si sia rivolto
a questo fabbro. * Le due guardie continuano
a parlare. - E a puttane. Cazzo! Ne
ho una voglia… questa mattina mi sono svegliato che ce l’avevo duro,
nonostante il freddo. - Puoi dirlo, Miron. Nel bordello della via del Sale c’è una ragazza
ebrea che è bellissima. Avrà sì e no sedici anni… - Io non reggo ancora due
giorni. - E che vuoi fare? Non
possiamo certo lasciare il prigioniero qui per cercare una puttana. Se il
sergente ci becca, ci fa impiccare. - Potremmo farci il
prigioniero. Che ne dici, Benedykt? Moshe si sente gelare. Non
vuole subire una violenza. Miron ride. - Quello? È lercio da far
schifo e puzza. Fosse almeno un ragazzo, ma avrà trent’anni. Ma che cazzo di
idee ti vengono, Miron? - Scherzavo, Benedykt. La guardia non scherzava,
questo a Moshe è evidente, ma ha rinunciato alla sua idea. Moshe sa di essere
sporco: negli ultimi giorni, da quando hanno passato la frontiera, non ha
certo avuto modo di lavarsi. È abituato alla pulizia, ma se la sporcizia gli
evita di essere stuprato, ben venga. I pensieri di Moshe vanno
indietro nel tempo, a quando per la prima volta aveva desiderato il corpo di
un maschio, alla scoperta del piacere. Dopo una settimana passata
a camminare, cercando di sfuggire alle guardie che lo cercavano, dormendo nei
fienili, elemosinando un po’ di cibo, era arrivato a Buzyn
esausto. * Dopo una settimana passata
a camminare, cercando di sfuggire alle guardie che lo cercano, dormendo nei
fienili, elemosinando un po’ di cibo, arriva a Buzyn
esausto. Si regge in piedi a fatica. È affamato, assonnato e infreddolito:
non ha mai mangiato a sufficienza; non ha mai potuto fermarsi a lungo e ha
sempre dormito rimanendo all’erta, temendo di essere sorpreso; non ha potuto
coprirsi nelle ore più fredde e l’inverno sta appena incominciando ad
allentare la sua morsa. Ha saputo da un contadino che anche Asher Smetankas è riuscito a scappare: dopo due giorni di fuga
l’hanno avvistato lungo la strada per Leopoli, ma è riuscito a sottrarsi alla
cattura e non si sa dove sia ora. Gli ebrei arrestati sono quindici. Solo due
degli accusati sono ancora liberi: Moshe e Asher. Moshe sa dove si trova la
bottega di Szymon Goldberg,
ma rimane ai bordi del villaggio fin quasi a notte: non può girare per le
strade, perché attirerebbe l’attenzione, con il suo abito malridotto; non può
fermarsi a una taverna, perché non possiede nulla. Non vuole presentarsi da Szymon quando possono esserci i garzoni che lavorano con
lui. Al tramonto si dirige
verso l’officina, che si trova ai margini del paese. Prima di infilarsi nella
stradina verifica che non ci sia nessuno. La porta è socchiusa. Moshe la
spinge ed entra. Nell’officina vede Szymon di schiena.
Indossa solo i pantaloni e alla luce del fuoco morente, Moshe può vedere i
rivoli di sudore che scorrono sulla sua schiena. Ha spalle larghe e braccia
forti, Szymon. Non si è accorto dell’arrivo di
Moshe, ma questi si schiarisce la voce per informarlo della sua presenza. Szymon si volta. - Moshe! Sei riuscito a
scappare! - Sai già? - Certo che so. Non si
parla d’altro qui a Buzyn. Szymon aggrotta la fronte. - Come sei ridotto! Non
sei ferito, vero? - No. Ho preso freddo, ho
fame e sono stanco, ma ancora intero. - Questo è quello che
conta. Qui puoi riscaldarti, mangiare e riposare. Szymon si ferma un momento, poi dice: - Ti ha visto qualcuno? - No, ho badato che non ci
fosse nessuno per strada. - Ottimo. Szymon si dirige alla porta e la chiude. Poi fa
passare Moshe nella casa, gli dà da mangiare e da bere. Al fuggiasco si
chiudono gli occhi per la stanchezza. Szymon lo
accompagna a un pagliericcio. Moshe si stende e sprofonda nel sonno. Il
fabbro stende su di lui una coperta calda. Quando si sveglia è giorno
pieno. Accanto a lui c’è una brocca con del latte, un po’ di formaggio e del
pane. Moshe mangia avidamente. Svuota la vescica, poi si chiede se scendere
nell’officina, ma non vuole creare problemi a Szymon.
Intanto si rende conto di essere ancora molto stanco e si stende nuovamente. È il fabbro a svegliarlo. - Credo che tu abbia
dormito a sufficienza, Moshe. Ormai è mezzogiorno. Moshe si riscuote e si
alza. - Sì, scusa, mi spiace… Szymon ride. - Non devi scusarti. Ne
avevi bisogno. Adesso però dobbiamo parlare un momento. Io ho avvisato gli
altri che oggi arriva un mio cugino, Isaac. Non puoi usare il tuo nome,
naturalmente, perché sarebbe rischioso. Oggi non farti vedere. Stasera ci
parliamo per bene. Una giornata di ozio fa
bene a Moshe. La sera si mette d’accordo con Szymon,
che lo ospiterà. Lui lavorerà nell’officina insieme agli altri, come
apprendista. Inventano insieme una storia verosimile, che Moshe/Isaac dovrà
raccontare a chi gli chiede notizie. Il giorno dopo gli altri
operai sono stupiti di vedere che il nuovo apprendista non sa nulla della
lavorazione del ferro, ma è un cugino del padrone, per cui non dicono niente.
Moshe è intelligente e abile con le mani, per cui impara tanto in fretta da
stupire perfino Szymon. Dopo la giornata i lavoranti
raggiungono le loro abitazioni. Moshe e Szymon si
lavano in casa, prima di mangiare cena. Qualche volta si limitano a passare
uno straccio bagnato sulla faccia, il petto e le braccia. Una volta a
settimana fanno un bagno completo. Moshe guarda Szymon che si pulisce e sente il desiderio crescere in
lui. Spesso gli diventa duro, soprattutto quando Szymon
si bagna e può vederlo tutto. Allora inventa qualche scusa per ritardare il
momento in cui si bagnerà, in modo che il fabbro si sia già rivestito e sia uscito.
Moshe non si è mai
interessato alle donne, ma non aveva pienamente coscienza dei propri
desideri. Adesso, guardando il corpo forte di Szymon,
le sue spalle larghe, la peluria sul petto e sul ventre, le braccia e le
gambe robuste, il sesso vigoroso, avverte l’impulso a stringere il corpo che
si offre alla sua vista, ad accarezzarlo. E, più confusi, altri desideri
sembrano rimescolarsi in lui, senza venire pienamente alla luce. Un giorno Szymon esce dall’acqua con il cazzo mezzo teso e Moshe fa
fatica a reprimere l’impulso di inginocchiarsi davanti a lui e prendere in
bocca quel magnifico uccello. Moshe non lotta contro i
suoi desideri. A lungo li ha ignorati, non ha permesso che emergessero. Ora che
ne è cosciente li accetta, ma sa che deve muoversi con prudenza. Non sa che
cosa Szymon pensi. Ha paura di essere respinto,
forse scacciato, per cui preferisce sondare il terreno con cautela. Lo fa due sere dopo quella
in cui ha visto il cazzo del fabbro mezzo duro. Ha preferito non farlo la
sera stessa, per paura di destare qualche sospetto. Szymon ha saputo che uno degli arrestati, il
vecchio Berek Schnorr, è
morto in carcere. Si parla un po’ degli altri che sono ancora in prigione,
poi Moshe devia il discorso, portandolo dove gli interessa. - La moglie del rabbino
che hanno arrestato, Sarah Sapir, ha un nipote che
è scappato dal villaggio due anni fa. Pare che lo avessero sorpreso con un
uomo, un mercante di Leopoli, mentre… sì, insomma, hai capito. Szymon scuote la testa. - Io non capisco davvero
come faccia un uomo ad andare con un altro uomo. La Torah lo proibisce, ma
tanti fanno cose proibite. È proprio che… non so, a me fa schifo l’idea. Io
vorrei una moglie, una famiglia con tanti bambini. Moshe annuisce, senza dire
nulla. Cambia rapidamente argomento: - Invece del mercante Szeryng dicevano che imbrogliava sempre. - Certo che ne sai di
pettegolezzi… Moshe non ha mai amato
sparlare degli altri e gli spiace di aver fatto la figura del pettegolo proprio
con Szymon, ma gli serviva per capire che cosa
pensava il fabbro. In futuro eviterà di raccontare i fatti altrui. Si
giustifica: - In un paese si sa sempre
tutto di tutti. O almeno la gente crede così. - Uhmmm.
La gente ficca sempre il naso negli affari altrui. Moshe non fa più cenno
all’argomento. Qualche volta la notte la sua mano lo porta al piacere e
allevia la tensione. Lo fa sempre il giovedì sera, perché sa che il venerdì
dopo il lavoro si bagneranno, per essere puliti il sabato. Non è sempre sufficiente
a evitare che gli venga duro quando si bagnano, ma riduce i rischi. Alcuni mesi dopo l’arrivo
di Moshe, giungono le notizie relative alla sorte delle persone arrestate a Bircza con l’accusa di omicidio rituale: sono state tutte
condannate e giustiziate, a parte due che sono morte in carcere,
probabilmente per le torture subite. Moshe non si stupisce. Sapeva che
sarebbe finita così. Del tutto inattesa è
invece un’altra notizia, che giunge alcuni mesi dopo: il conte Krasulowski è stato assassinato. Non si sa chi sia stato
a tagliargli la gola e poi a mutilarlo. Le autorità sospettano dei due
fuggiaschi: Asher Smetankas, che pare essere stato
visto aggirarsi in zona pochi giorni prima, e Moshe Maslovat. Moshe era ben lontano dal
castello del conte, ma non può certo discolparsi: su di lui pende una
condanna a morte in contumacia. Si chiede se non farebbe meglio ad andarsene,
per non mettere in pericolo Szymon, ma questi gli
dice di rimanere. Tre mesi dopo il fabbro si
risposa: è già la terza volta, ma la prima moglie è morta di parto insieme al
bambino che stava nascendo e la seconda se n’è andata. Szymon
non è stato fortunato con il matrimonio. Con Eda Bielski invece le cose sembrano funzionare. La giovane
moglie è più giovane di Szymon e ha un buon carattere.
Meno di un anno dopo il matrimonio dà alla luce un bambino, che cresce sano.
Due anni dopo il primo figlio, nasce una bambina. Szymon
è felice e Moshe pensa che se lo merita: è un uomo onesto e generoso. Moshe invece non è felice.
