Lo specchio rotto
Qualcuno mi accusa di essere un asociale. Io sono un solitario. Ma non
sono sempre stato così. Prima di diventarlo,
conducevo una vita più o meno normale, anche se oggi dichiarare normale
una qualsiasi cosa mi fa sorridere.
Sono stato un ragazzino
semplice, moderatamente allegro, a volte entusiasta senza troppa convinzione,
sempre sull'orlo di timori imprecisati. I miei entusiasmi più spinti erano seguiti
invariabilmente dalle più profonde e crudeli delusioni. Non c'è niente di più
doloroso che cadere da grandi altezze. Quindi
ero diventato un adolescente prudente. Osservavo tutto con molta attenzione
prima di decidere se una cosa era buona o no per me. Osservavo soprattutto le
esperienze degli altri miei coetanei prima di tuffarmici
io stesso, e, molto spesso, solo per decidere che potevo farne a meno. Che il
fuoco bruci la carne riducendola a un ammasso nauseante lo potevo capire
anche senza accenderlo sulla mia pelle. Già allora qualcuno dei miei amici mi
guardava sospettoso, chiamandomi vigliacco. Ma io ero deciso a restare
integro. Non mi piaceva l'idea di farmi male.
Ero arrivato a vent'anni
senza molti amici, lo zoccolo duro di alcuni vecchi compagni di scuola, un
paio di nuovi conoscenti dell'università, che non potevo davvero chiamare
amici, perché mi conoscevano superficialmente, né io ci tenevo a farmi
conoscere in profondità. Nel frattempo ero diventato geloso di me stesso, dei
miei pensieri, dei miei tiepidi sentimenti verso il resto del mondo. Tutto mi
sembrava già deciso, delineato chiaramente nel mio stesso genoma, quello che
ero, quello che sarei diventato, con o senza la mia volontà, con o senza le
mie decisioni. Ero fatalista, e il mondo mi sembrava correre per suo conto su
un binario lontano e diverso dal mio.
Eppure dentro di me tutto
ribolliva. Soffocare i miei istinti era sempre più difficile. La repressione dei miei più reconditi
sentimenti mi stava rendendo depresso, sempre più silenzioso, sempre più
distante. Immergersi nello studio per non pensare a nulla, per dimenticarmi,
mi fruttò buoni voti agli esami e mi portò alla laurea entro i tempi
previsti. Ma come per incanto, subito dopo, mi svegliai, rendendomi conto che
quei pochi amici, che avevo quasi smesso di frequentare, non ne volevano più
sapere di me, mi ritenevano superbo, mi rimproveravano di avere la puzza
sotto il naso. In realtà una puzza la sentivo davvero, puzza di umanità che
si stava animalizzando, che stava regredendo senza
sosta verso una sorta di bestialità bassa e violenta, e chiamava questa cosa
normalità. La normalità e le sue declinazioni mi hanno sempre ossessionato,
fin da quando mi stupivo da bambino delle reazioni sorprendenti dei miei
genitori davanti ai miei disegni, o di fronte alle cose che raccontavo
inventandomi storie con personaggi dei cartoni animati che trasformavo in
miei amici. Dicevo che vivevano stabilmente nella mia cameretta, dentro il
muro. Raccontavo che ne uscivano soltanto di notte, quando non c'era nessuno
in giro per casa. Fu in una di quelle occasioni che mio padre parlò di
normalità, discutendo con mia madre. Lei sosteneva che possedevo una fantasia
normale, per un bambino della mia età. Lui non era d'accordo. Solo in seguito
mi fu chiaro che lui riteneva la mia fantasia straordinaria, assegnandole un
valore positivo, mentre io m'ero rattristato e come rattrappito, avendo
creduto che mio padre non mi ritenesse normale. Però ormai era troppo tardi
per bloccare il terremoto che ne era scaturito e i cui tremori sento a volte
ancora adesso, benché sappia benissimo che mi sono aggiustato un senso di
normalità addosso come un bell'abito di sartoria. Dopo essermi conquistato il
senso del diritto di esistere così com'ero, mi ero anche concesso il lusso di
ritenermi perfettamente aderente ai canoni della normalità. La mia normalità.
Ero giunto a questo punto
dopo un lungo e penoso lavorio. Dopo la laurea, ritrovarmi praticamente solo
mi aveva dapprima spiazzato, poi angosciato. Sentivo il bisogno di tornare a
me stesso, d'interrogarmi su ciò che volevo fare, di capire che cosa fossi
diventato, chi ero o meglio chi volevo essere. Mi ero tanto dato la pena di
scansarmi da me stesso, che non sapevo nemmeno come ritrovarmi e se poi fosse
davvero necessario. Quel ribollire in sordina mi restò sempre dentro, finché
non trovò sfogo nei problemi più impellenti. Trovare un lavoro, stabilire
delle priorità nella mia vita, lasciare la casa dei miei genitori per essere
finalmente indipendente. Trovare l'amore. E proprio su quest'ultimo
desiderio, quasi mai espresso dentro di me con un minimo di onestà, il mio
ribollire trovava la sua massima espressione. Lì urtavo contro lo scoglio più
duro, contro la barriera più alta. Un desiderio inconfessato che mi perseguitava
da anni. Era giunto il momento di essere sincero con me stesso, di
incontrarmi, di conoscermi. Era giunto il momento di far emergere dal mio
ribollire il volto e il corpo che avevo sempre evitato di riportare alla
mente, di restituirgli un nome.
