Il fuggiasco

 

 

 

Kunta ha portato il cavallo del padrone dal maniscalco e aspetta vicino alla porta che il lavoro di ferratura venga concluso. Paul, il più anziano dei due fratelli che gestiscono l’officina, gli passa accanto mentre va a prendere una corda e gli sussurra:

- Aspettami al mulino.

Kunta fa solo un impercettibile cenno di assenso.

Quando il maniscalco ha finito, Kunta prende le redini del cavallo e lo guida verso la tenuta del padrone. Ci vogliono due ore per arrivare. Se salisse a cavallo, Kunta farebbe molto prima: Kunta è in grado di cavalcare, perché si occupa del bestiame e per poterlo controllare talvolta è necessario muoversi a cavallo. Ma l’animale è di quelli che il padrone tiene per uso personale e mister Redbowl non tollererebbe che un negro lo montasse. Perciò Kunta deve muoversi a piedi, conducendo l’animale per le briglie. Mentre percorre la strada, si chiede che cosa voglia dirgli Paul. Il maniscalco è uno di quelli che aiutano gli schiavi neri a fuggire al Nord. Da lui Kunta ha saputo che esiste una vasta rete di persone, che nascondono gli schiavi in fuga, li nutrono e spesso li accompagnano per un tratto del lungo viaggio verso la libertà. Kunta vorrebbe fuggire e Paul gli ha promesso di aiutarlo. È giunto il momento?

Arrivato al mulino, Kunta lascia che il cavallo beva al torrente, poi raggiunge un vecchio capanno abbandonato, dove altre volte ha incontrato Paul.

Paul arriva poco dopo: sa che Kunta non può indugiare lungo la strada, perché il padrone lo punirebbe.

- È per dopodomani mattina, Kunta. Se vuoi provare, domani notte devi lasciare la piantagione e raggiungere Chattanooga. Vuoi farlo?

Kunta non ha bisogno di riflettere: da tempo ha deciso di provare a fuggire. Si limita a un cenno di assenso, mentre risponde:

- Sì.

- Allora ti fermerai all’ingresso della città. Devi cercare di arrivare all’alba. C’è la bottega del barbiere, proprio sulla strada. Quando apre, gli chiederai se ha bisogno di qualcuno che gli dia una mano.

- Grazie, Paul.

- Se ti prendono…

Kunta non lo lascia finire.

- Lo so, Paul. Non dirò che mi hai aiutato tu e non rivelerò i nomi di nessuno di quelli che incontrerò. Questo te lo garantisco. Neanche se mi torturano.

Su questo Kunta ha le idee ben chiare: non tradirà coloro che rischiano la vita per aiutarlo. Questi uomini e queste donne hanno già facilitato la fuga di molti schiavi. Altri potranno essere salvati grazie a loro. Kunta preferirebbe morire piuttosto che metterli in pericolo.

Paul gli porge una piccola borsa con un po’ di denaro.

- Tieni, Kunta: ti potrà servire.

- Grazie anche di questo.

C’è un’altra cosa di cui Kunta avrebbe bisogno: un coltello, per difendersi e non cadere vivo nelle mani di chi gli darà la caccia. Ma Kunta sa che Paul non glielo darebbe mai, perché è un quacchero e rifiuta la violenza, anche come difesa da un’aggressione: Paul si lascerebbe scannare, piuttosto che colpire un altro uomo.

Paul sorride e dice:

- Buona fortuna, Kunta.

Poi gli porge la mano. Kunta la stringe. Un bianco che stringe la mano a un nero non è certo abituale, ma neanche il loro dialogo lo è stato: se si rivolgesse allo stesso modo a qualsiasi altro bianco, Kunta riceverebbe una frustata in faccia. Ma quest’uomo che ha davanti è del tutto diverso. Lui davvero considera tutti gli uomini fratelli, come insegna la sua religione. Kunta ha una grande stima di lui e gli spiace pensare che non avrà più modo di vederlo.

Kunta riprende il suo cammino. Dopo pochi passi si volta, ma Paul è già scomparso. Kunta pensa che avrebbe dovuto ringraziarlo meglio, perché non lo rivedrà mai più. Ma era frastornato e ormai è tardi. Riprende a muoversi, ma si rende conto che sta camminando troppo in fretta, come se qualcuno lo inseguisse. Allora rallenta e si sforza di mantenere un passo regolare, per non tradire l’agitazione che si sta impadronendo di lui: nessuno deve accorgersi di nulla, nessuno deve sospettare. Kunta è uno schiavo, è abituato a dissimulare. Ma i pensieri corrono impazziti nella sua mente e gli sembra che il cuore batta selvaggiamente. Domani notte. Domani notte metterà in gioco la sua vita. Domani notte fuggirà. Verso la libertà e una nuova vita oppure verso la morte, questo non può saperlo.

Kunta respira a fondo, cercando di calmarsi. Non deve lasciar trapelare nulla. Si sforza di controllare ogni gesto, di muoversi come se domani non fosse il suo ultimo giorno da schiavo. Non deve lasciar trapelare nulla. Nessuno deve sospettare, né l’intendente, né i sorveglianti, né gli altri schiavi. Non deve lasciar trapelare nulla: Kunta continua a ripeterselo, come una formula magica.

Infine raggiunge la proprietà di Redbowl. L’intendente controlla che il lavoro di ferratura sia stato eseguito bene e che il cavallo non sia stato cavalcato, ma tutto è a posto: Kunta è uno schiavo obbediente e di rado c’è motivo di richiamarlo. Ci sono ancora due ore di luce, per cui l’intendente lo manda a dare una mano nei campi.

Kunta lavora, sforzandosi di concentrarsi su quello che sta facendo, perché nessuno si accorga del suo turbamento, ma gli sembra che tutti lo guardino, che sospettino. Non è così, nessuno bada a lui, nessuno si è accorto della sua agitazione, Kunta lo sa, ma non riesce a calmarsi.

Per fortuna ormai la giornata è alla fine.

Quando scende la notte, Kunta pensa che è l’ultima che trascorrerà alla piantagione. Forse è anche l’ultima della sua vita: potrebbe essere sorpreso mentre cerca di allontanarsi. In questo caso, Kunta intende difendersi, anche a costo di venire ucciso: non vuole farsi catturare vivo. Peter Redbowl non è un padrone particolarmente feroce, ma con gli schiavi che tentano di fuggire è spietato: la loro punizione deve essere un monito per tutti. E in ogni caso la vita di uno schiavo non è davvero vita.

Kunta si è steso da poco, quando Lou, uno dei garzoni della scuderia, entra nella capanna, tenendo in mano una lanterna che emana una luce fioca.

- Kunta, l’intendente ti vuole.

Kunta si alza. Sa benissimo che l’intendente non lo vuole: è Lou che lo desidera. Lou finge di essere mandato dall’intendente, perché nessuno sospetti che lui e Kunta scoperanno.

Lou ha ventiquattro anni, quattro in meno di Kunta. È il figlio di una delle serve bianche della tenuta. Non si sa chi sia il padre, probabilmente uno dei tanti ricchi proprietari che sono spesso ospiti di Redbowl. Lou ha un viso dai tratti fini e un corpo slanciato: è davvero un gran bel ragazzo.

Lou non dice nulla, ma si dirige verso la scuderia. Posa la lanterna in un angolo e sorride a Kunta. Si toglie la camicia, gli stivali e i pantaloni, rimanendo nudo. Il nero si spoglia anche lui. Il cazzo gli si sta già tendendo: Lou gli piace e il pensiero che tra poco glielo metterà in culo accende il suo desiderio.

Lou si china e prende in bocca il cazzo di Kunta. Il nero è ben dotato, parecchio, e a Lou piace succhiare questo cazzo vigoroso che nella sua bocca si irrigidisce in fretta e cresce, fino a che Lou fa fatica a tenerlo tra le labbra.

Lou sa benissimo che se lo scoprissero a succhiare il cazzo di un nero, il padrone lo caccerebbe e la sua vita diventerebbe impossibile: rischierebbe di essere linciato dagli altri maschi. Ma a Lou piace sentire in bocca i sapori forti del cazzo di Kunta, gli piace stringere tra le dita il culo muscoloso del nero.

Lou succhia la cappella, passa la lingua sul cazzo fino alla base, accarezza i coglioni. Poi si stende sul fieno. Kunta guarda questo culo bianco che gli si offre. A Kunta non importa di Lou, ma gli piace l’idea di fottere un bianco: è una rivalsa nei confronti dei bianchi che lo hanno reso schiavo quando aveva appena otto anni e da allora sono i suoi padroni.

Kunta sputa sull’apertura e sparge un po’ di saliva, poi si sputa sulla mano e inumidisce la cappella. Avvicina il cazzo al buco del culo di Lou e lo guarda affondare nella carne: un bello spiedo nero che trafigge un culo bianco. Lou geme, ma è un gemito di piacere, non di dolore.

Kunta non se l’è mai preso in culo. Non sa che cosa si provi: a volte se lo chiede, ma non intende offrirsi a nessuno. Quand’era ragazzo, qualcuno si era avvicinato a lui, ma allora c’era suo padre a difenderlo. Suo padre è morto tre anni fa, ma ormai Kunta è in grado di difendersi da solo: è un uomo forte, che sa farsi rispettare dagli altri schiavi.

Kunta muove avanti e indietro il culo, assaporando le sensazioni che gli trasmette questa scopata, forse l’ultima della sua vita. Kunta cavalca a lungo: è un buono stallone. Infine il piacere esplode e il suo seme riempie le viscere di Lou, che nuovamente geme.

Kunta passa un braccio intorno alla vita di Lou e si volta, portando Lou con sé. Ora Kunta è disteso sotto e Lou sopra. Lou si afferra il cazzo con la mano e incomincia ad accarezzarlo. Il movimento diventa più rapido, finché Lou viene, con un gemito.

Lou chiude gli occhi. È stato splendido. Kunta è un vero toro da monta ed è bello sentire il suo cazzo in culo, ancora grande e vigoroso.

Lou si rialza e si riveste. Il culo gli fa male, ma ne valeva la pena.

Anche Kunta si riveste e ritorna nella capanna dove dorme. Deve riposare: domani notte dovrà camminare tutto il tempo. Il sonno però tarda. Kunta sa che è a una svolta della sua vita. O troverà la morte, o incomincerà un’esistenza del tutto diversa.

Il mattino si sveglia e per un attimo si chiede se ha sognato. No, non ha sognato, è vero. Stringe tra le dita, come un talismano, la borsa con un po’ di denaro che gli ha dato Paul. È vero. È per questa notte.

Oggi una sola cosa conta: comportarsi come sempre, in modo che nessuno sospetti. Kunta esce dalla capanna come se fosse un giorno qualsiasi, non il suo ultimo giorno da schiavo. È teso, ma non è più agitato come subito dopo aver parlato con Paul.

Si concentra nel lavoro, ma le ore sembrano non passare mai: il mattino si trascina e il pomeriggio il sole rimane alto in cielo, come se non volesse più tramontare. È ormai la metà di giugno e le giornate sono lunghe, ma a Kunta pare che la Terra non giri più su se stessa.

Infine, con una lentezza intollerabile, il sole declina e scompare all’orizzonte.

 

I neri mangiano, poi tornano alle loro abitazioni. Ormai è buio. Alcuni schiavi si riuniscono in una delle capanne. Invitano anche Kunta, che rifiuta, dicendo di avere un impegno. Sorride con aria sorniona, come se avesse un appuntamento amoroso: non vuole che qualcuno sospetti la verità. Gli altri fanno battute, perché corre voce che Kunta abbia un buon successo con le donne. È vero, anche se a Kunta poco importa. Se una donna gli si offre, Kunta non si tira indietro, come non respinge gli inviti di Lou. Ma le scopate con le donne, come quelle con Lou, sono soltanto la soddisfazione di un bisogno: danno piacere, ma non contano davvero. Kunta non ha provato per nessuno, uomo o donna, qualche cosa che andasse oltre il desiderio di un momento.

Qualcuno gli chiede di chi si tratta, ma Kunta scuote la testa, ghignando. Uno degli altri insinua che la fortunata sia una bella ragazza della piantagione vicina, una che fa girare la testa a molti e che il padrone si è preso più volte, prima di stancarsene. Kunta non conferma e non nega: se qualcuno lo vedrà allontanarsi dalla piantagione, penserà che vada a scopare. Lasciare la piantagione la notte è proibito, ma diversi schiavi lo fanno e anche tra i sorveglianti nessuno se ne preoccupa: quello che conta è che gli schiavi siano al loro posto di lavoro il mattino.

Kunta rimane nella capanna ancora una mezz’ora dopo che gli altri se ne sono andati: preferisce aspettare che il buio sia completo e che gli schiavi si siano coricati. Qualcuno sicuramente sarà ancora in giro anche più tardi, come quelli che lo hanno invitato, ma meno gente lo vede, meglio è.

Kunta è pronto. Non ha molto da portare con sé: gli abiti che ha indosso, la borsa che gli ha dato Paul, un amuleto che gli ha lasciato suo padre, un po’ di cibo. Attendere gli costa fatica: due volte deve reprimere l’impulso di uscire e allontanarsi prima che l’oscurità sia completa.