Non si lamenta: è vivo, al sicuro, e ha un lavoro, per cui viene pagato poco,
ma riceve vitto e alloggio. Szymon lo tratta bene e
anche la moglie è gentile con lui. Ma si sente solo e il suo corpo lo
tormenta. A ventitré anni la solitudine e la castità gli pesano. Non ha dimenticato il
lavoro di sarto ed è lui a occuparsi di cucire la biancheria di casa e gli
abiti per sé, per Szymon, Eda e i bambini che
arrivano. Grazie a lui Eda è vestita come una borghese facoltosa, anche se la
famiglia non è ricca. Moshe si è raccomandato di non rivelare a nessuno che è
lui a cucirle i vestiti, perché non vuole che si sappia che ha fatto il
sarto: qualcuno potrebbe ricordarsi del ragazzo scappato da Bircza dopo l’arresto. Eda dice che si cuce da sola i
vestiti e alcune vicine le chiedono di cucire anche per loro un abito per un
matrimonio o un’occasione particolare: un mastro sarto è costoso, mentre Eda
non chiede molto. Così la domenica Moshe si dedica al cucito: in quel giorno
le autorità non vogliono che gli ebrei lavorino, per cui l’officina è chiusa.
Szymon continua il lavoro per conto proprio, senza
i garzoni. Moshe, che l’ha sempre aiutato, si dedica a cucire e intanto
insegna anche a Eda, che impara in fretta: non è ancora in grado di eseguire
certe lavorazioni più complesse che solo Moshe riesce a fare, ma per molti
lavori è autonoma. Per la famiglia e per Moshe è un’altra fonte di guadagno,
che diviene significativa. Presto quasi ogni settimana il giovane si assenta
dall’officina almeno un secondo giorno, per portare avanti i lavori da sarto.
I garzoni si stupiscono che Szymon permetta al
cugino di assentarsi così spesso, ma non dicono nulla. Il lavoro di fabbro ha
cambiato molto Moshe. Ha acquistato forza e i suoi muscoli si sono
sviluppati. Ora è un gran bel maschio, che le donne guardano quando passa.
Non solo le donne. In estate Moshe ha preso
l’abitudine di andare il sabato a bagnarsi al fiume, in un angolo isolato,
insieme a un gruppo di giovani ebrei del paese: i cristiani non si mescolano
volentieri con loro. Diversi hanno qualche anno in meno di Moshe. Uno di loro, Jakub, tende a stare sempre vicino a Moshe. Un sabato,
quando i giovani rientrano, gli dice: - Moshe, puoi fermarti un
momento? Vorrei parlarti. Moshe ha colto l’interesse
del ragazzo, che deve avere vent’anni, quattro meno di lui. - Certo. Gli altri si allontanano
chiacchierando, senza badare a loro. - Vieni, Moshe. Jakub si dirige dove la vegetazione è più
fitta. Raggiungono un posto dove alberi e cespugli li nascondono
completamente agli sguardi. Jakub scivola in ginocchio davanti a Moshe,
gli cala i pantaloni e le mutande e guarda il cazzo che già incomincia a
tendersi. Le sue labbra lo avvolgono. Moshe sussulta. È la prima volta che
una bocca accoglie il suo cazzo. È una sensazione bellissima. Moshe accarezza
la testa di Jakub, mentre si abbandona
completamente al piacere che prova. Dopo un po’ Jakub s’interrompe e chiede: - Me lo metti in culo? A Moshe andrebbe bene che Jakub continuasse fino a farlo venire, ma è curioso di
sperimentare che cosa si prova a inculare un uomo. Annuisce. Jakub si mette a quattro zampe. Moshe guarda
il culo che gli si offre. Si sente confuso, smarrito, ma il desiderio preme. - Inumidisci bene. Ce
l’hai grosso. A Moshe non pare di averlo
particolarmente grosso. Forse un po’ più degli altri che vede al fiume, è
vero, ma niente di speciale. Comunque gli sembra un complimento e gli fa
piacere. S’inumidisce bene la
cappella, poi sparge un po’ d saliva intorno al buco del culo di Jakub. Spinge due dita dentro. Entrano senza difficoltà: Jakub non è certo vergine. Moshe avvicina la cappella
all’apertura ed entra, lentamente, per non fare male. Poi incomincia a
fottere, mentre Jakub lo incoraggia. È bellissimo. Fotte a lungo, finché il
piacere lo travolge. Con la mano afferra il cazzo di Jakub
e fa venire anche lui. Poi si lavano al fiume e
si separano. Moshe torna a casa soddisfatto. Si ritrovano almeno una
volta a settimana, di solito il sabato, ma talvolta di sera. Sono entrambi
molto prudenti e badano a non farsi sorprendere. Quando temono di essere
scoperti o anche solo di destare sospetti, rinunciano a incontrarsi. La storia con Jakub dura tre anni. Non è amore, da nessuna delle due
parti, ma a entrambi va bene così. * Le due guardie continuano
a chiacchierare. Parlano ancora di puttane, poi quello che si chiama Miron racconta di una volta che lui e i suoi commilitoni
hanno arrestato due briganti, ma la notte sono stati assaliti dai complici. - Hanno ammazzato il
sergente e tre degli altri. Io me la sono cavata perché mi hanno creduto
morto. A uno che era ferito ed era caduto a terra hanno tagliato la gola.
Quella volta mi sono detto che la mia ora era arrivata. Moshe pensa al suo secondo
incontro con la morte. Dopo la partenza di Jakub,
Moshe ne sentiva la mancanza, ma la casa di Szymon
gli offriva il rifugio di cui aveva bisogno ed era sinceramente affezionato
alla famiglia, che era cresciuta: Eda e Szymon
avevano tre figli. * Eda e Szymon
hanno tre figli. Eda ha imparato quasi tutto quello che Moshe poteva insegnarle
ed è in grado di lavorare da sola come sarta. Moshe è irrequieto, anche
se la sua vita scorre serena. Non gli manca soltanto la possibilità di
scopare: la sua insoddisfazione va molto oltre. Ormai ha ventisei anni e si
chiede che cosa intende fare della sua esistenza. Rimarrà al servizio di Szymon e poi dei suoi figli, continuando a fare il sarto
di nascosto? Ha senso? Si chiede se andarsene, magari attraversando il
confine e raggiungendo i domini turchi, dove non dovrebbe più temere di
essere scoperto e potrebbe riprendere la sua attività. Mentre si pone questa
domande, altri decidono per lui. Eda ha consegnato un abito
ricamato a Haika Meth. È
un tipo di ricamo particolarmente impegnativo, l’unico che Eda non
padroneggia ancora pienamente, per cui il lavoro è stato svolto soprattutto
da Moshe. Il successo dell’attività di Eda ha suscitato qualche malumore tra
i sarti cui di fatto fa concorrenza, anche se in teoria lei fa solo qualche
favore alle amiche. Mentre Haika
si prova l’abito, arriva Ala Hirzfeld, la moglie di
uno dei sarti del paese. Eda è sicura che la donna non è arrivata
casualmente, ma è venuta per vedere l’abito. Haika è orgogliosa del ricamo e lo mostra ad
Ala. Questa lo osserva con cura e dice: - Davvero una meraviglia.
Difficile trovare qualcuno in grado di fare lavori di questo genere. C’era un
sarto molto bravo, Yoram Maslovat, a Bircza, che lo faceva, ma è morto anni fa. Aveva imparato
anche il figlio, Moshe, quello che è scappato quando sono venuti per
arrestarlo e che è stato condannato a morte con l’accusa di omicidio rituale.
Gli altri li hanno giustiziati tutti. Lui chissà dov’è. Eda non sa che l’uomo che
vive in casa sua e chiama Isaac è in realtà Moshe Maslovat,
ma si rende conto che le parole di Ala non sono state dette a caso. Ala prosegue: - Tu dove hai imparato? - Da un sarto di
passaggio, al mio paese. Si fermò da noi due mesi e, vedendo che già me la
cavavo bene, mi insegnò alcuni segreti del mestiere. Mi faceva un po’ di
corte e mia madre lo teneva d’occhio. La spiegazione è del tutto
inventata, ma nessuno potrà controllare: il villaggio da cui viene Eda è
lontano. - Ah, capisco. E… quel
cugino di Szymon, Isaac, che sta da voi, lui non sa
cucire? Eda intuisce la verità, ma
non lascia trapelare la sorpresa. Alza le spalle e dice: - Non credo proprio. Non è
un lavoro da uomini. Lui fa il fabbro. - Sì, certo, ma gli altri
apprendisti dicono che si assenta spesso. - È un cugino di Szymon, che gli lascia molta libertà. Forse troppa, ma
non spetta a me intervenire. Tornata a casa, Eda parla
con Szymon e gli racconta tutto quello che è
successo. Poi conclude: - Isaac è Moshe Maslovat, vero? - Sì, Eda. È così. Ho
preferito non dirti niente: meno persone sanno, meglio è. Ma evidentemente il
marito di Ala ha capito, o almeno sospettato, vedendo i ricami che fa.
Bisogna che avverta Isaac. Se qualcuno parla, è in pericolo. Szymon chiama Moshe, a cui Eda ripete il suo
racconto. Moshe non si stupisce. Il
destino ha deciso per lui e, per quanto sia affezionato a Szymon,
a Eda e ai tre bambini, non gli spiace andarsene. - È ora che io vada.
Grazie Szymon per avermi accolto, ma rimanere qui
significherebbe rischiare di essere arrestato e mettere nei guai anche voi. Szymon sa che è vero, ma gli dispiace che Moshe
se ne vada: gli sembra che il giovane gli abbia portato fortuna, perché dal
suo arrivo la sua vita è molto cambiata, in meglio. Moshe prepara il suo
bagaglio. Szymon gli dà una borsa con delle monete.