Un giorno in cui smaniavo
particolarmente di uscire dal mio vacuo torpore, di abbandonarmi finalmente
alla libertà dalle mie catene – catene che avevo forgiato e mi ero imposto io
stesso – quel volto e quel corpo riacquistarono un nome, sulla scia di un ricordo
che avevo cacciato tanto in profondità nel mio buio, che quando venne fuori
fu come una sorpresa. Silvano.
Silvano era stato il mio
compagno di banco al ginnasio. Di lui ricordavo perfettamente l'odore, il
colore della pelle, la sua grana sottile, le sue labbra sempre umide,
vermiglie, i capelli nerissimi e ondulati, con un ciuffo ribelle che tendeva
a cadergli sugli occhi con inesorabile frequenza e che lui spazzava via con
un gesto automatico della mano, come si scaccia una mosca, con noncuranza; azione
che era diventata quasi un tic, tanto che una volta che sua madre gli aveva
fatto tagliare i capelli quasi a zero, lui ogni tanto insisteva in quel
gesto, spazzando via il fantasma di un ciuffo che non c'era.
Quanto mi attraeva ancora
quel gesto, nel ricordo. Quanto avrei desiderato rivederlo, dopo tanti anni.
Silvano era un bravissimo calciatore che aveva inventato un gioco nuovo. Lo
chiamava controcalcio. Due squadre si confrontavano
come nel calcetto, ma i portieri anziché parare i goal della squadra nemica,
dovevano accogliere quelli della propria, agevolandoli in ogni modo, mentre
l'intera squadra avversaria tentava d'impedirlo. Si finiva la partita con
punteggi da pallacanestro. Era incredibilmente divertente. Fu quella l'unica
volta che mi dedicai a uno sport di squadra, soprattutto per stare vicino a
lui. Eravamo diventati inseparabili. Studiavamo insieme, mangiavamo insieme,
qualche volta a casa sua, spesso a casa mia. Leggevamo insieme romanzi
gialli, gareggiando a chi riusciva prima a scovare l'assassino. Ci separavamo
solo per dormire, ognuno nella sua stanza, a poco meno di un chilometro di
distanza l'uno dall'altro. Ero felice, di una felicità che non aveva il
coraggio di confessarsi a se stessa. Come per gli entusiasmi dell'infanzia
temevo probabilmente che tutta quella gioia si tramutasse in delusione, in
tradimento, in sofferenza. Ciò infine accadde, ma non per colpa sua, e
nemmeno mia. Quell'estate, mentre facevamo progetti sul futuro, sul liceo che
avremmo frequentato insieme, sul campionato di controcalcio
che avremmo organizzato, su quale film andare a vedere al cinema quella
domenica, una tegola ci cadde improvvisamente sulla testa. Suo padre fu
trasferito a Londra per lavoro. Dovevano traslocare subito, entro la fine di
luglio. Eravamo alla fine di giugno, la scuola appena finita, le vacanze al
mare appena programmate, il futuro un nebuloso accumulo di incertezze.
Trascorremmo gli ultimi
giorni insieme senza lasciarci un attimo. Silvano venne a dormire da me,
mentre i suoi erano felici che fosse fuori dai piedi intanto che loro
organizzavano in fretta e furia lo smantellamento del loro appartamento.
L'ultima settimana si trasferirono a dormire dai nonni, perché la casa era
ormai vuota e avevano restituito le chiavi al proprietario. Silvano restò da
me fino alla fine, fino all'ultimo giorno. Passavamo la notte a
chiacchierare. Io gli confessai che senza di lui mi sarei sentito perso, lui
rispose facendomi eco. Eravamo felici di stare insieme, ma eravamo anche
tristi di doverci separare. Il tempo però era diverso da come lo vedo adesso.
Non lo sentivamo scorrerci tra le dita, sfuggirci inesorabilmente. Era come
un eterno presente, che poteva anche durare illimitatamente. Naturalmente
invece finì.
Accadde proprio l'ultima
notte. Successe e basta, senza premeditazione, con la naturalezza degli
eventi inevitabili. Fu la notte più emozionante della mia vita, la più
splendente, la più folgorante e insieme la più esaltante. Sentii
distintamente che Silvano e io ci trasformavamo in un unico essere perfetto,
che non aveva più mezze misure, né debolezze, né mezze identità. La
completezza che mi riconobbi dentro fu il sentimento più intenso che abbia
mai provato. Era un'entità a se stante che sarebbe riduttivo limitare con la
definizione di amore.
Dopo la partenza di
Silvano provai la sensazione di essere stato menomato. Caddi in una profonda
depressione, che mi guardai bene dal mostrare agli altri, soprattutto ai miei
genitori. Ero infelice come mai lo ero stato. Vedevo il mondo nero, la vita
come se fosse morte, anzi, in alcuni fuggenti attimi la morte mi attirava,
desideravo lo splendido oblio che mi avrebbe consentito di dormire per
sempre, senza sogni, senza dolore. È strano come il vero dolore si conosca
prima di essere pronti per la vita.