Infine Kunta esce silenziosamente e raggiunge il sentiero che si dirige verso est e incrocia la strada per Chattanooga. Si muove in fretta: sa che non può perdere tempo, se vuole raggiungere la cittadina all’alba. Ora che è giunto il momento, ora che è davvero uno schiavo in fuga, l’agitazione si è calmata. Kunta è concentrato, attento al percorso che segue e ai rumori che ascolta.

Due volte, al momento di superare un piccolo corso d’acqua, ritorna indietro sui suoi passi e prende una direzione diversa, per confondere le sue tracce: di certo lo cercheranno anche con i cani. A un certo punto abbandona il sentiero che sta seguendo da un’ora e piega verso nord, in direzione della palude, Kunta cammina a lungo nell’acqua, cercando di non perdere i punti di riferimento. Quando infine lascia la palude, si dirige alla strada per Chattanooga. Rimane sempre vigile, pronto ad allontanarsi se arriva qualcuno. Nel primo tratto gli succede tre volte di sentire delle voci e di nascondersi, poi il silenzio della notte non viene più interrotto.

Le ore passano, ma Kunta non sente la stanchezza, non ha sonno. Sa che ormai non può più tornare indietro: non riuscirebbe a rientrare prima che qualche sorvegliante venga sguinzagliato al suo inseguimento.

Il cielo sta appena schiarendosi quando Kunta arriva in vista di Chattanooga. Attende nascosto tra gli alberi che il sole spunti.  Alla piantagione si stanno svegliando. Tra poco si accorgeranno della sua scomparsa.

Quando vede comparire all’orizzonte il sole, Kunta si dirige alla bottega del barbiere, che sta aprendo. L’uomo è sui quaranta, di media statura e ben piantato, con un grosso barbone nero. Kunta gli si rivolge rispettosamente:

- Buongiorno, padrone. Ha bisogno di qualcuno che dia una mano?

L’uomo lo squadra, storcendo la bocca.

- E che cazzo me ne faccio di un negro di merda? Non sapete fare un cazzo, voi. Manco un martello sapete tenere in mano.

La risposta sarebbe sufficiente a scoraggiare ogni insistenza, ma l’uomo si sta guardando intorno. Sta controllando che non ci sia nessuno, anche se lo fa simulando indifferenza: qualcuno potrebbe spiarli dalle case vicine. Poi gli dice, pianissimo, mentre blocca la porta e sistema due sedie:

- Prendi il sentiero prima del ponte, quello sulla destra. Nel boschetto troverai un capanno. Se non c’è nessuno che possa vederti, entra. Se c’è qualche fottuto curioso, prosegui e ritorni dopo. C’è da mangiare. Cerca di dormire. Torna qui quando è buio e nessuno ti può vedere. Devi essere sicuro che nessun bastardo ti veda.

Poi, ad alta voce, aggiunge:

- Ancora qui, stronzo? Togliti dai coglioni.

Kunta annuisce. Dice sottovoce:

- Grazie.

E poi, forte:

- Mi scusi, padrone.

Kunta cammina lungo il sentiero. Nel bosco si ferma. Controlla che non ci sia nessuno. Riprende a camminare e dopo pochi passi raggiunge un capanno. Entra. Come gli ha detto l’uomo, c’è da mangiare e da bere. Kunta si rifocilla e intanto pensa che la sua scomparsa ormai è stata notata. Il padrone ha sicuramente sguinzagliato alcuni sgherri alla sua ricerca. Se non lo trovano in fretta, metterà anche qualche annuncio nella contea, poi contatterà i cacciatori di schiavi fuggitivi. Ci sarà una ricompensa per chi lo trova. Kunta sa che ormai si è bruciato i ponti alle spalle: non può tornare indietro. E non lo vuole. Sarà un uomo libero o morirà.

Kunta si stende a dormire. Si addormenta subito, di un sonno profondo.

 

Si sveglia nel primo pomeriggio. Rimane nel capanno, in attesa che il sole tramonti. Il barbiere è molto diverso da Paul, il maniscalco: Paul è un uomo molto religioso e Kunta non lo ha mai sentito dire una parola sconveniente; il barbiere sembra condire ogni frase con qualche parolaccia. Kunta si aspettava che gli uomini che lo avrebbero aiutato fossero tutti come Paul, mossi da spirito cristiano. Forse è così, ma Paul sospetta che il barbiere sia di un’altra pasta, anche se è contrario alla schiavitù, come Paul.

Quando scende la notte, Kunta raggiunge la bottega del barbiere. La porta è chiusa, ma l’uomo è seduto su una panca davanti a una delle finestre e fuma un grosso sigaro. Quando lo vede, si guarda intorno, ma è una precauzione inutile: anche se ci fosse qualcuno lungo la strada, non potrebbe vederli, perché ormai è buio. Alle finestre delle case vicine non si vede nessuna luce.

L’uomo entra in casa, senza dire nulla, e Kunta lo segue. Il barbiere chiude la porta e accende una lanterna. 

- Ti cercano. Quei figli di puttana sono passati di qua due volte. Ho detto che ho visto uno che ti assomigliava dirigersi verso est, ma non serve a molto. Domani ti porterò a Huntsville. Ti farò viaggiare in una bara.

Kunta non si stupisce della bara: sa che i barbieri spesso sono anche becchini. Lo sorprende invece la meta, perché Huntsville si trova a ovest e non a nord: in questo modo Kunta non si avvicina alla libertà.

- Huntsville?

- Sì, è più saggio andare in quella direzione. Quei fottuti cacciatori ti cercheranno sulle strade verso nord.

Kunta annuisce.

- Questa notte puoi dormire qui. Partiamo domani, prima dell’alba.

Kunta ha già dormito in giornata, ma quando si stende, prende sonno in fretta. È il barbiere a svegliarlo.

- Preparati. Sul tavolo ti ho lasciato un po’ di colazione.

Dopo pochi minuti Kunta è pronto.

- Aiutami a portare la bara.

Dalla bottega Kunta e il barbiere prendono una bara e la portano nella scuderia. La posano sul carro. Il barbiere solleva il coperchio e fa vedere a Kunta che in basso ci sono alcune aperture:

- Così entra un po’ d’aria. Non è piacevole viaggiare in una fottuta bara, ma è la via più sicura. Nessuno controlla. I morti fanno paura.

Kunta annuisce.

- Hai pisciato? Fino a questa sera non potrai uscire dalla bara.

Kunta annuisce.

- Va bene. Se ti viene bisogno durante il viaggio, fattela addosso: meglio pisciarsi nei pantaloni che farsi beccare da quei figli di puttana. Stenditi.

Kunta si stende nella bara. Ci sta appena, perché è molto alto.

Il barbiere gli dice:

- La chiudo e ci metto due chiodi, ma senza fissarli. In caso d’emergenza, con un colpo forte puoi sollevare il coperchio. Non che ti serva a molto, perché se ci fermano quelli, siamo fottuti tutti e due.

Kunta annuisce. Si sente a disagio, ma preferisce non darlo a vedere, per non passare per pauroso. Nella sua situazione i problemi sono ben altri, ma viaggiare chiuso in una bara non è il massimo.

- Un’ultima cosa: è meglio che tu non dica mai niente. Ogni tanto, quando vedo che non c’è nessuno intorno, ti chiederò se tutto va bene.

- D’accordo.

- Un’ultima cosa: non ti dico il mio nome, così hai una cosa in meno da dimenticare.

L’uomo ride e posa il coperchio. Poi batte due volte con il martello. Kunta ora è al buio, in uno spazio ristretto. Il disagio aumenta.

Dopo un po’ il carro si mette in movimento. Si ferma quasi subito, perché il barbiere deve chiudere le porte della rimessa, poi incomincia il viaggio.

Steso nella bara, Kunta non può fare altro che pensare. Huntsville. Vanno a Huntsville. Sperava di entrare in Tennessee e invece si spostano verso l’Alabama. Ma questi uomini sanno quello che fanno, non è la prima volta che aiutano uno schiavo in fuga. In effetti nessuno penserebbe a cercare un fuggitivo in un carro diretto in Alabama. Gli schiavi che scappano si dirigono a nord, verso il Tennessee e il Kentucky, da cui possono raggiungere l’Indiana. Le ore passano. Almeno una volta l’ora, il barbiere chiede:

- Il morto è ancora vivo?

- Sì.

Il barbiere ride.

- Questi fottuti cadaveri fanno resistenza…

Il carro si ferma due volte in mattinata e il barbiere scambia due parole con qualche viaggiatore che ha incontrato per strada.

Kunta ha tutto il tempo per pensare. Il viaggio sarà più lungo del previsto, ma questi uomini sanno quello che fanno. Rischiano la vita anche loro: chi aiuta uno schiavo in fuga può finire linciato.

Man mano che il tempo passa, Kunta diventa più nervoso. Se qualcuno sospettasse, se fermassero il barbiere, se l’obbligassero ad aprire la bara… Kunta non potrebbe difendersi in nessun modo. Kunta non vuole cadere vivo nelle mani di quelli che lo cercano.

Verso mezzogiorno la voce del barbiere lo fa sobbalzare:

- Merda! Cacciatori di schiavi in arrivo. Il morto non deve dare segni di vita.

Il barbiere ride di nuovo, ma Kunta ha l’impressione che sia una risata nervosa.

Kunta sente il rumore dei cavalli, che si fermano accanto al carro.

- Hai visto un fottuto negro, alto e ben piantato? È scappato la notte scorsa da una piantagione vicino a Dalton.

- Se viene da Dalton che cazzo ci farebbe su questa strada? Ha la moglie in Alabama?

- No, ma magari ha preso questa strada per confondere le tracce. Da dove vieni?

- Da Chattanooga.

Kunta sente un'altra voce maschile dire:

- E com’è che hai una bara?

- Porto un morto, uno che aveva dei parenti a Huntsville.

C’è un momento di silenzio, poi la domanda.

- Allora, non hai visto nessuno?

- Adesso che mi fai pensare, un fottuto negro l’ho visto, ieri all’alba, a Chattanooga, ma non credo che fosse quello che cercate. Stavo aprendo la bottega quando mi ha chiesto se avevo bisogno di un aiuto. Che cazzo me ne faccio di un aiutante negro? Non sanno fare un cazzo, quelli.

- Magari era lui. Era alto e ben piantato?

- Sì, questo sì. Ma se era in fuga, perché mai si sarebbe dovuto fermare a cercare lavoro?

- Magari sperava di poter stare nascosto per qualche giorno. E poi magari una sera ti sgozzava e scappava.

- Da quei fottuti negri c’è da aspettarsi di tutto.

- È uno che ha una cicatrice a V sul culo.

Il barbiere ride:

- I pantaloni non glieli ho fatti calare. Non amo i culi, né bianchi, né neri. Preferisco le fiche.

Anche uno dei due uomini ride. Poi l’altro chiede:

- Hai visto dove s’è diretto?

- Ha preso un sentiero che porta verso nord, verso il Tennessee. Ma non vuol dire niente, può averlo lasciato dopo tre minuti.

- Va bene, grazie. Buon viaggio.

Kunta sente i due uomini spronare i cavalli. Il galoppo si allontana. Kunta si accorge di essere fradicio di sudore. Gli sembra che l’aria gli manchi. Vorrebbe sollevare il coperchio della bara. Appoggia le mani contro il legno. Si fa forza per controllare l’impulso a spingere. Ha bisogno di aria, di luce. Il carro riparte. Kunta chiude gli occhi. Vorrebbe essere fuori, accanto al barbiere, ma se fosse stato fuori, lo avrebbero preso.

La voce del barbiere lo riscuote:

- Tutto bene?

Kunta fa fatica a rispondere:

- Sì.

- Non hanno sospettato niente. Nessuno apre una bara, te lo garantisco. Lo farebbero solo se fossero sicuri che sei nascosto dentro.

Kunta vorrebbe dire che nessuno si nasconderebbe volentieri in una bara, ma non ha senso. Si limita a dire nuovamente:

- Sì.

Il tempo passa. Di nuovo ore interminabili, senza nemmeno poter seguire il cammino del sole in cielo. Ma il sole non dev’essere visibile, perché poco dopo l’incontro con i due cacciatori di schiavi, Kunta ha sentito il ticchettio della pioggia sul coperchio della bara. Non è durato a lungo, forse un’ora, forse anche meno.

Più tardi però riprende a piovere. Il barbiere borbotta:

- Merda! Ci mancava anche questa fottuta pioggia del cazzo! Tutto a posto nella bara? Non ti stanno ancora uscendo i vermi dal buco del culo?

- No. Ci vuole ancora molto?

- Per i vermi o per arrivare?

A Kunta viene da sorridere:

- Per arrivare.

- Ancora due ore. Se non sai come passare il tempo, fatti una sega pensando a qualche bella fica.

Il barbiere ride.

Kunta sorride appena. Pensa a Paul. Non potrebbe immaginare due uomini più diversi,  almeno per il modo in cui parlano, ma tutti e due rischiano la vita per aiutare gli schiavi a fuggire.

Infine il barbiere dice:

- Tra poco arriviamo in città. Dieci minuti e scarichiamo la bara. Non una parola, finché non apro la bara. Chiaro?

- Sì.

Dieci minuti dopo il carro si ferma. Il barbiere parla con un altro uomo. Il carro si muove, ma dopo un brevissimo tratto si arresta nuovamente. La bara viene sollevata.

