Prometeo A Loran Il forte Iapeto, nato dalle nozze di Urano e Gea,
generò quattro figli da Climene, la figlia di
Oceano dalle belle caviglie, che egli trasse dalla grande distesa marina. I
figli di Iapeto e Climene
erano titani, forti e impavidi: essi non temevano neppure l’ira di Zeus, il
dio terribile che regna sull’Olimpo, signore del fulmine e delle tempeste. Benché fratelli, essi
erano molto diversi gli uni dagli altri. L’arrogante Menezio
era pronto alla collera e Zeus onniveggente lo scagliò nel Tartaro
lanciandogli contro il fulmine tonante. Atlante, dal cuore possente, era
fortissimo e ora, relegato ai confini del mondo, regge la volta celeste sulle
sue spalle. Epimeteo era sciocco e la sua ingenuità
fu causa di molti mali per gli uomini. Prometeo era il più saggio
dei titani e il suo cuore generoso soffriva vedendo gli uomini nella loro
miseria. Per aiutarli, egli gareggiò con lo stesso Zeus in astuzia. Infatti, quando a Mecone
contesero gli uomini e gli dei, Prometeo,
con scaltra mente, offrì un grande
bue e lo spartí, volendo ingannare il grande Zeus. Da una parte mise carni e interiora ricche di grasso, poste
in una pelle, coperte col ventre del bue; dall’altra nascose nel bianco grasso candide ossa spolpate. E allora a lui disse il padre degli uomini e degli
dei: - O di Iapeto
figlio, illustre fra tutti gli uomini, amico mio caro, con quanta ingiustizia facesti le parti! Cosí Zeus, che sa eterni consigli, crucciato gli
disse, ma gli rispose Prometeo, dai sottili pensieri, ridendo sommesso, e non
dimenticava le sue arti ingannevoli: - Illustre Zeus, il più grande degli dei che
vivono eterni, scegli di
queste quella che il cuore nel petto
ti dice. Così disse, tramando nel
suo cuore. Ma a Zeus, che sa
eterni consigli, non sfuggì l’astuzia. Nel suo cuore meditava sciagure contro gli uomini e a compierle si preparava. Il
bianco grasso, dunque, levò con entrambe le mani e l’ira raggiunse il suo
cuore, come vide le ossa bianche del bue: di qui venne l’usanza che sopra gli altari odorosi i mortali bruciano le ossa bianche dei buoi
agli immortali. - O figlio di Iapeto , che sei maestro di ogni cosa, dunque non mi
sfuggì, caro amico, la tua arte ingannevole. Cosí disse crucciato Zeus, che sa immortali pensieri, e da quel giorno, mai
non dimenticando l’astuzia di Prometeo per gli uomini mortali, non concesse più ai legni la forza del
fuoco. Dura era la vita per gli uomini che si affannano sulla terra,
senza il fuoco: non potevano forgiare i metalli, né cuocere i cibi, né
riscaldarsi nei gelidi inverni, né illuminare le notti oscure. La loro sofferenza vide
Prometeo e decise di porvi rimedio. Egli si recò nella fucina
di Efesto, il dio fabbro, recandogli in dono un
otre di vino: essi erano divenuti amici, perché mai Prometeo aveva mostrato
disprezzo per questo dio zoppo, che dei divini fratelli non ha la bellezza. Al
suo cuore generoso era caro questo dio, che gli altri immortali schernivano. A Efesto
e ai suoi aiutanti, i forti ciclopi, offrì il vino inebriante l’astuto
Prometeo. Insieme essi bevvero e dopo aver libato molte volte, chiusero gli
occhi appesantiti dal sonno. Ma non dormì Prometeo. Quando vide che Efesto e i suoi aiutanti riposavano, rubò una scintilla
del fuoco e la nascose in una canna. Il mattino Prometeo si
congedò dal suo ospite divino e raggiunse il saggio Deucalione.