Silvano e io ci scrivemmo
lunghe mail per un anno, tutti i giorni. Poi, non so come accadde, diradammo
fino a smettere del tutto un paio d'anni dopo. In terza liceo avevo messo il
suo ricordo nella buia cantina della mia mente sempre più silenziosa. E mi
ero scordato anche di me, come se avessi deciso che meritavo una punizione.
Poiché Silvano era sparito, anch'io meritavo di sparire.
Il mio ribollire fece
dunque riemergere Silvano e mi rotolò nuovamente nei miei dubbi angosciosi
sulla normalità, di quando ero bambino. Ma ormai avevo gli strumenti per
oppormi a quell'angoscia, pur possedendo uno scarso senso di me. Lottai a
lungo con l'immagine che volevo offrire al mondo. Ma mi resi conto presto che
al mondo non interessavo minimamente, che potevo fare o essere come mi
pareva. E cominciai a cercare un lavoro, uno qualsiasi, perché in quel
momento di crisi non volevo essere troppo selettivo, non pretendevo di
trovare occupazione nel mio campo. Mio padre non era molto d'accordo,
naturalmente. Pretendeva che io trovassi un lavoro adeguato, nonostante la
crisi. Alla fine dovetti cedergli, lavorando nello studio legale di cui era
socio, per quattro soldi, giusto un rimborso spese, per cominciare a farmi le
ossa, così come altri due giovani appena laureati, Manuela e Vincenzo.
Non tentai mai di far
amicizia con loro. Mantenevo sempre le distanze, com'era mia abitudine. Non
mi ero mai fidato di nessuno al primo impatto e mi ero sempre trovato bene.
Non giudicavo nessuno. Volevo solo capire meglio con chi avessi a che fare,
prima di concedermi a un'amicizia. Eravamo sulla stessa barca, questo sì,
avevamo più o meno la stessa età, eravamo complici e solidali, ma non
andavamo oltre, anche se a volte, liberi per un attimo dalle nostre
incombenze, ci lasciavamo andare a qualche commento sul lavoro, sul tempo,
sui nostri passatempi, su quanto mancava all'ora di pranzo. Sciocchezze per
non sentirci come robot, sorvegliati da una macchina infernale.
Un giorno Vincenzo mi
chiese se mi volevo unire a lui per una cena con alcuni suoi amici che non
vedeva da molto tempo. Alle mie titubanze, mi confessò che se non andavo con
lui ci avrebbe rinunciato trovando una scusa, perché sentiva di non avere più
nulla in comune con loro. Avermi accanto come sostegno gli sembrava
necessario, non so perché. Non ci eravamo raccontati quasi nulla l'uno
dell'altro. Non mi sembrava che il nostro rapporto fosse così confidenziale
da consentirgli di giudicare la mia presenza così necessaria. Cedetti però
alle sue insistenze.
Nonostante ciò, una volta
seduti al ristorante, l'attenzione di Vincenzo fu sequestrata da una ragazza
di nome Anna, che sedeva accanto a lui. Aveva i capelli lunghi, metà neri,
metà biondo platino. Quella netta divisione, accentuata dalla scriminatura
centrale, le rendeva il viso stranamente asimmetrico. Mi infastidiva
guardarla, come se mi trovassi di fronte a un'identità liquida, tremolante,
dai contorni incerti che non si riusciva a definire. Eravamo una quindicina
di persone e mi sembrò di essere l'unico nuovo acquisto. Ma nessuno si stupì
della mia presenza, nessuno badò a me, benché fossi praticamente un
infiltrato. Tutti parlavano contemporaneamente, incrociando discorsi con i
dirimpettai, con i vicini, in una confusione che non mi permetteva di capire
nemmeno di cosa stessero parlando. Io mangiavo in silenzio, domandandomi come
mai mi trovassi là, in mezzo a quegli sconosciuti. Non sapevo chi fossero e
non m'interessavano.
Il mio vicino a un tratto
mi chiese se fossi amico di Vincenzo, restituendomi alla responsabilità di
essere presente. Gli risposi che eravamo colleghi. E lui cominciò a parlare
di sé come se fosse necessario giustificare la sua presenza a quel tavolo,
più che farsi spiegare la mia. Lo ascoltai con sempre maggior interesse,
quando mi disse che aveva vissuto per alcuni anni a Londra. Quella città
aveva mantenuto nella mia mente un carattere di magia, bianca o nera non
sapevo, perché se da una parte evocava la sofferenza che avevo provato in
seguito al distacco da Silvano, dall'altra rappresentava quasi un riverbero
della sua esistenza, seppure lontano da me. Sapevo che a Londra si era
ambientato bene e che si era fatto subito molti amici.
Gaetano parlò a lungo, tra
una portata e l'altra, e riuscì anche a farmi ridere, cosa che mi capitava
raramente. Per lo più sorridevo, ma una risata vera, di quelle che
coinvolgono gli addominali e fanno sussultare la schiena, non era nelle mie
consuetudini. Lui però non poteva saperlo, quindi accolse le mie risate con
una soddisfatta noncuranza. Probabilmente era una reazione cui era abituato.
Vincenzo si voltò sorpreso verso di me. Si mise a ridere anche lui. Mi
osservò con imbarazzante attenzione, come se mi vedesse per la prima volta.
– Che c'è? – gli chiese
Gaetano.
– Non l'avevo mai visto
ridere.