- Cazzo, se pesa!

Il barbiere ride e dice:

- Il morto è un pezzo d’uomo…

Poco dopo la bara viene aperta. Accanto al barbiere c’è un uomo sui quaranta, piuttosto grosso, con un barbone nero striato di grigio. Guarda Kunta e dice:

- Mi sembra che non sia ancora ora di seppellirlo…

I due bianchi ridono. Kunta sorride appena. È contento di poter uscire dalla bara. Poi l’uomo si presenta:

- Io sono il signor Fulton e tu sei il mio schiavo, che domani porto con me a Nashville.

- Io sono Kunta, padrone.

Fulton lo guarda e dice:

- Devo dire che ti terrei volentieri come schiavo: devi essere forte come un toro. Peccato che io sia contrario alla schiavitù.

Il barbiere, Kunta e Fulton mangiano insieme, poi il barbiere se ne va.

L’indomani Fulton e Kunta si mettono in viaggio. Kunta è sul carretto di fianco al suo “padrone”.

- Mi raccomando, Kunta, comportati da bravo schiavo obbediente.

- Sì, signor padrone. Ai suoi ordini, signor padrone.

L’uomo sorride.

Fulton ha voglia di chiacchierare. Chiede a Kunta della piantagione da cui proviene, poi della sua storia. Kunta racconta brevemente della cattura quando era bambino, del viaggio in nave, poi dell’asta in cui fu separato dalla madre, ma per fortuna venne venduto insieme al padre. Fulton si rabbuia.

- Quando penso che questa gente si dice cristiana…

Fulton non finisce la frase. Freme.

Kunta vorrebbe domandare a Fulton perché corre rischi per aiutare gli schiavi in fuga, ma ha paura di mostrarsi troppo curioso. Gli chiede allora che lavoro fa. Scopre così che Fulton è un mercante di stoffe.

Il viaggio fino a Nashville si svolge senza intoppi. Si fermano a dormire in un paese, dove vengono ospitati in un fienile. Il giorno dopo Kunta rimane nella fattoria, mentre Fulton torna indietro. La notte seguente Kunta prosegue il viaggio a piedi, seguendo le indicazioni che riceve. Tutto sembra filare liscio. Man mano che cresce la distanza dalla piantagione e passano i giorni, Kunta si sente più tranquillo. Sa che lo cercano, che non deve illudersi di averla scampata. Ma i rischi sono meno forti. Quasi ogni giorno conosce una nuova persona che si occupa di lui. In due occasioni rimane nascosto per qualche giorno, più volte percorre tratti a piedi, qualche volta invece viaggia su un carro, ma la sua fuga sembra svolgersi sotto una buona stella, senza difficoltà.

Dopo due notti di cammino, fa ancora un tratto con David Houston, un nuovo “padrone”, fino a Hendersonville.

Nella cittadina, trovano parecchia gente che si muove in direzione contraria alla loro. Un uomo si ferma e si rivolge a Houston, ridendo:

- Hai portato il negro a vedere lo spettacolo? Sei arrivato tardi. È finita. Ma puoi ancora fargli vedere quel figlio di puttana che penzola. Lo lasciamo lì fino a domani.

L’uomo, che senza dubbio ha alzato il gomito, si appoggia al carro e si sporge verso Kunta:

- Adesso vedi che cosa succede a chi alza la cresta. Magari poi lo facciamo anche a te.

L’uomo ride sguaiatamente. Houston replica, secco:

- Ci tengo ai miei schiavi.

- Quello non era uno schiavo. Ma non sapeva stare al suo posto.

Houston annuisce e dice:

- Va’ avanti, Ted.

Houston chiama Kunta Ted, per evitare che sentendo il nome, qualcuno possa collegarlo allo schiavo in fuga, che molti stanno cercando.

Kunta fa schioccare la frusta e il cavallo si muove. L’uomo si stacca. Ghigna e muove la mano con due dita tese, facendo il gesto di tagliare la gola, mentre fissa Kunta. Procedono nella direzione da cui proviene la gente: sanno che di certo c’è stato un linciaggio e nessuno dei due ha voglia di vedere lo spettacolo, ma deviare potrebbe destare qualche sospetto in una folla che il sangue e l’alcol hanno eccitato. 

All’altra estremità della cittadina c’è quanto rimane del linciaggio: il cadavere sconciato di un nero, impiccato a un albero. Intorno al corpo che penzola, un gruppo di esaltati ride sguaiatamente e parla ad alta voce. Kunta distoglie lo sguardo. Houston annuisce e non dice nulla.

Proseguono ancora un tratto, finché arrivano alla fattoria dove Houston passerà la notte. Kunta prosegue a piedi per due ore, fino a raggiungere un capanno abbandonato. Di lì si muoverà il giorno dopo.

Quando arriva alla meta, Kunta si stende. Ha cercato di tenere lontano dalla mente l’immagine dell’uomo impiccato, ma mentre cerca di addormentarsi, rivede il corpo mutilato. Kunta si accorge di tremare.

 

Il giorno dopo Kunta ha un lungo tratto da fare a piedi. È ormai notte quando raggiunge l’abitazione di un pastore metodista, con cui proseguirà il viaggio. Fino a ora tutto è filato liscio.

Il mattino seguente prendono la strada che porta a Bowling Green, in Kentucky; ormai l’Indiana, che è la meta di Kunta, non è più così lontano.

Mentre si avvicinano alla cittadina, incontrano un uomo che cavalca in direzione opposta alla loro. Il pastore ferma il carro e il cavaliere gli dice subito:

- Lo stanno cercando. Devono averlo visto a Hendersonville e hanno capito che si sta dirigendo verso l’Indiana. A Bowling Green lo aspettano due cacciatori di schiavi fuggitivi.

Il pastore appare molto preoccupato. L’uomo a cavallo dice:

- Non puoi entrare in città, Richard. Non con lui.

- E adesso, che facciamo?

Il cavaliere si rivolge a Kunta:

- Tu, scendi e infilati in quel bosco. Più tardi passo a parlarti. Richard, tu è meglio che torni a Nashville. Se qualcuno ti ferma, perché ti hanno visto con un negro che probabilmente è uno schiavo in fuga, dirai che lo hai raccolto per strada e gli hai dato un passaggio. E che lui è sceso a Franklin. Probabilmente non la berranno, ma non possono farci niente. Tu sei un pastore ed è naturale che tu sia tanto tonto da raccogliere una pecorella smarrita, senza sospettare che è una pecora nera.

Il pastore sorride e annuisce. Kunta scende e raggiunge il boschetto che gli ha indicato l’uomo.

Nascosto tra i cespugli, vede il pastore invertire la direzione e allontanarsi, mentre il cavaliere sprona il cavallo e scompare rapidamente alla vista.

Tutto era filato liscio, fino a ora. Ma adesso… Che cosa succederà? Fino a pochi minuti fa, Kunta si sentiva sicuro. Pensava che ormai, così lontano dalla piantagione da cui è fuggito, nessuno avrebbe potuto sospettare di lui. E invece qualcuno lo ha visto e ha capito che era lui. E adesso lo cercano. Sanno che lui era in Tennessee e che ora probabilmente è in Kentucky. Merda!

L’uomo che è venuto loro incontro ricompare dopo un’oretta. Lascia la strada e si dirige verso il bosco, dove scende e lega il cavallo a un albero.

Poi si addentra nel bosco e chiama, a bassa voce:

- Kunta!

Kunta esce dal suo nascondiglio e gli si avvicina.

- Kunta, adesso devi proseguire da solo. Non verso Bowling Green, sarebbe un suicidio, ma verso Beaver Dam.

- Non so dove sia.

- Certo. Ti spiego come arrivarci. Poi di lì potrai raggiungere Madisonville. Devi arrivarci dopodomani mattina, sul presto. Ce la puoi fare se non perdi tempo. Se non ce la fai, vedi di arrivare il giorno dopo, sempre il mattino presto. Ti fermerai vicino al negozio che c’è prima della chiesa. Di più non posso dirti. Il rischio che tu venga catturato è alto e meno ne sai, meglio è.

Kunta annuisce. Sa che non sarà facile per lui cavarsela da solo, perché non conosce per nulla il territorio, ma l’uomo gli descrive dettagliatamente il percorso da seguire per arrivare a Beaver Dam e poi a Madisonville. Kunta ascolta con attenzione.

Per aggirare Bowling Green, dovrà muoversi di notte. Kunta si inoltra nel bosco e cerca un posto riparato, dove stendersi per riposare: vorrebbe dormire, visto che non potrà farlo nella notte, ma il sonno non viene. Kunta riflette sulla sua situazione. Si rende conto di aver sottovalutato le difficoltà della fuga. In qualche modo pensava che avessero rinunciato a cercarlo, ma è logico che continuino a dargli la caccia. La fuga di uno schiavo è una minaccia per tutti i padroni: se uno riesce a scappare, anche gli altri pensano di poterci riuscire. Se invece lo schiavo viene riportato alla piantagione e duramente punito, magari ucciso, allora è un esempio per gli altri, che non faranno colpi di testa.

Kunta si dice che deve riuscire, per sé e per gli altri. Non devono riportarlo da Redbowl. Meglio piuttosto morire.

Ora Kunta è di nuovo molto teso e ogni rumore lo fa trasalire. Nel bosco non passa nessuno, ma Kunta è inquieto. Solo quando scende la notte e può mettersi in cammino, si tranquillizza. Non sembra esserci nessuno e le istruzioni che ha ricevuto gli permettono di orientarsi senza troppe difficoltà, nonostante il buio.

Quando il cielo incomincia a schiarirsi, Kunta ha superato l’area più pericolosa e può stendersi a dormire in un bosco.

 

La notte successiva Kunta riprende il cammino. Ora che si è lasciato alle spalle Bowling Green, i pericoli sono minori, ma Kunta rimane vigile. C’è una mezza luna, la cui luce permette di muoversi; solo dove il bosco è più fitto, il buio è completo.

A un certo punto Kunta sente dei rumori. Si ferma. C’è silenzio. Kunta rimane perfettamente immobile. Dopo un momento, sente di nuovo un rumore: qualcuno si muove nel bosco. Un animale? Forse. Ma il rumore si avvicina. Se fosse un animale, avrebbe fiutato la sua presenza e si allontanerebbe. Kunta attende. Ora il rumore è ancora più vicino. 

Kunta scivola dietro un albero. Poco dopo vede un’ombra: un uomo che cammina guardingo. È difficile che sia un viandante che ha perso la strada, perché si muove con eccessiva cautela. E ora che è più vicino, Kunta si rende conto che ha una pistola in mano. Potrebbe essere un ladro o un assassino che lo ha visto e vuole derubarlo o ucciderlo. Ma più probabilmente è un cacciatore di schiavi fuggitivi. In ogni caso Kunta sa di essere in pericolo.

L’uomo si avvicina ancora, guardandosi intorno. Anche se Kunta è avvolto nell’ombra, tra poco l’uomo lo vedrà. Il cuore gli batte tanto forte che sembra volergli uscire dal petto.

L’uomo si accorge di lui. Fa ancora un passo avanti.

- Bene, negro, la tua fuga è finita. Vieni fuori da dietro quell’albero. E non cercare di fare scherzi, perché ti sparo subito: che ti riporti vivo o morto, la ricompensa me la danno lo stesso.

Kunta sa che ormai le sue possibilità di cavarsela sono ridottissime. Decide di giocare la carta dello schiavo sottomesso e pauroso. Esce allo scoperto, rimanendo un po’ curvo.

- Sì, padrone. Scusa, padrone.

Nel buio Kunta non può vedere la faccia dell’uomo, ma gli sembra che sorrida.

- Adesso, muoviti, da quella parte, pezzo di merda. Cammina davanti a me.

Kunta obbedisce. Cammina piano. L’uomo è solo, ma è facile che ci sia anche qualcun altro, non lontano. Quando saranno in due, Kunta non avrà nessuna possibilità. Però adesso l’uomo sta in guardia, non è stupido.

Kunta fa alcuni passi, poi vede una radice e fa finta di inciampare. Cade a terra.

- Ah! Ahia! Il mio piede.

L’uomo si avvicina, la pistola puntata su di lui.

- Alzati, stronzo, e non fare scherzi.

Kunta finge di cercare di alzarsi e ricade con un gemito.

- Non riesco.

- Alzati, stronzo, o ti ammazzo.

Kunta si appoggia a un ramo e si tira su. Appoggia il piede a terra e geme.

- Non ce la faccio.

- Muoviti o sparo.

L’uomo si è avvicinato. Kunta colpisce il braccio con la pistola e sferra un pugno al mento del cacciatore di schiavi, che cade a terra. Kunta salta sulla mano che stringe la pistola. Quando il piede colpisce le dita, c’è un rumore di ossa rotte e l’uomo lancia un grido di dolore. Kunta toglie il piede e l’uomo lascia la presa. Prima che il cacciatore di schiavi riesca a prendere l’arma con la sinistra, Kunta la colpisce con un calcio, allontanandola. L’uomo infila la mano sotto la camicia e tira fuori un coltello. Si alza con uno scatto e si scaglia su Kunta.

- Ti ammazzerò, lurido negro di merda.

