Il fuggiasco Kunta ha portato il
cavallo del padrone dal maniscalco e aspetta vicino alla porta che il lavoro
di ferratura venga concluso. Paul, il più anziano dei due fratelli che gestiscono
l’officina, gli passa accanto mentre va a prendere una corda e gli sussurra: - Aspettami al mulino. Kunta fa solo un
impercettibile cenno di assenso. Quando il maniscalco ha
finito, Kunta prende le redini del cavallo e lo guida verso la tenuta del
padrone. Ci vogliono due ore per arrivare. Se salisse a cavallo, Kunta
farebbe molto prima: Kunta è in grado di cavalcare, perché si occupa del
bestiame e per poterlo controllare talvolta è necessario muoversi a cavallo.
Ma l’animale è di quelli che il padrone tiene per uso personale e mister
Redbowl non tollererebbe che un negro lo montasse. Perciò Kunta deve muoversi
a piedi, conducendo l’animale per le briglie. Mentre percorre la strada, si
chiede che cosa voglia dirgli Paul. Il maniscalco è uno di quelli che aiutano
gli schiavi neri a fuggire al Nord. Da lui Kunta ha saputo che esiste una
vasta rete di persone, che nascondono gli schiavi in fuga, li nutrono e
spesso li accompagnano per un tratto del lungo viaggio verso la libertà.
Kunta vorrebbe fuggire e Paul gli ha promesso di aiutarlo. È giunto il
momento? Arrivato al mulino, Kunta
lascia che il cavallo beva al torrente, poi raggiunge un vecchio capanno
abbandonato, dove altre volte ha incontrato Paul. Paul arriva poco dopo: sa
che Kunta non può indugiare lungo la strada, perché il padrone lo punirebbe. - È per dopodomani
mattina, Kunta. Se vuoi provare, domani notte devi lasciare la piantagione e
raggiungere Chattanooga. Vuoi farlo? Kunta non ha bisogno di riflettere:
da tempo ha deciso di provare a fuggire. Si limita a un cenno di assenso,
mentre risponde: - Sì. - Allora ti fermerai
all’ingresso della città. Devi cercare di arrivare all’alba. C’è la bottega
del barbiere, proprio sulla strada. Quando apre, gli chiederai se ha bisogno
di qualcuno che gli dia una mano. - Grazie, Paul. - Se ti prendono… Kunta non lo lascia
finire. - Lo so, Paul. Non dirò
che mi hai aiutato tu e non rivelerò i nomi di nessuno di quelli che
incontrerò. Questo te lo garantisco. Neanche se mi torturano. Su questo Kunta ha le idee
ben chiare: non tradirà coloro che rischiano la vita per aiutarlo. Questi
uomini e queste donne hanno già facilitato la fuga di molti schiavi. Altri
potranno essere salvati grazie a loro. Kunta preferirebbe morire piuttosto
che metterli in pericolo. Paul gli porge una piccola
borsa con un po’ di denaro. - Tieni, Kunta: ti potrà
servire. - Grazie anche di questo. C’è un’altra cosa di cui
Kunta avrebbe bisogno: un coltello, per difendersi e non cadere vivo nelle
mani di chi gli darà la caccia. Ma Kunta sa che Paul non glielo darebbe mai,
perché è un quacchero e rifiuta la violenza, anche come difesa da
un’aggressione: Paul si lascerebbe scannare, piuttosto che colpire un altro
uomo. Paul sorride e dice: - Buona fortuna, Kunta. Poi gli porge la mano.
Kunta la stringe. Un bianco che stringe la mano a un nero non è certo
abituale, ma neanche il loro dialogo lo è stato: se si rivolgesse allo stesso
modo a qualsiasi altro bianco, Kunta riceverebbe una frustata in faccia. Ma
quest’uomo che ha davanti è del tutto diverso. Lui davvero considera tutti
gli uomini fratelli, come insegna la sua religione. Kunta ha una grande stima
di lui e gli spiace pensare che non avrà più modo di vederlo. Kunta riprende il suo
cammino. Dopo pochi passi si volta, ma Paul è già scomparso. Kunta pensa che
avrebbe dovuto ringraziarlo meglio, perché non lo rivedrà mai più. Ma era
frastornato e ormai è tardi. Riprende a muoversi, ma si rende conto che sta
camminando troppo in fretta, come se qualcuno lo inseguisse. Allora rallenta
e si sforza di mantenere un passo regolare, per non tradire l’agitazione che
si sta impadronendo di lui: nessuno deve accorgersi di nulla, nessuno deve
sospettare. Kunta è uno schiavo, è abituato a dissimulare. Ma i pensieri
corrono impazziti nella sua mente e gli sembra che il cuore batta
selvaggiamente. Domani notte. Domani notte metterà in gioco la sua vita.
Domani notte fuggirà. Verso la libertà e una nuova vita oppure verso la
morte, questo non può saperlo. Kunta respira a fondo,
cercando di calmarsi. Non deve lasciar trapelare nulla. Si sforza di
controllare ogni gesto, di muoversi come se domani non fosse il suo ultimo
giorno da schiavo. Non deve lasciar trapelare nulla. Nessuno deve sospettare,
né l’intendente, né i sorveglianti, né gli altri schiavi. Non deve lasciar
trapelare nulla: Kunta continua a ripeterselo, come una formula magica. Infine raggiunge la
proprietà di Redbowl. L’intendente controlla che il lavoro di ferratura sia
stato eseguito bene e che il cavallo non sia stato cavalcato, ma tutto è a
posto: Kunta è uno schiavo obbediente e di rado c’è motivo di richiamarlo. Ci
sono ancora due ore di luce, per cui l’intendente lo manda a dare una mano
nei campi. Kunta lavora, sforzandosi
di concentrarsi su quello che sta facendo, perché nessuno si accorga del suo
turbamento, ma gli sembra che tutti lo guardino, che sospettino. Non è così,
nessuno bada a lui, nessuno si è accorto della sua agitazione, Kunta lo sa,
ma non riesce a calmarsi. Per fortuna ormai la giornata
è alla fine. Quando scende la notte,
Kunta pensa che è l’ultima che trascorrerà alla piantagione. Forse è anche
l’ultima della sua vita: potrebbe essere sorpreso mentre cerca di
allontanarsi. In questo caso, Kunta intende difendersi, anche a costo di
venire ucciso: non vuole farsi catturare vivo. Peter Redbowl non è un padrone
particolarmente feroce, ma con gli schiavi che tentano di fuggire è spietato:
la loro punizione deve essere un monito per tutti. E in ogni caso la vita di
uno schiavo non è davvero vita. Kunta si è steso da poco,
quando Lou, uno dei garzoni della scuderia, entra nella capanna, tenendo in
mano una lanterna che emana una luce fioca. - Kunta, l’intendente ti
vuole. Kunta si alza. Sa
benissimo che l’intendente non lo vuole: è Lou che lo desidera. Lou finge di
essere mandato dall’intendente, perché nessuno sospetti che lui e Kunta
scoperanno. Lou ha ventiquattro anni,
quattro in meno di Kunta. È il figlio di una delle serve bianche della
tenuta. Non si sa chi sia il padre, probabilmente uno dei tanti ricchi
proprietari che sono spesso ospiti di Redbowl. Lou ha un viso dai tratti fini
e un corpo slanciato: è davvero un gran bel ragazzo. Lou non dice nulla, ma si
dirige verso la scuderia. Posa la lanterna in un angolo e sorride a Kunta. Si
toglie la camicia, gli stivali e i pantaloni, rimanendo nudo. Il nero si
spoglia anche lui. Il cazzo gli si sta già tendendo: Lou gli piace e il
pensiero che tra poco glielo metterà in culo accende il suo desiderio. Lou si china e prende in bocca
il cazzo di Kunta. Il nero è ben dotato, parecchio, e a Lou piace succhiare
questo cazzo vigoroso che nella sua bocca si irrigidisce in fretta e cresce,
fino a che Lou fa fatica a tenerlo tra le labbra. Lou sa benissimo che se lo
scoprissero a succhiare il cazzo di un nero, il padrone lo caccerebbe e la
sua vita diventerebbe impossibile: rischierebbe di essere linciato dagli
altri maschi. Ma a Lou piace sentire in bocca i sapori forti del cazzo di
Kunta, gli piace stringere tra le dita il culo muscoloso del nero. Lou succhia la cappella,
passa la lingua sul cazzo fino alla base, accarezza i coglioni. Poi si stende
sul fieno. Kunta guarda questo culo bianco che gli si offre. A Kunta non
importa di Lou, ma gli piace l’idea di fottere un bianco: è una rivalsa nei
confronti dei bianchi che lo hanno reso schiavo quando aveva appena otto anni
e da allora sono i suoi padroni. Kunta sputa sull’apertura
e sparge un po’ di saliva, poi si sputa sulla mano e inumidisce la cappella.
Avvicina il cazzo al buco del culo di Lou e lo guarda affondare nella carne:
un bello spiedo nero che trafigge un culo bianco. Lou geme, ma è un gemito di
piacere, non di dolore. Kunta non se l’è mai preso
in culo. Non sa che cosa si provi: a volte se lo chiede, ma non intende
offrirsi a nessuno. Quand’era ragazzo, qualcuno si era avvicinato a lui, ma
allora c’era suo padre a difenderlo. Suo padre è morto tre anni fa, ma ormai
Kunta è in grado di difendersi da solo: è un uomo forte, che sa farsi
rispettare dagli altri schiavi. Kunta muove avanti e
indietro il culo, assaporando le sensazioni che gli trasmette questa scopata,
forse l’ultima della sua vita. Kunta cavalca a lungo: è un buono stallone.
Infine il piacere esplode e il suo seme riempie le viscere di Lou, che
nuovamente geme. Kunta passa un braccio
intorno alla vita di Lou e si volta, portando Lou con sé. Ora Kunta è disteso
sotto e Lou sopra. Lou si afferra il cazzo con la mano e incomincia ad
accarezzarlo. Il movimento diventa più rapido, finché Lou viene, con un
gemito. Lou chiude gli occhi. È
stato splendido. Kunta è un vero toro da monta ed è bello sentire il suo
cazzo in culo, ancora grande e vigoroso. Lou si rialza e si
riveste. Il culo gli fa male, ma ne valeva la pena. Anche Kunta si riveste e
ritorna nella capanna dove dorme. Deve riposare: domani notte dovrà camminare
tutto il tempo. Il sonno però tarda. Kunta sa che è a una svolta della sua
vita. O troverà la morte, o incomincerà un’esistenza del tutto diversa. Il mattino si sveglia e
per un attimo si chiede se ha sognato. No, non ha sognato, è vero. Stringe
tra le dita, come un talismano, la borsa con un po’ di denaro che gli ha dato
Paul. È vero. È per questa notte. Oggi una sola cosa conta:
comportarsi come sempre, in modo che nessuno sospetti. Kunta esce dalla capanna
come se fosse un giorno qualsiasi, non il suo ultimo giorno da schiavo. È
teso, ma non è più agitato come subito dopo aver parlato con Paul. Si concentra nel lavoro,
ma le ore sembrano non passare mai: il mattino si trascina e il pomeriggio il
sole rimane alto in cielo, come se non volesse più tramontare. È ormai la
metà di giugno e le giornate sono lunghe, ma a Kunta pare che la Terra non
giri più su se stessa. Infine, con una lentezza
intollerabile, il sole declina e scompare all’orizzonte. I neri mangiano, poi
tornano alle loro abitazioni. Ormai è buio. Alcuni schiavi si riuniscono in
una delle capanne. Invitano anche Kunta, che rifiuta, dicendo di avere un
impegno. Sorride con aria sorniona, come se avesse un appuntamento amoroso:
non vuole che qualcuno sospetti la verità. Gli altri fanno battute, perché
corre voce che Kunta abbia un buon successo con le donne. È vero, anche se a
Kunta poco importa. Se una donna gli si offre, Kunta non si tira indietro,
come non respinge gli inviti di Lou. Ma le scopate con le donne, come quelle
con Lou, sono soltanto la soddisfazione di un bisogno: danno piacere, ma non
contano davvero. Kunta non ha provato per nessuno, uomo o donna, qualche cosa
che andasse oltre il desiderio di un momento. Qualcuno gli chiede di chi
si tratta, ma Kunta scuote la testa, ghignando. Uno degli altri insinua che
la fortunata sia una bella ragazza della piantagione vicina, una che fa
girare la testa a molti e che il padrone si è preso più volte, prima di
stancarsene. Kunta non conferma e non nega: se qualcuno lo vedrà allontanarsi
dalla piantagione, penserà che vada a scopare. Lasciare la piantagione la
notte è proibito, ma diversi schiavi lo fanno e anche tra i sorveglianti
nessuno se ne preoccupa: quello che conta è che gli schiavi siano al loro
posto di lavoro il mattino. Kunta rimane nella capanna
ancora una mezz’ora dopo che gli altri se ne sono andati: preferisce
aspettare che il buio sia completo e che gli schiavi si siano coricati.