E poi, rivolgendosi a me:
– Hai una risata contagiosa. Non so di che cosa state ridendo, ma mi è venuto
da ridere sentendo te.
– Beh, non farci
l'abitudine. Allo studio c'è poco da ridere.
– Hai ragione – disse,
oscurandosi in volto. Poi tornò a volgere la sua attenzione ad Anna, che aveva
continuato a parlargli, anche se lui si era distratto con noi.
Alla fine della serata,
Gaetano mi chiese il numero di telefono. Lo digitò sul cellulare e fece
partire la chiamata aspettandosi il suono del mio.
– Non mi registri?
– Lo farò a casa. Ho dimenticato
il cellulare in un'altra giacca.
– Dobbiamo rivederci da
soli. Con questo casino non sento nemmeno il suono della mia voce. Sono
sicuro che nemmeno tu puoi sentirmi.
Quella notte sognai
Silvano. Non lo sognavo dai lontani tempi del liceo. Però fu un sogno molto
confuso, di cui ricordai al risveglio solo la sensazione di benessere che mi
dava tenerci per mano, dopo esserci ritrovati. A un tratto, nel sogno, volli
guardarlo bene in viso. Sotto il ciuffo che gli copriva la fronte, l'ombra
m'impediva di scorgerne i lineamenti, e quando parlò, la sua voce era quella
di Gaetano. Al mio stupore, si mise a ridere forte, così forte che io mi
svegliai. La sensazione di benessere mi rimase addosso per tutta la mattina.
Se chiudevo gli occhi per un attimo, potevo ancora sentire il calore della
sua mano nella mia.
Tornai al lavoro che mi
faceva sentire sfruttato. Tornai alle mie serate solitarie in compagnia di
romanzi o di qualche film. Andavo a dormire presto, perché dormire era un
modo per non pensare a me stesso. Non mi volevo porre domande, non volevo
essere costretto a darmi risposte, soprattutto perché non ne avevo. Non
pensavo a Gaetano, che non si era mai fatto sentire. Non pensavo, per
fortuna, nemmeno a Silvano. Quella era una pagina che avevo voltato già da
molto tempo, benché mi fosse tornato in sogno.
Così fui stupito dal
messaggio che mi arrivò sul cellulare quasi due mesi dopo. Gaetano mi
chiedeva se volevo andare a mangiare una pizza con lui, quel sabato sera. Senza
nemmeno rifletterci sopra, gli risposi di sì.
Mi sentivo sospinto verso
il mio destino da una serie di casi. Ero convinto che i segmenti della mia
vita fossero come atti di una commedia, ma non ero io a scriverla. C'era una
trama, ma io non la conoscevo. Dovevo recitare a soggetto. Quel sabato iniziò
un nuovo atto di quella commedia sconosciuta.
Gaetano di nuovo parlò
molto di sé, seduto a un tavolo di fronte a me. Il locale era piccolo e
accogliente. I pochi tavoli erano occupati quasi tutti da coppiette. Non
c'era il vocio dell'ultima volta, che costringeva Gaetano a urlarmi in faccia
per farsi sentire. Parlava sottovoce, guardandomi con attenzione, spiando
ogni mia espressione, forse nel tentativo di indovinare i miei pensieri,
mentre mi esponeva i suoi. Poi sbuffò, ammettendo che uno dei suoi difetti
era di parlar troppo. E invece voleva sapere di me. Mi fece un sacco di
domande, alle quali risposi, se non proprio a monosillabi, di sicuro in modo
troppo succinto per i suoi gusti.
– Mi dicevi l'altra sera
che hai un vecchio amico a Londra. Non ti è mai venuto il desiderio di
andarlo a trovare?
Io mi irrigidii. Nemmeno
mi ricordavo di avergli detto una cosa del genere.
– Forse in quel caos non
mi hai sentito bene. Ti dicevo che l'unica volta che ho avuto a che fare con
Londra è stato perché un mio vecchio amico ci si era trasferito, ma non
abbiamo mantenuto rapporti. Non so più nulla di lui. Ti dicevo che comunque
Londra non mi attira. Se mi venisse voglia di lasciare questo paese assurdo,
me ne andrei in Canada o in Australia. Se uno si sposta, allora tanto vale
lasciare l'Europa.
– Allora perché non in
Giappone, o in Russia, o in Cina?
– O alle Mauritius...
Gaetano scoppiò a ridere.
– Meglio, molto meglio le
Mauritius, hai ragione.
– Mare, sabbia bianca,
amache e aragoste.
– E donne in bichini che
si arrostiscono al sole.
Io non replicai. Mi
lasciai distrarre dal cameriere che passava vicino al nostro tavolo. Attirai
la sua attenzione per chiedere un'altra birra. E subito dopo mi scolai quella
che mi rimaneva nel bicchiere.
– Ti piacciono le bionde o
le brune?
Gaetano non voleva mollare
l'argomento.
– Per me non fa
differenza. Vuoi il dolce? Ho adocchiato un bel carrello vicino al bancone.
A Gaetano sfuggì un mezzo
sorriso soddisfatto. Eppure rispose:
– L'unico dolce che
tollero sono le mele cotte, col gelato di crema.