A lui Prometeo donò il fuoco, perché egli lo trasmettesse agli altri uomini
che popolano la terra. Ben conosceva Prometeo
l’ira implacabile del divino Zeus, che già aveva colpito i suoi fratelli
Atlante e Menezio. Ma più forte fu il suo amore per
gli uomini e l’impavido cuore non tremò. Il
cuore di Zeus alto tonante
arse di sdegno, come fra gli uomini vide il bagliore del fuoco che splende da
lontano; e un male, per far
vendetta del fuoco, creò per i
mortali. Egli creò una fanciulla che riuniva in sé tutte le bellezze e
la inviò a Epimeteo. Così il fratello di Prometeo fu
la prima causa del male per gli uomini che mangiano pane, perché accolse
nella sua casa la meravigliosa creatura plasmata da Zeus, Pandora, colei che
portò in dono all’umanità tutte le sofferenze. E dopo aver tratto
vendetta degli uomini, Zeus adunatore di nembi si
rivolse a Prometeo: - Pagherai per l’inganno
che hai ordito. Privato della libertà, la tua sofferenza si rinnoverà ogni
giorno. Zeus impose a Efesto di legare con solide catene Prometeo a una roccia
ai piedi di una scogliera. A malincuore Efesto
ordinò ai ciclopi di eseguire il comando del divino Zeus. Prometeo non si
oppose, né cercò salvezza nella fuga, ben sapendo di non poter sfuggire alla
punizione voluta dal re degli dei. Ma nel suo cuore, non si pentì di aver
donato la scintilla del fuoco agli uomini mortali. I ciclopi spogliarono il
forte Prometeo e con robuste catene di ferro fissarono alla parete di roccia
le sue braccia sollevate. Nudo il suo corpo si offriva, senza difesa. Lo
ammirarono i possenti ciclopi e la sua forza destò il desiderio nel dio
fabbro, che ancora non aveva incontrato il grande cacciatore, Orione, colui
che sarebbe divenuto il suo compagno. Ma non osò indugiare a lungo, perché
anche Efesto temeva l’ira dell’alto tonante. Ai confini occidentali del
mondo, non lontano dal luogo in cui il fratello Atlante regge la volta
celeste, venne incatenato Prometeo, perché del suo corpo venisse fatto
strazio. * E ora, da migliaia di
anni, Prometeo è incatenato a una rupe. Gli sono compagne solo le onde che si
infrangono ai piedi della scogliera. Solo gli uccelli che volano lontano e le
creature che popolano gli abissi del mare possono vedere il supplizio
tremendo che ogni giorno si ripete. Quando il sole è alto in
cielo, giunge in volo un’arpia. Orrende sono queste creature, che Electra
generò da Taumante, insaziabili mostri dal corpo
umano, artigli di rapace e grandi ali. Un fetore immondo si sprigiona dai
loro corpi e la loro ferocia non conosce limiti. Quattro sono le arpie: tre
femmine generò Electra e un maschio, Teonte, più
feroce e spietato delle sorelle. Quello che ora cala sulla rupe a cui è
avvinto Prometeo è il maschio crudele, che gode del supplizio inflitto a
colui che per amore degli uomini osò sfidare lo stesso Zeus. Le labbra della creatura
alata avvolgono il membro gagliardo di Prometeo e accendono il suo desiderio.