Kunta colpisce l’avversario con un calcio ai coglioni, poi gli salta addosso. Rotolano avvinghiati. L’uomo cerca di colpire Kunta, ma questi gli blocca la mano. Nella lotta Kunta riesce ad afferrare l’uomo da dietro e a spingere il pugnale contro il petto dell’avversario. Questi cerca di resistere, ma non può usare la destra, mentre Kunta, dietro di lui, preme con le due mani. Nonostante la resistenza dell’uomo, Kunta riesce a far entrare il pugnale nel petto. L’uomo ha un grido strozzato. Kunta preme ancora e il pugnale affonda. C’è ancora un momento di resistenza, poi l’uomo si affloscia sul corpo del nero.

Kunta rimane immobile. Sente che l’uomo su di sé è ancora vivo, anche se inerte. Ora non ha più scelta. Kunta libera il pugnale dalla mano del ferito e lo afferra, poi lo immerge nel cuore. L’uomo emette un breve gemito.

Kunta rimane immobile. Lascia che il battito del suo cuore si calmi. Resta in ascolto, ma non si sente nessun rumore.

Kunta scosta il cadavere e si alza. Ha ucciso un uomo. Se lo prenderanno, la sua fine sarà terribile. Kunta prende il pugnale e lo pulisce con cura sulla camicia dell’uomo. È inutile che raccolga la pistola: non sa sparare. Il pugnale può servirgli, se non altro per uccidersi se verrà scoperto e non ci sarà nessuna possibilità di fuga. Kunta non sa come portarlo. Il morto ce l’aveva sotto la camicia. Kunta si china sul corpo e apre la camicia. C’è una guaina, che l’uomo portava alla spalla. Kunta la prende e se la mette. Infila il pugnale nella guaina e poi si allontana in fretta. Cammina tutta la notte, il più velocemente possibile. Quando incontra un torrente, ne percorre un pezzo. L’acqua è fredda, ma Kunta sa bene che lo cercheranno anche con i cani. Non è più solo uno schiavo fuggitivo. È un assassino.

Quando arriva il giorno, Kunta striscia tra i cespugli. Deve dormire, ne ha bisogno, ma il sonno non viene. Non prova rimorso per quello che ha fatto e poco gli importa del cacciatore di schiavi: Kunta considera tutti quelli come lui solo feccia. Ma non aveva mai ucciso un uomo e ora avverte una tensione che non si placa.

 

Il mattino seguente a Madisonville Kunta si ferma vicino al negozio nei pressi della chiesa, come gli hanno detto di fare. Nella notte si è chiesto se non fosse troppo pericoloso presentarsi all’appuntamento, ma da solo non saprebbe dove andare: potrebbe semplicemente dirigersi verso nord, ma sa che così finirebbe sicuramente nelle grinfie dei cacciatori di schiavi.

Si chiede che cosa succederà adesso. Qualcuno dovrebbe contattarlo, ma non sa chi. Potrebbero anche avere rinunciato ad aiutarlo: Kunta ha ucciso un uomo. È probabile che abbiano già trovato il corpo e sospettino di lui, visto che il morto era un cacciatore di schiavi fuggitivi ed era sulle sue tracce. Lo aiuteranno ancora nell’ultima tappa, la più pericolosa, dal Kentucky all’Indiana? O invece lo abbandoneranno?

Kunta è appena arrivato quando una donna esce dal negozio e si guarda intorno. Lo osserva un attimo e dice:

- Tu, vieni a darmi una mano.

Kunta guarda stupito la donna, che deve essere sulla sessantina e ha i capelli bianchi raccolti in una crocchia.  

È il contatto previsto? O è solo una bianca che vedendo un nero ritiene di potersene servire come facchino? Qualunque sia la risposta, è più saggio obbedire. Al massimo Kunta ritornerà al negozio dopo aver svolto il suo compito, mostrandosi obbediente e servile come tutti i negri devono essere.

Kunta segue la donna che è già rientrata nella bottega, senza neanche aspettare che lui rispondesse. La donna indica un cesto, coperto da un telo.

- Prendilo.

Kunta si carica il cesto sulle spalle. Non sa che cosa ci sia dentro, ma pesa parecchio.

- Seguimi.

La casa della donna è piuttosto lontana. Entrano e passano direttamente in cucina. La donna gli indica il tavolo.

- Posa lì.

Kunta obbedisce. La donna annuisce e dice:

- Adesso esci dal cancello sul retro e prendi il sentiero di fianco al campo di mais. Dopo il gruppo di alberi trovi il carro. Buona fortuna.

Kunta annuisce e dice:

- Grazie.

Tutto è stato molto rapido. Kunta non sa nemmeno il nome di questa donna. Sa solo che corre dei rischi per aiutare gli schiavi neri in fuga verso il nord.

Kunta esce e si allontana, seguendo il sentiero finché raggiunge gli alberi. Poco oltre trova un carro, fermo di fianco a una strada. L’uomo lo guarda e gli chiede:

- Tu sei Kunta?

- Sì.

- Io ti porterò fino a Saint Matthews. Di lì dovrai percorrere una ventina di miglia per raggiungere Louisville, dove ti aspetta lo Zoppo.

- Lo Zoppo?

- Sì, è lui che ti farà arrivare in Indiana. Non sarà facile farti passare. Tu hai ucciso un uomo e ti cercano in tanti.

Così sanno che ha ucciso il cacciatore di schiavi, ma non lo abbandonano. Kunta si sente sollevato. Dice:

- L’ho fatto per difendermi.

- Lo credo, ma questo non cambia niente. Adesso non sei ricercato solo per essere fuggito, ma per un omicidio. Ora sono molti di più a cercarti e sanno che sei in questa zona.

Poi l’uomo aggiunge:

- Se c’è uno che può aiutarti è lo Zoppo. È il migliore. Adesso sali sul carro. Ho lasciato un posto sul davanti. Ti coprirò con gli stracci.

- Va bene.

Kunta si arrampica sul carro. C’è uno spazio stretto tra la parete anteriore e il carico. Kunta si stende. L’uomo lo copre con un asse e con alcune vecchie coperte, poi sale e mette in moto il carro.

Il viaggio è lungo. Ogni tanto il carrettiere lo avvisa che stanno avvicinandosi a un villaggio e gli raccomanda di rimanere in silenzio. Kunta non dice nulla, se non per rispondere  a qualche commento dell’uomo.

Nel pomeriggio l’uomo osserva:

- Non capisco. C’è una grossa nuvola nera verso nord. Ma non è una nuvola. Merda! Dev’essere l’incendio. Mi avevano detto che c’era un incendio verso Shepherdsville, ma non pensavo… dev’essere enorme.

Con il passare del tempo, il carrettiere è sempre più preoccupato. Più volte ripete:

- Non dire niente, c’è gente che si avvicina.

E poi ancora:

- Altri che si allontanano dall’incendio.

Il carrettiere scambia due parole con le persone in fuga: due villaggi sono stati distrutti dalle fiamme, come pure parecchie fattorie isolate. L’incendio si sta estendendo, minacciando altri paesi.

Kunta vorrebbe poter guardare, per farsi un’idea dell’estensione delle fiamme, ma non è possibile.

- Non riusciremo a passare. Non posso portarti a Saint Matthews.

Kunta chiede:

- Posso sollevarmi, per vedere la situazione?

L’uomo si guarda intorno, poi dice.

- Sì, non c’è nessuno, ma sporgi appena la testa, non si sa mai.

Kunta si solleva. Davanti a loro, nella direzione in cui si muove il carro, il cielo è completamente coperto da un’immensa nuvola scura e già nell’aria si sente l’odore di bruciato.

- Rimettiti giù.

Kunta obbedisce.

- Non passeremo, non possiamo passare. L’incendio si dev’essere esteso moltissimo. Dovrò lasciarti a Radcliff. Lo Zoppo ti aspetta a Louisville. Devi cercare di arrivarci a piedi, aggirando l’incendio. Oh, merda!

Il carrettiere lascia Kunta in un boschetto, non lontano da Radcliff.

- Lo Zoppo ti aspetterà per qualche giorno, se può. Il terreno scotta anche per lui. Ormai viene di rado, è troppo rischioso. Se lo prendono finisce appeso a un albero con i coglioni in bocca, ma prima che lo appendano, avrà il tempo di maledire il giorno in cui è nato.

- Ma perché continua, se è così rischioso?

- Aveva deciso di smettere, ma non c’era nessun altro in questo momento, per cui ha accettato. Non puoi passare il confine da solo, in questi giorni. Si sono organizzati, è pieno di cacciatori di schiavi. Ci vuole qualcuno che conosca tutti i passaggi e sappia cambiare strada in base alla situazione del momento. Adesso senti: a Louisville devi recarti al negozio di cordame della Main Street, è vicino a un saloon. Lo Zoppo ti contatterà lì.

L’uomo gli fornisce alcune indicazioni su come muoversi per arrivare a Louisville da Radcliff, poi lo saluta e si allontana.

 

In due ore Kunta raggiunge Radcliff. Deve attraversare la cittadina e poi cercare di andare verso nord, aggirando l’incendio. Kunta cammina a testa bassa, da buon negro. Ascolta la gente che parla per strada, ma l’argomento principale sembra essere l’incendio, non un negro assassino in fuga. C’è un piccolo assembramento vicino a un saloon. Kunta si ferma tra gli altri: preferisce sembrare un qualunque negro perdigiorno.

Seduti su una panca davanti al saloon ci sono un bianco e un nero. Il bianco è alto e massiccio, con capelli rossi e occhi verdi. Ha una fitta barba e grandi mani. Il nero invece è piccolo e magro e di fianco al colosso di pelo rosso appare indifeso. Il nero trema, mentre il bianco lo guarda e ride.

- Il mio bel negretto.

Kunta non guarda direttamente i due uomini. Anche gli altri neri presenti evitano di farsi vedere a fissare il bianco davanti al saloon, ma non perdono un dettaglio della scena. E d’altronde la piccola esibizione del bianco dai capelli rossi è diretta soprattutto a loro: vuole ricordare a questi neri, siano liberi o schiavi, che qui sono i bianchi a comandare e che la vita di un negro di merda non vale niente.

Adesso l’uomo ha afferrato l’orecchio del nero e glielo piega. Il nero non dice nulla, ma c’è una smorfia di dolore sulla sua faccia.

- È finito il divertimento, mio bel negretto.

L’uomo ride, poi la risata lascia il posto a un’espressione dura:

- Sei fottuto, lurido negro di merda.

Kunta sente la rabbia salire, ma non dice nulla. Non può correre rischi. E in ogni caso non potrebbe fare nulla. Potrebbe saltare addosso al bianco e sgozzarlo con il coltello che porta nascosto, ma ammazzerebbero come un cane lui e l’altro. Si chiede se non aspettare che l’uomo se ne vada con lo schiavo. Potrebbe seguirlo e magari cercare un’occasione per ucciderlo e salvare il nero. Ma è un’idea assurda, Kunta lo sa benissimo. Kunta deve cercare di salvare se stesso e già questa non è un’impresa facile.

Mentre Kunta riflette, arrivano altri due bianchi. 

Guardano l’uomo con lo schiavo nero.

- Cazzo! È lui!

Si avvicinano. Indicano il nero con un dito.

- Questo lo cercavamo anche noi.

Sono altri due cacciatori di schiavi. Kunta si tende. Sa benissimo di essere una preda ambita.

L’uomo dai capelli rossi ride.

- Ma l’ho trovato io! L’Irlandese è arrivato prima.

- Ma tu sai chi è?

- So che c’è una bella ricompensa per chi lo riporta a casa. Di chi è non mi fotte un cazzo. Chi vuoi che sia? È un negro di merda, ecco quello che è.

- Sì, ma questo è Jeremiah uno di quelli che aiutano gli schiavi che scappano dai loro padroni. Quelli che li guidano al Nord.

L’uomo che ha detto di chiamarsi l’Irlandese ha un ghigno malefico. Kunta sente di odiarlo con tutto se stesso.

- Questo qui non aiuterà più nessuno, te lo garantisco.

Dopo un attimo di pausa, l’Irlandese aggiunge:

- Avrebbe bisogno di aiuto lui, ma non c’è nessuno che possa dargli una mano. Vero, negro di merda, che non c’è nessuno che possa aiutarti?

E mentre lo dice l’uomo punta la pistola contro la bocca del nero e poi gli spinge la canna tra le labbra. Il prigioniero è costretto ad aprire la bocca e l’uomo gli infila l’arma tra i denti.

- Vuoi che spari, eh, negro? Forse è meglio che ti spari, così ti risparmi quello che ti aspetta. Potrei spararti in bocca. O magari in culo. Che ne dici se ti infilo la canna della pistola in culo e sparo? Magari ti viene duro quando te la infilo dentro…

L’Irlandese ride e toglie l’arma.

Gli altri due bianchi si guardano un momento. Devono avere un’idea in testa.

- Senti, perché non ce lo vendi?

- E perché mai dovrei vendervelo? Pensi che non sia in grado di farlo arrivare a destinazione? Se vuoi un negro, cercatelo.

- Ne stiamo cercando uno, un bastardo di nome Kunta, che ha ucciso uno di noi l’altra notte. Dev’essere da queste parti, di certo voleva raggiungere l’Indiana, ma non è potuto passare, per l’incendio. Prima o poi lo becchiamo.