Qualcuno sicuramente sarà ancora in giro anche più tardi, come quelli che lo
hanno invitato, ma meno gente lo vede, meglio è. Kunta è pronto. Non ha
molto da portare con sé: gli abiti che ha indosso, la borsa che gli ha dato
Paul, un amuleto che gli ha lasciato suo padre, un po’ di cibo. Attendere gli
costa fatica: due volte deve reprimere l’impulso di uscire e allontanarsi
prima che l’oscurità sia completa. Infine Kunta esce
silenziosamente e raggiunge il sentiero che si dirige verso est e incrocia la
strada per Chattanooga. Si muove in fretta: sa che non può perdere tempo, se
vuole raggiungere la cittadina all’alba. Ora che è giunto il momento, ora che
è davvero uno schiavo in fuga, l’agitazione si è calmata. Kunta è
concentrato, attento al percorso che segue e ai rumori che ascolta. Due volte, al momento di
superare un piccolo corso d’acqua, ritorna indietro sui suoi passi e prende
una direzione diversa, per confondere le sue tracce: di certo lo cercheranno
anche con i cani. A un certo punto abbandona il sentiero che sta seguendo da
un’ora e piega verso nord, in direzione della palude, Kunta cammina a lungo
nell’acqua, cercando di non perdere i punti di riferimento. Quando infine
lascia la palude, si dirige alla strada per Chattanooga. Rimane sempre
vigile, pronto ad allontanarsi se arriva qualcuno. Nel primo tratto gli
succede tre volte di sentire delle voci e di nascondersi, poi il silenzio
della notte non viene più interrotto. Le ore passano, ma Kunta
non sente la stanchezza, non ha sonno. Sa che ormai non può più tornare
indietro: non riuscirebbe a rientrare prima che qualche sorvegliante venga
sguinzagliato al suo inseguimento. Il cielo sta appena
schiarendosi quando Kunta arriva in vista di Chattanooga. Attende nascosto
tra gli alberi che il sole spunti.
Alla piantagione si stanno svegliando. Tra poco si accorgeranno della
sua scomparsa. Quando vede comparire
all’orizzonte il sole, Kunta si dirige alla bottega del barbiere, che sta
aprendo. L’uomo è sui quaranta, di media statura e ben piantato, con un
grosso barbone nero. Kunta gli si rivolge rispettosamente: - Buongiorno, padrone. Ha
bisogno di qualcuno che dia una mano? L’uomo lo squadra,
storcendo la bocca. - E che cazzo me ne faccio
di un negro di merda? Non sapete fare un cazzo, voi. Manco un martello sapete
tenere in mano. La risposta sarebbe
sufficiente a scoraggiare ogni insistenza, ma l’uomo si sta guardando
intorno. Sta controllando che non ci sia nessuno, anche se lo fa simulando
indifferenza: qualcuno potrebbe spiarli dalle case vicine. Poi gli dice,
pianissimo, mentre blocca la porta e sistema due sedie: - Prendi il sentiero prima
del ponte, quello sulla destra. Nel boschetto troverai un capanno. Se non c’è
nessuno che possa vederti, entra. Se c’è qualche fottuto curioso, prosegui e
ritorni dopo. C’è da mangiare. Cerca di dormire. Torna qui quando è buio e
nessuno ti può vedere. Devi essere sicuro che nessun bastardo ti veda. Poi, ad alta voce,
aggiunge: - Ancora qui, stronzo?
Togliti dai coglioni. Kunta annuisce. Dice
sottovoce: - Grazie. E poi, forte: - Mi scusi, padrone. Kunta cammina lungo il
sentiero. Nel bosco si ferma. Controlla che non ci sia nessuno. Riprende a
camminare e dopo pochi passi raggiunge un capanno. Entra. Come gli ha detto
l’uomo, c’è da mangiare e da bere. Kunta si rifocilla e intanto pensa che la sua
scomparsa ormai è stata notata. Il padrone ha sicuramente sguinzagliato
alcuni sgherri alla sua ricerca. Se non lo trovano in fretta, metterà anche
qualche annuncio nella contea, poi contatterà i cacciatori di schiavi
fuggitivi. Ci sarà una ricompensa per chi lo trova. Kunta sa che ormai si è
bruciato i ponti alle spalle: non può tornare indietro. E non lo vuole. Sarà
un uomo libero o morirà. Kunta si stende a dormire.
Si addormenta subito, di un sonno profondo. Si sveglia nel primo
pomeriggio. Rimane nel capanno, in attesa che il sole tramonti. Il barbiere è
molto diverso da Paul, il maniscalco: Paul è un uomo molto religioso e Kunta
non lo ha mai sentito dire una parola sconveniente; il barbiere sembra
condire ogni frase con qualche parolaccia. Kunta si aspettava che gli uomini
che lo avrebbero aiutato fossero tutti come Paul, mossi da spirito cristiano.
Forse è così, ma Paul sospetta che il barbiere sia di un’altra pasta, anche
se è contrario alla schiavitù, come Paul. Quando scende la notte,
Kunta raggiunge la bottega del barbiere. La porta è chiusa, ma l’uomo è
seduto su una panca davanti a una delle finestre e fuma un grosso sigaro.
Quando lo vede, si guarda intorno, ma è una precauzione inutile: anche se ci
fosse qualcuno lungo la strada, non potrebbe vederli, perché ormai è buio.
Alle finestre delle case vicine non si vede nessuna luce. L’uomo entra in casa,
senza dire nulla, e Kunta lo segue. Il barbiere chiude la porta e accende una
lanterna. - Ti cercano. Quei figli
di puttana sono passati di qua due volte. Ho detto che ho visto uno che ti
assomigliava dirigersi verso est, ma non serve a molto. Domani ti porterò a
Huntsville. Ti farò viaggiare in una bara. Kunta non si stupisce
della bara: sa che i barbieri spesso sono anche becchini. Lo sorprende invece
la meta, perché Huntsville si trova a ovest e non a nord: in questo modo
Kunta non si avvicina alla libertà. - Huntsville? - Sì, è più saggio andare
in quella direzione. Quei fottuti cacciatori ti cercheranno sulle strade
verso nord. Kunta annuisce. - Questa notte puoi
dormire qui. Partiamo domani, prima dell’alba. Kunta ha già dormito in
giornata, ma quando si stende, prende sonno in fretta. È il barbiere a
svegliarlo. - Preparati. Sul tavolo ti
ho lasciato un po’ di colazione. Dopo pochi minuti Kunta è
pronto. - Aiutami a portare la
bara. Dalla bottega Kunta e il
barbiere prendono una bara e la portano nella scuderia. La posano sul carro.
Il barbiere solleva il coperchio e fa vedere a Kunta che in basso ci sono
alcune aperture: - Così entra un po’
d’aria. Non è piacevole viaggiare in una fottuta bara, ma è la via più
sicura. Nessuno controlla. I morti fanno paura. Kunta annuisce. - Hai pisciato? Fino a
questa sera non potrai uscire dalla bara. Kunta annuisce. - Va bene. Se ti viene bisogno
durante il viaggio, fattela addosso: meglio pisciarsi nei pantaloni che farsi
beccare da quei figli di puttana. Stenditi. Kunta si stende nella
bara. Ci sta appena, perché è molto alto. Il barbiere gli dice: - La chiudo e ci metto due
chiodi, ma senza fissarli. In caso d’emergenza, con un colpo forte puoi
sollevare il coperchio. Non che ti serva a molto, perché se ci fermano
quelli, siamo fottuti tutti e due. Kunta annuisce. Si sente a
disagio, ma preferisce non darlo a vedere, per non passare per pauroso. Nella
sua situazione i problemi sono ben altri, ma viaggiare chiuso in una bara non
è il massimo. - Un’ultima cosa: è meglio
che tu non dica mai niente. Ogni tanto, quando vedo che non c’è nessuno
intorno, ti chiederò se tutto va bene. - D’accordo. - Un’ultima cosa: non ti
dico il mio nome, così hai una cosa in meno da dimenticare. L’uomo ride e posa il
coperchio. Poi batte due volte con il martello. Kunta ora è al buio, in uno
spazio ristretto. Il disagio aumenta. Dopo un po’ il carro si
mette in movimento. Si ferma quasi subito, perché il barbiere deve chiudere
le porte della rimessa, poi incomincia il viaggio. Steso nella bara, Kunta
non può fare altro che pensare. Huntsville. Vanno a Huntsville. Sperava di
entrare in Tennessee e invece si spostano verso l’Alabama. Ma questi uomini
sanno quello che fanno, non è la prima volta che aiutano uno schiavo in fuga.