Grande e vigorosa e potente si erge la verga del titano legato, che il mostro
feroce accoglie nella sua bocca. A lungo le labbra e la lingua percorrono il
membro, finché il piacere squassa il corpo dell’arpia. Il seme di Teonte si spande su Prometeo. E dove cade una goccia,
essa brucia come lava. Grida Prometeo il suo dolore, ma una sofferenza più
grande lo attende. L’arpia stringe i denti e recide il membro robusto del
divino Prometeo. Il dolore acceca il titano e il suo grido ora è tanto alto
da giungere al cielo, ma Zeus non prova pietà per questo titano ribelle. Lo strazio del corpo del
titano non è concluso: l’arpia, dopo aver inghiottito il membro vibrante di
Prometeo, divora i suoi testicoli. Prometeo grida ancora il suo dolore, ma per
l’implacabile Zeus è una musica celestiale. Lacrime scorrono sul viso
del titano e sangue abbondante scorre dalla ferita, mentre là dove il seme
dell’arpia ha toccato la pelle, la carne viva appare nella piaga. Ebbra del pasto, il cuore
ferino pieno di gioia sconfinata, l’arpia ritorna alla sua oscura dimora. Per
lunghe ore Prometeo si contorce negli spasimi di un’agonia atroce e mille
volte invoca la morte. Nella notte la pelle viene
sanata, la ferita si richiude e ricrescono il membro vigoroso e i testicoli fecondi. Ma Aurora dalle dita di
rosa si leva dal mare e un nuovo giorno nasce, portatore di rinnovati
tormenti per il forte Prometeo. Quando il carro del divino Apollo è alto in
cielo, cupa su Prometeo cala l’ombra della creatura alata. E ogni giorno il
divino Prometeo sente il cuore fermarsi in petto e l’angoscia inghiottirlo,
quando Teonte avvolge il membro vigoroso e il
desiderio cresce: il titano conosce l’umiliazione e il dolore senza fine che
lo attendono e che ogni giorno si rinnovano. * Eracle vaga da molti
giorni. Egli cerca il giardino delle Esperidi, dove deve cogliere le mele
d’oro dell’albero che Gea offrì ad Era come dono
per le sue auguste nozze. Lungo è il cammino percorso, perché il giardino è
posto all’estremo Occidente, là dove il sole si tuffa nei lavacri
dell’oceano. Il corpo di Eracle possente, figlio di Zeus, è abituato alle
fatiche e alle privazioni ed egli non si lamenta. Non vi sono ampie strade e
neppure stretti sentieri che portino al giardino dai frutti d’oro. Da giorni
Eracle vaga alla ricerca, ma in quelle terre desolate nessuno vive, che possa
indicare la strada all’eroe invitto. Muovendosi ai piedi di una
scogliera tanto alta che pare raggiungere il cielo, Eracle raggiunge la rupe
a cui è incatenato Prometeo. Da giorni non incontra uomini e grande è il suo
stupore nel vedere questo maschio possente incatenato nudo alla roccia. - Chi sei e per quali
colpe sei stato legato a morire qui, lontano dalle terre popolate dagli
uomini? - Il mio nome è Prometeo,
possente Eracle. E mia colpa è stata aver amato i mortali. - Come puoi conoscere il
mio nome? Mai noi ci incontrammo. - Colei che generò mio
padre mi trasmise un’antica sapienza, che solo io, tra tutti i Titani, ho
ereditato. So che sei il grande Eracle e che il divino Zeus, l’alto tonante,
ti ha generato da una mortale. So a quali fatiche ti costringe la vendetta
della gelosa Era. E so che stai cercando il giardino delle Esperidi, perché
là dovrai raccogliere le mele d’oro. Io ti dirò come fare per portare a
termine il compito che ti è stato imposto. Grande è lo stupore
dell’eroe invitto, Eracle, nel sentire le parole del titano. - Davvero grande è la tua
sapienza. Ma chi ti legò qui, a morire in queste lande desolate? - Non la morte, ma un
eterno tormento subisco qui. A legarmi fu Efesto,
per ordine del tuo padre celeste, l’onnipossente Zeus. A lungo ho atteso la
tua venuta, perché so che mi libererai, uccidendo l’arpia infame che ogni
giorno si ciba della mia virilità. Conosce Eracle la stirpe
infame delle arpie e il suo cuore generoso vuole aiutare il titano possente.
Egli sente che non agirà contro il volere di Zeus, signore d’Olimpo: il padre
divino lo ha guidato fino a questa rupe, affinché la sua gloria sia maggiore di quanto lo era prima sulla terra
nutrice. E Zeus onora l’illustre
suo figlio e, per quanto crucciato, frena
l’ira che prima lo bruciava contro il titano ingannatore. Eracle promette: - Ucciderò l’infame mostro
che fa strazio del tuo corpo, Prometeo possente. E la forza delle mie braccia
vincerà le catene che ti stringono a questa rupe. Il carro del sole è ormai
alto in cielo e l’ombra dell’immondo Teonte incombe
sulla rupe. Eracle tende l’arco e scaglia la freccia divina. Non manca il
bersaglio l’eroe invitto: lancia un alto grido Teonte
e precipita nei flutti, che si ritraggono davanti a lui. Fin nel più profondo
degli abissi scende il suo corpo, per essere pasto delle creature che vivono
nascoste. Eracle si mette davanti a
Prometeo per liberarlo. I loro corpi si sfiorano. Per meglio afferrare le
catene, poste in alto, Eracle possente si appoggia al titano. Senza sforzo svelle
i legami, che pure con il ferro forgiò un dio, il potente Efesto.