Kunta si è sentito gelare. Questi due uomini cercano proprio lui. E sono a pochi passi, armati. Se guardassero i neri assembrati davanti al saloon… Kunta sulle parti scoperte non ha cicatrici che lo rendano immediatamente riconoscibile, ma è alto e robusto. In questo momento sta un po’ piegato in avanti, quasi ricurvo, perché la sua testa non emerga tra le altre. Gli sembra che uno dei neri vicino a lui lo guardi. Niente di strano: gli altri probabilmente si conoscono, almeno di vista; Kunta invece viene da fuori.

L’Irlandese intanto chiede:

- Com’è ‘sto tizio?

- Alto, più della media. Spalle larghe e corpo forte. Una cicatrice a V sul culo.

Kunta si accorge che anche un altro dei neri vicino a lui lo sta fissando. Merda!

L’Irlandese è scoppiato a ridere:

- Sul culo? E cosa fate? Abbassate i pantaloni a tutti i negri di merda per guardargli il culo? O aspettate che caghino per vedere se hanno la cicatrice, quando si tirano giù le brache?

I due non sembrano divertirsi.

- Almeno quello lo prendiamo. Te lo assicuro.

- Buona fortuna ragazzi. Se trovo un negro con una cicatrice sul culo, lo prendo io. Doppia ricompensa.

L’Irlandese ride ancora.

- Bada a non farti scappare questo. È un serpente.

- Può darsi, ma ha finito di sputare veleno. E comunque…

L’uomo ha un ghigno malefico.

- …stai tranquillo che non mi scappa.

Sì, Jeremiah non ha più nessuna speranza, questo fottuto bianco non se lo lascerà scappare. Kunta vorrebbe uccidere l’Irlandese, vorrebbe poter aiutare Jeremiah, ma in questo momento può solo cercare di non farsi prendere. Gli uomini che lo cercano sono a pochi passi da lui. Se sospettassero… basterebbe fargli abbassare i pantaloni per scoprire che è lui lo schiavo in fuga dalla piantagione di Mr. Redbowl.

D’improvviso Kunta prova un disperato bisogno di scappare, ma si controlla. Sa che se si mettesse a correre, non andrebbe lontano. Lo prenderebbero subito. O gli sparerebbero. Kunta guarda a terra, fissa i suoi piedi. Si rende conto di aver bisogno di pisciare, ma preferisce non allontanarsi, temendo di dare nell’occhio. Rimane nel gruppo di neri che dalla strada osservano la scena. Nota che uno degli uomini che lo fissavano sta scivolando davanti a lui, nascondendolo alla vista dei bianchi. È un movimento casuale o l’uomo ha capito e lo sta coprendo?

I due bianchi se ne vanno. Non badano al gruppo di neri fermo sulla strada. Quando sono distanti, Kunta si stacca dagli altri e si infila in un vicolo tra le case. Raggiunge i campi. Il cuore gli batte forte: Kunta è un uomo coraggioso, ma la sua vita è appesa a un filo.

Kunta si mette contro un albero, controlla che intorno non ci sia nessun bianco e piscia. Si rende conto che i pantaloni sono un po’ bagnati. Per fortuna sono solo poche gocce. In questo momento non è certo questo a preoccuparlo.

Kunta sa che deve raggiungere Louisville, ma la strada è bloccata dal grande incendio. Dai discorsi sentiti in paese, Kunta ha capito che le fiamme stanno divorando il Kentucky settentrionale: nella parte orientale dello stato, il terreno è ormai coperto da un’immensa distesa di cenere e dove c’erano i boschi rimangono solo gli scheletri anneriti degli alberi. Nell’area dove Kunta sarebbe dovuto passare le fiamme stanno estendendosi e non c’è modo di attraversare la regione. Kunta dovrà spostarsi a est, sperando di riuscire a superare il confine prima che le fiamme divorino tutto.

Kunta guarda verso nord, dove si innalza l’immensa nuvola nera. Può sentire l’odore di bruciato. Nell’aria svolazza la cenere che il vento porta fin qui.

Kunta si avvia. Non conosce il territorio, non sa come raggiungere Louisville, ma sa che deve andare verso nord, cercando di sfuggire all’incendio e ai cacciatori di schiavi fuggitivi.

Kunta si incammina. Usa l’incendio come punto di riferimento: dovrà cercare di passare a ovest dell’area che brucia, sperando che le fiamme siano meno rapide di lui.

Kunta evita il più possibile le strade, per paura di essere fermato e consegnato a quelli che lo cercano: c’è un grande viavai di gente a causa dell’incendio, ma anche nella confusione dei fuggitivi, qualcuno potrebbe notarlo e segnalare la sua presenza. Un nero sconosciuto è guardato sempre con sospetto, anche se nel Kentucky vivono diversi neri liberi. E qualcuno che si dirige verso nord, dove l’incendio infuria, è ancora più sospetto.

Camminare nei boschi e lungo i sentieri tra i campi rallenta lo spostamento e spesso Kunta è costretto a tornare indietro e cercare una nuova via per procedere. Quando arriva la sera, è ormai molto vicino all’incendio. Kunta si chiede se ha senso fermarsi a dormire in un posto che potrebbe essere raggiunto dalle fiamme nella notte: per il momento il vento soffia verso Sud, ma potrebbe girare.

Kunta decide di proseguire ancora un tratto: la luce dell’incendio costituisce un buon punto di riferimento, anche se non è sempre sufficiente per vedere dove mettere i piedi. Dopo qualche ora, Kunta si rende conto che le gambe non lo reggono più e si stende ai piedi di un albero, vicino a un torrente.

È il fumo a svegliarlo. Nella notte l’incendio si è esteso verso ovest e ora l’aria è piena di fumo e dell’odore acre dei boschi che bruciano. Il calore è insopportabile e Kunta si rende conto che i vestiti gli si sono appiccicati addosso per il sudore. La stanchezza lo ha fatto sprofondare in un sonno profondo, per cui non si è reso conto dell’avvicinarsi delle fiamme.

Kunta si alza, ma l’aria è irrespirabile. Kunta si piega. Stando chinato riesce ancora a respirare, anche se il fumo gli fa bruciare la gola e lacrimare gli occhi. Kunta si guarda intorno, senza drizzarsi. Individua la direzione in cui il bosco sembra ancora integro e si sposta rapidamente.

Dopo un breve tratto il fumo è meno fitto e Kunta può alzarsi. Si muove in fretta, cercando di allontanarsi dalle fiamme che avanzano.

Kunta raggiunge il margine del bosco. Proseguire significa uscire allo scoperto, dove può essere più facilmente avvistato. Kunta decide di rimanere sul limitare del bosco.

In alto il cielo è coperto dalla nuvola dell’incendio e l’odore di bruciato è forte, ma l’aria non è satura di fumo e si riesce a respirare.

Kunta cammina due ore, dirigendosi verso nord. A tratti si inoltra nel bosco, in altri momenti invece passa tra i campi, cercando sempre di mantenere la direzione.

È in una zona aperta e sta avvicinandosi a un bosco, dove le fiamme non sono ancora giunte, quando in lontananza vede un carro con due uomini armati. Kunta finge di non averli visti, ma sa benissimo che loro hanno visto lui. E sa chi sono: sono i due cacciatori di schiavi che lo cercano. Kunta continua a camminare, facendo finta di niente, soffocando l’impulso di mettersi a correre. Si dirige verso il bosco: i due non potranno seguirlo con il carro, ma questo non significa molto.

Kunta evita di guardare indietro, ma passando tra gli alberi lancia una rapida occhiata alle sue spalle. Gli sembra che il cuore gli si fermi: i due hanno lasciato il carro e si stanno avvicinando. Kunta sa di essere perduto. Accelera il passo e si dirige verso l’incendio. È la sua unica speranza.

Alle sue spalle risuona una voce:

- Fermati o sparo!

Kunta scatta in una corsa disperata. Uno sparo risuona poco dopo, ma il proiettile si perde. Tra gli alberi è difficile colpire un uomo in corsa.

Kunta corre: sa che le sue, minime, possibilità di rimanere in vita dipendono dalla velocità con cui riesce a muoversi. Si avvicina all’incendio. L’aria è satura di fumo.

Ora Kunta corre lungo i margini dell’incendio. Sulla sinistra si trova di fronte un fiume. Merda! A destra l’incendio, a sinistra il fiume. Kunta non sa nuotare, non può gettarsi in acqua. Corre nello spazio ristretto tra il fiume e l’incendio, che ora il vento spinge verso il fiume.

A un certo punto Kunta si trova la strada sbarrata dall’acqua che scorre impetuosa: il fiume fa un’ansa ed è impossibile proseguire senza attraversarlo. A destra il bosco arde. La sua fuga è finita.

Kunta si volta. I due uomini non sono lontani. Si avvicinano con i fucili puntati, ma non sparano: hanno capito che la preda non può sfuggire e preferiscono catturare il negro vivo, ci sarà più divertimento.

I due uomini ora sono di fronte a lui.

Uno ghigna e dice:

- Tu sei Kunta, lo schiavo che è fuggito dal signor Redbowl. E sei tu che hai ucciso un uomo.

Kunta sa di essere perduto. È inutile negare: ai due basta abbassargli i pantaloni per avere la prova della sua identità. E quanto all’omicidio, non può negare neanche quello.

Kunta sa che morirà, ma non morirà da solo. Ci sarà un cacciatore di schiavi in meno. Kunta china la testa come se si arrendesse, ma quando uno dei due si avvicina, per legarlo, con una mossa rapidissima Kunta estrae il coltello e lo infila nel petto dell’uomo. La lama spacca il cuore, ma quando Kunta cerca di estrarla, si rende conto che è rimasta bloccata tra le costole.

Non cambia molto: l’altro uomo lo ucciderà comunque.

Infatti quando l’uomo colpito crolla a terra, Kunta vede che il secondo cacciatore di schiavi ha già puntato la pistola su di lui:

- Bastardo! Adesso ti ammazzo, fottuto ne…

Lo sparo copre l’ultima parola. Un foro rosso è comparso sulla fronte dell’uomo, che barcolla e crolla a terra.

Kunta lo guarda incredulo afflosciarsi, poi si volta: l’uomo che ha sparato dev’essere alle sue spalle, dall’altra parte del fiume. Infatti oltre il corso d’acqua c’è l’Irlandese. È lui che ha sparato: ha ancora la pistola in mano. Perché ha ucciso il cacciatore di schiavi?

L’Irlandese gli grida:

- Gettati in acqua e vieni qui, presto. Tra poco lì brucerà tutto.

È vero, Kunta lo sa benissimo. L’area da cui è arrivato già arde e anche gli alberi vicino a lui stanno bruciando nella parte superiore. Ma Kunta non sa nuotare e il fiume sembra profondo.

- Muoviti, Kunta! Prima o poi brucerà anche da questa parte. Dobbiamo allontanarci.

L’uomo conosce il suo nome. Ma…

Mentre Kunta cerca di darsi una spiegazione, compare Jeremiah, il nero che l’uomo stava tormentando al saloon. Ha una pistola in mano. Si rivolge al bianco.

- Patrick, dobbiamo fare in fretta. Alcuni alberi da questa parte del fiume stanno già bruciando. Il vento ha portato qualche scintilla e hanno preso fuoco.

Poi Jeremiah si rivolge a Kunta:

- Kunta, muoviti. In fretta. Non abbiamo tempo da perdere.

Kunta non capisce più nulla. L’Irlandese, che Kunta ha chiamato Patrick, l’ha salvato uccidendo l’uomo che stava per sparargli. Perché? Jeremiah è armato e sembra amico di Patrick, non il suo prigioniero. Ed entrambi conoscono il suo nome.

- Kunta! Buttati in acqua!

Kunta scuote la testa.

- Non so nuotare!

- Oh, cazzo!

Mentre lo dice, Patrick ha già incominciato a spogliarsi. Con gesti rapidi si toglie tutto quello che ha e rimane nudo. Si getta in acqua e con poche bracciate potenti attraversa il fiume. Esce dall’acqua e si avvicina gocciolante a Kunta.

Kunta guarda questo gigante dal pelo rosso. Guarda il torace muscoloso, il ventre sporgente, il grosso cazzo.

- Senti, ti porto io dall’altra parte, tu però ti devi abbandonare completamente a me, altrimenti affoghiamo tutti e due. È chiaro?

Kunta annuisce. Sa che se in acqua uno si dibatte mentre lo portano in salvo, il rischio è davvero che finisca a fondo insieme al suo salvatore.

- Allora recupera il tuo coltello, che può sempre servire.

Patrick sorride e aggiunge:

- Ma non me lo piantare nella schiena quando arriviamo.

Kunta scuote la testa. È frastornato. Con uno sforzo gira il coltello nella ferita e lo estrae dal cadavere dell’uomo steso a terra. I due corpi bruceranno, ormai gli alberi intorno sono in fiamme: probabilmente nessuno capirà che sono stati uccisi. Per Kunta non cambia molto: tutti sanno che lui ha già ucciso un bianco.

Patrick entra in acqua. Il fiume è profondo: già vicino alla riva, del gigante rimane fuori solo la testa.

- Vieni qui.

Kunta infila il coltello nella guaina e si immerge. Respira a fondo. Patrick gli passa un braccio intorno al torace.

- Adesso abbandonati completamente. Al massimo berrai un po’ d’acqua, ma non ti lascio affogare. Capito?