Il giovane la guarda stupito. - È una grossa somma, Szymon. Non ho bisogno di tutto questo denaro. - Questo denaro è arrivato
anche per merito tuo. Vorrei che tu potessi allontanarti senza problemi e che
avessi di che incominciare un’attività. Ormai sei un uomo e non ha senso che
tu riparta da zero. - Va bene, Szymon. Lo prendo e ti ringrazio. Ma se le cose andranno
come spero, ti renderò questo denaro. - Non ti preoccupare di
questo. L’indomani Moshe parte
molto presto. Ha meditato a lungo e ha deciso di passare la frontiera e
raggiungere Salonicco, dove vivono alcuni lontani parenti di sua madre. Non
ha documenti ed è ricercato, per cui dovrà cercare di attraversare il confine
di nascosto. Se qualcuno lo fermasse, potrebbe inventare qualche storia, ma a
un controllo si scoprirebbe che ha mentito. Potrebbe sempre sostenere di
essere il cugino di Szymon, ma non vuole mettere la
famiglia in pericolo. In una cittadina non
lontano dalla frontiera con i domini turchi lavora nell’officina di un fabbro
per alcuni mesi e intanto cerca di ottenere qualche informazione su come si
può attraversare il confine. Carovane di mercanti si spostano tra l’Impero
Ottomano, i territori degli Asburgo e la Polonia, ma ai valichi ci sono
ovviamente controlli delle merci e delle persone. E Moshe non sa come
procurarsi documenti falsi. Dovrà passare clandestinamente. In primavera lascia la
cittadina e raggiunge un villaggio vicino al confine. Si ferma in una
locanda. Deve riuscire a raccogliere informazioni su come passare la
frontiera sfuggendo ai controlli, ma non può certo chiederle direttamente. È
facile che tra gli avventori ci sia qualche spia. Un uomo sui quaranta gli
si avvicina e attacca bottone con lui. - Conti anche tu di
passare… dall’altra parte? Moshe guarda l’uomo, che
non gli ispira fiducia. - Perché dovrei? Che cosa
c’è di bello dall’altra parte? Le musulmane la danno via più facilmente? L’uomo ride. - Un bel giovane come te
non fa fatica a trovare, tra le musulmane come tra le cristiane. O tra le
ebree. - E allora, perché dovrei
andare… di là? L’uomo ha un sorriso
sornione. - Ci sono sempre tanti
buoni motivi per andare… di là, come dici tu. - Buoni motivi per farsi
sparare dalle guardie? Io preferirei evitarlo. - Se scegli la via giusta,
eviti le guardie e le pallottole. Moshe è combattuto tra il
bisogno di ottenere le informazioni che gli servono e la diffidenza nei
confronti dell’uomo. È la diffidenza ad avere la meglio. - Conosco un modo
infallibile per non rischiare. - Ah sì, ne sei sicuro? - Certo. - E sarebbe? - Rimanere in Polonia. L’uomo scuote la testa e
si alza. - Come vuoi. Io ho cercato
di darti una mano. Quando l’uomo è uscito, il
locandiere si avvicina e dice: - Quello lì secondo me è
una spia. Non ti fidare. Moshe alza le spalle. Non
ha molta fiducia neppure nell’oste, che potrebbe informare le guardie su chi
vuole passare la frontiera. Perciò non si sbilancia. - Può essere. Qualche chiacchiera alla
locanda gli fornisce alcune informazioni: ci sono le guardie a cavallo che
pattugliano la frontiera per fermare i fuggiaschi e non esitano a sparare a
chi cerca di sottrarsi alla cattura. La sorveglianza è molto rigida, perché è
uno dei punti in cui il fiume può essere attraversato a nuoto più facilmente. Sono due giorni di marcia
fino al confine, ma non conviene camminare nelle ore diurne, se non si hanno
i documenti. Meglio muoversi di notte, stando vicino alle strade, per non
perdersi, ma rimanendo tra gli alberi, pronti a nascondersi se passa un carro
o arrivano delle persone. Moshe decide di provare.
Sono notti in cui la luna è quasi piena e questo rende più facile camminare,
ma accresce il rischio di essere avvistato. Dopo un sonnellino pomeridiano,
Moshe parte. Il denaro è cucito nei pantaloni. Gli stivali se li metterà al
collo quando attraverserà il fiume. Il bagaglio è ridotto al minimo: qualche
cosa da mangiare e nient’altro. Non è pauroso, ma ogni
rumore lo fa trasalire e ogni ombra gli sembra nascondere i soldati in
agguato. Cammina fino all’alba, poi
si stende tra i cespugli a riposare. Dorme fino al pomeriggio inoltrato. Si
alza, mangia un po’ del cibo che si è portato dietro e aspetta che diventi
buio per procedere. A un certo punto vede
davanti a sé, vicino al bordo della strada, tre uomini che camminano. Si
sente un rumore lontano. Prima che Moshe abbia capito che si tratta di
cavalli, i tre si sono già nascosti tra gli arbusti. Moshe si acquatta dietro
un albero. Lo scalpitio di cavalli
ora è ben distinguibile. I tre non sono stati abbastanza rapidi e i cavalieri
li hanno visti. Gli sono addosso come falchi su quaglie. Circondano gli
arbusti, smontano e li catturano. Li legano come animali e sei cavalieri li
trascinano via. Altri sei continuano a pattugliare. La luce della luna è
troppo forte e la vegetazione non è abbastanza fitta per nascondersi bene.
Moshe decide di non procedere: ha il cibo necessario e non è un problema
impiegare un giorno di più. Cerca un posto ben riparato e lì si mette a
dormire. Lo sveglia, poco dopo
l’alba, un rumore vicino a lui. Si mette a sedere di scatto e vede, a due
passi, un uomo che deve avere pochi anni in più. È alto e abbastanza ben
piantato, con una barba bionda e una cicatrice sulla guancia destra. L’uomo
lo guarda e dice: - Anche tu in fuga, vero? Non ha molto senso negare.
Se l’uomo fosse una spia, avrebbe già potuto denunciarlo alle guardie e farlo
arrestare mentre dormiva. - Sì. - Io mi chiamo Mateusz. - Io sono Isaac. Moshe preferisce
continuare a usare il nome con cui era conosciuto a Buzyn. - Con un po’ di fortuna
questa notte ce la facciamo. - Spero. Ieri ho visto le
guardie a cavallo arrestare tre uomini. - Contadini in fuga dai
loro padroni. Ma tu non sei un contadino. - No. Moshe non aggiunge altro.
Non intende fornire dettagli. - Vuoi venire con me? - Adesso, di giorno? - Sì, conosco la zona. Per
attraversare il fiume dobbiamo aspettare la notte, ma se stiamo lontano dalla
strada non corriamo grandi rischi. Moshe si dice che è meglio
muoversi con qualcuno che sa dove dirigersi. Spera solo che Mateusz lo porti davvero al fiume. Camminano in mezzo ai
boschi, facendo un ampio giro. In serata arrivano in cima a una collina, da
cui si vede il fiume. - Eccolo. Questa notte
scendiamo e lo attraversiamo. Adesso è impossibile. Ci sono guardie a cavallo
che pattugliano il confine. Di notte è più facile sfuggire. Il cielo è
coperto e senza quella fottuta luna ce la facciamo. Se siamo fortunati ce la
facciamo. Non sono fortunati. Quando
scende la notte, si dirigono al fiume, ma di colpo il vento sospinge via le
nuvole che coprono la luna e le guardie, evidentemente appostate da qualche
parte tra gli alberi, li vedono e spronano i cavalli verso di loro. Mateusz si mette a correre verso l’acqua. Moshe
lo imita: ormai non può fare altro. I soldati sparano: quattro
colpi. Moshe sente una pallottola sibilare vicino alla sua testa. Nello
stesso momento Mateusz lancia un grido e cade a
terra. Un altro sparo. Moshe
sente un dolore alla tempia, ma dev’essere una ferita di striscio. Si getta
in acqua e si lascia trascinare dalla corrente, immergendosi perché i soldati
non lo vedano. Emerge solo quando è costretto dalla mancanza d’aria. Respira
e si reimmerge subito. Ripete l’operazione due volte, poi prende a nuotare
verso la riva opposta a quella da cui si è lanciato. Emerge dal fiume. È
infreddolito, ma per fortuna la notte è mite. Si tocca la tempia. La ferita è
proprio solo un graffio. È riuscito a passare il
confine. È scampato alla morte per la seconda volta. È stato fortunato. Mateusz non lo è stato. * Nella cella Moshe pensa
che non scamperà una terza volta. La Grande Mietitrice ha permesso che lui le
sfuggisse per un po’, ma ora l’ha afferrato saldamente e si prepara a finire
il lavoro rimasto in sospeso. Ha lasciato che godesse del periodo più felice
della sua vita. Le guardie continuano a
chiacchierare. Moshe non bada a quello che dicono. Pensa al passato. Dopo
aver attraversato il fiume, Moshe si era allontanato dal confine e, unendosi
a una carovana di mercanti, aveva raggiunto Salonicco. * Moshe si allontana dal
confine e, unendosi a una carovana di mercanti, raggiunge Salonicco. Qui ci
sono moltissimi ebrei, ma sono quasi tutti sefarditi: non parlano yiddish, ma
una specie di spagnolo. Moshe impara in fretta il turco, lo spagnolo dei
sefarditi e un po’ delle altre lingue che si parlano in questa città commerciale. I soldi ricevuto da Szymon gli permettono di creare una bottega e grazie alla
sua bravura riesce a procurarsi nel giro di un anno una clientela. Gli affari
vanno bene: probabilmente non diventerà ricco, ma questo non gli interessa. È
riuscito a ricrearsi una vita e a raggiungere un discreto benessere. È più di
quanto potesse aspettarsi dopo la fuga dal suo villaggio. Man mano che risparmia,
manda a Szymon i soldi che lui gli ha dato, fino a
che non ha restituito tutto . Servendosi di alcune carovane di mercanti, gli
fa anche arrivare alcuni capi di vestiario per Eda e per i bambini, che
intanto sono diventati quattro. Moshe è felice di sapere che Szymon sta bene e che ha la famiglia che ha sempre
desiderato. Gli affari prosperano e
due anni dopo il suo arrivo a Salonicco nella bottega di Moshe lavorano due
apprendisti. A casa una donna viene tre volte a settimana per le pulizie, fa
la spesa e prepara qualche cosa da mangiare. Anche i rapporti con i vicini
sono buoni: Moshe non dà fastidio a nessuno ed è sempre disponibile. Non ha
veri amici, ma non si sente solo. Prende l’abitudine di
recarsi ai bagni pubblici, molto frequentati dai musulmani, meno dai greci
ortodossi e ben poco dagli ebrei. Una delle prime volte, mentre è seduto, il telo
intorno ai fianchi, gli si avvicina un uomo. È un bel giovane, che ha pochi
anni in meno di lui. Gli sorride e dice: - È qualche settimana che
vieni qui, ma in passato non ti avevo mai visto. - Vivevo in Polonia, ma me
ne sono andato. - Non sono mai stato in
Polonia. C’è un momento di
silenzio, poi l’uomo dice: - Io mi chiamo Osman. Tu? - Moshe. - Sei ebreo? - Sì. - Ne vengono pochi, qui. Osman sorride. Moshe è convinto che nel suo
sorriso ci sia un invito, ma preferisce non scoprirsi prima di essere sicuro.