In effetti nessuno penserebbe a cercare un fuggitivo in un carro diretto in
Alabama. Gli schiavi che scappano si dirigono a nord, verso il Tennessee e il
Kentucky, da cui possono raggiungere l’Indiana. Le ore passano. Almeno una
volta l’ora, il barbiere chiede: - Il morto è ancora vivo? - Sì. Il barbiere ride. - Questi fottuti cadaveri
fanno resistenza… Il carro si ferma due
volte in mattinata e il barbiere scambia due parole con qualche viaggiatore
che ha incontrato per strada. Kunta ha tutto il tempo
per pensare. Il viaggio sarà più lungo del previsto, ma questi uomini sanno
quello che fanno. Rischiano la vita anche loro: chi aiuta uno schiavo in fuga
può finire linciato. Man mano che il tempo
passa, Kunta diventa più nervoso. Se qualcuno sospettasse, se fermassero il
barbiere, se l’obbligassero ad aprire la bara… Kunta non potrebbe difendersi
in nessun modo. Kunta non vuole cadere vivo nelle mani di quelli che lo
cercano. Verso mezzogiorno la voce
del barbiere lo fa sobbalzare: - Merda! Cacciatori di
schiavi in arrivo. Il morto non deve dare segni di vita. Il barbiere ride di nuovo,
ma Kunta ha l’impressione che sia una risata nervosa. Kunta sente il rumore dei
cavalli, che si fermano accanto al carro. - Hai visto un fottuto
negro, alto e ben piantato? È scappato la notte scorsa da una piantagione
vicino a Dalton. - Se viene da Dalton che
cazzo ci farebbe su questa strada? Ha la moglie in Alabama? - No, ma magari ha preso
questa strada per confondere le tracce. Da dove vieni? - Da Chattanooga. Kunta sente un'altra voce
maschile dire: - E com’è che hai una
bara? - Porto un morto, uno che
aveva dei parenti a Huntsville. C’è un momento di silenzio,
poi la domanda. - Allora, non hai visto
nessuno? - Adesso che mi fai
pensare, un fottuto negro l’ho visto, ieri all’alba, a Chattanooga, ma non
credo che fosse quello che cercate. Stavo aprendo la bottega quando mi ha
chiesto se avevo bisogno di un aiuto. Che cazzo me ne faccio di un aiutante
negro? Non sanno fare un cazzo, quelli. - Magari era lui. Era alto
e ben piantato? - Sì, questo sì. Ma se era
in fuga, perché mai si sarebbe dovuto fermare a cercare lavoro? - Magari sperava di poter
stare nascosto per qualche giorno. E poi magari una sera ti sgozzava e
scappava. - Da quei fottuti negri
c’è da aspettarsi di tutto. - È uno che ha una
cicatrice a V sul culo. Il barbiere ride: - I pantaloni non glieli
ho fatti calare. Non amo i culi, né bianchi, né neri. Preferisco le fiche. Anche uno dei due uomini
ride. Poi l’altro chiede: - Hai visto dove s’è
diretto? - Ha preso un sentiero che
porta verso nord, verso il Tennessee. Ma non vuol dire niente, può averlo
lasciato dopo tre minuti. - Va bene, grazie. Buon
viaggio. Kunta sente i due uomini
spronare i cavalli. Il galoppo si allontana. Kunta si accorge di essere
fradicio di sudore. Gli sembra che l’aria gli manchi. Vorrebbe sollevare il
coperchio della bara. Appoggia le mani contro il legno. Si fa forza per
controllare l’impulso a spingere. Ha bisogno di aria, di luce. Il carro
riparte. Kunta chiude gli occhi. Vorrebbe essere fuori, accanto al barbiere,
ma se fosse stato fuori, lo avrebbero preso. La voce del barbiere lo
riscuote: - Tutto bene? Kunta fa fatica a rispondere: - Sì. - Non hanno sospettato
niente. Nessuno apre una bara, te lo garantisco. Lo farebbero solo se fossero
sicuri che sei nascosto dentro. Kunta vorrebbe dire che
nessuno si nasconderebbe volentieri in una bara, ma non ha senso. Si limita a
dire nuovamente: - Sì. Il tempo passa. Di nuovo
ore interminabili, senza nemmeno poter seguire il cammino del sole in cielo.
Ma il sole non dev’essere visibile, perché poco dopo l’incontro con i due
cacciatori di schiavi, Kunta ha sentito il ticchettio della pioggia sul
coperchio della bara. Non è durato a lungo, forse un’ora, forse anche meno. Più tardi però riprende a
piovere. Il barbiere borbotta: - Merda! Ci mancava anche
questa fottuta pioggia del cazzo! Tutto a posto nella bara? Non ti stanno ancora
uscendo i vermi dal buco del culo? - No. Ci vuole ancora
molto? - Per i vermi o per
arrivare? A Kunta viene da
sorridere: - Per arrivare. - Ancora due ore. Se non
sai come passare il tempo, fatti una sega pensando a qualche bella fica. Il barbiere ride. Kunta sorride appena.
Pensa a Paul. Non potrebbe immaginare due uomini più diversi, almeno per il modo in cui parlano, ma tutti
e due rischiano la vita per aiutare gli schiavi a fuggire. Infine il barbiere dice: - Tra poco arriviamo in
città. Dieci minuti e scarichiamo la bara. Non una parola, finché non apro la
bara. Chiaro? - Sì. Dieci minuti dopo il carro
si ferma. Il barbiere parla con un altro uomo. Il carro si muove, ma dopo un
brevissimo tratto si arresta nuovamente. La bara viene sollevata. - Cazzo, se pesa! Il barbiere ride e dice: - Il morto è un pezzo
d’uomo… Poco dopo la bara viene
aperta. Accanto al barbiere c’è un uomo sui quaranta, piuttosto grosso, con
un barbone nero striato di grigio. Guarda Kunta e dice: - Mi sembra che non sia
ancora ora di seppellirlo… I due bianchi ridono.
Kunta sorride appena. È contento di poter uscire dalla bara. Poi l’uomo si
presenta: - Io sono il signor Fulton e tu sei il mio schiavo, che domani porto con me a
Nashville. - Io sono Kunta, padrone. Fulton lo guarda e dice: - Devo dire che ti terrei
volentieri come schiavo: devi essere forte come un toro. Peccato che io sia
contrario alla schiavitù. Il barbiere, Kunta e Fulton mangiano insieme, poi il barbiere se ne va. L’indomani Fulton e Kunta si mettono in viaggio. Kunta è sul
carretto di fianco al suo “padrone”. - Mi raccomando, Kunta,
comportati da bravo schiavo obbediente. - Sì, signor padrone. Ai
suoi ordini, signor padrone. L’uomo sorride. Fulton ha voglia di chiacchierare. Chiede a Kunta
della piantagione da cui proviene, poi della sua storia. Kunta racconta
brevemente della cattura quando era bambino, del viaggio in nave, poi
dell’asta in cui fu separato dalla madre, ma per fortuna venne venduto
insieme al padre. Fulton si rabbuia. - Quando penso che questa
gente si dice cristiana… Fulton non finisce la frase. Freme. Kunta vorrebbe domandare a
Fulton perché corre rischi per aiutare gli schiavi
in fuga, ma ha paura di mostrarsi troppo curioso. Gli chiede allora che
lavoro fa. Scopre così che Fulton è un mercante di
stoffe. Il viaggio fino a
Nashville si svolge senza intoppi. Si fermano a dormire in un paese, dove
vengono ospitati in un fienile. Il giorno dopo Kunta rimane nella fattoria,
mentre Fulton torna indietro. La notte seguente Kunta
prosegue il viaggio a piedi, seguendo le indicazioni che riceve. Tutto sembra
filare liscio. Man mano che cresce la distanza dalla piantagione e passano i
giorni, Kunta si sente più tranquillo. Sa che lo cercano, che non deve
illudersi di averla scampata. Ma i rischi sono meno forti. Quasi ogni giorno
conosce una nuova persona che si occupa di lui. In due occasioni rimane
nascosto per qualche giorno, più volte percorre tratti a piedi, qualche volta
invece viaggia su un carro, ma la sua fuga sembra svolgersi sotto una buona
stella, senza difficoltà. Dopo due notti di cammino,
fa ancora un tratto con David Houston, un nuovo “padrone”, fino a Hendersonville. Nella cittadina, trovano
parecchia gente che si muove in direzione contraria alla loro. Un uomo si
ferma e si rivolge a Houston, ridendo: - Hai portato il negro a
vedere lo spettacolo? Sei arrivato tardi. È finita. Ma puoi ancora fargli
vedere quel figlio di puttana che penzola. Lo lasciamo lì fino a domani. L’uomo, che senza dubbio
ha alzato il gomito, si appoggia al carro e si sporge verso Kunta: - Adesso vedi che cosa
succede a chi alza la cresta. Magari poi lo facciamo anche a te. L’uomo ride sguaiatamente.
Houston replica, secco: - Ci tengo ai miei
schiavi. - Quello non era uno
schiavo. Ma non sapeva stare al suo posto. Houston annuisce e dice: - Va’ avanti, Ted. Houston chiama Kunta Ted, per evitare che sentendo il nome, qualcuno possa
collegarlo allo schiavo in fuga, che molti stanno cercando. Kunta fa schioccare la
frusta e il cavallo si muove. L’uomo si stacca. Ghigna e muove la mano con
due dita tese, facendo il gesto di tagliare la gola, mentre fissa Kunta.
Procedono nella direzione da cui proviene la gente: sanno che di certo c’è
stato un linciaggio e nessuno dei due ha voglia di vedere lo spettacolo, ma
deviare potrebbe destare qualche sospetto in una folla che il sangue e
l’alcol hanno eccitato. All’altra estremità della
cittadina c’è quanto rimane del linciaggio: il cadavere sconciato di un nero,
impiccato a un albero. Intorno al corpo che penzola, un gruppo di esaltati
ride sguaiatamente e parla ad alta voce. Kunta distoglie lo sguardo. Houston
annuisce e non dice nulla. Proseguono ancora un
tratto, finché arrivano alla fattoria dove Houston passerà la notte. Kunta
prosegue a piedi per due ore, fino a raggiungere un capanno abbandonato. Di
lì si muoverà il giorno dopo. Quando arriva alla meta,
Kunta si stende. Ha cercato di tenere lontano dalla mente l’immagine
dell’uomo impiccato, ma mentre cerca di addormentarsi, rivede il corpo mutilato.
Kunta si accorge di tremare. Il giorno dopo Kunta ha un
lungo tratto da fare a piedi. È ormai notte quando raggiunge l’abitazione di
un pastore metodista, con cui proseguirà il viaggio. Fino a ora tutto è
filato liscio. Il mattino seguente
prendono la strada che porta a Bowling Green, in Kentucky; ormai l’Indiana,
che è la meta di Kunta, non è più così lontano. Mentre si avvicinano alla
cittadina, incontrano un uomo che cavalca in direzione opposta alla loro. Il
pastore ferma il carro e il cavaliere gli dice subito: - Lo stanno cercando.
Devono averlo visto a Hendersonville e hanno capito
che si sta dirigendo verso l’Indiana. A Bowling Green lo aspettano due
cacciatori di schiavi fuggitivi. Il pastore appare molto
preoccupato. L’uomo a cavallo dice: - Non puoi entrare in
città, Richard. Non con lui. - E adesso, che facciamo? Il cavaliere si rivolge a
Kunta: - Tu, scendi e infilati in
quel bosco. Più tardi passo a parlarti. Richard, tu è meglio che torni a
Nashville. Se qualcuno ti ferma, perché ti hanno visto con un negro che
probabilmente è uno schiavo in fuga, dirai che lo hai raccolto per strada e
gli hai dato un passaggio. E che lui è sceso a Franklin. Probabilmente non la
berranno, ma non possono farci niente. Tu sei un pastore ed è naturale che tu
sia tanto tonto da raccogliere una pecorella smarrita, senza sospettare che è
una pecora nera. Il pastore sorride e
annuisce. Kunta scende e raggiunge il boschetto che gli ha indicato l’uomo. Nascosto tra i cespugli,
vede il pastore invertire la direzione e allontanarsi, mentre il cavaliere
sprona il cavallo e scompare rapidamente alla vista. Tutto era filato liscio,
fino a ora. Ma adesso… Che cosa succederà? Fino a pochi minuti fa, Kunta si
sentiva sicuro. Pensava che ormai, così lontano dalla piantagione da cui è
fuggito, nessuno avrebbe potuto sospettare di lui. E invece qualcuno lo ha
visto e ha capito che era lui. E adesso lo cercano. Sanno che lui era in
Tennessee e che ora probabilmente è in Kentucky. Merda! L’uomo che è venuto loro
incontro ricompare dopo un’oretta. Lascia la strada e si dirige verso il
bosco, dove scende e lega il cavallo a un albero. Poi si addentra nel bosco
e chiama, a bassa voce: - Kunta! Kunta esce dal suo
nascondiglio e gli si avvicina. - Kunta, adesso devi
proseguire da solo. Non verso Bowling Green, sarebbe un suicidio, ma verso
Beaver Dam. - Non so dove sia. - Certo. Ti spiego come
arrivarci. Poi di lì potrai raggiungere Madisonville.