Ma il contatto dei loro corpi accende una fiamma e ora entrambi avvampano
dello stesso desiderio. I loro visi sono vicini e le loro labbra si
incontrano. Non saprebbe dire Eracle possente, l’eroe invitto, se è stata la
sua bocca a cercare quella di Prometeo o quella del titano a cercare la sua.
Ma ardente è il loro bacio e non meno ardente la stretta dei loro corpi.
Contro la rupe poggia il dorso Prometeo. A lui si stringe Eracle. Il lungo
bacio non spegne il loro desiderio, ma fornisce nuova legna all’incendio che
li brucia. In una stretta vigorosa finiscono entrambi a terra. Ora sono uno
sull’altro, il più grande degli eroi, Eracle possente, e il titano dal cuore
generoso, Prometeo figlio di Iapeto. Entrambi hanno amato e
posseduto altri maschi, giovani o uomini dal forte petto, ma nessuno li ha
mai posseduti. E la loro stretta diventa una lotta, perché, guidato dal
proprio desiderio, ognuno desidera godere del corpo che stringe. Infine Prometeo dal forte
cuore dice: - Puoi prendermi, Eracle
possente. Nessun maschio mai lo fece. Per te e solo per te, rinuncio a ogni
difesa e mi offro a colui che mi ha liberato. Esulta il cuore dell’eroe
invitto. Bacia avidamente la bocca del titano e poi lo volta, così da poter
avvicinare il membro poderoso ai fianchi che ora gli si offrono. Per la prima volta il
corpo del possente Prometeo viene penetrato. Il piacere avvolge l’invitto
Eracle che possiede il corpo del titano e colui che viene posseduto non prova
minor piacere, nonostante il dolore. A lungo cavalca Eracle il
focoso destriero che mai accettò altro cavaliere e infine entrambi conoscono
la voluttà che li inghiotte e cancella il mondo intorno a loro. Ora sono stesi uno accanto
all’altro, Eracle e Prometeo, e una mano dell’eroe stringe una mano del
titano. Non è sazio Eracle, né lo è Prometeo e il loro desiderio ardente
mostrano i loro corpi. Ancora si amano e per la prima volta le loro bocche
guidano al piacere un altro maschio vigoroso. E quando infine scende la
notte, essi riposano avvinti, in un abbraccio che dà loro pace. Si leva Aurora dalle dita
di rosa e il saggio Prometeo si rivolge all’eroe. - Eracle, tu vuoi ottenere
i frutti d’oro del giardino delle Esperidi. Devi rivolgerti a mio fratello,
Atlante, che sostiene sulle sue spalle la volta del cielo. Dirai a lui di
coglierli, mentre tu prenderai il suo posto. Egli non vorrà più gravarsi
sulle spalle il peso immane che lo schiaccia, ma tu lo ingannerai. Ora ti
dirò come… E senza nulla trascurare,
il saggio Prometeo istruisce Eracle sul compito che lo attende. Eracle lo
ringrazia e si rimette in cammino. Ora procede sicuro, perché sa dove
dirigersi e come ottenere ciò che desidera. Eppure la mente torna spesso al
Titano possente che ha lasciato e che gli ha donato un piacere che mai aveva
conosciuto. Se i suoi passi lo conducono rapidamente verso il superbo Atlante,
il suo cuore è rimasto alla rupe. Non ha mentito il generoso
Prometeo e grazie ai suoi consigli Eracle ottiene i frutti d’oro del giardino
delle Esperidi e ritorna alla rupe, dove era legato Prometeo. Non si è allontanato il
titano dal nobile cuore, perché Eracle divino ha acceso in lui la scintilla
di un desiderio profondo e ora il suo cuore arde. In quel luogo Prometeo ha
sofferto per giorni e notti innumerevoli, ma lì per un giorno solo ha
conosciuto l’amore e il piacere. E tanto grande è il sentimento, tanto forte
il desiderio, che ogni sofferenza è stata dimenticata. Gioia immensa prova