Si limita a sorridere a sua volta. Osman dice: - Ho preso una stanza. Ci
andiamo, Moshe? Ci sono diverse stanze che
si possono prendere per qualche ora. Qualcuno lo fa per starsene tranquillo,
da solo o con alcuni amici, altri per parlare di affari. Qualcuno le usa per
scopare. Moshe sorride e si alza. - Va bene. Appena sono nella stanza Osman si mette su una spalla il telo che gli cingeva ai
fianchi, si volta verso il muro e vi si appoggia con le braccia, divaricando
un po’ le gambe. Non dice nulla, non occorre. Moshe guarda il culo che
gli si offre: armonioso, snello e sodo, glabro. Il cazzo gli si tende in
fretta. Sparge un po’ di saliva e si mette all’opera. La vita di Moshe trascorre
tranquilla. Gli affari vanno bene, si reca ai bagni tre volte a settimana e
scopa con Osman o con qualcun altro: qualcuno gli
si offre sempre, perché è un bell’uomo ed è piuttosto dotato. Moshe non
chiede di più. Intanto ottiene di
diventare suddito dell’Impero. Ora ha documenti ufficiali, in cui risulta
chiamarsi Moshe Silberberg. Ha preferito mantenere
il suo nome, ma ha cambiato quello di famiglia. Non conta di ritornare in
Polonia, ma se dovesse farlo, i rischi sarebbero meno gravi. * Qualcuno bussa. Miron apre la porta, mentre Benedykt
tiene il fucile puntato: è impossibile che qualcuno tenti di liberare il
prigioniero ora, ma è meglio essere prudenti. È un ragazzo, dev’essere
il garzone dell’osteria, perché dice: - Il sergente vi manda un
po’ di vino. - Ottima idea. Il garzone aggiunge: - Vi raccomanda di non
ubriacarvi. Benedykt gli molla uno scappellotto, ma il
ragazzo si scansa e la manata lo prende solo di striscio. - Impertinente! - È il sergente che mi ha
ordinato di dirvelo. - Va’, prima che te ne
molli un altro. Miron aggiunge: - Tirati la porta dietro. Moshe pensa a un’osteria,
a Salonicco, dove è avvenuto l’incontro che l’ha portato alla rovina. Era
stata una settimana pesante, perché Moshe aveva dovuto completare alcuni
abiti per un matrimonio. * È stata una settimana
pesante, perché Moshe ha dovuto completare alcuni abiti per un matrimonio. Di
solito organizza il suo lavoro in modo da prendersi tutto il tempo
necessario: finire un lavoro di fretta può pregiudicare la qualità e Moshe
vuole evitarlo. Questa volta però c’è stato un imprevisto: il matrimonio è
stato anticipato, perché lo sposo deve partire prima del previsto, e a Moshe
spiaceva che la sposa, la madre e la sorella non potessero avere in tempo gli
abiti che avevano chiesto. Ha lavorato molto intensamente ed è riuscito a
completare tutto. Non si reca subito al
bagno, anche se ne avrebbe bisogno e avrebbe voglia di scopare: nell’ultima
settimana non ci è più andato, perché era troppo indaffarato. Preferisce
passare prima dalla taverna dove può mangiare senza doversi preparare la cena
e intanto scambiare due chiacchiere con i conoscenti. Magari andrà al bagno
dopo la cena. Si è seduto da poco,
quando un uomo, alto e massiccio, entra nella taverna. Dev’essere un
mercante, ma c’è qualche cosa di familiare in lui, che attira l’attenzione di
Moshe, spingendolo a fissare con attenzione lo sconosciuto. Mentre Moshe
cerca di mettere a fuoco i ricordi, l’uomo si accorge di essere osservato e
guarda Moshe, perplesso. La mente di Moshe è
arrivata alla conclusione e dalla sua bocca sfugge un nome: - Asher! Asher Smetankas
si avvicina. Guarda fisso l’uomo che l’ha chiamato. I tratti gli sono
vagamente familiari, ma dieci anni hanno cambiato il volto e il corpo di
Moshe, più di quanto abbiano cambiato Asher, che ha cinque anni in più e già
allora attirava l’attenzione perché molto alto e massiccio. La sua voce è incerta,
mentre chiede: - Moshe? - Sono io, Asher. Moshe si alza e i due
uomini si abbracciano. Moshe invita Asher a sedersi
al suo tavolo. Cenano insieme e parlano: hanno dieci anni da raccontarsi. - Sapevo che eri sfuggito
alla cattura, due volte, ma non avevo la più pallida idea di dove fossi. - Né io sapevo dove fossi
tu, ma era per forza così: mantenere segreto il nostro nascondiglio era
l’unico modo per scampare. Che hai fatto tu? Moshe racconta degli anni
da Szymon, senza citare il nome del fabbro e il
paese: non diffida di Asher, ma non vuole che Szymon
corra rischi. Asher è stupito. - Il fabbro, tu? Tuo padre
era il miglior sarto di Bircza e tu non eri da
meno, mia madre lo diceva sempre. E sei finito a fare il fabbro! - Cercavano un sarto e non
era saggio farmi conoscere, anche se poi è venuto a galla. Il racconto passa ai
sospetti su Moshe e poi alla sua fuga. Moshe descrive brevemente la
situazione attuale, senza dire che ha un nuovo nome, e prosegue: - Così adesso sono un
rispettabile e leale suddito del sultano, oltre che uno stimato sarto. Moshe ride e conclude: - Ma adesso dimmi di te.
Che hai fatto in questi anni? Asher guarda lontano. Per
un attimo sembra che non sia nella stanza. La sua mente di certo non lo è.
Poi si scuote e incomincia a narrare. - Inizialmente, quando
sono riuscito ad allontanarmi, mi sono nascosto da certi miei parenti. Noi Smetankas siamo una famiglia sterminata, lo sai. Credo
che ci sia qualche Smetankas in ogni villaggio da
Varsavia a Leopoli, oltre a quelli che ci sono in Boemia, in Russia, a
Costantinopoli e anche qui a Salonicco. Sono rimasto per due mesi da parenti
di mia madre, che non portano il mio cognome: era difficile che mi cercassero
lì. Poi sono passato in Boemia. In Polonia sono rientrato solo due volte, per
sistemare una faccenda… che riguardava tutti e due. Asher ghigna. Moshe
intuisce e chiede: - Sei tu che hai ucciso il
conte Krasulowski? - Sì. Gli ho dato quello
che si meritava. Ho vendicato i bambini che ha stuprato e ammazzato e tutti
quelli che sono stati giustiziati per colpa sua. Moshe ha sentito alcuni
dettagli orribili sulla morte del conte. Preferisce non chiedere se
corrispondano a verità. C’è un attimo di pausa,
poi Asher, vedendo che Moshe non si mostra interessato, prosegue: - Ho lasciato la Polonia e
mi sono trasferito in Austria. Raccontarti tutto richiederebbe molto tempo,
ma se sei curioso di sapere, te ne parlerò un’altra volta: tanto rimarrò qui
alcuni giorni, perché aspetto una nave che è partita in ritardo da
Alessandria. - Ti dedichi al commercio? - Sì, come abbiamo sempre
fatto in famiglia. Scambiano ancora due
parole, poi Asher dice: - Adesso però vorrei
lavarmi. - Ti porto nel bagno dove
vado io. Devo andarci anch’io. Quest’ultima settimana ho lavorato come un
forsennato e sono lercio. Contavo giusto di andare dopo cena. - Benissimo. Dov’è il tuo
bagno? - Qui vicino, poco oltre
la sinagoga Har Gavoa. S’incamminano, ma quando
arrivano alla porta del bagno, a Moshe viene in mente che qualcuno nel bagno
potrebbe offrirglisi e Asher capirebbe. Si pente della proposta che ha fatto,
ma ormai è tardi. Entrano e si lavano, poi si siedono e riprendono a
chiacchierare. Moshe evita di guardarsi in giro, ma ciò che temeva avviene:
mentre siedono uno accanto all’altro, qualcuno si avvicina. Non è Osman, ma Hakan, un altro dei
giovani con cui scopa spesso al bagno. Hakan sorride e dice: - Sei con un amico, oggi.
Mi sembra forte e di sicuro è anche lui bravo come sei tu. Venite tutti e due
con me? Moshe non sa quanto Asher
capisca il turco. Dice: - No, Hakan,
non credo che il mio amico… Non completa la frase
perché Asher si volta verso di lui, gli sorride e gli si rivolge in yiddish: - Non sono mai venuto in
questo bagno, ma sono stato in altri, qui a Salonicco, ma anche a
Costantinopoli e in diverse città. So come funzionano. Poi risponde al giovane,
in turco: - Volentieri. Io mi chiamo
Asher. Asher si alza, Moshe lo
imita, un po’ disorientato, e raggiungono la stanza. Hakan
chiude la porta. Moshe si toglie il telo che porta intorno ai fianchi e
guarda Asher, che si è messo anche lui l’asciugamano sulla spalla. Moshe non
l’aveva mai visto nudo. È un Ercole, un Ercole alquanto villoso, con un
grosso cazzo che già si tende. Moshe ha l’impressione che la testa gli giri.
Si appoggia alla parete. Hakan gli si mette di
fronte, a un passo, e si china in avanti, fino a che la sua faccia è davanti
al ventre di Moshe. Gli poggia le mani sui fianchi e gli prende in bocca il
cazzo. La sensazione è piacevole,
come sempre, ma Moshe non ci bada. La sua attenzione è concentrata su Asher,
che si mette dietro Hakan e ammicca a Moshe, mentre
si accarezza il grosso cazzo. Moshe guarda affascinato i suoi gesti. Moshe si
sputa sulle dita e lubrifica l’apertura di Hakan.
Quando infila due dita dentro, il giovane sussulta. Hakan continua a succhiare il cazzo di Moshe,
che guarda fisso il cazzo di Asher. Grosso, duro, minaccioso, con una grande
cappella più scura che ora preme contro il buco del culo del giovane turco e
lentamente avanza. Hakan chiude gli occhi e per un
momento interrompe la sua attività. Asher prosegue, fino a che il suo ventre
non aderisce al culo di Hakan. Moshe ha
l’impressione che gli manchi il fiato. Asher arretra e avanza,
ritraendo il cazzo e spingendolo a fondo. Va avanti molto a lungo. Moshe
viene in bocca a Hakan, Asher continua a fottere,
tra i gemiti di Hakan. Moshe è sicuro che in quei gemiti
ci sono piacere e dolore. Infine Asher viene. Dopo essersi rivestiti,
lasciano il bagno turco. Asher è allegro. - È stata una bella
scopata. Non me l’aspettavo ed è stata una gradita sorpresa. E devo dire che
ne avevo bisogno. Moshe lascia cadere l’argomento.
Ciò che è avvenuto l’ha turbato, ma cerca di nasconderlo. Combinano di vedersi due
giorni dopo, nella stessa taverna. Tornando a casa Moshe
riflette su quanto è avvenuto. È stata la prima volta che ha scopato in tre,
ma non è questa l’origine del suo turbamento. Il pensiero va in modo
ossessivo a Asher, al suo corpo massiccio e forte, al suo cazzo vigoroso.
Moshe non ha mai desiderato offrirsi, ma ora è confuso. Non si stupisce di sognare
Asher nella notte. Due sere dopo a cena Asher
racconta della sua attività di mercante e della sua vita, alquanto
avventurosa. Dopo che hanno chiacchierato un buon momento, chiede: - Andiamo al bagno? Ti
porto in quello dove vado io di solito. Vengo spesso a Salonicco e conosco
diversi posti interessanti. Moshe sorride. L’idea di
rivedere Asher nudo e magari di vederlo anche scopare gli piace. - Per me va bene. Al bagno non si avvicina
nessuno. Quando si sono lavati, Asher si allontana un momento. Quando torna,
dice: - Ho preso una stanza.
Vieni. Moshe lo guarda, smarrito. - Ma non c’è nessuno,
nessuno che… Non sa bene come
continuare. Asher ride e risponde: - Facciamo noi due.
Bastiamo. - Io… io non ho mai… Asher risponde, sempre
ridendo: - C’è sempre una prima
volta per tutto. Senza attendere una risposta,
Asher si dirige alla stanza. Moshe lo segue, incerto, confuso. Appena sono
dentro, dice: - No, Asher, non me la
sento. Asher scuote la testa e
chiude la porta. Si toglie il telo che gli cinge i fianchi. Moshe fissa il
grosso cazzo dell’amico. - Eppure mi sembravi molto
interessato. L’altra sera non hai smesso di fissarlo neppure un momento. Si accarezza il cazzo, che
acquista rapidamente volume e consistenza. Moshe non riesce a dire
niente. Asher gli dice: - Mettiti a quattro zampe. Le parole scuotono Moshe,
che scuote vigorosamente la testa. - No, non me la sento. No! - Dai, non fare storie. Ne
hai voglia. Farò attenzione a non farti male. - No, Asher, mi spiace. Asher è davanti a lui.