Devi arrivarci dopodomani mattina, sul presto. Ce la puoi fare se non perdi
tempo. Se non ce la fai, vedi di arrivare il giorno dopo, sempre il mattino
presto. Ti fermerai vicino al negozio che c’è prima della chiesa. Di più non
posso dirti. Il rischio che tu venga catturato è alto e meno ne sai, meglio
è. Kunta annuisce. Sa che non
sarà facile per lui cavarsela da solo, perché non conosce per nulla il
territorio, ma l’uomo gli descrive dettagliatamente il percorso da seguire
per arrivare a Beaver Dam e poi a Madisonville.
Kunta ascolta con attenzione. Per aggirare Bowling
Green, dovrà muoversi di notte. Kunta si inoltra nel bosco e cerca un posto
riparato, dove stendersi per riposare: vorrebbe dormire, visto che non potrà
farlo nella notte, ma il sonno non viene. Kunta riflette sulla sua
situazione. Si rende conto di aver sottovalutato le difficoltà della fuga. In
qualche modo pensava che avessero rinunciato a cercarlo, ma è logico che
continuino a dargli la caccia. La fuga di uno schiavo è una minaccia per
tutti i padroni: se uno riesce a scappare, anche gli altri pensano di poterci
riuscire. Se invece lo schiavo viene riportato alla piantagione e duramente
punito, magari ucciso, allora è un esempio per gli altri, che non faranno
colpi di testa. Kunta si dice che deve
riuscire, per sé e per gli altri. Non devono riportarlo da Redbowl. Meglio
piuttosto morire. Ora Kunta è di nuovo molto
teso e ogni rumore lo fa trasalire. Nel bosco non passa nessuno, ma Kunta è
inquieto. Solo quando scende la notte e può mettersi in cammino, si
tranquillizza. Non sembra esserci nessuno e le istruzioni che ha ricevuto gli
permettono di orientarsi senza troppe difficoltà, nonostante il buio. Quando il cielo incomincia
a schiarirsi, Kunta ha superato l’area più pericolosa e può stendersi a
dormire in un bosco. La notte successiva Kunta
riprende il cammino. Ora che si è lasciato alle spalle Bowling Green, i
pericoli sono minori, ma Kunta rimane vigile. C’è una mezza luna, la cui luce
permette di muoversi; solo dove il bosco è più fitto, il buio è completo. A un certo punto Kunta
sente dei rumori. Si ferma. C’è silenzio. Kunta rimane perfettamente
immobile. Dopo un momento, sente di nuovo un rumore: qualcuno si muove nel
bosco. Un animale? Forse. Ma il rumore si avvicina. Se fosse un animale,
avrebbe fiutato la sua presenza e si allontanerebbe. Kunta attende. Ora il rumore
è ancora più vicino. Kunta scivola dietro un
albero. Poco dopo vede un’ombra: un uomo che cammina guardingo. È difficile
che sia un viandante che ha perso la strada, perché si muove con eccessiva
cautela. E ora che è più vicino, Kunta si rende conto che ha una pistola in
mano. Potrebbe essere un ladro o un assassino che lo ha visto e vuole
derubarlo o ucciderlo. Ma più probabilmente è un cacciatore di schiavi
fuggitivi. In ogni caso Kunta sa di essere in pericolo. L’uomo si avvicina ancora,
guardandosi intorno. Anche se Kunta è avvolto nell’ombra, tra poco l’uomo lo
vedrà. Il cuore gli batte tanto forte che sembra volergli uscire dal petto. L’uomo si accorge di lui.
Fa ancora un passo avanti. - Bene, negro, la tua fuga
è finita. Vieni fuori da dietro quell’albero. E non cercare di fare scherzi,
perché ti sparo subito: che ti riporti vivo o morto, la ricompensa me la
danno lo stesso. Kunta sa che ormai le sue
possibilità di cavarsela sono ridottissime. Decide di giocare la carta dello
schiavo sottomesso e pauroso. Esce allo scoperto, rimanendo un po’ curvo. - Sì, padrone. Scusa,
padrone. Nel buio Kunta non può
vedere la faccia dell’uomo, ma gli sembra che sorrida. - Adesso, muoviti, da
quella parte, pezzo di merda. Cammina davanti a me. Kunta obbedisce. Cammina
piano. L’uomo è solo, ma è facile che ci sia anche qualcun altro, non
lontano. Quando saranno in due, Kunta non avrà nessuna possibilità. Però
adesso l’uomo sta in guardia, non è stupido. Kunta fa alcuni passi, poi
vede una radice e fa finta di inciampare. Cade a terra. - Ah! Ahia! Il mio piede. L’uomo si avvicina, la
pistola puntata su di lui. - Alzati, stronzo, e non
fare scherzi. Kunta finge di cercare di
alzarsi e ricade con un gemito. - Non riesco. - Alzati, stronzo, o ti
ammazzo. Kunta si appoggia a un
ramo e si tira su. Appoggia il piede a terra e geme. - Non ce la faccio. - Muoviti o sparo. L’uomo si è avvicinato.
Kunta colpisce il braccio con la pistola e sferra un pugno al mento del
cacciatore di schiavi, che cade a terra. Kunta salta sulla mano che stringe
la pistola. Quando il piede colpisce le dita, c’è un rumore di ossa rotte e
l’uomo lancia un grido di dolore. Kunta toglie il piede e l’uomo lascia la
presa. Prima che il cacciatore di schiavi riesca a prendere l’arma con la
sinistra, Kunta la colpisce con un calcio, allontanandola. L’uomo infila la
mano sotto la camicia e tira fuori un coltello. Si alza con uno scatto e si
scaglia su Kunta. - Ti ammazzerò, lurido
negro di merda. Kunta colpisce
l’avversario con un calcio ai coglioni, poi gli salta addosso. Rotolano
avvinghiati. L’uomo cerca di colpire Kunta, ma questi gli blocca la mano.
Nella lotta Kunta riesce ad afferrare l’uomo da dietro e a spingere il
pugnale contro il petto dell’avversario. Questi cerca di resistere, ma non
può usare la destra, mentre Kunta, dietro di lui, preme con le due mani.
Nonostante la resistenza dell’uomo, Kunta riesce a far entrare il pugnale nel
petto. L’uomo ha un grido strozzato. Kunta preme ancora e il pugnale affonda.
C’è ancora un momento di resistenza, poi l’uomo si affloscia sul corpo del
nero. Kunta rimane immobile.
Sente che l’uomo su di sé è ancora vivo, anche se inerte. Ora non ha più
scelta. Kunta libera il pugnale dalla mano del ferito e lo afferra, poi lo
immerge nel cuore. L’uomo emette un breve gemito. Kunta rimane immobile.
Lascia che il battito del suo cuore si calmi. Resta in ascolto, ma non si
sente nessun rumore. Kunta scosta il cadavere e
si alza. Ha ucciso un uomo. Se lo prenderanno, la sua fine sarà terribile.
Kunta prende il pugnale e lo pulisce con cura sulla camicia dell’uomo. È
inutile che raccolga la pistola: non sa sparare. Il pugnale può servirgli, se
non altro per uccidersi se verrà scoperto e non ci sarà nessuna possibilità
di fuga. Kunta non sa come portarlo. Il morto ce l’aveva sotto la camicia.
Kunta si china sul corpo e apre la camicia. C’è una guaina, che l’uomo
portava alla spalla. Kunta la prende e se la mette. Infila il pugnale nella
guaina e poi si allontana in fretta. Cammina tutta la notte, il più velocemente
possibile. Quando incontra un torrente, ne percorre un pezzo. L’acqua è
fredda, ma Kunta sa bene che lo cercheranno anche con i cani. Non è più solo
uno schiavo fuggitivo. È un assassino. Quando arriva il giorno,
Kunta striscia tra i cespugli. Deve dormire, ne ha bisogno, ma il sonno non
viene. Non prova rimorso per quello che ha fatto e poco gli importa del
cacciatore di schiavi: Kunta considera tutti quelli come lui solo feccia. Ma
non aveva mai ucciso un uomo e ora avverte una tensione che non si placa. Il mattino seguente a Madisonville Kunta si ferma vicino al negozio nei pressi
della chiesa, come gli hanno detto di fare. Nella notte si è chiesto se non
fosse troppo pericoloso presentarsi all’appuntamento, ma da solo non saprebbe
dove andare: potrebbe semplicemente dirigersi verso nord, ma sa che così
finirebbe sicuramente nelle grinfie dei cacciatori di schiavi. Si chiede che cosa
succederà adesso. Qualcuno dovrebbe contattarlo, ma non sa chi. Potrebbero
anche avere rinunciato ad aiutarlo: Kunta ha ucciso un uomo. È probabile che
abbiano già trovato il corpo e sospettino di lui, visto che il morto era un
cacciatore di schiavi fuggitivi ed era sulle sue tracce. Lo aiuteranno ancora
nell’ultima tappa, la più pericolosa, dal Kentucky all’Indiana? O invece lo
abbandoneranno? Kunta è appena arrivato
quando una donna esce dal negozio e si guarda intorno. Lo osserva un attimo e
dice: - Tu, vieni a darmi una
mano. Kunta guarda stupito la
donna, che deve essere sulla sessantina e ha i capelli bianchi raccolti in
una crocchia. È il contatto previsto? O
è solo una bianca che vedendo un nero ritiene di potersene servire come
facchino? Qualunque sia la risposta, è più saggio obbedire. Al massimo Kunta ritornerà
al negozio dopo aver svolto il suo compito, mostrandosi obbediente e servile
come tutti i negri devono essere. Kunta segue la donna che è
già rientrata nella bottega, senza neanche aspettare che lui rispondesse. La
donna indica un cesto, coperto da un telo. - Prendilo. Kunta si carica il cesto
sulle spalle. Non sa che cosa ci sia dentro, ma pesa parecchio. - Seguimi. La casa della donna è
piuttosto lontana. Entrano e passano direttamente in cucina. La donna gli
indica il tavolo. - Posa lì. Kunta obbedisce. La donna
annuisce e dice: - Adesso esci dal cancello
sul retro e prendi il sentiero di fianco al campo di mais. Dopo il gruppo di
alberi trovi il carro. Buona fortuna. Kunta annuisce e dice: - Grazie. Tutto è stato molto
rapido. Kunta non sa nemmeno il nome di questa donna. Sa solo che corre dei
rischi per aiutare gli schiavi neri in fuga verso il nord. Kunta esce e si allontana,
seguendo il sentiero finché raggiunge gli alberi. Poco oltre trova un carro,
fermo di fianco a una strada. L’uomo lo guarda e gli chiede: - Tu sei Kunta? - Sì. - Io ti porterò fino a
Saint Matthews. Di lì dovrai percorrere una ventina
di miglia per raggiungere Louisville, dove ti aspetta lo Zoppo. - Lo Zoppo? - Sì, è lui che ti farà
arrivare in Indiana. Non sarà facile farti passare. Tu hai ucciso un uomo e
ti cercano in tanti. Così sanno che ha ucciso
il cacciatore di schiavi, ma non lo abbandonano. Kunta si sente sollevato.