Da quella sera tornammo a
incontrarci di frequente, finché non gli dissi che non avevo amici. Mi chiese
di Vincenzo. E io di nuovo gli dissi che era un collega. Solo un collega. Si
stupì che mi avesse portato alla cena in cui ci eravamo conosciuti. Non
credeva che tra noi non ci fosse un po' di amicizia, ma io gli chiarii che
era stata l'unica volta che ci eravamo frequentati fuori dallo studio. Sembrò
stranamente sollevato. Da quella sera ci vedemmo tutti i giorni. Due
settimane dopo, in una serata piovosa di settembre, mi fece salire nel suo
appartamento.
Lo trovai subito molto
accogliente, piccolo, ma pieno di colori, che lo rendevano allegro e
luminoso. Anche se fuori era buio e pioveva, lì avevo l'impressione che
splendesse il sole. Glielo dissi. Lui approvò. Poi venne a sedersi accanto a
me, mettendomi una birra davanti, su un tavolino, mentre lui già si attaccava
al collo della sua.
– Di Londra mi è rimasta
l'abitudine alla birra – quasi si giustificò.
Parlammo del più e del
meno, finché non gli domandai da quanto tempo si era di nuovo trasferito in
Italia e se non aveva nostalgia di Londra. Mi raccontò che la nostalgia
faceva parte integrante della sua vita. Aveva sempre nostalgia di qualcuno,
di qualche cosa. Sentiva la sua vita spezzettata in segmenti, perché non era
mai stato in un luogo molto a lungo. Costretto dal lavoro del padre a
spostarsi dall'Italia a Londra, poi da Londra di nuovo in Italia, aveva
vissuto a Palermo, poi a Verona, a Roma, a Genova. Negli ultimi anni si era
sentito un nomade senza radici, costretto a rapporti d'amicizia sempre più
superficiali. Solo adesso, che era
riuscito a sganciarsi dalla famiglia, poteva finalmente costruirsi una vita
stabile, afferrarsi a un luogo, ricominciare a stabilire rapporti decenti con
altri esseri umani.
E aveva scelto me? Non ero
certo di avere i requisiti adatti, ma ero tentato. Gaetano mi sembrava un
ragazzo solare, ottimista, estroverso, praticamente l'opposto di me. Glielo dissi.
– Sei sicuro? Non mi
sembri un orso.
– Non sono sicuro di
niente. Con te mi sento diverso.
Lui approvò, sorridendo.
– Era quello che
intendevo. Per conoscere noi stessi dobbiamo porci davanti a uno specchio e io
vorrei che tu fossi il mio, come vorrei essere il tuo.
Nessuno mi aveva mai detto
una cosa del genere. Mi sentii in imbarazzo. Ma subito Gaetano si mise a
ridere, prendendo in giro se stesso.
– Ho perso l'abitudine a
esprimere i miei desideri ad alta voce. Da ragazzino lo facevo più spesso.
Avevo un amico che mi capiva.
– Anch'io – aggiunsi
d'istinto.
– Parlami di lui, allora,
visto non vuoi parlarmi di te.
– No, non posso.
– Dimmi almeno il nome.
– A che ti serve?
– A immaginarmelo.
Ero titubante, senza una
ragione specifica. Mi sembrava che pronunciandone il nome avrebbe potuto
sparire dalla mia mente, che l'avrei consumato, ridotto.
– Solo il nome, che ti
costa?
Infine cedetti.
– Silvano.
La felicità si stampò
negli occhi di Gaetano, come se gli avessi fatto un regalo preziosissimo. Non
capivo.
– Te la faresti una
partita a controcalcio?
Restai di stucco, senza
parole, senza fiato. Come faceva a sapere di quel gioco?
– Lo conosci?
– Andiamo, Marino,
possibile che tu non mi riconosca? Sono io, Silvano.
– Gaetano? Silvano?
Mi sentii come in bilico
tra due mondi, e io non sapevo dove poggiare i piedi. Non volevo precipitare
nel vuoto.
– Ho dovuto cambiare nome.
È una storia lunga. Non dovrei raccontartela, ma un giorno lo farò.
L'importante è che continui a chiamarmi Gaetano.
– Gaetano, va bene. Non
c'è bisogno che mi spieghi nulla.
– Ma qualche cosa sì. Come
ho fatto a ritrovarti, per esempio.
La scoperta che il nostro
non era stato un incontro causale, mi apparve subito lampante dal suo
racconto. Si era trasformato in detective per scovarmi. Era molto soddisfatto
di sé. Voleva che il nostro incontro apparisse casuale, per scoprire se avevo
mantenuto un ricordo di lui. Quindi era rimasto deluso che non l'avessi
riconosciuto subito.
– Ti eri proprio dimenticato
di me.
– Niente affatto. Ti
ricordavo com'eri. Ma perché quella sera non mi hai detto subito chi eri?
– Volevo che ci arrivassi
da solo. Ti avevo messo sotto il naso tutti gli indizi. È stato un gioco, ma poi
mi sono arreso. Ho capito che tu non ci saresti mai arrivato. Hai perso la
mano. I gialli non ti piacciono più?
– Ho smesso di leggerli
quando ho iniziato il liceo.
– Peccato. Io ne leggo
ancora.
Della sua vita, nascosto
sotto l'ombrello della Protezione Testimoni, mi raccontò solo in seguito.