Sorride e gli mette le mani sulle spalle. - Allora succhiamelo. - No, Asher, lasciamo
perdere. Asher scuote la testa, poi
afferra Moshe, lo spinge a terra e gli si mette sopra. Moshe cerca di resistere.
È robusto e riuscirebbe a liberarsi da un altro avversario, ma Asher è un
Ercole. Il suo peso lo schiaccia a terra. Moshe si dibatte, invano. Le dita
umide di Asher preparano la strada. - No! No! Asher gli tappa la bocca e
il suo cazzo preme contro l’apertura, la forza e penetra. Moshe sente il
dolore, violento, che per un momento lo stordisce. Rinuncia a lottare: ormai
è inutile. Asher fotte a lungo e il dolore cresce. Infine Asher geme e viene
dentro di lui. Moshe sente la scarica. Asher esce da lui, si alza e si
pulisce con il telo. Moshe rimane a terra. Chiude gli occhi. - Non avresti dovuto
resistere. Se ti fossi messo a quattro zampe, ti sarebbe piaciuto. Saresti
venuto anche tu. Moshe non risponde. Rimane
a occhi chiusi. Aspetta solo che Asher se ne vada, Non vuole vederlo, non
vuole sentirlo. Asher scuote la testa ed
esce. Moshe aspetta a lungo
prima di alzarsi e uscire: vuole essere sicuro di non incontrare Asher. Moshe torna a casa. La
sofferenza che prova non è solo quella fisica, del culo che gli fa un male
bestiale. Si sente tradito da quello che considerava se non un amico almeno un
alleato. Si sente umiliato da uno stupro che non si aspettava e che non ha
certo provocato. Spera di non rivedere mai più Asher. Gli ha detto che viene
spesso a Salonicco: se gli capiterà di incrociarlo, farà finta di non
vederlo. Non ritorna né alla taverna
dove ha incontrato Asher, né ai due bagni in cui sono stati insieme:
preferisce aspettare alcuni giorni, quando sarà sicuro che sia partito. * Le guardie schiamazzano:
devono aver bevuto parecchio e ormai sono mezzo ubriachi. Hanno alzato la
voce e le loro parole arrivano forti a Moshe. - È stato gentile il
sergente. E dire che mi è sempre sembrato una bestia. Miron ride alle parole di Benedyct. - Fa’ attenzione a come
parli. Se ti sente ti pela vivo. - Non può mica sentirmi: è
all’osteria, quel figlio di puttana, mentre noi siamo qui a guardare ‘sto
prigioniero del cazzo. - Benedyct!
Piantala! Ci ficchi nei guai. - Non c’è nessuno qui.
Quel coglione del prigioniero non glielo va certo a dire. Certamente Moshe non ha
motivo per raccontare al sergente che uno dei suoi soldati gli ha dato della
bestia e del figlio di puttana. A che gli servirebbe? Benedyct rutta, un rutto tanto forte da far
sussultare Moshe. Poi c’è un momento di silenzio. Moshe ripensa ancora al
passato. Rivede la sua vita, gli ultimi anni, il mistero del caffetano nero,
che aveva occupato a lungo i suoi pensieri. Aveva appena compiuto
trentun anni. Si era trasferito da poche settimane. * Moshe ha appena compiuto
trentun anni. Può dirsi fortunato: pur avendo perso tutto, è riuscito a
ricostruirsi una vita e ora è un artigiano stimato, con una bottega che
prospera, e vive serenamente. Si è trasferito da poche
settimane in una casa dello stesso quartiere, più spaziosa e soprattutto più
luminosa, da cui si vede il mare: il piano terreno è occupato dal laboratorio
e dalla bottega, il primo piano è l’abitazione. A parte questo, la sua vita a
Salonicco scorre sempre uguale: il lavoro come sarto, fonte di soddisfazioni
e di buoni guadagni; alcuni amici con cui si ritrova ogni settimana e con cui
può parlare liberamente, anche se ha sempre evitato di raccontare i motivi
che l’hanno spinto a emigrare; le scopate al bagno, che servono a soddisfare
un bisogno. Non ha motivo per
lamentarsi, ma avverte una certa irrequietezza: non è pienamente soddisfatto
della sua vita. Gli sembra che gli manchi qualche cosa. Alla sinagoga che talvolta
frequenta, qualcuno gli chiede perché non si sposa: è un artigiano
benestante, non farebbe fatica a trovare una giovane moglie in grado di
dargli una discendenza. Succede che qualcuno gli proponga una figlia o una
nipote: ragazzine di tredici o quattordici anni. Moshe rifiuta: non ha
intenzione di sposarsi, anche se gli piacerebbe avere figli, cui insegnare il
mestiere. Una mattina di aprile, tre
giorni dopo che ha compiuto gli anni, in bottega si presenta un uomo. Chiede
di parlare in privato con Moshe e quando sono in una stanza dove nessuno può
sentirli, si presenta come un servitore di Ibraham
Bey, un gran signore turco, che tutti conoscono a Salonicco: è il figlio
maggiore del valì, il governatore, e, per ricchezza
e potere, in città è secondo solo al padre. Il servitore gli comunica che lo
accompagnerà immediatamente al palazzo del suo signore. Moshe ha molti
clienti che vengono personalmente in bottega, ma un uomo nella posizione di Ibraham Bey convoca a palazzo gli artigiani cui si
rivolge ed essere chiamati da lui è un onore. Moshe è stupito. È un sarto
molto stimato e a lui si rivolgono ebrei, greci e turchi, ma non ha mai
lavorato per clienti di così alto rango: è vero che molti lo considerano il
miglior sarto della città, ma i clienti più facoltosi si rivolgono a
Costantinopoli. A lasciarlo perplesso sono anche le modalità della
convocazione: non sono certo quelle di un cliente che richiede un artigiano.
Comunque le parole del servitore non lasciano spazio a un rifiuto e
inimicarsi Ibrahim Bey sarebbe follia, per cui Moshe segue il servitore.
Durante il tragitto l’uomo non dice niente e Moshe non chiede: sarà il
padrone a spiegargli che cosa vuole da lui.
Entrano da una porta
laterale e Ibrahim non lo riceve nella sala dove dà udienza, ma in un
salottino. È seduto a terra, tra i cuscini. Moshe s’inchina e, a un cenno di
Ibrahim, si siede di fronte a lui, stupito dell’onore che riceve. Moshe osserva l’uomo che
ha davanti. Deve avere più o meno la sua età. È alto, con un viso non bello,
dai tratti marcati: occhi scuri sotto folte sopracciglia nere; un naso
aquilino, una bocca dalle labbra carnose sotto i baffi spioventi; un mento
squadrato, ricoperto da una fitta barba nera. Ibrahim trasmette
un’impressione di forza e virilità, ma anche di minaccia. - Moshe Silberberg, ascoltami bene, perché la tua vita dipende
dalla tua obbedienza. Moshe si aspettava di
ricevere l’incarico di preparare un abito, non certo di essere minacciato di
morte. Sconcertato, si limita ad annuire. Ibrahim prosegue: - In primo luogo devi
giurare che non riferirai a nessuno ciò che ti dirò e il compito che ti
affiderò. Moshe è sempre più
perplesso: è un sarto, che compito può mai affidargli Ibrahim, richiedendo un
giuramento di segretezza? Non ha molta scelta, per cui dice: - Lo giuro. - Se non manterrai la tua
promessa, la tua morte sarà terribile. Moshe è spaventato e anche
infastidito dal tono di questo signore che lo minaccia senza che lui abbia
fatto nulla, ma evita di darlo a vedere. - Ho una parola sola. Ibrahim lo fissa un buon
momento senza dire nulla, poi annuisce. Da dietro i cuscini estrae un
involto. Apre la stoffa e ne emerge un caffetano nero con ricami in oro. È
chiaramente un abito di gala e il ricamo è un lavoro di grande raffinatezza,
ma è lacerato nella parte superiore. - Devi ripararlo, in modo
che nessuno possa trovare traccia dei danni subiti, neanche esaminandolo con
la massima cura. Moshe esamina con cura
tutto il ricamo. Poi alza la testa e dice: - Posso ripararlo, ma non
sono sicuro di riuscire a cancellare ogni traccia. La voce di Ibrahim è dura:
- Devi farlo. Entro questa
sera. Moshe guarda. Scuote la
testa. - Non so se ce la farò. - Devi farcela. Per la prima volta nella
voce di Ibrahim Moshe avverte una nota di angoscia. Non sa perché quest’uomo
ha bisogno che il caffetano sia riparato, ma non è certo un capriccio.
L’antipatia che prova per lui si attenua. - Ci proverò. - Lavorerai qui. Il
servitore ti accompagnerà a prendere l’occorrente. Ma nessuno deve sapere che
oggi lavori per me. Ibrahim ha deciso e Moshe
sa che può solo obbedire. Passando sempre dalla
porta laterale, Moshe raggiunge la bottega, accompagnato dal servitore che
non si stacca da lui neanche di un passo: Ibrahim vuole essere sicuro che
Moshe non racconti a nessuno dell’incarico ricevuto. Moshe prende tutto quello
che gli serve, informa i lavoranti che oggi non sarà in bottega, dà ordine di
annullare due appuntamenti che aveva e ritorna a palazzo. In una stanza luminosa
Moshe si mette al lavoro. Ci sono due servitori: uno ha chiaramente il
compito di rimanere di guardia, l’altro è a completa disposizione di Moshe,
per soddisfare qualunque suo bisogno. Moshe lavora tutto il giorno,
con la massima attenzione. Rimediare il danno principale è facile, anche se
richiede tempo e cura. Ibrahim entra nella stanza
nel pomeriggio. Moshe gli legge in viso che è preoccupato, anche se si controlla.
Guarda il caffetano, lo prende in mano, lo esamina con cura e sorride. - Sei già alla fine. Moshe scuote il capo. - No. Ci sono alcuni piccoli danni che non
sono immediatamente visibili, ma vanno riparati anche quelli. Gli indica i diversi punti.
Ibrahim osserva con cura e annuisce. - Riuscirai a sistemare
tutto prima che tramonti il sole? - Conto di farcela. Ibrahim sorride. Ha un bel
sorriso, che rende meno duri i tratti del viso. - Grazie. Moshe lavora con la
massima cura. Quando ritiene di aver concluso, esamina attentamente ogni
dettaglio. Neppure un sarto potrebbe accorgersi del lavoro che è stato fatto. Moshe si rivolge al
servitore che fa da guardia. - Puoi avvisare il tuo
padrone che il lavoro è concluso. Il servitore va a chiamare
Ibrahim, che arriva. Anche lui osserva attentamente il caffetano. Quando ha
finito, sorride. - Domani riceverai la tua
ricompensa. Poi il sorriso scompare, mentre aggiunge: - Ma la tua vita dipende
dal tuo silenzio. - Lo so. Moshe non dice altro. È
stanco e vuole andarsene. Il servitore lo accompagna fuori dal palazzo. Torna
a casa, passeggiando lentamente. Il sole sta per tramontare e si sta bene per
le vie di Salonicco. C’è gente che passeggia tranquilla, al termine di una
giornata di lavoro, e c’è un leggero vento, che dà una sensazione di
frescura. Moshe ha lavorato tutto il
giorno senza porsi domande, concentrato unicamente nell’eliminare ogni
traccia del danno subito dal caffetano nero. Adesso però si chiede che cosa
si cela dietro quell’abito danneggiato e la richiesta di ripararlo senza che
nessuno possa accorgersi dell’intervento. A chi appartiene quel caffetano? È
un abito maschile, a giudicare dal colore e dal tipo di ricamo, ma non
appartiene a Ibrahim, per cui sarebbe corto. Qualcuno lo indossava quando è
stato danneggiato, ma non vuole che si sappia. Un uomo sorpreso dal marito di
una donna a cui fa la corte, che è riuscito a fuggire nascondendo il viso? Ma
perché questa necessità di ripararlo con urgenza e in modo tale che nessuno,
a un esame attento, possa capire che è stato danneggiato? E, soprattutto,
perché un uomo potente come Ibrahim, il figlio del valì,
si pone tanti problemi per un caffetano? Chi potrebbe mai minacciarlo? Il giorno seguente in
tarda mattinata ritorna il servitore di Ibrahim. Moshe lo fa accomodare nella
stanza dove si sono visti il mattino precedente. L’uomo s’inchina e gli dà
una borsa, senza dire nulla. Poi si allontana. Moshe apre la borsa e ne
rovescia il contenuto sul tavolo. Le monete d’oro che ne escono gli dicono che
il suo lavoro è stato apprezzato e che tutto è filato liscio. È una somma
davvero notevole. Due giorni dopo una
signora turca, che Moshe non ha mai visto, si presenta nella bottega.