Dice: - L’ho fatto per
difendermi. - Lo credo, ma questo non
cambia niente. Adesso non sei ricercato solo per essere fuggito, ma per un
omicidio. Ora sono molti di più a cercarti e sanno che sei in questa zona. Poi l’uomo aggiunge: - Se c’è uno che può
aiutarti è lo Zoppo. È il migliore. Adesso sali sul carro. Ho lasciato un
posto sul davanti. Ti coprirò con gli stracci. - Va bene. Kunta si arrampica sul
carro. C’è uno spazio stretto tra la parete anteriore e il carico. Kunta si
stende. L’uomo lo copre con un asse e con alcune vecchie coperte, poi sale e
mette in moto il carro. Il viaggio è lungo. Ogni
tanto il carrettiere lo avvisa che stanno avvicinandosi a un villaggio e gli
raccomanda di rimanere in silenzio. Kunta non dice nulla, se non per
rispondere a qualche commento
dell’uomo. Nel pomeriggio l’uomo
osserva: - Non capisco. C’è una grossa
nuvola nera verso nord. Ma non è una nuvola. Merda! Dev’essere l’incendio. Mi
avevano detto che c’era un incendio verso Shepherdsville,
ma non pensavo… dev’essere enorme. Con il passare del tempo,
il carrettiere è sempre più preoccupato. Più volte ripete: - Non dire niente, c’è
gente che si avvicina. E poi ancora: - Altri che si allontanano
dall’incendio. Il carrettiere scambia due
parole con le persone in fuga: due villaggi sono stati distrutti dalle
fiamme, come pure parecchie fattorie isolate. L’incendio si sta estendendo,
minacciando altri paesi. Kunta vorrebbe poter
guardare, per farsi un’idea dell’estensione delle fiamme, ma non è possibile.
- Non riusciremo a
passare. Non posso portarti a Saint Matthews. Kunta chiede: - Posso sollevarmi, per vedere
la situazione? L’uomo si guarda intorno,
poi dice. - Sì, non c’è nessuno, ma
sporgi appena la testa, non si sa mai. Kunta si solleva. Davanti
a loro, nella direzione in cui si muove il carro, il cielo è completamente
coperto da un’immensa nuvola scura e già nell’aria si sente l’odore di
bruciato. - Rimettiti giù. Kunta obbedisce. - Non passeremo, non
possiamo passare. L’incendio si dev’essere esteso moltissimo. Dovrò lasciarti
a Radcliff. Lo Zoppo ti aspetta a Louisville. Devi
cercare di arrivarci a piedi, aggirando l’incendio. Oh, merda! Il carrettiere lascia
Kunta in un boschetto, non lontano da Radcliff. - Lo Zoppo ti aspetterà
per qualche giorno, se può. Il terreno scotta anche per lui. Ormai viene di
rado, è troppo rischioso. Se lo prendono finisce appeso a un albero con i
coglioni in bocca, ma prima che lo appendano, avrà il tempo di maledire il
giorno in cui è nato. - Ma perché continua, se è
così rischioso? - Aveva deciso di
smettere, ma non c’era nessun altro in questo momento, per cui ha accettato.
Non puoi passare il confine da solo, in questi giorni. Si sono organizzati, è
pieno di cacciatori di schiavi. Ci vuole qualcuno che conosca tutti i
passaggi e sappia cambiare strada in base alla situazione del momento. Adesso
senti: a Louisville devi recarti al negozio di cordame della Main Street, è vicino a un saloon. Lo Zoppo ti contatterà
lì. L’uomo gli fornisce alcune
indicazioni su come muoversi per arrivare a Louisville da Radcliff,
poi lo saluta e si allontana. In due ore Kunta raggiunge
Radcliff. Deve attraversare la cittadina e poi
cercare di andare verso nord, aggirando l’incendio. Kunta cammina a testa
bassa, da buon negro. Ascolta la gente che parla per strada, ma l’argomento
principale sembra essere l’incendio, non un negro assassino in fuga. C’è un
piccolo assembramento vicino a un saloon. Kunta si ferma tra gli altri:
preferisce sembrare un qualunque negro perdigiorno. Seduti su una panca
davanti al saloon ci sono un bianco e un nero. Il bianco è alto e massiccio,
con capelli rossi e occhi verdi. Ha una fitta barba e grandi mani. Il nero
invece è piccolo e magro e di fianco al colosso di pelo rosso appare
indifeso. Il nero trema, mentre il bianco lo guarda e ride. - Il mio bel negretto. Kunta non guarda
direttamente i due uomini. Anche gli altri neri presenti evitano di farsi
vedere a fissare il bianco davanti al saloon, ma non perdono un dettaglio
della scena. E d’altronde la piccola esibizione del bianco dai capelli rossi
è diretta soprattutto a loro: vuole ricordare a questi neri, siano liberi o
schiavi, che qui sono i bianchi a comandare e che la vita di un negro di
merda non vale niente. Adesso l’uomo ha afferrato
l’orecchio del nero e glielo piega. Il nero non dice nulla, ma c’è una
smorfia di dolore sulla sua faccia. - È finito il
divertimento, mio bel negretto. L’uomo ride, poi la risata
lascia il posto a un’espressione dura: - Sei fottuto, lurido
negro di merda. Kunta sente la rabbia
salire, ma non dice nulla. Non può correre rischi. E in ogni caso non
potrebbe fare nulla. Potrebbe saltare addosso al bianco e sgozzarlo con il
coltello che porta nascosto, ma ammazzerebbero come un cane lui e l’altro. Si
chiede se non aspettare che l’uomo se ne vada con lo schiavo. Potrebbe
seguirlo e magari cercare un’occasione per ucciderlo e salvare il nero. Ma è
un’idea assurda, Kunta lo sa benissimo. Kunta deve cercare di salvare se
stesso e già questa non è un’impresa facile. Mentre Kunta riflette,
arrivano altri due bianchi. Guardano l’uomo con lo
schiavo nero. - Cazzo! È lui! Si avvicinano. Indicano il
nero con un dito. - Questo lo cercavamo
anche noi. Sono altri due cacciatori
di schiavi. Kunta si tende. Sa benissimo di essere una preda ambita. L’uomo dai capelli rossi
ride. - Ma l’ho trovato io!
L’Irlandese è arrivato prima. - Ma tu sai chi è? - So che c’è una bella
ricompensa per chi lo riporta a casa. Di chi è non mi fotte un cazzo. Chi
vuoi che sia? È un negro di merda, ecco quello che è. - Sì, ma questo è Jeremiah
uno di quelli che aiutano gli schiavi che scappano dai loro padroni. Quelli
che li guidano al Nord. L’uomo che ha detto di
chiamarsi l’Irlandese ha un ghigno malefico. Kunta sente di odiarlo con tutto
se stesso. - Questo qui non aiuterà
più nessuno, te lo garantisco. Dopo un attimo di pausa,
l’Irlandese aggiunge: - Avrebbe bisogno di aiuto
lui, ma non c’è nessuno che possa dargli una mano. Vero, negro di merda, che
non c’è nessuno che possa aiutarti? E mentre lo dice l’uomo
punta la pistola contro la bocca del nero e poi gli spinge la canna tra le
labbra. Il prigioniero è costretto ad aprire la bocca e l’uomo gli infila
l’arma tra i denti. - Vuoi che spari, eh,
negro? Forse è meglio che ti spari, così ti risparmi quello che ti aspetta.
Potrei spararti in bocca. O magari in culo. Che ne dici se ti infilo la canna
della pistola in culo e sparo? Magari ti viene duro quando te la infilo
dentro… L’Irlandese ride e toglie
l’arma. Gli altri due bianchi si
guardano un momento. Devono avere un’idea in testa. - Senti, perché non ce lo
vendi? - E perché mai dovrei
vendervelo? Pensi che non sia in grado di farlo arrivare a destinazione? Se
vuoi un negro, cercatelo. - Ne stiamo cercando uno,
un bastardo di nome Kunta, che ha ucciso uno di noi l’altra notte. Dev’essere
da queste parti, di certo voleva raggiungere l’Indiana, ma non è potuto
passare, per l’incendio. Prima o poi lo becchiamo. Kunta si è sentito gelare.
Questi due uomini cercano proprio lui. E sono a pochi passi, armati. Se
guardassero i neri assembrati davanti al saloon… Kunta sulle parti scoperte
non ha cicatrici che lo rendano immediatamente riconoscibile, ma è alto e
robusto. In questo momento sta un po’ piegato in avanti, quasi ricurvo,
perché la sua testa non emerga tra le altre. Gli sembra che uno dei neri
vicino a lui lo guardi. Niente di strano: gli altri probabilmente si
conoscono, almeno di vista; Kunta invece viene da fuori. L’Irlandese intanto
chiede: - Com’è ‘sto tizio? - Alto, più della media.
Spalle larghe e corpo forte. Una cicatrice a V sul culo. Kunta si accorge che anche
un altro dei neri vicino a lui lo sta fissando. Merda! L’Irlandese è scoppiato a
ridere: - Sul culo? E cosa fate?
Abbassate i pantaloni a tutti i negri di merda per guardargli il culo? O
aspettate che caghino per vedere se hanno la cicatrice, quando si tirano giù
le brache? I due non sembrano
divertirsi. - Almeno quello lo
prendiamo. Te lo assicuro. - Buona fortuna ragazzi.
Se trovo un negro con una cicatrice sul culo, lo prendo io. Doppia
ricompensa. L’Irlandese ride ancora. - Bada a non farti
scappare questo. È un serpente. - Può darsi, ma ha finito
di sputare veleno. E comunque… L’uomo ha un ghigno
malefico. - …stai tranquillo che non
mi scappa. Sì, Jeremiah non ha più
nessuna speranza, questo fottuto bianco non se lo lascerà scappare. Kunta
vorrebbe uccidere l’Irlandese, vorrebbe poter aiutare Jeremiah, ma in questo
momento può solo cercare di non farsi prendere. Gli uomini che lo cercano
sono a pochi passi da lui. Se sospettassero… basterebbe fargli abbassare i
pantaloni per scoprire che è lui lo schiavo in fuga dalla piantagione di Mr.
Redbowl. D’improvviso Kunta prova
un disperato bisogno di scappare, ma si controlla. Sa che se si mettesse a
correre, non andrebbe lontano. Lo prenderebbero subito. O gli sparerebbero.
Kunta guarda a terra, fissa i suoi piedi. Si rende conto di aver bisogno di
pisciare, ma preferisce non allontanarsi, temendo di dare nell’occhio. Rimane
nel gruppo di neri che dalla strada osservano la scena. Nota che uno degli
uomini che lo fissavano sta scivolando davanti a lui, nascondendolo alla
vista dei bianchi. È un movimento casuale o l’uomo ha capito e lo sta
coprendo? I due bianchi se ne vanno.
Non badano al gruppo di neri fermo sulla strada. Quando sono distanti, Kunta
si stacca dagli altri e si infila in un vicolo tra le case. Raggiunge i
campi. Il cuore gli batte forte: Kunta è un uomo coraggioso, ma la sua vita è
appesa a un filo. Kunta si mette contro un
albero, controlla che intorno non ci sia nessun bianco e piscia. Si rende
conto che i pantaloni sono un po’ bagnati. Per fortuna sono solo poche gocce.