Eracle, l’eroe divino, nel rivedere il titano. Gli mostra i frutti d’oro che
grazie a lui ha conquistato, ma, guidato da un desiderio tanto forte da
fargli dimenticare tutto il resto, lo stringe tra le braccia e loro bocche si
incontrano. E nei giochi d’amore trascorrono il giorno e poi la notte e poi
ancora un altro giorno, mai sazi. Più volte il forte Eracle ha posseduto il
titano, ma quando il sole si immerge nei lavacri dell’oceano, Eracle esprime
il desiderio che è nato in lui. - Prendimi, Prometeo, come
io ho preso te. Anche i miei fianchi non hanno mai conosciuto un maschio,
come non l’avevano conosciuto i tuoi. Imprimerai nella mia carne quello
stesso sigillo che io ho impresso nella tua, perché noi ci apparteniamo. - Sì, Eracle. Io sono tuo
e tu sei mio. Per la prima volta l’eroe invitto
apre i suoi fianchi alla verga di un maschio vigoroso, il divino Prometeo. E
il titano possente prende ciò che Eracle gli offre. Grande è il dolore che
prova Eracle, ma più grande la gioia di appartenere al titano amato. E quando
il seme di Prometeo si spande nelle sue viscere, Eracle sente il piacere
avvolgerlo e anche il suo seme si sparge. Per altri giorni e notti i
due maschi divini si amano, ma quando per la settima volta Aurora dalle dita
di rose annuncia il nuovo giorno, Prometeo parla: - È giunto il momento di
partire, Eracle. Devi portare i frutti d’oro a colui che te li chiese. Un’altra
impresa ti attende, Eracle possente, ancora più terribile. Ma compirai anche
questa. Eracle sa che deve
partire, ma il suo cuore sembra fermarsi alle parole di Prometeo. - Prometeo, non vuoi
accompagnarmi? Saldo è il tuo cuore e so che certo non avrai timore. - No, Eracle, non è possibile.
Solo devi compiere l’impresa che ancora ti attende. Ma se vorrai potremo
ritrovarci. - Se vorrò? Me lo chiedi? Sorride Prometeo divino e
bacia l’eroe possente sulla bocca. Poi gli dice: - Ci ritroveremo. Ma il
destino ci vieta di unire le nostre sorti ora. Più tardi, quando avrai finito
di soffrire, potremo percorrere un’unica strada. Ma prima di allora molto
dolore ancora dovrai patire, Eracle, per l’odio dell’implacabile Era. Sagge parole dice Prometeo
a Eracle e l’eroe le chiude nel cuore. Eracle compie ancora la
dodicesima impresa, la più terribile: egli scende nelle case di Ade per
catturare il feroce Cerbero, il divino cane a tre teste che sorveglia
l’ingresso del mondo dei morti. Prima che egli scenda, lo raggiunge Prometeo
e dopo che si sono amati, gli dice come catturare il guardiano del mondo
infernale. Eracle ha compiuto le
dodici fatiche e la sua vita volge al termine designato dal fato. Eracle soggiorna da Folo, un centauro che imbandisce una mensa sontuosa,
offrendo all’eroe ricchi cibi e vino pregiato, dono del dio Dioniso. Ma
alcuni centauri, resi folli dall’aroma del vino, assalgono Folo per rubare i cibi. Folo si
cela, preso da fredda paura, ma Eracle affronta impavido i centauri divini.
Attaccano i centauri con tronchi sradicati e grandi massi, torce accese e
scuri adatte a uccidere un bue con un unico colpo. Ma Eracle regge l’urto,
uccide la maggior parte di loro e costringe gli altri a fuggire. Eracle
ancora insegue gli assalitori, che si rifugiano nella caverna di Chirone. Le frecce di Eracle fanno strage, ma una di esse
colpisce il saggio Chirone, che di Eracle è stato
il maestro e non ha partecipato all’attacco. La freccia è avvelenata e
la ferita non può guarire, ma Chirone è immortale. Il
dolore è intollerabile e solo la morte brama Chirone.