All’apparenza è una donna molto ricca, accompagnata da una serva e due guardie,
che si fermano fuori dalla bottega. Gli mostra un lussuoso caffetano il cui
ricamo è stato danneggiato e gli chiede se è possibile ripararlo. Moshe
guarda la donna e l’abito. È diffidente. Due richieste dello stesso tipo a
pochi giorni di distanza gli sembrano una coincidenza poco probabile. - Non sono stato io a
cucire quest’abito. Dovrebbe rivolgersi a chi l’ha fatto. - Me l’hanno fatto al
Cairo e non posso certo tornare là per farlo riparare. Pago bene, ma non si
deve vedere nulla del danno che ha subito, proprio nulla. Dev’essere come
nuovo, anche se lo si esamina con cura. Moshe osserva bene il
ricamo. Sarebbe possibile riparare anche questo senza lasciare traccia, ma la
richiesta della donna non lo convince. Sospetta che sia una trappola, legata
al lavoro che ha fatto per Ibrahim Bey. - No, non è possibile. Per
me, almeno. Posso ripararlo in modo che guardandolo addosso a lei non si noti
che è stato danneggiato, questo sì, senz’altro. Lei potrebbe indossarlo e
nessuno si accorgerebbe di niente, ma se qualcuno lo esaminasse con cura,
quando lei non ce l’ha addosso, vedrebbe le riparazioni: a un esame attento
qualche traccia non sfuggirebbe, soprattutto all’interno. La donna non sembra
convinta. - È così difficile
ripararlo? - No, non lo è, ma lei mi
chiede di cancellare ogni traccia del danno. Gliel’ho detto: a un esame
attento, si vedrà che è stato riparato. Un sarto se ne accorgerebbe di
sicuro. La donna sembra riflettere
un attimo, poi chiede: - Gliene porto un altro,
che mi dicono essere stato riparato. Non si vede niente. Moshe allarga le braccia. - Le ho detto quello che
posso fare. La donna ritorna nel
pomeriggio con un altro caffetano. Moshe non si stupisce vedendo che si
tratta di quello cui ha lavorato pochi giorni prima. - Vede: questo è stato
riparato e non si vede niente. Moshe esamina con la
massima cura l’abito, dalla parte esterna o poi da quella interna. Poi guarda
la donna e dice: - Lei mi dice che è stato
riparato. Io cucivo nella bottega di mio padre già quando avevo otto anni, ma
non vedo traccia di riparazioni di nessun tipo. E dovrebbero esserci, glielo
dico come sarto. La direzione di un filo, lo spessore di una cucitura,
piccoli dettagli che chi non è del mestiere non può vedere, ma che a un
occhio esperto non sfuggirebbero. - Mi hanno raccontato una
storia? Non è stato riparato? - Per me, no. Ma se le
dicono che era stato danneggiato e qualcuno è riuscito a ripararlo così,
allora si rivolga a quel sarto: forse riuscirà ad aggiustare anche il suo,
senza lasciare la minima traccia. La donna annuisce. Sembra
soddisfatta. - Va bene. Moshe rimane pensieroso.
Qualcuno sospetta che il caffetano nero sia stato riparato. Si sono rivolti a
lui per vedere se era in grado di fare un lavoro del genere, ma quando lui ha
negato di riuscire a farlo, hanno voluto fargli controllare quello riparato
nella speranza che individuasse qualche traccia della riparazione. Su questo
non ha dovuto mentire: ha riesaminato con cura il lavoro fatto e conferma che
è perfetto. Può esserne orgoglioso. Nei giorni seguenti non ha
più occasione di vedere né Ibrahim, né la signora, ma il servitore del Bey
gli porta una seconda borsa di monete. Gli piacerebbe molto sapere che cosa
c’è dietro tutto la faccenda, ma si dice che non lo scoprirà mai. Qualche indizio lo ricava
due mesi dopo, quando ha modo di vedere Ibrahim Bey che sfila a cavallo per
la città con il suo seguito. Il padre è morto e il sultano ha nominato valì Ibrahim Bey. Non è una pratica comune che il figlio
succeda al padre nella carica di governatore, perché una trasmissione
ereditaria finirebbe per sottrarre al controllo della Sublime Porta i
territori dell’Impero, ma Salonicco è vicina a Costantinopoli ed è ben
difficile che la città possa rendersi autonoma. Accanto a Ibrahim Bey c’è
un giovane, che ha forse dieci anni in meno.
Indossa il caffetano che Moshe ha riparato. - Chi è quel giovane
accanto a Ibrahim Bey? - Quello con il caffetano
nero? È Ahmed Bey, il fratello di Ibrahim. - Non sapevo che il valì avesse due figli maschi. Moshe non si è mai posto
il problema di quanti figli potesse avere il valì,
ma è curioso di saperne di più e spera che la sua osservazione spinga il suo
interlocutore a dargli qualche altra informazione. In effetti questi dice: - Un gran bel ragazzo, che
fa strage di cuori tra le donne. Dicono che qualche volta si è anche messo
nei guai per questo. Ibrahim Bey gli è molto affezionato e interviene quando
è necessario. Il valì era molto severo e se avesse
saputo che cosa combinava il figlio minore… Moshe annuisce e dice: - A quell’età, quando si è
così belli e per di più di una grande famiglia, è naturale essere amati e
commettere qualche imprudenza. - Proprio così. Pare che
il giovane Ahmed Bey ne abbia commesse parecchie, ma chi non lo perdonerebbe? - Certo. Difficile non
essere indulgenti con lui. - Sì, lo sarebbero tutti,
ma non suo padre. Dicono… L’uomo si guarda intorno a
abbassa la voce: - Dicono che il valì abbia fatto uccidere la figlia, che era stata
sedotta da un ricco signorotto. Lui è stato strangolato, non si sa da chi.
Lei risulta essere morta di malattia, ma pare che anche lei sia stata uccisa… Tornando a casa Moshe
riflette. Ibrahim ha agito per proteggere il fratello, che probabilmente si
era messo nei guai per qualche donna. Guai grossi, se perfino il figlio del valì rischiava. A meno che il pericolo non venisse dal valì stesso, visto che era così severo. O magari… il
governatore aveva quattro mogli e numerose concubine... Tutto è possibile.
Una cosa sola appare certa: il fratello di Ibrahim correva un grave pericolo
se si fosse scoperto che quel suo caffetano di gala era stato danneggiato. * Le guardie sbadigliano. - Mi sta venendo sonno. - Anche a me. Ma non
possiamo addormentarci. Se il sergente ci trova addormentati… - Il sergente, il
sergente… Sei un cagasotto, Miron. Moshe non ha sonno.
Continua a ripensare alla sua vita, questa vita che è ormai alla conclusione.
Pensa all’incontro che gli ha regalato due anni di felicità, prima di una
morte orribile. È stato l’ultimo grande
cambiamento della sua vita, prima della rovina. Era incominciato per caso.
Uno degli armadi della bottega era in pessime condizioni. Moshe voleva
cambiarlo e procurarsi un secondo banco di lavoro. * Uno degli armadi della
bottega è in pessime condizioni. Moshe vorrebbe cambiarlo e procurarsi un
secondo banco da lavoro. Nella casa a fianco di
quella di Moshe si è stabilito un falegname, un certo Thomas, che è arrivato
in città da pochi mesi. Gliene hanno parlato bene, ma Moshe è restio a
rivolgersi a lui, perché è uno dei frequentatori del bagno pubblico dove si
reca regolarmente e anche lui ogni tanto si apparta con uno dei giovani: non
è un motivo per non affidare da lui il lavoro, ma Moshe ha comunque qualche
resistenza, non saprebbe nemmeno lui spiegare perché. Parla con un altro
falegname, che è impegnato in un grande lavoro per Ibrahim Bey e gli dice che
dovrà attendere a lungo. A questo punto Moshe decide che è meglio provare a
chiedere al vicino. Entra nella sua bottega
verso sera, quando ormai si avvicina il momento della chiusura. Thomas è un
uomo alto e molto robusto. Moshe non ha mai avuto occasione di parlargli fino
a ora e, essendo riservato di natura e poco curioso dei fatti altrui, non sa
nulla della sua vita privata, a parte il fatto che gli piacciono i ragazzi e
scopa al bagno. Saluta e si presenta: - Sono Moshe Silberberg e faccio il sarto, nella bottega qui a fianco. - Buona sera. Ti ho visto
molte volte, ma non abbiamo mai avuto occasione di parlarci. Io sono Tomasz Kowalski, ma qui mi
chiamano Thomas. Faccio il falegname, ma questo lo sai già. Moshe si stupisce di
sentire che il suo interlocutore ha un cognome polacco. È abbastanza insolito
che un polacco viva nell’Impero Turco, in una città greca i cui abitanti sono
per oltre la metà ebrei di origine spagnola.
- Sei anche tu polacco? - Sì. Lo sei pure tu? Il
tuo cognome non è polacco. Moshe passa al polacco per
rispondere: - No, è un cognome
ebraico, ma vivevo anch’io in Polonia. Si pente di averlo detto: non
ha voglia di spiegare perché se n’è andato dalla Polonia. Tomasz
non chiede. Moshe spiega perché è
venuto. Tomasz ascolta. Non può passare subito da
Moshe, per cui si mettono d’accordo che verrà l’indomani nel tardo pomeriggio
a vedere il lavoro da fare e prendere le misure. Tomasz si presenta verso le sei, come
concordato, con due bambini sugli otto-nove anni. Moshe li guarda, stupito e Tomasz gli spiega: - Sono i miei figli.
Quando posso, li porto in giro con me: io sono tutto il giorno al lavoro e loro
sono troppo piccoli per stare a lungo in bottega. Ma sanno stare al loro
posto. In effetti i due bambini
curiosano nella bottega senza toccare nulla e non disturbano il padre, che
prende le misure e discute con Moshe del lavoro da fare. Il prezzo concordato
sembra onesto. Tomasz non è oberato di lavoro,
anche se, per essere arrivato in città da pochi mesi, è già piuttosto
impegnato. I nuovi mobili vengono consegnati nei tempi pattuiti e Moshe è
perfettamente soddisfatto. Due giorni dopo la
consegna Moshe si trova nel bagno turco quando arriva Tomasz.