In questo momento non è certo questo a preoccuparlo. Kunta sa che deve
raggiungere Louisville, ma la strada è bloccata dal grande incendio. Dai
discorsi sentiti in paese, Kunta ha capito che le fiamme stanno divorando il
Kentucky settentrionale: nella parte orientale dello stato, il terreno è
ormai coperto da un’immensa distesa di cenere e dove c’erano i boschi
rimangono solo gli scheletri anneriti degli alberi. Nell’area dove Kunta
sarebbe dovuto passare le fiamme stanno estendendosi e non c’è modo di
attraversare la regione. Kunta dovrà spostarsi a est, sperando di riuscire a
superare il confine prima che le fiamme divorino tutto. Kunta guarda verso nord,
dove si innalza l’immensa nuvola nera. Può sentire l’odore di bruciato. Nell’aria
svolazza la cenere che il vento porta fin qui. Kunta si avvia. Non
conosce il territorio, non sa come raggiungere Louisville, ma sa che deve
andare verso nord, cercando di sfuggire all’incendio e ai cacciatori di
schiavi fuggitivi. Kunta si incammina. Usa
l’incendio come punto di riferimento: dovrà cercare di passare a ovest
dell’area che brucia, sperando che le fiamme siano meno rapide di lui. Kunta evita il più
possibile le strade, per paura di essere fermato e consegnato a quelli che lo
cercano: c’è un grande viavai di gente a causa dell’incendio, ma anche nella
confusione dei fuggitivi, qualcuno potrebbe notarlo e segnalare la sua
presenza. Un nero sconosciuto è guardato sempre con sospetto, anche se nel
Kentucky vivono diversi neri liberi. E qualcuno che si dirige verso nord,
dove l’incendio infuria, è ancora più sospetto. Camminare nei boschi e
lungo i sentieri tra i campi rallenta lo spostamento e spesso Kunta è
costretto a tornare indietro e cercare una nuova via per procedere. Quando
arriva la sera, è ormai molto vicino all’incendio. Kunta si chiede se ha
senso fermarsi a dormire in un posto che potrebbe essere raggiunto dalle
fiamme nella notte: per il momento il vento soffia verso Sud, ma potrebbe
girare. Kunta decide di proseguire
ancora un tratto: la luce dell’incendio costituisce un buon punto di
riferimento, anche se non è sempre sufficiente per vedere dove mettere i
piedi. Dopo qualche ora, Kunta si rende conto che le gambe non lo reggono più
e si stende ai piedi di un albero, vicino a un torrente. È il fumo a svegliarlo.
Nella notte l’incendio si è esteso verso ovest e ora l’aria è piena di fumo e
dell’odore acre dei boschi che bruciano. Il calore è insopportabile e Kunta
si rende conto che i vestiti gli si sono appiccicati addosso per il sudore.
La stanchezza lo ha fatto sprofondare in un sonno profondo, per cui non si è
reso conto dell’avvicinarsi delle fiamme. Kunta si alza, ma l’aria è
irrespirabile. Kunta si piega. Stando chinato riesce ancora a respirare,
anche se il fumo gli fa bruciare la gola e lacrimare gli occhi. Kunta si
guarda intorno, senza drizzarsi. Individua la direzione in cui il bosco
sembra ancora integro e si sposta rapidamente. Dopo un breve tratto il fumo
è meno fitto e Kunta può alzarsi. Si muove in fretta, cercando di
allontanarsi dalle fiamme che avanzano. Kunta raggiunge il margine
del bosco. Proseguire significa uscire allo scoperto, dove può essere più
facilmente avvistato. Kunta decide di rimanere sul limitare del bosco. In alto il cielo è coperto
dalla nuvola dell’incendio e l’odore di bruciato è forte, ma l’aria non è
satura di fumo e si riesce a respirare. Kunta cammina due ore,
dirigendosi verso nord. A tratti si inoltra nel bosco, in altri momenti
invece passa tra i campi, cercando sempre di mantenere la direzione. È in una zona aperta e sta
avvicinandosi a un bosco, dove le fiamme non sono ancora giunte, quando in
lontananza vede un carro con due uomini armati. Kunta finge di non averli visti,
ma sa benissimo che loro hanno visto lui. E sa chi sono: sono i due
cacciatori di schiavi che lo cercano. Kunta continua a camminare, facendo
finta di niente, soffocando l’impulso di mettersi a correre. Si dirige verso
il bosco: i due non potranno seguirlo con il carro, ma questo non significa
molto. Kunta evita di guardare
indietro, ma passando tra gli alberi lancia una rapida occhiata alle sue
spalle. Gli sembra che il cuore gli si fermi: i due hanno lasciato il carro e
si stanno avvicinando. Kunta sa di essere perduto. Accelera il passo e si
dirige verso l’incendio. È la sua unica speranza. Alle sue spalle risuona
una voce: - Fermati o sparo! Kunta scatta in una corsa
disperata. Uno sparo risuona poco dopo, ma il proiettile si perde. Tra gli
alberi è difficile colpire un uomo in corsa. Kunta corre: sa che le
sue, minime, possibilità di rimanere in vita dipendono dalla velocità con cui
riesce a muoversi. Si avvicina all’incendio. L’aria è satura di fumo. Ora Kunta corre lungo i
margini dell’incendio. Sulla sinistra si trova di fronte un fiume. Merda! A
destra l’incendio, a sinistra il fiume. Kunta non sa nuotare, non può
gettarsi in acqua. Corre nello spazio ristretto tra il fiume e l’incendio,
che ora il vento spinge verso il fiume. A un certo punto Kunta si
trova la strada sbarrata dall’acqua che scorre impetuosa: il fiume fa un’ansa
ed è impossibile proseguire senza attraversarlo. A destra il bosco arde. La
sua fuga è finita. Kunta si volta. I due
uomini non sono lontani. Si avvicinano con i fucili puntati, ma non sparano:
hanno capito che la preda non può sfuggire e preferiscono catturare il negro
vivo, ci sarà più divertimento. I due uomini ora sono di
fronte a lui. Uno ghigna e dice: - Tu sei Kunta, lo schiavo
che è fuggito dal signor Redbowl. E sei tu che hai ucciso un uomo. Kunta sa di essere
perduto. È inutile negare: ai due basta abbassargli i pantaloni per avere la
prova della sua identità. E quanto all’omicidio, non può negare neanche
quello. Kunta sa che morirà, ma
non morirà da solo. Ci sarà un cacciatore di schiavi in meno. Kunta china la
testa come se si arrendesse, ma quando uno dei due si avvicina, per legarlo,
con una mossa rapidissima Kunta estrae il coltello e lo infila nel petto
dell’uomo. La lama spacca il cuore, ma quando Kunta cerca di estrarla, si
rende conto che è rimasta bloccata tra le costole. Non cambia molto: l’altro
uomo lo ucciderà comunque. Infatti quando l’uomo
colpito crolla a terra, Kunta vede che il secondo cacciatore di schiavi ha
già puntato la pistola su di lui: - Bastardo! Adesso ti
ammazzo, fottuto ne… Lo sparo copre l’ultima
parola. Un foro rosso è comparso sulla fronte dell’uomo, che barcolla e
crolla a terra. Kunta lo guarda incredulo
afflosciarsi, poi si volta: l’uomo che ha sparato dev’essere alle sue spalle,
dall’altra parte del fiume. Infatti oltre il corso d’acqua c’è l’Irlandese. È
lui che ha sparato: ha ancora la pistola in mano. Perché ha ucciso il
cacciatore di schiavi? L’Irlandese gli grida: - Gettati in acqua e vieni
qui, presto. Tra poco lì brucerà tutto. È vero, Kunta lo sa
benissimo. L’area da cui è arrivato già arde e anche gli alberi vicino a lui
stanno bruciando nella parte superiore. Ma Kunta non sa nuotare e il fiume
sembra profondo. - Muoviti, Kunta! Prima o
poi brucerà anche da questa parte. Dobbiamo allontanarci. L’uomo conosce il suo
nome. Ma… Mentre Kunta cerca di
darsi una spiegazione, compare Jeremiah, il nero che l’uomo stava tormentando
al saloon. Ha una pistola in mano. Si rivolge al bianco. - Patrick, dobbiamo fare in
fretta. Alcuni alberi da questa parte del fiume stanno già bruciando. Il
vento ha portato qualche scintilla e hanno preso fuoco. Poi Jeremiah si rivolge a
Kunta: - Kunta, muoviti. In
fretta. Non abbiamo tempo da perdere. Kunta non capisce più
nulla. L’Irlandese, che Kunta ha chiamato Patrick, l’ha salvato uccidendo
l’uomo che stava per sparargli. Perché? Jeremiah è armato e sembra amico di
Patrick, non il suo prigioniero. Ed entrambi conoscono il suo nome. - Kunta! Buttati in acqua! Kunta scuote la testa. - Non so nuotare! - Oh, cazzo! Mentre lo dice, Patrick ha
già incominciato a spogliarsi. Con gesti rapidi si toglie tutto quello che ha
e rimane nudo. Si getta in acqua e con poche bracciate potenti attraversa il
fiume. Esce dall’acqua e si avvicina gocciolante a Kunta. Kunta guarda questo
gigante dal pelo rosso. Guarda il torace muscoloso, il ventre sporgente, il
grosso cazzo. - Senti, ti porto io
dall’altra parte, tu però ti devi abbandonare completamente a me, altrimenti
affoghiamo tutti e due. È chiaro? Kunta annuisce. Sa che se
in acqua uno si dibatte mentre lo portano in salvo, il rischio è davvero che
finisca a fondo insieme al suo salvatore. - Allora recupera il tuo
coltello, che può sempre servire. Patrick sorride e
aggiunge: - Ma non me lo piantare
nella schiena quando arriviamo. Kunta scuote la testa. È
frastornato. Con uno sforzo gira il coltello nella ferita e lo estrae dal
cadavere dell’uomo steso a terra. I due corpi bruceranno, ormai gli alberi
intorno sono in fiamme: probabilmente nessuno capirà che sono stati uccisi.
Per Kunta non cambia molto: tutti sanno che lui ha già ucciso un bianco. Patrick entra in acqua. Il
fiume è profondo: già vicino alla riva, del gigante rimane fuori solo la
testa. - Vieni qui. Kunta infila il coltello
nella guaina e si immerge. Respira a fondo. Patrick gli passa un braccio
intorno al torace. - Adesso abbandonati
completamente. Al massimo berrai un po’ d’acqua, ma non ti lascio affogare.
Capito? - Sì, ho capito. Patrick si muove. Nuota
con un braccio, mentre l’altro tiene Kunta. Kunta si sforza di
rimanere immobile, ma è rigido. Schizzi d’acqua gli arrivano in faccia e c’è
un momento in cui si trova sotto, ma riemerge subito. Dopo un tempo
brevissimo, che gli è parso comunque lungo, Patrick gli dice: - Qui si tocca. Puoi
alzarti. Patrick si drizza. È vero,
si tocca. Escono dall’acqua. Patrick incomincia a rivestirsi. Kunta è
fradicio, ma il calore dell’incendio asciugherà in fretta gli abiti. Kunta vorrebbe chiedere
spiegazioni, perché nulla di ciò che è avvenuto sembra avere un senso. Si
incamminano, mentre Patrick parla: - Dobbiamo andarcene in
fretta. Anche se l’incendio brucerà i due cadaveri, possono esserci altri
cacciatori di schiavi e in ogni caso qui il terreno scotta per me, per te e
per Jeremiah. E non per l’incendio. Patrick ride. Ha una
risata fragorosa. Kunta lo guarda e chiede,
a bruciapelo: - Perché hai sparato? Patrick allarga le
braccia. - Santo cielo, se non gli
sparavo io, sparava lui a te. - Ma perché mi hai salvato? Jeremiah ha capito e
interviene, spiegando. Non servono molte parole: - Kunta, Patrick è lo
Zoppo, quello che dovevi incontrare. Di colpo, tutto appare
chiaro. - Allora, la scena al
saloon… era tutta una finta? Patrick annuisce. - Certo. Jeremiah era
stato riconosciuto. Avrebbe avuto dietro mezzo Kentucky. Così l’ho catturato
io. Jeremiah scuote la testa: - Pura follia, venire a
salvarmi. Lui è l’uomo più odiato d’America e se qualcuno sospettasse…
preferisco non pensare che cosa ti farebbero, se ti beccassero. - Mi lincerebbero. - Quello sarebbe solo il
finale. Hanno raggiunto il carro.
Patrick dice: - Allora, Kunta, credo che
sia meglio continuare con la commedia. Jeremiah sul carro come prigioniero,
che sembra ben legato, ma con la pistola nascosta sotto la camicia. Non che
serva a molto: come tiratore è un disastro. Jeremiah allarga le
braccia, in un gesto sconsolato. - Quand’ero schiavo, non
mi hanno insegnato a sparare. Patrick prosegue: - Tu mi fai da cocchiere.