- Sì, ho capito.

Patrick si muove. Nuota con un braccio, mentre l’altro tiene Kunta.

Kunta si sforza di rimanere immobile, ma è rigido. Schizzi d’acqua gli arrivano in faccia e c’è un momento in cui si trova sotto, ma riemerge subito. Dopo un tempo brevissimo, che gli è parso comunque lungo, Patrick gli dice:

- Qui si tocca. Puoi alzarti.

Patrick si drizza. È vero, si tocca. Escono dall’acqua. Patrick incomincia a rivestirsi. Kunta è fradicio, ma il calore dell’incendio asciugherà in fretta gli abiti.

Kunta vorrebbe chiedere spiegazioni, perché nulla di ciò che è avvenuto sembra avere un senso. Si incamminano, mentre Patrick parla:

- Dobbiamo andarcene in fretta. Anche se l’incendio brucerà i due cadaveri, possono esserci altri cacciatori di schiavi e in ogni caso qui il terreno scotta per me, per te e per Jeremiah. E non per l’incendio.

Patrick ride. Ha una risata fragorosa.

Kunta lo guarda e chiede, a bruciapelo:

- Perché hai sparato?

Patrick allarga le braccia.

- Santo cielo, se non gli sparavo io, sparava lui a te.

- Ma perché mi hai salvato?

Jeremiah ha capito e interviene, spiegando. Non servono molte parole:

- Kunta, Patrick è lo Zoppo, quello che dovevi incontrare.

Di colpo, tutto appare chiaro.

- Allora, la scena al saloon… era tutta una finta?

Patrick annuisce.

- Certo. Jeremiah era stato riconosciuto. Avrebbe avuto dietro mezzo Kentucky. Così l’ho catturato io.

Jeremiah scuote la testa:

- Pura follia, venire a salvarmi. Lui è l’uomo più odiato d’America e se qualcuno sospettasse… preferisco non pensare che cosa ti farebbero, se ti beccassero.

- Mi lincerebbero.

- Quello sarebbe solo il finale.

Hanno raggiunto il carro. Patrick dice:

- Allora, Kunta, credo che sia meglio continuare con la commedia. Jeremiah sul carro come prigioniero, che sembra ben legato, ma con la pistola nascosta sotto la camicia. Non che serva a molto: come tiratore è un disastro.

Jeremiah allarga le braccia, in un gesto sconsolato.

- Quand’ero schiavo, non mi hanno insegnato a sparare.

Patrick prosegue:

- Tu mi fai da cocchiere. Posso dire che ti ho preso al mio servizio. Se qualcuno sospetta, gli dico che in ogni caso ti ho trovato io e che la ricompensa la prenderò io. Se invece qualcuno riconosce me, allora siamo fottuti tutti e tre e quello che seguirà non sarà un divertimento. Non per noi, almeno. Gli altri si divertiranno un mondo.

Sono saliti sul carro. A un cenno di Patrick, Kunta fa schioccare la frusta. Il cavallo si mette in moto.

Kunta chiede:

- Ma perché ti chiamano lo Zoppo? Non zoppichi mica.

- Mi sono beccato una fucilata, mentre aiutavo uno schiavo, e per un certo tempo zoppicavo davvero. È stata una buona cosa, perché quelli che mi cercano sono convinti di dover trovare uno zoppo. O almeno lo erano fino a qualche tempo fa. Adesso hanno le idee molto più chiare, per mia sfortuna.

Patrick raggiunge una strada che si dirige verso nord-ovest, ai limiti dell’incendio. Il vento sembra aumentare di intensità e le fiamme si propagano in fretta.

Jeremiah chiede:

- Ce la faremo a passare, Patrick?

- Non lo so, Jeremiah, ma dobbiamo provare. La scenetta a Radcliff è andata bene, ma è stato un puro caso. Di sicuro a quest’ora qualcuno ha già capito che si trattava dello Zoppo e che quel fottuto negro rischia di scamparla anche questa volta.

Kunta guarda l’immensa nuvola dell’incendio alla loro destra. Se il vento continuerà a soffiare intensamente come ora, rischiano di finire intrappolati. Non è una bella morte, anche se di sicuro meglio di quella che li aspetta se verranno catturati. La manovra di Patrick è azzardata.

Il cavallo è nervoso. Patrick cerca di calmarlo. Procedono abbastanza in fretta lungo la strada, senza incontrare nessuno: l’incendio è troppo vicino, chi poteva si è già allontanato.

Ora però la strada gira e sembra proprio andare in direzione delle fiamme.

Patrick ferma il cavallo e dice:

- Fine della corsa.

Scendono tutti e tre, Patrick libera il cavallo dai finimenti che lo legavano al carro e lo prende per le briglie. Si dirigono verso ovest, allontanandosi dall’incendio, e poi nuovamente a nord. L’incendio non sembra più avanzare verso di loro, il vento ora pare aver girato di nuovo verso sud e probabilmente spinge le fiamme verso Radcliff.

Nel pomeriggio deviano nuovamente verso est, attraversando una zona che l’incendio ha devastato. Il terreno è una distesa di cenere e gli scheletri degli alberi oscillano al soffio del vento. Camminando sollevano nuvole di cenere che li fanno tossire. Procedono tenendo un fazzoletto davanti al naso. A un certo punto attraversano quello che rimane di un villaggio: i camini di pietra di alcune case si drizzano ancora, il resto è solo un insieme di macerie bruciate.

Verso sera superano la zona devastata dalle fiamme. Davanti a loro scorre un fiume.

- Là si può guadare. Così ci laviamo. Secondo bagno della giornata. Il primo per te, Jeremiah. E da quanto puzzi, direi che ne hai proprio bisogno.

- Meglio che non dica quello che penso…

- Perché, adesso pensi anche? Da quando in qua?

Kunta scoppia a ridere. Jeremiah scuote la testa e non risponde, ma è evidente che scappa da ridere anche a lui.

Si avviano, Patrick in testa, Kunta e Jeremiah dietro. Patrick raggiunge un punto in cui il fiume è più ampio.

- Vai avanti tu, Jeremiah, sul cavallo.

In effetti Jeremiah è di bassa statura e se l’acqua è alta come sembra, non riuscirebbe a camminare sul fondo tenendo la testa fuori dall’acqua. Jeremiah sale a cavallo e procede. A metà del fiume l’acqua arriva al collo dell’animale.

Kunta passa dopo Jeremiah. Non si sente a proprio agio. Dove l’acqua è più alta e la corrente più forte, ha un momento di esitazione. Sente dietro di sé la voce di Patrick:

- Non ti preoccupare, Kunta. Ci sono io dietro di te. Non ti lascio affogare.

Kunta annuisce. Sapere che Patrick è pronto ad aiutarlo lo tranquillizza. Procede. A un certo punto mette un piede su un sasso e scivola, ma Patrick gli ha già messo un braccio intorno alla vita e lo aiuta a recuperare l’equilibrio.

Infine raggiungono la riva opposta. Sono fradici e il sole ormai sta tramontando.

Patrick dice:

- Siamo in Indiana, Kunta. Non al sicuro, perché possono arrestarci anche qui, ma abbiamo molti amici. Adesso ci conviene procedere in fretta, per arrivare a una casa dove possano accoglierci prima che sia completamente buio.

Camminano rapidamente, nonostante la stanchezza, e infine raggiungono una fattoria. Patrick si fa avanti e bussa. Gli apre un uomo sui cinquanta.

- Patrick! Ce l’hai fatta! Jeremiah, che piacere vederti: ti davamo per spacciato. E tu…

L’uomo guarda Kunta. È Patrick a rispondere:

- Lui è Kunta.

- Venite dentro.

Intanto alla porta è arrivata anche una donna, anche lei sui cinquanta. Saluta calorosamente Patrick e Jeremiah, sorride a Kunta e dice:

- Vado a prepararvi qualche cosa da mangiare. Se avessi saputo del vostro arrivo, avrei preparato una torta.

- Non li viziare, Lisbeth. Patrick è già piuttosto grasso…

Patrick ride e dice:

- Brutto… Non dico quel che sei, Julian, per rispetto nei confronti di Lisbeth, che è una vera signora. Non ho mai capito come mai ha sposato te.

Anche Julian ride.

Si lavano le mani e poi si mettono a tavola.

Kunta è felice di potersi sedere e mangiare: è stanco e in giornata non ha toccato cibo. Dopo cena Patrick, Jeremiah e Kunta raccontano le loro avventure, ma sono tutti e tre stanchi, per cui si coricano presto.

Steso sul giaciglio Kunta pensa che ha attraversato il confine e che adesso i rischi sono molto ridotti: non gli sembra vero di essere infine arrivato in Indiana. Adesso può pensare al futuro, ma è troppo stanco. Lo farà domani. Esiste un domani che può immaginare, che non è più la schiavitù. Kunta vorrebbe sognare un po’ a occhi aperti, ma la stanchezza ha il sopravvento e si addormenta subito.

 

Per due giorni rimangono nella casa. Patrick mette in guardia Kunta:

- Ci sono altre fattorie nell’area ed è meglio che nessuno veda dei negracci qui. Siamo troppo vicino al confine e i cacciatori di schiavi vengono spesso da queste parti. Dovrebbero rivolgersi allo sceriffo, ma se sono in gruppo, se ne fottono delle leggi.

Patrick dà una mano a Julian nei campi, mentre Jeremiah e Kunta fanno due lavoretti in casa, ma non c’è molto da fare per loro. Kunta ne approfitta per parlare un po’ con Jeremiah.

- Sei stato schiavo anche tu?

- No, mio padre e mia madre erano schiavi, ma fuggirono dalla Georgia quando mia madre era incinta. Sentendo quello che mi raccontavano della loro vita in piantagione, decisi che volevo fare qualche cosa anch’io contro la schiavitù. 

- E come hai fatto… insomma, per fare qualche cosa?

- Ci sono diversi gruppi che cercano di aiutare gli schiavi a fuggire a nord. Alcuni raccolgono fondi per questo. A Baltimora ci sono i Congregazionisti che sono molto attivi. Per tre anni ho collaborato con loro, aiutando gli schiavi in fuga a superare il confine tra la Virginia e il Maryland, ma poi la situazione è diventata insostenibile: mi avevano individuato e rischiavo di essere preso. Una volta un gruppo di cacciatori di schiavi ha cercato di catturarmi: se non fossi riuscito a nascondermi, mi avrebbero ammazzato o magari mi avrebbero venduto come schiavo.

- Ma non possono vendere come schiavo un uomo libero.

- Possono, possono. Ti fanno passare per uno schiavo in fuga, pagano qualche dollaro al giudice che gli dà ragione e tu sei fottuto.

- Non pensavo…

- È successo più volte. Adesso che l’Inghilterra ha proibito la tratta, arrivano meno schiavi e la richiesta di manodopera è forte.

Kunta scuote la testa, senza dire nulla. Jeremiah continua:

- Ho lasciato la mia casa in Maryland e mi sono spostato qui, in Indiana. La prima schiava che ho aiutato a fuggire qui è stata Margaret, che adesso è mia moglie. Viviamo a Bedford, ma ci sposteremo. Ormai anche qui il terreno scotta per me. In Kentucky sanno chi sono. Se Patrick non fosse intervenuto, io sarei già morto. E non sarebbe stata una fine rapida, né piacevole. Anche se credo che morire non sia mai piacevole.

Jeremiah ride. Ha una risata molto diversa da quella di Patrick, tanto sommessa, quanto quella dell’irlandese è roboante.

- Mi sembra di capire che anche Patrick corra dei rischi.

- Sì, più di me. Anche lui non può continuare. Venire a salvarmi in Kentucky è stata una pura pazzia. È ancora più odiato di me: per molti bianchi lui è un traditore. Preferisco non pensare a quello che gli farebbero se lo prendessero.

- E che cosa farete adesso?

- Io penso di andare verso la California. Non mi spiacerebbe neanche il Canada, ma è un paese molto freddo. Quanto a Patrick… non so che cosa intende fare, devi chiedere a lui. Abbiamo collaborato più volte, ma non conosco le sue intenzioni.

- Ma lui, Patrick, perché lo fa?

Jeremiah sembra un po’ stupito dalla domanda.

- Perché è contro la schiavitù, come tutti gli altri bianchi che ti hanno aiutato ad arrivare fino qui. Sono in tanti a volere abolire la schiavitù. La tratta è già stata proibita.

L’irlandese incuriosisce molto Kunta. Dopo che hanno parlato un po’ della vita di Jeremiah e delle possibilità di lavoro per i neri in fuga dalla schiavitù, Kunta chiede ancora di Patrick:

- Che lavoro fa Patrick?

- Non ha un lavoro. È arrivato in America due anni fa, intenzionato a mettere su qualche attività, ma ha incominciato subito a dedicarsi ad aiutare gli schiavi in fuga, qui in Indiana.

- E come vive? Se non ha un lavoro...

- So che ha dei soldi da parte, quelli con cui voleva avviare un’attività. Riceve un po’ di denaro da un’associazione presbiteriana. Dove non sarebbero molto contenti di sapere che ha ammazzato un uomo per salvarti, ma nessuno di noi tre glielo farà sapere. Mi raccomando, Kunta, acqua in bocca, su questo, con tutti, anche con quelli che sono dalla nostra parte. Non è successo niente. Ti abbiamo trovato per strada e aiutato, come era previsto che Patrick facesse. Dei due cacciatori di schiavi morti nell’incendio noi non sappiamo nulla.