Si sono già incontrati diverse altre volte da quando si sono conosciuti, ma
si sono sempre limitati a scambiarsi un cenno di saluto. Moshe è sicuro che Tomasz ha notato che anche lui ogni tanto si apparta con
qualche giovane. Tomasz si avvicina a Moshe. - Posso sedermi vicino a
te? - Certo. - I mobili vanno bene? - Perfetti. Hai fatto un
ottimo lavoro. - Bene, mi fa piacere
sentirmelo dire. - Mi avevano parlato molto
bene di te e avevano ragione. - Anche di te parlano
bene. Pare che tu sia considerato il miglior sarto della città. - Non so se è vero, ma per
me è una buona cosa che i clienti lo pensino e lo dicano in giro. - Certo! Chiacchierano un momento
della vita a Salonicco. Tomasz ha incominciato ad
ambientarsi, ma conosce ancora poco la città, per cui pone domande. Moshe
risponde volentieri. Nessuno dei due parla del proprio passato, del motivo
per cui ha lasciato il proprio paese. È una conversazione cordiale, ma poco
personale. Dopo un po’, Tomasz dice: - Adesso mi vado a sedere
da un’altra parte: Markos continua a guardare da
questa parte e aspetta solo che io me ne vada per avvicinarsi a te. Moshe non sa bene che cosa
dire. Ha notato anche lui che Markos, un giovane
con cui scopa spesso, lo sta fissando. Negare sarebbe assurdo, ma la
situazione lo mette un po’ a disagio. - Non è necessario. Tomasz ride: - Lo è, lo è. Una buona
scopata fa sempre piacere. Tomasz si alza e si allontana. Come ha
previsto, Markos si avvicina subito. Moshe si alza e
si dirigono verso una delle salette. Entrando Moshe si volta e vede Tomasz seduto, che gli strizza un occhio. Quando Moshe e Markos escono dalla stanza, Tomasz
non c’è, ma dopo un po’ Moshe lo vede uscire da un’altra stanza, in compagnia
di Daniel, un altro giovane. Daniel se ne va per conto proprio e Tomasz si avvicina a Moshe. - Ti va bene se mi siedo
ancora un momento vicino a te o preferisci… Moshe non lo lascia
finire: - Ma certo. Tomasz si siede e dice: - Questo bagno è una delle
cose che apprezzo di più a Salonicco. Atmosfera tranquilla, pulizia, bei
maschi disponibili. Un piccolo paradiso. Non ci sono posti del genere in
Polonia. - No, è vero. Tomasz e Moshe si siedono spesso vicino nel
bagno, prima o dopo aver scopato con qualche giovane. Chiacchierano
volentieri e presto il loro rapporto diventa più personale. Parlano anche del
loro passato, ma nessuno dei due chiede all’altro perché ha lasciato la
Polonia. Finché un giorno Tomasz incomincia a
raccontare. - Già da ragazzo avevo
capito che gli uomini mi piacevano più delle donne, ma dovevo nasconderlo.
Cercavo di essere molto prudente, perciò avevo di rado l’occasione di scopare
con qualche ragazzo della mia età o con qualche adulto. I miei genitori non
ne sapevano niente e naturalmente volevano che mi sposassi. Avevano scelto
Helena, una vedova che aveva alcuni anni in più di me ed era benestante. Io
obbedii: che cos’altro avrei potuto fare? Con mia moglie stavo bene, era una
brava donna. Finché lei fu viva, mi capitò solo di rado di avere rapporti con
altri uomini. Quando lo facevo mi sentivo in colpa, ma… era così bello!
Nacquero Stanislaw e Michal,
ma poco dopo la nascita di Michal, Helena si ammalò
e morì. Io rifiutai di risposarmi. Tomasz si ferma. Moshe non dice niente. Ascolta
volentieri il racconto dell’amico e non vuole interromperlo. - Non avendo più moglie,
il desiderio mi tormentava. Incominciai una relazione con uno dei garzoni
della mia bottega. Eravamo molto prudenti, ma qualcuno in paese cominciò a
sparlare. Fu allora che arrivò la peste. Morirono i miei genitori, morì Andrzej, il garzone, e il parroco mi accusò velatamente
di essere il responsabile dell’epidemia. Morì anche lui di peste, ma ormai la
voce circolava, la situazione divenne pesante e temevo che anche i miei figli
ne patissero le conseguenze. Decisi di trasferirmi, ma non è che da altre
parti in Polonia mi sarebbe andata meglio. - No, temo proprio di no. - Due miei cugini sono
mercanti. Sono molto aperti di idee e sopportano poco la razza dei preti.
Parlai con loro, dicendo che avevo voglia di cambiare aria. Furono loro a
suggerirmi di trasferirmi in territorio turco: vengono spesso a Salonicco e a
Costantinopoli, hanno legami commerciali e diverse conoscenze, grazie alle
quali ho potuto stabilirmi qui. All’inizio l’idea mi spaventava, ma in
Polonia ormai l’aria era irrespirabile. Parlano ancora un momento
del trasferimento di Tomasz, del suo viaggio e dei
suoi figli, che si stanno adattando alla nuova realtà. Quando hanno esaurito
l’argomento, Moshe si dice che ora toccherebbe a lui raccontare la sua
storia, ma non se la sente. Tomasz capisce. Gli
mette una mano sulla sua e gli dice: - Non devi raccontarmi
niente, Moshe. Avevo piacere che tu sapessi la mia storia. Mi sono
affezionato a te. Ma questo non significa che tu debba raccontarmi la tua. - Grazie, Tomasz. Il loro rapporto diventa
più stretto. La sera, soprattutto nella bella stagione, passeggiano con i
bambini, che si affezionano rapidamente a Moshe. Qualche volta fanno
un’escursione lungo la costa, a piedi o in battello, o nell’interno. Sempre
più spesso si ritrovano la sera a casa dell’uno o dell’altro e quella di
trascorrere le serate insieme diventa un’abitudine. Moshe sente che con Tomasz può parlare di tutto e si confida volentieri con
lui. Non gli ha raccontato i motivi per cui è fuggito dalla Polonia, ma sa
che prima o poi lo farà. Moshe si rende conto di
essere attratto da Tomasz, ma è proprio l’affetto
profondo che nutre per lui a impedirgli di manifestare il suo desiderio: non
vuole mettere a rischio quest’amicizia perfetta, questa fratellanza che ha
sempre desiderato e raggiunto solo ora. Una sera, a casa di Tomasz, dopo che questi ha messo a letto i bambini,
chiacchierano un buon momento. Poi c’è un momento di silenzio, che si
prolunga, fino a che Tomasz dice, con una voce
roca: - Mi piaci molto, Moshe.
Non hai voglia che proviamo a fare qualche cosa, tu ed io? Moshe guarda Tomasz. Anche lui lo desidera, ma il ricordo
dell’esperienza con Asher lo fa esitare. Cogliendo la sua
incertezza, Tomasz dice: - Non ti preoccupare,
Moshe. Credo di essermi innamorato di te, non posso negarlo, e ti desidero,
ma non voglio rovinare la nostra amicizia. Moshe guarda Tomasz. Gli sorride e dice: - Tengo molto a te. Non so
se è innamorarsi o no, forse sì. So che anch’io ti desidero, ma ho paura. Ho
avuto una brutta esperienza e non vorrei ripeterla. Moshe si rende conto che Tomasz non è Asher e che non finirà nello stesso modo, ma
ha ugualmente paura. - Non dovevo parlartene.
Ma… quando sono arrivato qua, poter scopare con un uomo più o meno ogni volta
che ne avevo voglia mi sembrava bellissimo. Anche adesso mi sembra bello,
figuriamoci, ma… da quando ti ho conosciuto… penso che farlo con te sarebbe
un’altra cosa. Scusa, lasciamo perdere. Moshe guarda Tomasz. - No, proviamo, ma… non
farmi male. - Farti male? Piuttosto mi
ammazzo, Moshe. Moshe lo guarda. Sa che Tomasz non mente. Non vuole fargli male. Non gli farà
male. Fa un cenno di assenso. Tomasz lo prende per
mano e lo conduce nella camera da letto. Quando sono dentro, chiude la porta
e lo bacia, con molta delicatezza. Lentamente lo spoglia, interrompendosi per
lasciare che Moshe faccia lo stesso con lui. Presto si ritrovano
entrambi nudi. Si baciano ancora, poi Tomasz
stringe Moshe tra le braccia. - Vorrei stare per sempre
così. - È bello. Dopo un altro bacio Tomasz scivola in ginocchio. Prende in bocca il cazzo di
Moshe, che già si è riempito di sangue, e incomincia a succhiarlo. Moshe
chiude gli occhi e accarezza i capelli di Tomasz. Le mani di Tomasz stringono il culo di Moshe, salgono ad
accarezzargli la schiena, scendono e un dito percorre il solco tra le
natiche, fino ad arrivare dietro i coglioni. Tomasz si stacca. Guarda Moshe in faccia e gli
dice, pianissimo: - Ti amo. Poi abbassa gli occhi,
vergognandosi della sua confessione. Moshe mormora: - Anch’io. Tomasz sorride, alza nuovamente lo sguardo e
dice: - Vuoi prendermi, Moshe?
Di rado mi sono offerto, ma vorrei che tu mi prendessi. Vorrei essere tuo. Moshe annuisce. Desidera
possedere Tomasz, un desiderio di cui non era
pienamente cosciente, ma che ora scopre fortissimo. Tomasz
si appoggia con il petto su un cuscino che ha messo sopra il letto. Moshe gli
accarezza la schiena, indugia sul culo. Desidera prendere possesso di Tomasz e poi, ora lo sa, lasciare che sia Tomasz a prendere possesso di lui. Loro due si
appartengono. Moshe si stende su Tomasz, lo abbraccia, lo bacia sul collo, gli mordicchia
il lobo di un orecchio, mentre le sue mani percorrono con carezze lievi
questo corpo che gli si offre. Gli mordicchia il culo, più volte, poi passa
la lingua lungo il solco. Tomasz geme. Moshe inumidisce ancora
con la lingua, poi si stende nuovamente su Tomasz e
lentamente affonda il cazzo dentro di lui. Ciò che prova è fortissimo. L’uomo
che sta possedendo non è uno dei tanti che gli si offrono, è l’uomo che ama,
l’uomo che ora gli appartiene, cui vuole appartenere. Moshe cavalca a lungo,
lentamente, finché il desiderio non lo sprona ad accelerare e con una rapida
successione di spinte vigorose, viene dentro Tomasz.
- Com’è stato, Tomasz? - È stato bellissimo, Moshe. Lo
desideravo con tutto me stesso. - Ora mi prendi tu, Tomasz. - Non è necessario. Se non te la senti… - Lo desidero. Voglio essere tuo. Moshe si alza. Tomasz lo imita. Lo abbraccia. Si baciano ancora, poi Moshe
si mette sul letto. Tomasz lo accarezza a lungo,
gli mordicchia il culo, lo bacia. Prepara con cura l’ingresso, che non è
doloroso. E mentre Tomasz lo possiede, Moshe pensa
che è bellissimo sentire il cazzo di Tomasz dentro
di lui. Due anni trascorrono.