Di quel periodo ricordo
molto bene il senso di estraniamento. Ero convinto che tornare a frequentare
Silvano dovesse rendermi immensamente felice, invece ero titubante,
insoddisfatto, incerto. Gaetano era un'altra persona. Io ero un'altra
persona. Di quei due ragazzi affiatati non mi sembrava fosse rimasto nulla.
Bisognava ricominciare tutto da capo. Ma mentre io proseguivo con la mia
cautela, Gaetano accorciava velocemente le distanze. Viveva come se non avesse
abbastanza tempo per fare tutto quello che voleva, così bruciava le tappe.
Tornò presto a chiedermi
se mi piacevano le bionde o le brune.
– Non m'interessano le
donne.
– L'avevo capito, ma
volevo essere sicuro.
Dopo di che, mi baciò.
Ricominciammo da dove ci
eravamo interrotti molti anni prima. Per me non fu naturale come quella
notte, ma piano piano mi sciolsi, mi rilassai, e
ritrovai quella gioia che mi sembrava rimasta sepolta sotto un cumulo di
macerie.
Tornammo alle nostre
confidenze. Per mesi la mia impressione più ricorrente fu quella di essere
tornato a casa. Ero come un denutrito cronico che ricomincia a mangiare di
tutto e in abbondanza, sentendomi finalmente soddisfatto. Ridevamo molto, a
volte per sciocchezze, come da ragazzini.
Il sabato sera ci
chiudevamo in casa sua e ne riemergevamo il lunedì mattina per tornare al
nostro lavoro, alla vita di fuori. Una sera mi consegnò le chiavi di casa
sua, dicendomi che ero libero di andare e venire, quando volevo. Continuavamo
a vederci tutte le sere, almeno per un paio d'ore. Qualche volta, quando il
lavoro lo tratteneva, io andavo a casa sua ad aspettarlo. Iniziammo a fare
progetti per il futuro. Soltanto su questo argomento Gaetano appariva molto
prudente. L'abitudine a non poter fare programmi a lunga scadenza gli era
rimasta appiccicata addosso, nonostante non fosse più legato agli spostamenti
continui della sua famiglia. L'idea stessa di futuro, che per me assomigliava
a un muro di nebbia oltre il quale mi era impossibile guardare,
all'improvviso si era come schiarita. Per la prima volta non sarei stato
costretto a recitare a soggetto un atto di quella commedia sconosciuta.
L'avrei scritto io. L'avrei creato insieme con Gaetano.
L'ostacolo maggiore erano
senza dubbio i soldi che io non guadagnavo ancora. Che andassimo a vivere
insieme era l'obiettivo principale, ma perché questo fosse possibile, io
volevo aspettare di essere davvero indipendente. Gaetano non era d'accordo.
– I soldi non sono tutto.
– Vallo a spiegare alla
cassiera del supermercato quando vai a fare la spesa, o al tuo padrone di
casa, quando pretende l'affitto.
– Marino, non far finta di
non capire. Io ho già sistemato queste cose. Tu trasferisciti da me, e vedrai
che il resto si sistemerà da sé.
– Ma che differenza fa? Ci
vediamo tutti i giorni, anche se non dormo sempre qui.
– E invece è proprio
quello che vorrei. Passare con te tutte le notti, addormentarmi abbracciato a
te. Svegliarmi con te accanto.
– Cercherò un altro
lavoro. Ormai l'esperienza ce l'ho, le ossa me le sono fatte.
Gaetano non replicò, ma
l'insoddisfazione gli si leggeva in viso.
– Perché hai tanta fretta?
Perché vuoi sempre tutto e subito?
– Tu lo sai che abbiamo
una data di scadenza? Ce l'abbiamo scritta da qualche parte, ma non sappiamo
dove. E quindi non sappiamo quanto tempo ci resti a disposizione per vivere
la vita che vogliamo.
Erano affermazioni che mi
sarei aspettato da un uomo maturo, già con qualche acciacco, non certo da
Gaetano, un giovane in piena salute.
Ma a parte questi piccoli
screzi, ci amavamo sempre di più. Il resto del mondo, che già prima per me
contava tanto poco, smise del tutto di avere importanza. Il mio mondo era
Gaetano. Anzi, era il mio sole. Intorno a lui girava la mia vita. Tutto
quello che facevo lontano da lui era una perdita di tempo, un peso che mi
soffocava. Il tempo che trascorrevo lontano da lui mi sembrava lento e
terribilmente lungo, mentre quando eravamo insieme scorreva alla velocità
della luce, non mi sembrava mai abbastanza.
Quell'estate dissi ai miei
che andavo in vacanza a Rimini e mi eclissai, trasferendomi in casa di
Gaetano per tre settimane. Prove tecniche di convivenza. Non ci furono
problemi di tubetti di dentifricio, né di calzini lasciati in giro sul
pavimento. Eravamo concentrati su altro. Soprattutto mi sembrarono le tre
settimane più corte della mia vita. Gaetano mi chiese di restare, di
trasferirmi definitivamente da lui. Ma io rimandai, testardo.
Al mio ritorno a casa,
nessuno badò alla mia scarsa abbronzatura. Pensai che i miei, ancora una
volta, se ne fregassero di me e non desiderassero altro che io mi rendessi
indipendente e mi togliessi di mezzo.
In autunno cominciò a
piovere tutti i giorni, e io ad attendere il ritorno di Gaetano, ogni sera, a
casa sua, seduto sul suo divano, nel suo soggiorno colorato e allegro. Il
tempo dell'attesa non mi pesava. Leggevo, ascoltavo musica o guardavo le
ultime notizie in tv.