Posso dire che ti ho preso al mio servizio. Se qualcuno sospetta, gli dico
che in ogni caso ti ho trovato io e che la ricompensa la prenderò io. Se
invece qualcuno riconosce me, allora siamo fottuti tutti e tre e quello che
seguirà non sarà un divertimento. Non per noi, almeno. Gli altri si
divertiranno un mondo. Sono saliti sul carro. A
un cenno di Patrick, Kunta fa schioccare la frusta. Il cavallo si mette in
moto. Kunta chiede: - Ma perché ti chiamano lo
Zoppo? Non zoppichi mica. - Mi sono beccato una fucilata,
mentre aiutavo uno schiavo, e per un certo tempo zoppicavo davvero. È stata
una buona cosa, perché quelli che mi cercano sono convinti di dover trovare
uno zoppo. O almeno lo erano fino a qualche tempo fa. Adesso hanno le idee
molto più chiare, per mia sfortuna. Patrick raggiunge una
strada che si dirige verso nord-ovest, ai limiti dell’incendio. Il vento
sembra aumentare di intensità e le fiamme si propagano in fretta. Jeremiah chiede: - Ce la faremo a passare,
Patrick? - Non lo so, Jeremiah, ma dobbiamo
provare. La scenetta a Radcliff è andata bene, ma è
stato un puro caso. Di sicuro a quest’ora qualcuno ha già capito che si
trattava dello Zoppo e che quel fottuto negro rischia di scamparla anche
questa volta. Kunta guarda l’immensa
nuvola dell’incendio alla loro destra. Se il vento continuerà a soffiare
intensamente come ora, rischiano di finire intrappolati. Non è una bella
morte, anche se di sicuro meglio di quella che li aspetta se verranno
catturati. La manovra di Patrick è azzardata. Il cavallo è nervoso.
Patrick cerca di calmarlo. Procedono abbastanza in fretta lungo la strada,
senza incontrare nessuno: l’incendio è troppo vicino, chi poteva si è già
allontanato. Ora però la strada gira e
sembra proprio andare in direzione delle fiamme. Patrick ferma il cavallo e
dice: - Fine della corsa. Scendono tutti e tre,
Patrick libera il cavallo dai finimenti che lo legavano al carro e lo prende
per le briglie. Si dirigono verso ovest, allontanandosi dall’incendio, e poi
nuovamente a nord. L’incendio non sembra più avanzare verso di loro, il vento
ora pare aver girato di nuovo verso sud e probabilmente spinge le fiamme
verso Radcliff. Nel pomeriggio deviano
nuovamente verso est, attraversando una zona che l’incendio ha devastato. Il
terreno è una distesa di cenere e gli scheletri degli alberi oscillano al
soffio del vento. Camminando sollevano nuvole di cenere che li fanno tossire.
Procedono tenendo un fazzoletto davanti al naso. A un certo punto
attraversano quello che rimane di un villaggio: i camini di pietra di alcune
case si drizzano ancora, il resto è solo un insieme di macerie bruciate. Verso sera superano la
zona devastata dalle fiamme. Davanti a loro scorre un fiume. - Là si può guadare. Così
ci laviamo. Secondo bagno della giornata. Il primo per te, Jeremiah. E da
quanto puzzi, direi che ne hai proprio bisogno. - Meglio che non dica
quello che penso… - Perché, adesso pensi
anche? Da quando in qua? Kunta scoppia a ridere.
Jeremiah scuote la testa e non risponde, ma è evidente che scappa da ridere
anche a lui. Si avviano, Patrick in
testa, Kunta e Jeremiah dietro. Patrick raggiunge un punto in cui il fiume è
più ampio. - Vai avanti tu, Jeremiah,
sul cavallo. In effetti Jeremiah è di
bassa statura e se l’acqua è alta come sembra, non riuscirebbe a camminare
sul fondo tenendo la testa fuori dall’acqua. Jeremiah sale a cavallo e
procede. A metà del fiume l’acqua arriva al collo dell’animale. Kunta passa dopo Jeremiah.
Non si sente a proprio agio. Dove l’acqua è più alta e la corrente più forte,
ha un momento di esitazione. Sente dietro di sé la voce di Patrick: - Non ti preoccupare,
Kunta. Ci sono io dietro di te. Non ti lascio affogare. Kunta annuisce. Sapere che
Patrick è pronto ad aiutarlo lo tranquillizza. Procede. A un certo punto
mette un piede su un sasso e scivola, ma Patrick gli ha già messo un braccio
intorno alla vita e lo aiuta a recuperare l’equilibrio. Infine raggiungono la riva
opposta. Sono fradici e il sole ormai sta tramontando. Patrick dice: - Siamo in Indiana, Kunta.
Non al sicuro, perché possono arrestarci anche qui, ma abbiamo molti amici.
Adesso ci conviene procedere in fretta, per arrivare a una casa dove possano
accoglierci prima che sia completamente buio. Camminano rapidamente,
nonostante la stanchezza, e infine raggiungono una fattoria. Patrick si fa
avanti e bussa. Gli apre un uomo sui cinquanta. - Patrick! Ce l’hai fatta!
Jeremiah, che piacere vederti: ti davamo per spacciato. E tu… L’uomo guarda Kunta. È
Patrick a rispondere: - Lui è Kunta. - Venite dentro. Intanto alla porta è
arrivata anche una donna, anche lei sui cinquanta. Saluta calorosamente
Patrick e Jeremiah, sorride a Kunta e dice: - Vado a prepararvi
qualche cosa da mangiare. Se avessi saputo del vostro arrivo, avrei preparato
una torta. - Non li viziare, Lisbeth. Patrick è già piuttosto grasso… Patrick ride e dice: - Brutto… Non dico quel
che sei, Julian, per rispetto nei confronti di Lisbeth,
che è una vera signora. Non ho mai capito come mai ha sposato te. Anche Julian ride. Si lavano le mani e poi si
mettono a tavola. Kunta è felice di potersi
sedere e mangiare: è stanco e in giornata non ha toccato cibo. Dopo cena
Patrick, Jeremiah e Kunta raccontano le loro avventure, ma sono tutti e tre
stanchi, per cui si coricano presto. Steso sul giaciglio Kunta
pensa che ha attraversato il confine e che adesso i rischi sono molto
ridotti: non gli sembra vero di essere infine arrivato in Indiana. Adesso può
pensare al futuro, ma è troppo stanco. Lo farà domani. Esiste un domani che
può immaginare, che non è più la schiavitù. Kunta vorrebbe sognare un po’ a
occhi aperti, ma la stanchezza ha il sopravvento e si addormenta subito. Per due giorni rimangono
nella casa. Patrick mette in guardia Kunta: - Ci sono altre fattorie
nell’area ed è meglio che nessuno veda dei negracci qui. Siamo troppo vicino
al confine e i cacciatori di schiavi vengono spesso da queste parti.
Dovrebbero rivolgersi allo sceriffo, ma se sono in gruppo, se ne fottono
delle leggi. Patrick dà una mano a
Julian nei campi, mentre Jeremiah e Kunta fanno due lavoretti in casa, ma non
c’è molto da fare per loro. Kunta ne approfitta per parlare un po’ con
Jeremiah. - Sei stato schiavo anche
tu? - No, mio padre e mia
madre erano schiavi, ma fuggirono dalla Georgia quando mia madre era incinta.
Sentendo quello che mi raccontavano della loro vita in piantagione, decisi
che volevo fare qualche cosa anch’io contro la schiavitù. - E come hai fatto…
insomma, per fare qualche cosa? - Ci sono diversi gruppi
che cercano di aiutare gli schiavi a fuggire a nord. Alcuni raccolgono fondi
per questo. A Baltimora ci sono i Congregazionisti che sono molto attivi. Per
tre anni ho collaborato con loro, aiutando gli schiavi in fuga a superare il
confine tra la Virginia e il Maryland, ma poi la situazione è diventata insostenibile:
mi avevano individuato e rischiavo di essere preso. Una volta un gruppo di
cacciatori di schiavi ha cercato di catturarmi: se non fossi riuscito a
nascondermi, mi avrebbero ammazzato o magari mi avrebbero venduto come
schiavo. - Ma non possono vendere
come schiavo un uomo libero. - Possono, possono. Ti
fanno passare per uno schiavo in fuga, pagano qualche dollaro al giudice che
gli dà ragione e tu sei fottuto. - Non pensavo… - È successo più volte.
Adesso che l’Inghilterra ha proibito la tratta, arrivano meno schiavi e la
richiesta di manodopera è forte. Kunta scuote la testa,
senza dire nulla. Jeremiah continua: - Ho lasciato la mia casa
in Maryland e mi sono spostato qui, in Indiana. La prima schiava che ho
aiutato a fuggire qui è stata Margaret, che adesso è mia moglie. Viviamo a
Bedford, ma ci sposteremo. Ormai anche qui il terreno scotta per me. In
Kentucky sanno chi sono. Se Patrick non fosse intervenuto, io sarei già
morto. E non sarebbe stata una fine rapida, né piacevole. Anche se credo che
morire non sia mai piacevole. Jeremiah ride. Ha una
risata molto diversa da quella di Patrick, tanto sommessa, quanto quella
dell’irlandese è roboante. - Mi sembra di capire che
anche Patrick corra dei rischi. - Sì, più di me. Anche lui
non può continuare. Venire a salvarmi in Kentucky è stata una pura pazzia. È
ancora più odiato di me: per molti bianchi lui è un traditore. Preferisco non
pensare a quello che gli farebbero se lo prendessero. - E che cosa farete
adesso? - Io penso di andare verso
la California. Non mi spiacerebbe neanche il Canada, ma è un paese molto
freddo. Quanto a Patrick… non so che cosa intende fare, devi chiedere a lui.