- Di sicuro non dirò niente.

 

La notte seguente, poco prima dell’alba, riprendono il loro viaggio. Si riposano poche ore in un fienile e poi ripartono. Verso mezzogiorno consumano un po’ del cibo che Julian ha dato loro (e della torta di mele che Lisbeth ha preparato), poi Jeremiah li lascia per raggiunge Bedford.

- È stato un piacere conoscerti, Kunta. Mi spiace un po’ lasciarti da solo con Patrick, che è un individuo altamente pericoloso, come avrai già capito da solo. Ma è meglio se ci dividiamo e non vedo l’ora di riabbracciare mia moglie.

Patrick scuote la testa.

- Che stronzo! Se non era per me a quest’ora penzolava da un albero e guarda che cosa ha il coraggio di dire! È meglio che tu te ne vada in fretta, Jeremiah, o non rispondo di me.

Jeremiah si rivolge di nuovo a Kunta:

- Vedi che è pericoloso?

Ridono tutti e tre. Poi Jeremiah abbraccia Patrick, stringe la mano a Kunta e si allontana a cavallo.

 

Patrick e Kunta riprendono il loro viaggio. Si muovono a piedi e parlano molto poco. Patrick sembra conoscere molto bene i posti e sceglie sentieri poco battuti. Vedono spesso fattorie in lontananza, ma di rado incontrano qualcuno. È un territorio collinoso, con una popolazione sparsa, ed è facile evitare gli incontri.

Si fermano solo verso il tramonto. Mangiano insieme.

Kunta vorrebbe conoscere meglio Patrick, ma non vuole apparire invadente. Si limita a chiedere:

- Dove siamo diretti?

- A una fattoria isolata, dove possiamo passare un po’ di giorni in pace, senza temere che qualcuno venga a cercarci. È meglio che per un po’ io non mi faccia vedere in giro.

Kunta annuisce. Patrick aggiunge:

- Kunta, se tu non vuoi fermarti, posso darti le indicazioni per raggiungere da solo Terre Haute, ma non te lo consiglio. Tu hai ucciso un uomo e corri più rischi di un normale schiavo fuggitivo. Meglio lasciar passare un po’ di tempo.

Kunta annuisce, poi dice:

- Anche tu hai ucciso un uomo.

- Escludo, mai fatto niente del genere. O se l’ho fatto l’ho dimenticato.

Kunta sorride.

- Hai problemi di memoria…

- Forse, ma magari con una memoria migliore potrei anche ricordarmi che tu hai ucciso due uomini, non uno.

Poi Patrick scuote la testa sorridendo e aggiunge:

- Kunta, scordati quello che è accaduto, davvero. Se troveranno i due cadaveri, saranno resti carbonizzati e non credo che nessuno si preoccuperà di capire chi erano e come sono morti. E anche se scoprissero che sono stati ammazzati, io e te non ne sappiamo niente.

Kunta annuisce:

- Sì, lo so. Me l’ha detto Jeremiah. Di sicuro non ne parlerò a nessuno.

- Così va bene. Non vorrei mai dover mettere un cacciatore di schiavi sulle tue tracce.

Kunta ride e ribatte:

- Secondo me tu sei una preda più ambita.

Patrick annuisce:

- Sì, se tu non avessi ucciso due uomini, no, volevo dire… un uomo, credo che potresti persino comprare la tua libertà denunciandomi alle persone giuste. Sarebbero disposti a tutto pur di avermi tra le mani.

A Kunta non spiace l’idea di fermarsi un po’ con Patrick: ha voglia di conoscere meglio questo irlandese che rischia la pelle per aiutare gli schiavi in fuga. Gli sembra diverso dagli altri uomini che ha incontrato, anche se in realtà ognuno di loro era differente. Ma Patrick lo incuriosisce molto di più.

Patrick aggiunge:

- Adesso è un periodo di lavori nei campi e alla fattoria dove andiamo non c’è il rischio che ci vedano, per cui io e te possiamo dare una mano per ringraziare dell’ospitalità che ci viene offerta.

- Benissimo, mi sembra sensato.

Si stendono a dormire. Kunta pensa al proprio futuro. Paul gli aveva detto che, una volta giunto a destinazione, avrebbe trovato qualcuno in grado di aiutarlo a trovare un lavoro. Kunta vorrebbe non dover lavorare per un bianco, ma i proprietari terrieri sono tutti bianchi e Kunta sa solo coltivare i campi e guardare gli animali. Se il padrone fosse come Patrick, sarebbe diverso. Chissà che cosa farà Patrick, ora? Se gli servisse un aiutante, a Kunta non dispiacerebbe lavorare con lui.

Kunta sente il russare di Patrick. L’irlandese gli piace parecchio. Ne apprezza l’umorismo, la vitalità, la generosità, la determinazione.

Kunta ripensa a quando Patrick si è spogliato per attraversare il fiume e venire a salvarlo. Si rende conto che Patrick gli piace anche come maschio. Non è bello, no, ma gli piace. Il pensiero lo disturba, per cui lo scaccia. Cullato dal russare di Patrick, si addormenta.

Patrick lo sveglia che è ancora buio.

- Il primo pezzo di strada è meglio farlo prima che spunti il sole. È più sicuro. Faremo colazione più tardi.

Si mettono in movimento. Patrick sembra conoscere ogni sentiero, ogni strada, ogni fattoria. Ogni tanto dice due parole sul fatto che è meglio evitare un certo posto, che invece da un’altra parte non corrono rischi. Kunta annuisce. Ormai ha una fame da lupo, ma non dice niente: è abituato a sopportare disagi. Il “più tardi” previsto per la colazione sembra non arrivare mai. Kunta incomincia a sospettare che mangeranno solo a cena e il pensiero non è piacevole, visto che i loro pasti sono sempre alquanto leggeri e che camminano molto.

Quando infine Patrick propone di fermarsi e fare uno spuntino, Kunta accoglie la proposta con entusiasmo. Parlano un momento della fattoria dove andranno. Poi, quando hanno finito, Patrick si alza e si mette contro un albero a pisciare.

È a due passi da Kunta, che può vederne benissimo il cazzo. Patrick sembra non provare nessuna vergogna. Anche Kunta è abituato a fare i propri bisogni in presenza di altri uomini, alla piantagione era normale, ma vedere il cazzo di Patrick lo turba. Non riesce a distogliere lo sguardo e si rende conto che il sangue sta affluendo al suo uccello. Kunta si alza, irritato con se stesso. Non è strano che il desiderio si accenda: non scopa da parecchio, dall’ultima notte trascorsa alla piantagione di Redbowl, e quest’uomo che lo sta guidando verso la salvezza lo attrae a livello fisico, oltre a essergli simpatico come persona. Ma non aveva messo in conto niente del genere. La faccenda gli dà fastidio. È meglio che pensi ad altro e non guardi.

- Andiamo.

Kunta annuisce e guarda Patrick. Ha l’impressione che ci sia un sorriso canzonatorio sul viso dell’irlandese, ma forse è solo un’impressione.

Si rimettono in cammino. Seguono un sentiero, a tratti appena visibile. Patrick va avanti, Kunta lo segue. Kunta osserva la schiena dell’irlandese. Il sole è alto in cielo, la giornata è calda e Patrick suda parecchio. La camicia sulla schiena è intrisa di sudore. Kunta si accorge di avere la gola secca. Il cazzo gli si tende. Merda! Kunta è irritato con se stesso.

Durante il viaggio Patrick si ferma qualche volta in una fattoria o in un paese per comprare un po’ di cibo, ma in queste occasioni Kunta rimane nascosto: un bianco dal pelo rosso di per sé non è particolarmente sospetto, di irlandesi ce ne sono diversi, invece un bianco che si sposta insieme a un nero susciterebbe curiosità e diffidenza.

Il terzo giorno sono svegliati dalla pioggia: si erano coricati all’aperto, sotto un cielo stellato, ma nella notte le nuvole si sono diffuse e adesso piove. Patrick commenta, laconico:

- Merda! Avremmo dovuto cercare un riparo.

Mangiano qualche cosa e si mettono subito in cammino. Piove tutto il mattino, ma per fortuna nel pomeriggio le nuvole si diradano e un timido sole fa capolino. In serata raggiungono la loro meta: una fattoria in un’area poco popolata.

Michael Greenstone, il padrone della fattoria è un uomo di poche parole, che non appare cordiale come altri che Kunta ha incontrato. Offre loro una cena frugale, poi Kunta e Patrick si trasferiscono nei loro “lussuosi appartamenti”, come li chiama Patrick: si tratta del fienile, perché la casa è piccola e il fattore ha quattro figli.

Kunta e Patrick sono molto stanchi e si stendono subito a dormire.

Come previsto, il giorno dopo Patrick e Kunta danno una mano nei lavori dei campi. Michael e due dei suoi figli, che sono ancora ragazzi, lavorano con loro. Kunta si rende conto che Greenstone lo tiene d’occhio: sembra controllare che Kunta non batta la fiacca. Kunta è abituato a lavorare sodo e gli sembra ragionevole dare una mano a chi lo ospita, perciò la faccenda non lo disturba.

La giornata è serena e fa caldo, per cui lavorano tutti a torso nudo. Kunta guarda i rivoli di sudore che si perdono tra i peli sul petto di Patrick, la pancia piuttosto consistente, le mani grandi e forti. Kunta si sente la gola secca. Quando Patrick si accorge che Kunta lo sta fissando, gli sorride. Kunta abbassa lo sguardo e si concentra sul lavoro, ma rimane conscio della presenza di Patrick vicino a lui, dell’odore intenso di sudore.

La sera si lavano a un ruscello. Kunta evita di guardare Patrick: non vuole avere un’erezione. Dopo cena vanno nel fienile. La notte è calda e prima di stendersi, Patrick si spoglia completamente. Kunta lo fissa, incapace di distogliere lo sguardo fino al momento in cui Patrick se ne accorge e gli sorride. Allora Kunta abbassa gli occhi e si mette a sistemare il fieno su cui dormono.

Nei giorni seguenti stando accanto a Patrick, Kunta avverte una tensione continua: di giorno, quando lavora al suo fianco; di notte, quando è steso vicino a lui. Spesso il cazzo gli si irrigidisce. Kunta si vergogna e spera che Patrick non se ne accorga. A tratti si chiede se non farebbe meglio ad andarsene, cercando di raggiungere Terre Haute da solo. Ma è un’idea stupida.

La terza sera, quando Patrick si cala le mutande, Kunta vede che l’irlandese ce l’ha duro: un grosso cazzo, che si drizza in verticale, spiccando sui peli rossi del ventre. Patrick non sembra per nulla imbarazzato. Sorride e dice:

- Dopo un po’ di giorni senza scopare, finisce che ce l’ho duro metà del tempo.

Kunta annuisce, incapace di dire alcunché.

- A te non viene duro?

Kunta scuote la testa, ma nei pantaloni il cazzo sta rapidamente alzando la testa.

Patrick scoppia a ridere.

- Mi sa che sei un gran bugiardo, Kunta.

Kunta guarda Patrick. È irritato. Con un gesto brusco, si abbassa i pantaloni e le mutande. Il suo cazzo ora è rigido. Dice, rabbioso:

- E allora?

Patrick scuote la testa e ride di nuovo.

- Non ti arrabbiare, Kunta. Io sono un maiale e tu mi piaci parecchio. Ma non volevo certo offenderti.

Kunta rimane a guardare Patrick. Si vergogna dello scatto che ha avuto. Non sa che cosa fare, non trova le parole da dire. Vorrebbe essere altrove.

- Hai mai scopato con un uomo, Kunta?

Kunta fissa Patrick senza rispondere. Patrick aggiunge:

- O l’hai solo desiderato?

Kunta sibila:

- L’ho messo in culo a un bianco.

E di nuovo si vergogna dello scatto di rabbia.

Patrick annuisce, serio.

- Kunta, mi piaci molto, te l’ho detto, e non volevo offenderti. Scusami. Non ne parliamo più.

Kunta apre la bocca, ma non dice nulla. Continua a fissare Patrick, sul cui viso ora gli sembra che appaia un sorriso canzonatorio, ma forse lo immagina soltanto. Guarda il cazzo di Patrick, sempre duro, grosso, teso.

- Patrick…

Kunta fa un passo avanti. Ora i loro corpi si sfiorano.

- Hai mai baciato un uomo, Kunta?

E mentre lo dice Patrick abbraccia Kunta e le sue labbra cercano la bocca del nero.

Kunta non ha mai baciato un uomo e quando le labbra di Patrick si posano sulle sue, la sensazione che prova è strana: Kunta non saprebbe dire se è piacevole o spiacevole. Sentire le braccia di Patrick che lo avvolgono e lo stringono invece è bello. E gli piace anche sentire il cazzo di Patrick premere contro il ventre, a fianco del proprio.

Patrick lo bacia e le sue mani lo stringono, lo accarezzano, gli afferrano il culo e premono. Kunta sente il piacere avvolgerlo e si abbandona completamente alla stretta.

Quando la lingua di Patrick si infila tra i denti, Kunta sussulta, come se lo avessero colpito. Lo disturba sentire questa lingua che entra nella sua bocca, eppure non gli dispiace.