Una sera di ottobre aprii
il frigorifero per prendere una birra, come facevo spesso, ma con sorpresa lo
trovai completamente vuoto, ripulito a fondo. Lo chiamai sul cellulare per
sapere se avrebbe tardato ancora, ma il gestore rispose che quel numero non
era più collegato a un utente. Pensai che ci fosse un guasto sulla linea.
Ritentai. Non so quante volte ritentai, prima di arrendermi. Crollai sul
divano, guardandomi intorno con la solita superficialità. Conoscevo a memoria
quella casa. Ma a un tratto mi accorsi che mancava qualcosa. Mi sforzai di
concentrare la mente. Mi osservai intorno con più attenzione. Erano sparite
le foto. Tre cornici colorate con recenti foto di Gaetano. Perché? Dove le
aveva messe? Cominciai ad aggirarmi per casa come un segugio. Entrai persino
in bagno. E lì la sorpresa mi fece bloccare per qualche secondo. Mi tornò in
mente l'espressione "una statua di sale", ma io mi sentivo più una
statua di marmo, gelida, svuotata di ogni sentimento. Dalla stanza da bagno
era sparito ogni oggetto. Vuote le mensole, scomparsi gli accappatoi, gli
asciugamani. Infine, con uno sforzo di volontà, arrancai al rallentatore fino
alla camera da letto. Aprii le ante dell'armadio. Vuoto. Mi colpì l'odore di
legno, il suo sentore di nuovo.
Di Gaetano, delle sue
cose, non c'era più traccia. L'appartamento era stato ripulito a fondo. Mi
tornò in mente il leggero odore di aceto che mi era arrivato alle narici
aprendo il frigorifero.
Di Gaetano non seppi più
nulla. Non avevo nessuno a cui chiedere. Non mi aveva mai nominato un amico,
un conoscente, un collega, e nemmeno l'azienda per cui lavorava. Mi ricordai
che era sotto protezione, che raccontandomelo, in maniera un po' vaga, aveva
aggiunto ridendo – Se sparisco non farci caso –.
Se un tir ti passa
addosso, finisce tutto lì. Questo era molto peggio. Il tir mi aveva steso, ma
io continuavo a essere vivo.
Vissi quel secondo
abbandono senz'altro peggio di come avevo vissuto il primo. Quando Silvano
era partito per Londra, infatti, avevamo mantenuto un legame attraverso le
parole che ci scrivevamo e qualche rara telefonata. Avevo avuto
l'impressione, o forse l'illusione, che, seppur distanti, le nostre vite
fossero rimaste parallele, seguendo la medesima direzione. Potevo immaginarlo
fare le stesse cose che facevo io, pensare come me, desiderare quello che
desideravo io. Quel secondo abbandono fu al contrario uno sparire improvviso,
definitivo, senza strascichi. Fino a quella sera sapevo dove trovarlo, dal
giorno dopo fu come fosse stato inghiottito da un buco nero. Per mesi sperai
in un suo segnale, uno qualsiasi. Possibile che si trovasse in una condizione
tale di pericolo, da non osare farsi vivo in nessun modo? Dov'era finito?
Arrivai a convincermi che fosse morto. Qualcuno l'aveva sequestrato e ucciso,
facendone sparire il cadavere. Solo così mi potevo spiegare il suo silenzio.
A una persona che ami non puoi fare questo, è impossibile, mi dicevo. Eppure
mantenni sempre la speranza che fosse vivo, chissà dove; mentre quello morto
ero io, anche se non importava a nessuno.
A parte la parentesi di
Silvano, poi Gaetano, nessun altro era mai riuscito ad abbattere il solido
muro che avevo innalzato tra me e il mondo.
Non me n'ero mai pentito. Ero ormai un avvocato matrimonialista con
una carriera ben avviata e talmente tanti clienti che facevo fatica a
seguirli tutti. Ascoltando le loro istanze, mi giungevano gli odi, le
recriminazioni, gli sfoghi violenti, i rimpianti, che io probabilmente mi ero
evitato. Vivendo immerso in quel mondo litigioso, malato, assurdo, mi
capitava spesso di congratularmi con me stesso. Raramente mi accadeva di
ripensare a Gaetano, e di solito lo facevo per chiedermi se anche noi saremmo
finiti in quel modo, litigando a morte per delle sciocchezze che
improvvisamente assumevano l'importanza di pilastri fondamentali
dell'esistenza: il famoso tubetto di dentifricio. Mi crogiolavo nella
sensazione di essere al di sopra di tutto quel caos. Non ero soggetto a
sbalzi d'umore. Non nutrivo sentimenti di alcun tipo. Il lavoro assorbiva
tutto il mio tempo, e come una volta, non pensavo a me stesso, forse per non
riflettere sul dramma di non avere una vita mia.