Moshe, Tomasz e i bambini costituiscono una
famiglia felice, dove tutti sono legati da sentimenti profondi. Stanislaw e Michal chiamano
Moshe “zio” e stanno bene insieme a lui. Michal
vorrebbe diventare sarto e Moshe incomincia a insegnargli il lavoro. Moshe non può desiderare
altro. I giorni scorrono sereni, fino a che arriva una lettera di Szymon. Si scrivono due volte l’anno, dandosi notizie. La
lettera è più lunga del solito e arriva appena un mese dopo la precedente.
Moshe è stupito. Nella prima parte della
lettera Szymon parla della famiglia. Stanno tutti
bene, i bambini crescono sani e c’è un quinto figlio in arrivo: nulla di
nuovo rispetto alla lettera precedente. È la seconda parte della missiva
quella che conta, anche se sembra una semplice curiosità. Non
ci sono grandi novità da queste parti. L’argomento di cui tutti parlano è la
cattura di uno degli assassini del conte Krasulowski.
Non so se ti ricordi della faccenda: il conte fu ucciso diversi anni fa e i
sospettati erano due uomini di Bircza, Asher Smetankas e Moshe Maslovat. Smetankas è stato catturato e ha confessato, dicendo che
il conte era stato ucciso da Maslovat e che lui si
era limitato ad accompagnare l’assassino, senza conoscerne le intenzioni.
Pare anche che sia a conoscenza della residenza di Maslovat,
che vivrebbe a Salonicco, forse sotto falso nome: questo mi ha stupito e ho
pensato che magari lo conosci. Il re è intenzionato a ottenere la testa di
questo assassino. Sai che lo zio del conte è consigliere del re e vuole a
ogni costo avere vendetta. In questo momento il re e il sultano sono in buoni
rapporti, perché hanno nell’Austria un nemico comune, e forse il re riuscirà
o ottenere ciò che vuole. Moshe si accorge che le
mani gli tremano mentre legge la lettera. Szymon ha
trovato il modo di metterlo in guardia, evitando per prudenza di rivelare per
scritto la sua identità. Adesso però la sua vita è in pericolo. Asher l’ha
tradito, per salvarsi o, piuttosto, per ottenere una morte meno dolorosa. La sera Tomasz si accorge subito che Moshe è sconvolto. Non dice
niente perché ci sono i bambini, ma dopo averli messi a letto chiede: - Che cosa ti è successo,
Moshe? Moshe racconta tutto:
l’arresto, la fuga, gli anni da Szymon e la
lettera. Quando ha finito si chiede
perché non ha parlato prima. Guarda l’uomo che ama e gli dice: - Scusami se non te ne ho
mai parlato. Non ne ho mai parlato con nessuno. A te avrei dovuto dirlo. - Non ti preoccupare per
questo. Pensiamo a che cosa puoi fare. - Dovrei fuggire. Fuggire
e ricominciare da capo in Austria o da qualche altra parte. - Verrò con te, Moshe. Moshe guarda Thomas e gli
occhi gli si riempiono di lacrime. Non piange da molti anni, ma le parole di
Thomas, in questo momento, hanno rotto ogni freno. - Lasciare tutto… perdere
quello che hai costruito in questi anni… - Non posso perdere te. E
anche per i bambini sarebbe terribile. Per loro sei un secondo padre, lo sai. - Non voglio che tu
rinunci a tutto. - Non sono disposto a rinunciare
a quello che per me conta più di tutto. Tu e i bambini siete la mia vita. - Grazie, Tomasz. - Non c’è tempo da
perdere. Moshe. Bisogna che tu parta in fretta. Discutono a lungo su come
fare. Tomasz raggiungerà Moshe in seguito, dopo
aver sistemato gli affari di entrambi a Salonicco. Moshe non deve perdere
tempo. Il tempo non c’è.
L’indomani mattina sei soldati si presentano nella bottega di Moshe, con
l’ordine di condurlo dal valì. Ibrahim Bey lo riceve
nella sala delle udienze. - Il sultano mi ha dato
ordine di catturare un sarto polacco che si nasconde a Salonicco sotto falso
nome. Quel sarto sei tu, Moshe Maslovat. Moshe china la testa.
Asher non conosceva il suo falso nome, ma le indicazioni che ha fornito sono
state sufficienti a identificarlo. Ibrahim prosegue: - Devo portarti alla
frontiera con la Polonia e consegnarti alle guardie polacche. Sei accusato di
aver ucciso un conte. E prima di lui di aver partecipato all’uccisione
rituale di alcuni bambini. Moshe sa di essere
perduto. Nulla di ciò che può dire potrà indurre Ibrahim Bey a trasgredire
agli ordini del sultano. Ma vuole dire la sua verità: - Non ho mai ucciso
nessuno, eccellenza. Al conte Krasulowski piacevano
i bambini, li faceva rapire e poi li eliminava. Per mettere a tacere le voci
che circolavano accusò alcuni ebrei. Io riuscii a sottrarmi alla cattura e mi
nascosi in Polonia, fino a che venni qua. Quando il conte venne ucciso, mi
trovavo in un altro paese, molto lontano, dove mi ero nascosto. Ibrahim Bey lo guarda.
Annuisce. - Ti credo, Moshe. Non mi
sembri un assassino. Purtroppo io ho le mani legate: non posso disobbedire a
un ordine del sultano, né lasciarti scappare. Ti consegnerò. Intanto vedrò
che cosa posso fare per te. Moshe viene condotto in
una cella. È un locale ampio e ben arredato, riservato evidentemente a
prigionieri di alto rango. Moshe ottiene di poter
dire addio a Tomasz e ai bambini. Tomasz è annichilito. Non ha detto ai bambini che Moshe
va alla morte, ma entrambi colgono l’angoscia dei loro due padri. La separazione
è straziante per tutti. Il viaggio fino ai confini
tra la Moldavia e la Polonia è lungo, ma non è disagevole. Moshe è
sorvegliato strettamente, ma è trattato con ogni riguardo. Dal momento in cui
viene consegnato ai soldati polacchi, diventa un animale condotto al macello.
Dal confino a Leopoli il viaggio è un inferno. Eppure Moshe vorrebbe che
durasse più a lungo, perché quello che lo attende a Leopoli è molto peggio. * Le guardie sono sempre più
assonnate. - Ho bevuto troppo. Non ce
la faccio proprio a stare sveglio. Mi si chiudono gli occhi. - Anche a me. Merda… non è
che… Mentre la testa ciondola, Benedyct fa ancora in tempo a dire: - Cazzo c’era nel vino? Moshe non bada alle parole
delle guardie. Il pensiero di ciò che lo attende lo fa tremare. Si accorge di
avere le lacrime agli occhi. Cerca di calmarsi, ma non gli è possibile. Qualche minuto dopo la
porta della cella si spalanca. Moshe pensa che siano le guardie, ma si
accorge che sono uomini avvolti in mantelli. Uno di loro ha una lanterna. Un altro si china su di
lui e gli chiede: - Puoi camminare Moshe? Moshe riconosce la voce e
gli sembra che gli manchi il respiro. Non può essere, non è possibile che Tomasz sia davanti a lui. Si alza e dice: - Sì. Due altri uomini tagliano
le corde che lo legano. - Spogliati, Moshe. Moshe si vergogna, perché
sa di essere sporco, ma non è certo il momento per farsi problemi o chiedere
spiegazioni. Gli danno scarpe e pantaloni e lo coprono con un mantello.
Raggiungono la porta, controllano che non ci sia nessuno nella strada ed
escono. Percorrono due vie ed entrano in una casa poco distante. Tomasz e Moshe passano in una stanza, in cui
c’è una tinozza, accanto al camino. Tomasz si
toglie il mantello e dice: - Ho fatto preparare un
bagno caldo, perché credo che tu abbia voglia di lavarti. Moshe annuisce. Guarda
l’uomo che ama e gli sembra impossibile che sia lì, davanti a lui. - Dimmi che non è un
sogno, Tomasz. O, se è un sogno, dimmi che non mi sveglierò. Tomasz sorride, gli si avvicina, gli prende la
testa tra le mani, lo bacia e dice: - Non è un sogno, è tutto
vero. Moshe chiude gli occhi,
poi li riapre. Entra nella vasca e il tepore dell’acqua è una carezza che lo
avvolge. Guarda Tomasz seduto accanto a lui e
chiede: - Come è possibile? Tomasz sorride. - Ibrahim Bey voleva
salvarti, ma non poteva non consegnarti: il sultano lo avrebbe fatto
impalare. Mi ha mandato qui con un gruppo di uomini di sua fiducia, ma non
soldati al suo servizio: se qualche cosa fosse andato storto, lui non sarebbe
stato coinvolto. Il responsabile sarei stato io, che avevo assoldato degli
uomini a Salonicco per salvarti. - Hai rischiato la vita. - Tu non avresti fatto
altrettanto? Moshe scuote la testa. Tomasz riprende. - Risulto essere un ricco
signore turco che viaggia con la sua scorta. Siamo arrivati due giorni fa,
abbiamo affittato la casa per quindici giorni e preparato il piano. Parecchie
monete d’oro, un po’ di oppiacei nel vino e… non è stato troppo difficile. Adesso
uno dei miei uomini, se così posso chiamarli, sta allontanandosi con i tuoi
abiti. Se useranno i cani e troveranno le tracce, penseranno che tu ti sia
diretto a sud-ovest, verso l’Austria. Tra qualche ora sarà raggiunto da un
altro del mio seguito e domani torneranno qui a cavallo. Quando Moshe si è lavato e
ha indossato una camicia da notte, si mettono a dormire. - Abbracciami, Tomasz. Ho bisogno di dormire tra le tue braccia. - Anch’io ne ho bisogno, Moshe.
Sono stati giorni angosciosi. Temevo che qualche cosa potesse non funzionare.
Ma ora sei qui. A Moshe sembra ancora
incredibile, ma è vero. Il mattino quando si sveglia i ricordi riaffiorano,
ma le braccia che lo stringono gli dicono che l’incubo è finito. Due settimane dopo la sua
liberazione, Moshe e Tomasz ripartono verso
Salonicco. Moshe è vestito come le altre guardie che accompagnano il ricco
signore turco. Senza barba, con i capelli tagliati molto corti e la divisa
addosso, nessuno potrebbe riconoscere in questo bel cavaliere turco il
prigioniero scomparso la notte del suo arrivo e ricercato in tutta la
Polonia. A Salonicco Moshe riprende
la sua vita: nessuno in Polonia pensa che lui possa essere ritornato tra i
Turchi, che lo hanno consegnato. Qualche tempo dopo Szymon,
cui ha scritto, gli fa sapere che Asher è stato giustiziato. Poco dopo il suo arrivo
chiede udienza a Ibrahim Bey: vuole ringraziarlo. Il valì
si limita a dire: - Tu mi hai permesso di
salvare la vita di una persona a me cara, Moshe. Io ho salvato la tua. Altro Ibrahim non dice e
Moshe non può certo chiedere. Il caffetano nero è stato la sua salvezza. 2024 |