Patrick ritrae la lingua, ma continua a baciarlo e dopo un po’, di nuovo la sua lingua si spinge nella bocca di Kunta, che questa volta l’accoglie. Tutto sommato, la sensazione non è spiacevole.

Adesso anche le mani di Kunta si muovono, accarezzando e stringendo, ed è una bella sensazione.

Infine Patrick smette di baciare Kunta e dice:

- Che cosa vuoi che facciamo?

Kunta lo guarda, incerto. Patrick sorride e dice:

- Kunta, per me va bene tutto. A me va bene tutto. Non c’è niente che non abbia fatto nella mia vita, proprio niente, e ben poco che non mi sia piaciuto. Te l’ho detto: sono un maiale.

Kunta sa quel che vorrebbe, ma non osa dirlo. Patrick però intuisce:

- Vuoi mettermelo in culo? È questo quello che vuoi?

Kunta annuisce. Poi aggiunge:

- Patrick, nessuno me lo ha mai messo in culo. Io…

Patrick sorride.

- Non ti preoccupare, Kunta. Non pretendo il tuo culo solo perché ti offro il mio.

Patrick bacia ancora Kunta, poi chiede:

- Come vuoi che mi metta?

Kunta ha sempre scopato allo stesso modo, inculando Lou che stava disteso sul fieno. Non capisce la domanda. Patrick gli legge in faccia che è confuso e spiega:

- A quattro zampe, contro la parete, disteso sulla pancia, disteso sulla schiena, sospeso a una trave… ma quella è una posizione un po’ scomoda senza corde che ti sostengano.

Patrick ride. Kunta è confuso.

- Disteso sulla schiena? E come faccio…

- Ti faccio vedere.

Patrick si stende sul fieno e solleva le gambe.

- Te le appoggio sulle spalle. Così possiamo vederci in faccia mentre tu mi fotti.

Kunta annuisce. Guarda il corpo forte di Patrick, il pelame rosso, il cazzo grosso e duro. Si mette in ginocchio.

- Inumidisci bene, perché ce l’hai grosso. Io non sono propriamente vergine, ma non è che me lo prenda in culo così spesso.

Kunta annuisce. Inumidisce bene l’apertura, poi avvicina la cappella e l’appoggia contro il buco. Spinge, forzando la carne, che cede e l’accoglie. È bellissimo entrare dentro Patrick, prendere possesso di questo corpo che gli si offre. Patrick gli poggia le gambe sulle spalle e sorride. C’è un certo sforzo nel suo sorriso e quando Kunta spinge, appare una smorfia.

- Ti faccio male?

Patrick annuisce.

- Sì, ma va bene così. Un po’ di dolore non guasta. E questo spiedo rovente che mi infilza è grandioso.

Kunta sorride. La sensazione del cazzo che affonda nel culo di Patrick è bellissima. Ed è bello anche guardare Patrick, che sorride. C’è una certa tensione nel suo sorriso e Kunta sa che Patrick sta provando piacere e dolore insieme.

Kunta si muove con cautela. Scopare con Lou gli piaceva, ma era una sensazione soltanto fisica. Adesso c’è qualche cosa che va oltre, c’è il piacere di guardare Patrick, di accarezzarlo, di stringergli con le mani i capezzoli. Fottere Patrick non è come fottere uno qualunque, non è fottere un bianco come rivalsa, perché i bianchi sono quelli che lo hanno reso schiavo. È fondersi con un uomo che lo attrae moltissimo. 

Kunta fotte con energia: è un bravo stallone. Sul viso di Patrick scorrono goccioline di sudore e ogni tanto appare una smorfia di dolore, che poi un sorriso cancella.

Infine Kunta sente che il piacere non può più essere contenuto. Accelera il ritmo e con una serie di spinte vigorose viene, spargendo il suo seme in culo a Patrick. È stato bellissimo, il piacere più forte che abbia mai provato. Kunta accarezza il viso di Patrick, poi le sue mani scorrono lungo il suo corpo. Kunta esce da Patrick e le sue mani accarezzano ancora, fino a fermarsi al cazzo. Lo stringono.

Patrick sorride e dice:

- Stringimi un po’ anche i coglioni. Mi piace.

Kunta è perplesso. Afferra i coglioni di Patrick, li sente umidi sotto le dita, che il pelame rosso solletica. Sorride e stringe deciso. Patrick sobbalza. 

- Cazzo! Non esagerare, Kunta! Non ti ho detto di spaccarmeli, ci tengo. Stringili solo un po’.

Kunta allenta la presa. Poi, mentre la sinistra giocherella con i coglioni, la destra afferra il cazzo di Patrick e si muove rapidamente. Patrick si tende, apre la bocca, geme e infine il getto si spande sul suo ventre, fino al petto, mentre l’irlandese emette una specie di lungo grugnito.

Patrick allunga le braccia, le sue mani si posano sulla schiena di Kunta e lo attirano a sé. Kunta lascia che il cazzo scivoli fuori dal culo dell’irlandese e si stende sul suo corpo. Adesso è la sua bocca a cercare quella di Patrick, in un lungo bacio. Poi rimangono a lungo così, uno sull’altro. Patrick accarezza la testa  di Kunta.

Kunta si sente bene, come di rado gli è capitato nella vita.

Solo dopo un lungo momento, Kunta chiede:

- Non ti ho fatto male, Patrick?

Patrick ride.

- Certo, mi hai fatto male. Ma va bene così. E avevo una voglia matta di scopare con te.

Kunta sorride.

- Anch’io, ma non lo sapevo.

Patrick sorride e lo accarezza ancora.

- Dormiamo abbracciati, vuoi?

Kunta annuisce. Scivola di fianco a Patrick, che lo stringe.

 

Il mattino dopo Kunta si sveglia stretto a Patrick. L’irlandese dorme ancora. Kunta lo guarda e sorride. Si sente felice. Gli sembra di avere avuto in un colpo solo ciò che desiderava e ciò che non sapeva di desiderare: è un uomo libero, anche se la sua libertà è minacciata, e ha accanto a sé un uomo che lo ha salvato e che gli piace molto.

Quando Patrick si sveglia, hanno appena il tempo di baciarsi: è ormai ora di fare colazione e mettersi al lavoro, anche se vorrebbero trascorrere il mattino nei giochi dell’amore.

La giornata è piena, ma più volte Kunta e Patrick si guardano e si sorridono. E guardando la schiena di Patrick, madida di sudore, Kunta sente che il cazzo gli si tende. Si dice che questa sera scoperanno ancora.

Dopo pranzo però c’è una pausa. Greenstone lavorerà in un campo lontano dalla fattoria, nei pressi di una strada: è meglio che Patrick e Kunta non si facciano vedere da quelle parti, dove qualcuno potrebbe notarli.

Patrick sorride e dice:

- Andiamo a bagnarci al torrente, Kunta.

Quando si spogliano per bagnarsi, ce l’hanno tutti e due duro, ma Patrick si getta in acqua. Kunta rimane vicino a riva, dove l’acqua non arriva oltre la vita.

Patrick nuota un momento, poi si avvicina.

- Ora di imparare a nuotare.

Kunta è incerto, ma Patrick lo guida a stendersi sull’acqua e lo sostiene. Gli spiega come mettere le braccia, come muoverle. Kunta cerca di seguire gli insegnamenti. Riesce a nuotare per un breve tratto, poi deve mettere i piedi sul fondo per non finire sotto. Fanno ancora alcune prove, che vanno meglio.

Al termine della lezione di nuoto si stendono ad asciugare al sole, tutti e due sulla schiena. Poi Patrick si volta sulla pancia e fa cenno a Kunta di fare lo stesso.

Patrick si sposta, si mette tra le gambe di Kunta e incomincia a mordergli il culo.

- Che cazzo fai, Patrick?

Patrick ride. Poi passa la sua lingua sul solco tra le natiche. Kunta chiude gli occhi. Questa carezza umida è piacevolissima. Patrick continua a leccare, a premere contro l’apertura, a mordicchiare le natiche, ad accarezzare con la lingua la cicatrice e poi di nuovo il solco. Kunta sente che il cazzo gli si tende.

Le parole gli sfuggono dalle labbra:

- Prendimi, Patrick.

Patrick si ferma. Chiede:

- Sei sicuro, Kunta? Ti farò male. Se non l’hai mai fatto, ti farà male.

- Prendimi.

Patrick annuisce. È ciò che desidera di più al mondo in questo momento.

Lavora ancora con la lingua, poi inumidisce bene la cappella e con delicatezza la spinge contro l’apertura. Avanza un poco e si ritrae, dando a Kunta il tempo di abituarsi. Quando il buco infine è ben dilatato, entra e si ferma, subito. Kunta geme.

- Vuoi che esca, Kunta?

- No, va bene così.

Fa male, è vero, ma è anche piacevole, davvero.

Patrick gli bacia la nuca, gli mordicchia un orecchio, affonda i denti nella spalla e intanto avanza lentamente, finché non ha preso possesso di questo culo vergine che gli si offre. È una sensazione fortissima.

- Sei bellissimo, Kunta.

Kunta ride. Non è particolarmente bello, lo sa benissimo, anche se ha un corpo forte. Ma non si stupisce: anche lui trova Patrick bello, benché l’irlandese non lo sia.

Il cazzo di Patrick ora è tutto dentro Kunta. Le mani di Patrick accarezzano, le labbra baciano, i denti mordono, la lingua lecca. Kunta affonda in un mare di sensazioni, in cui il piacere si mescola al dolore. Non sa nuotare in questo mare, ma Patrick lo accompagna e Kunta non ha paura.

Patrick incomincia a spingere e i movimenti provocano un po’ di dolore. Solo quando le spinte diventano più violente, il dolore cresce e Kunta stringe i denti. Patrick grugnisce, come la sera prima, un verso animale, prolungato, e Kunta sente per la prima volta il seme di un uomo spandersi nelle sue viscere.

Il cazzo di Patrick perde consistenza e volume. Ora è piacevole averlo dentro.

Patrick afferra Kunta e si volta con lui: Kunta si ritrova disteso su Patrick ed è una bella sensazione poggiare su questo corpo caldo, sentire ancora dentro di sé il cazzo che ha preso possesso di lui. Patrick gli afferra con la destra l’uccello e muove la mano lentamente. Kunta sente il piacere dilatarsi e infine esplodere.

Poi rimangono immobili, Patrick sotto, Kunta disteso sopra, stretto tra le sue braccia.

La sensazione del sole sulla pelle è piacevole, ma dopo un po’ entrambi provano il bisogno di rinfrescarsi. Entrano di nuovo in acqua. Patrick dà ancora lezioni di nuoto a Kunta.

Poi escono e si stendono uno a fianco dell’altro. Patrick chiede:

- Che cosa conti di fare, Kunta?

- Non lo so. Paul, l’uomo che ha organizzato la mia fuga, mi ha detto che arrivato a destinazione avrei trovato qualcuno che mi avrebbe aiutato a trovare un lavoro, qui o sulla costa.

Patrick annuisce.

- Kunta, a me piacerebbe che tu rimanessi con me. Ci conosciamo poco, ma vorrei provare.

Kunta guarda il cielo sopra gli alberi. È azzurro e luminoso. Gli sembra di non averlo mai visto così limpido e chiaro. Sorride.

- È quello che voglio anch’io.

Kunta non sa se riusciranno a costruire qualche cosa insieme, ma lo desidera. In questo momento è ciò che desidera più di tutto al mondo.

Patrick si mette su un fianco e lo guarda un momento, poi sporge la testa e lo bacia sulla bocca. Un bacio lungo, appassionato.

Quando si stacca e torna a stendersi, Kunta gli prende la mano e la stringe, poi gli chiede:

- Che cosa fai tu, Patrick, come vivi?

- Fino a ora mi sono occupato soprattutto di aiutare gli schiavi in fuga. Qui al nord ci sono gruppi di cittadini che raccolgono fondi per questo.

Patrick rimane un momento zitto, poi aggiunge:

- Io sono bruciato, ormai. Non posso continuare a fare questo lavoro. E non ha molto senso che continui a stare qui.

- Che cosa pensi di fare?

- Potrei tornare in Inghilterra. O andare all’Ovest. In California.

Patrick ride e prosegue:

- Magari apro un bordello maschile.

- Un bordello maschile?

- Sì, un bordello dove i maschi pagano per scopare con altri maschi. Ne avevo uno a Londra.

Kunta non sa se credere a Patrick. Sospetta che l’irlandese lo stia prendendo in giro.

Patrick capisce e gli sorride.

- Non sto raccontandoti una storia. Ho davvero gestito un bordello maschile a Londra, ce ne sono parecchi, ma posso dire che il mio era il migliore. Ma mi sono stufato e ho deciso di incominciare da zero una nuova vita. No, Kunta, non aprirò un altro bordello. Ho un po’ di soldi da parte e avvierò qualche attività. Tu dove vorresti vivere? In Inghilterra, in California, a New York?

Kunta non lo sa. L’Inghilterra, New York, la California sono soltanto nomi, che ha sentito altre volte, ma che non associa a nulla di preciso.

- Non so, Patrick. Non so come sono questi posti, che cosa potrei fare. Non so niente. So che vorrei rimanere con te. Poi si vedrà.

 

2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Area aperta

Storie

Gallerie

Indice