Era di nuovo autunno, una
giornata piovosa, con il cielo di un grigio compatto che si rifletteva sui
palazzi dello stesso monotono colore. Quasi per uniformarmi a quella cupa
atmosfera, anch'io indossavo un abito grigio. Come ogni mattina, seduto alla
mia scrivania, sfogliavo la posta, aprendo subito quella che mi interessava,
mettendo di lato quella che poteva aspettare, gettando nel cestino gli avvisi
pubblicitari, quando dal mucchio sbucò una cartolina. Era un oggetto ormai
raro. Nessuno mi spediva cartoline. L'immagine ritraeva un bosco autunnale
con le montagne sullo sfondo, molto colorata, con le foglie rosse, gialle e
verdi e le montagne viola. Quasi un rimprovero al grigiore in cui ero
immerso. La voltai. Le poche parole scritte con la biro nera mi balzarono
dagli occhi allo stomaco, facendomi sussultare, come se m'avessero dato un
pugno. – Ti va una partita di controcalcio? – Il
timbro postale era di Halifax, Canada.
Mi sentii risucchiato da
un uragano, che con potenza inusitata faceva crollare muri, saltare tappi di
bottiglia, scoperchiare tetti. Tutto mi girava intorno a velocità
impressionante. Dovetti reggermi ai braccioli della poltrona. Quando riuscii
a calmarmi, mi domandai che cosa dovevo fare. Ma la mia bella vita
tranquilla, regolare e monotona saltò in aria nel momento stesso in cui me lo
chiesi. Sfumò tutta la soddisfazione che mi ero illuso di aver provato in
quegli anni di morte civile. L'oblio di me stesso mi aveva riparato e
protetto dalla sofferenza e dal senso di abbandono, per quel disastro che mi
aveva colpito per la seconda volta, ma il richiamo di quella cartolina era
quello che avevo sempre aspettato senza avere il coraggio di confessarmelo.
Ci avevo sempre sperato, vivendo intanto in una sorta di pausa, di fermo
immagine. Ero pronto a buttare all'aria tutto, di correre in Canada a cercare
Silvano, comunque si facesse chiamare. Ero sopraffatto da un turbine di
emozioni e sentimenti che si erano liberati tutti insieme, spingendo il mio
film a ripartire, un fotogramma dopo l'altro, ma a velocità doppia, mi sembrava.
Per un paio di giorni mi
mossi a quella velocità, dimentico di ogni impegno, di ogni legame. Stavo
facendo le valigie, gettando uno sguardo di sfuggita al mio biglietto aereo
appoggiato al comodino, quando mi cadde addosso la sensazione di essere
tornato a quell'estate in cui facevo i bagagli per far credere ai miei
genitori che sarei andato in vacanza a Rimini. Mi fermai di botto. Il tempo
tornò a scorrere alla velocità normale. Mi sedetti sul letto. Per la prima
volta, dal momento in cui avevo avuto sotto gli occhi la cartolina di
Silvano, pensai al futuro, alla mia commedia, a quanto dolore avrei ancora
avuto la forza di sopportare. I dubbi mi assalirono tutti insieme, alcuni con
la potenza di certezze.
Ad Halifax l'avrei
ritrovato? E se l'avessi trovato, il nostro rapporto avrebbe ripreso da dove
avevamo lasciato? E se mi fossi rifatto una vita in Canada e lui fosse poi di
nuovo sparito? Davvero lo amavo tanto da buttare tutto all'aria? E lui come
mi amava? Mi amava ancora o ero solo una frangia delle sue nostalgie? E mille
e mille domande senza risposta. A molte di esse avrebbe potuto rispondere
solo Silvano, ma lui non c'era. C'ero solo io con il ricordo di Gaetano,
della sua casa svuotata di ogni effetto personale, di un addio che mi era sempre
mancato, c'era uno specchio rotto. Mi aveva lasciato indietro senza pensare
di offrirmi nemmeno un minuscolo appiglio, la certezza che avessi davvero
contato qualcosa per lui, un banalissimo segno che mi dicesse che era ancora
vivo, da qualche parte. Ecco, era questo che rappresentava quella cartolina:
il segno che era vivo. Nient'altro. Non un richiamo, non un invito, non più
per me. Era trascorso troppo tempo. Avevo la mia vita, la mia routine, il mio
piccolo frammento di mondo. Indubbiamente avrei dovuto migliorarlo,
popolarlo. Non mi erano mancate le occasioni, ma avevo vissuto come se tra me
e gli altri ci fosse una spessa lastra di vetro, che a qualcuno era sembrato
ghiaccio. Il vetro era freddo, duro, ma anche fragile. Avrei potuto
infrangerlo e tornare a nutrirmi di sentimenti, di emozioni, del calore che
avevo finto di snobbare, impregnato com'ero di quel terrore di soffrire
ancora. Ce la potevo fare. All'improvviso scoppiai a piangere. Non piangevo
da quand'ero ragazzino. Piangevo, sentendomi sempre più leggero, liberato. E
poi mi sembrò di guardarmi dal di fuori. Che pena! Scoppiai a ridere. Non
sapevo neppure che si potesse piangere e ridere insieme. E chissà quante
nuove scoperte avrei fatto, a quante persone sconosciute avrei potuto aprire
la porta, rimanendone piacevolmente sorpreso. Mi resi conto che il dolore e
la gioia sono facce della stessa medaglia e che avendone rifiutata una, avevo
impedito all'altra di abitarmi, così come mi ero precluso ogni possibilità di
amore.
Sono un solitario, ma non
sono un asociale. Ho ancora la porta aperta e la speranza di far entrare
qualcuno nella mia vita, prima o poi. In fondo è solo una questione di
fortuna.
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