Eracle non può fare nulla per aiutare colui che fu suo maestro. E allora a lui viene
incontro Prometeo e, dopo averlo abbracciato, gli dice come fare. Eracle
allora si rivolge al padre Zeus e gli chiede di togliere l’immortalità al
centauro e di darla al possente Prometeo. L’odio del possente Zeus per Prometeo
non è spento e, pur conoscendo il sentimento del figlio, Zeus non cederebbe
alla sua richiesta. Ma il re degli dei vuole che Prometeo gli sveli un’oscura
profezia: egli ha detronizzato il padre Crono, come Crono aveva tolto il
trono al padre Urano. All’alto tonante Zeus è stato annunciato che allo
stesso modo uno dei suoi figli lo priverà del trono. Zeus vuole sapere come
potrà sventare la minaccia che grava su di lui: solo a questa condizione darà
a Prometeo l’immortalità che Chirone più non vuole,
in preda ad atroci dolori. In Prometeo è ancora vivo
il ricordo della feroce punizione subita, ma il suo amore per il potente
Eracle è più forte del suo risentimento. Prometeo svela all’alto tonante Zeus
il segreto che solo a lui è noto e il dio lo rende immortale al posto di Chirone, che può infine scendere all’Ade e vedere la fine
delle sue sofferenze. E ora Prometeo, immortale,
annuncia all’invitto Eracle la sua morte, perché sa che il destino dell’eroe
sta per compiersi: - Eracle possente,
l’ultimo inganno e una morte atroce ti attendono. Non posso svelarti ciò che
succederà, perché non puoi sfuggire a ciò che il fato ha stabilito. Ma dopo
che il tuo corpo mortale sarà stato consumato dal fuoco, tu sarai accolto tra
gli dei e se vorrai saremo uniti per sempre. - Se vorrò? Nuovamente mi
chiedi se lo vorrò, Prometeo? Null’altro desidero e tu lo sai. Sorride Prometeo, che ben
conosce il cuore di Eracle, così come ne conosce il corpo. Eracle torna vittorioso da
una battaglia, ma la moglie teme che le sia infedele e gli invia una veste
che le diede il centauro Nesso. Non sa la sventurata la terribile verità: il
sangue del centauro che impregna la veste è un veleno di morte, non un filtro
d’amore com’ella crede. È la vendetta del centauro, che Eracle colpì a morte
perché aveva cercato di rapirgli la sposa. Indossa la veste Eracle e
gli pare che un fuoco divori la sua carne. Non può togliersi la veste e il
dolore che lo dilania non dà tregua. La morte è ormai vicina ed Eracle ordina
di preparargli una grande pira funebre. Al prode Filottete
egli dona il suo arco e le frecce, senza cui non potrà essere conquistata la
possente Troia. E mentre le fiamme divorano la pira, Eracle vi stende la
pelle del leone nemeo, vi pone la clava e si stende, come se si sdraiasse a
banchetto. Lascia che il fuoco lo divori e sopporta lo strazio delle sue
carni. Il pensiero va al titano che a lungo soffrì per l’arpia che gli
divorava il membro vigoroso e i testicoli fecondi. Allora così dice Zeus,
l’alto tonante, agli altri dei che assistono sgomenti al rogo: - Colui che tutto vinse,
vincerà anche il fuoco. Patirà l’azione del fuoco divino solo per la parte
che trae dalla madre, quella che da me gli deriva è eterna, indistruttibile,
esente da morte e non c’è fiamma che possa spegnerla. Conclusa la vita
terrena, accolgo il mio figlio tra gli dei celesti e ciò a tutti gli dei
confido che sia gradito. Intanto il fuoco divino ha
consumato il corpo mortale dell’eroe. E come un serpente, deposta con la
pelle la vecchiaia, riprende forza e risplende nelle nuove squame, così,
deposto che ha Eracle il corpo mortale, rinasce con la parte migliore, ancora
più grande e possente. Il padre divino lo porta
tra gli astri splendenti. Vorrebbe donargli in sposa Ebe,
divina coppiera, ma altro ha in cuore Eracle e non lo cela. Zeus cede al
figlio. Il titano perdonato raggiunge colui che ama. Prometeo ed Eracle hanno
entrambi conosciuto il dolore, ma ora vivono lieti l’uno accanto all’altro
nelle dimore degli dei. 2016 |