Abbiamo collaborato più volte, ma non conosco le sue intenzioni. - Ma lui, Patrick, perché
lo fa? Jeremiah sembra un po’
stupito dalla domanda. - Perché è contro la
schiavitù, come tutti gli altri bianchi che ti hanno aiutato ad arrivare fino
qui. Sono in tanti a volere abolire la schiavitù. La tratta è già stata
proibita. L’irlandese incuriosisce
molto Kunta. Dopo che hanno parlato un po’ della vita di Jeremiah e delle
possibilità di lavoro per i neri in fuga dalla schiavitù, Kunta chiede ancora
di Patrick: - Che lavoro fa Patrick? - Non ha un lavoro. È
arrivato in America due anni fa, intenzionato a mettere su qualche attività,
ma ha incominciato subito a dedicarsi ad aiutare gli schiavi in fuga, qui in
Indiana. - E come vive? Se non ha
un lavoro... - So che ha dei soldi da
parte, quelli con cui voleva avviare un’attività. Riceve un po’ di denaro da
un’associazione presbiteriana. Dove non sarebbero molto contenti di sapere
che ha ammazzato un uomo per salvarti, ma nessuno di noi tre glielo farà
sapere. Mi raccomando, Kunta, acqua in bocca, su questo, con tutti, anche con
quelli che sono dalla nostra parte. Non è successo niente. Ti abbiamo trovato
per strada e aiutato, come era previsto che Patrick facesse. Dei due
cacciatori di schiavi morti nell’incendio noi non sappiamo nulla. - Di sicuro non dirò
niente. La notte seguente, poco
prima dell’alba, riprendono il loro viaggio. Si riposano poche ore in un
fienile e poi ripartono. Verso mezzogiorno consumano un po’ del cibo che
Julian ha dato loro (e della torta di mele che Lisbeth
ha preparato), poi Jeremiah li lascia per raggiunge Bedford. - È stato un piacere
conoscerti, Kunta. Mi spiace un po’ lasciarti da solo con Patrick, che è un
individuo altamente pericoloso, come avrai già capito da solo. Ma è meglio se
ci dividiamo e non vedo l’ora di riabbracciare mia moglie. Patrick scuote la testa. - Che stronzo! Se non era
per me a quest’ora penzolava da un albero e guarda che cosa ha il coraggio di
dire! È meglio che tu te ne vada in fretta, Jeremiah, o non rispondo di me. Jeremiah si rivolge di
nuovo a Kunta: - Vedi che è pericoloso? Ridono tutti e tre. Poi Jeremiah
abbraccia Patrick, stringe la mano a Kunta e si allontana a cavallo. Patrick e Kunta riprendono
il loro viaggio. Si muovono a piedi e parlano molto poco. Patrick sembra
conoscere molto bene i posti e sceglie sentieri poco battuti. Vedono spesso fattorie
in lontananza, ma di rado incontrano qualcuno. È un territorio collinoso, con
una popolazione sparsa, ed è facile evitare gli incontri. Si fermano solo verso il
tramonto. Mangiano insieme. Kunta vorrebbe conoscere
meglio Patrick, ma non vuole apparire invadente. Si limita a chiedere: - Dove siamo diretti? - A una fattoria isolata,
dove possiamo passare un po’ di giorni in pace, senza temere che qualcuno
venga a cercarci. È meglio che per un po’ io non mi faccia vedere in giro. Kunta annuisce. Patrick
aggiunge: - Kunta, se tu non vuoi
fermarti, posso darti le indicazioni per raggiungere da solo Terre Haute, ma
non te lo consiglio. Tu hai ucciso un uomo e corri più rischi di un normale
schiavo fuggitivo. Meglio lasciar passare un po’ di tempo. Kunta annuisce, poi dice: - Anche tu hai ucciso un
uomo. - Escludo, mai fatto
niente del genere. O se l’ho fatto l’ho dimenticato. Kunta sorride. - Hai problemi di memoria… - Forse, ma magari con una
memoria migliore potrei anche ricordarmi che tu hai ucciso due uomini, non
uno. Poi Patrick scuote la
testa sorridendo e aggiunge: - Kunta, scordati quello
che è accaduto, davvero. Se troveranno i due cadaveri, saranno resti
carbonizzati e non credo che nessuno si preoccuperà di capire chi erano e
come sono morti. E anche se scoprissero che sono stati ammazzati, io e te non
ne sappiamo niente. Kunta annuisce: - Sì, lo so. Me l’ha detto
Jeremiah. Di sicuro non ne parlerò a nessuno. - Così va bene. Non vorrei
mai dover mettere un cacciatore di schiavi sulle tue tracce. Kunta ride e ribatte: - Secondo me tu sei una
preda più ambita. Patrick annuisce: - Sì, se tu non avessi
ucciso due uomini, no, volevo dire… un uomo, credo che potresti
persino comprare la tua libertà denunciandomi alle persone giuste. Sarebbero
disposti a tutto pur di avermi tra le mani. A Kunta non spiace l’idea
di fermarsi un po’ con Patrick: ha voglia di conoscere meglio questo
irlandese che rischia la pelle per aiutare gli schiavi in fuga. Gli sembra
diverso dagli altri uomini che ha incontrato, anche se in realtà ognuno di
loro era differente. Ma Patrick lo incuriosisce molto di più. Patrick aggiunge: - Adesso è un periodo di
lavori nei campi e alla fattoria dove andiamo non c’è il rischio che ci
vedano, per cui io e te possiamo dare una mano per ringraziare
dell’ospitalità che ci viene offerta. - Benissimo, mi sembra
sensato. Si stendono a dormire.
Kunta pensa al proprio futuro. Paul gli aveva detto che, una volta giunto a
destinazione, avrebbe trovato qualcuno in grado di aiutarlo a trovare un
lavoro. Kunta vorrebbe non dover lavorare per un bianco, ma i proprietari
terrieri sono tutti bianchi e Kunta sa solo coltivare i campi e guardare gli
animali. Se il padrone fosse come Patrick, sarebbe diverso. Chissà che cosa
farà Patrick, ora? Se gli servisse un aiutante, a Kunta non dispiacerebbe
lavorare con lui. Kunta sente il russare di
Patrick. L’irlandese gli piace parecchio. Ne apprezza l’umorismo, la
vitalità, la generosità, la determinazione. Kunta ripensa a quando
Patrick si è spogliato per attraversare il fiume e venire a salvarlo. Si
rende conto che Patrick gli piace anche come maschio. Non è bello, no, ma gli
piace. Il pensiero lo disturba, per cui lo scaccia. Cullato dal russare di
Patrick, si addormenta. Patrick lo sveglia che è
ancora buio. - Il primo pezzo di strada
è meglio farlo prima che spunti il sole. È più sicuro. Faremo colazione più
tardi. Si mettono in movimento.
Patrick sembra conoscere ogni sentiero, ogni strada, ogni fattoria. Ogni tanto
dice due parole sul fatto che è meglio evitare un certo posto, che invece da
un’altra parte non corrono rischi. Kunta annuisce. Ormai ha una fame da lupo,
ma non dice niente: è abituato a sopportare disagi. Il “più tardi” previsto
per la colazione sembra non arrivare mai. Kunta incomincia a sospettare che
mangeranno solo a cena e il pensiero non è piacevole, visto che i loro pasti
sono sempre alquanto leggeri e che camminano molto. Quando infine Patrick
propone di fermarsi e fare uno spuntino, Kunta accoglie la proposta con
entusiasmo. Parlano un momento della fattoria dove andranno. Poi, quando
hanno finito, Patrick si alza e si mette contro un albero a pisciare. È a due passi da Kunta,
che può vederne benissimo il cazzo. Patrick sembra non provare nessuna
vergogna. Anche Kunta è abituato a fare i propri bisogni in presenza di altri
uomini, alla piantagione era normale, ma vedere il cazzo di Patrick lo turba.
Non riesce a distogliere lo sguardo e si rende conto che il sangue sta
affluendo al suo uccello. Kunta si alza, irritato con se stesso. Non è strano
che il desiderio si accenda: non scopa da parecchio, dall’ultima notte
trascorsa alla piantagione di Redbowl, e quest’uomo che lo sta guidando verso
la salvezza lo attrae a livello fisico, oltre a essergli simpatico come
persona. Ma non aveva messo in conto niente del genere. La faccenda gli dà
fastidio. È meglio che pensi ad altro e non guardi. - Andiamo. Kunta annuisce e guarda
Patrick. Ha l’impressione che ci sia un sorriso canzonatorio sul viso dell’irlandese,
ma forse è solo un’impressione. Si rimettono in cammino.
Seguono un sentiero, a tratti appena visibile. Patrick va avanti, Kunta lo
segue. Kunta osserva la schiena dell’irlandese. Il sole è alto in cielo, la
giornata è calda e Patrick suda parecchio. La camicia sulla schiena è intrisa
di sudore. Kunta si accorge di avere la gola secca. Il cazzo gli si tende.
Merda! Kunta è irritato con se stesso. Durante il viaggio Patrick
si ferma qualche volta in una fattoria o in un paese per comprare un po’ di
cibo, ma in queste occasioni Kunta rimane nascosto: un bianco dal pelo rosso
di per sé non è particolarmente sospetto, di irlandesi ce ne sono diversi,
invece un bianco che si sposta insieme a un nero susciterebbe curiosità e
diffidenza. Il terzo giorno sono
svegliati dalla pioggia: si erano coricati all’aperto, sotto un cielo
stellato, ma nella notte le nuvole si sono diffuse e adesso piove. Patrick
commenta, laconico: - Merda! Avremmo dovuto
cercare un riparo. Mangiano qualche cosa e si
mettono subito in cammino. Piove tutto il mattino, ma per fortuna nel
pomeriggio le nuvole si diradano e un timido sole fa capolino. In serata
raggiungono la loro meta: una fattoria in un’area poco popolata. Michael Greenstone, il padrone della fattoria è un uomo di poche
parole, che non appare cordiale come altri che Kunta ha incontrato. Offre
loro una cena frugale, poi Kunta e Patrick si trasferiscono nei loro
“lussuosi appartamenti”, come li chiama Patrick: si tratta del fienile,
perché la casa è piccola e il fattore ha quattro figli. Kunta e Patrick sono molto
stanchi e si stendono subito a dormire. Come previsto, il giorno
dopo Patrick e Kunta danno una mano nei lavori dei campi. Michael e due dei
suoi figli, che sono ancora ragazzi, lavorano con loro. Kunta si rende conto
che Greenstone lo tiene d’occhio: sembra
controllare che Kunta non batta la fiacca. Kunta è abituato a lavorare sodo e
gli sembra ragionevole dare una mano a chi lo ospita, perciò la faccenda non
lo disturba. La giornata è serena e fa
caldo, per cui lavorano tutti a torso nudo. Kunta guarda i rivoli di sudore
che si perdono tra i peli sul petto di Patrick, la pancia piuttosto
consistente, le mani grandi e forti. Kunta si sente la gola secca. Quando
Patrick si accorge che Kunta lo sta fissando, gli sorride. Kunta abbassa lo
sguardo e si concentra sul lavoro, ma rimane conscio della presenza di
Patrick vicino a lui, dell’odore intenso di sudore. La sera si lavano a un
ruscello. Kunta evita di guardare Patrick: non vuole avere un’erezione. Dopo
cena vanno nel fienile. La notte è calda e prima di stendersi, Patrick si
spoglia completamente. Kunta lo fissa, incapace di distogliere lo sguardo
fino al momento in cui Patrick se ne accorge e gli sorride. Allora Kunta
abbassa gli occhi e si mette a sistemare il fieno su cui dormono. Nei giorni seguenti stando
accanto a Patrick, Kunta avverte una tensione continua: di giorno, quando
lavora al suo fianco; di notte, quando è steso vicino a lui. Spesso il cazzo
gli si irrigidisce. Kunta si vergogna e spera che Patrick non se ne accorga.
A tratti si chiede se non farebbe meglio ad andarsene, cercando di
raggiungere Terre Haute da solo. Ma è un’idea stupida. La terza sera, quando
Patrick si cala le mutande, Kunta vede che l’irlandese ce l’ha duro: un
grosso cazzo, che si drizza in verticale, spiccando sui peli rossi del
ventre. Patrick non sembra per nulla imbarazzato. Sorride e dice: - Dopo un po’ di giorni
senza scopare, finisce che ce l’ho duro metà del tempo. Kunta annuisce, incapace
di dire alcunché. - A te non viene duro? Kunta scuote la testa, ma
nei pantaloni il cazzo sta rapidamente alzando la testa. Patrick scoppia a ridere. - Mi sa che sei un gran
bugiardo, Kunta. Kunta guarda Patrick. È
irritato. Con un gesto brusco, si abbassa i pantaloni e le mutande. Il suo
cazzo ora è rigido. Dice, rabbioso: - E allora? Patrick scuote la testa e
ride di nuovo. - Non ti arrabbiare,
Kunta. Io sono un maiale e tu mi piaci parecchio. Ma non volevo certo
offenderti. Kunta rimane a guardare Patrick.
Si vergogna dello scatto che ha avuto. Non sa che cosa fare, non trova le
parole da dire. Vorrebbe essere altrove. - Hai mai scopato con un
uomo, Kunta? Kunta fissa Patrick senza
rispondere. Patrick aggiunge: - O l’hai solo desiderato? Kunta sibila: - L’ho messo in culo a un
bianco. E di nuovo si vergogna
dello scatto di rabbia. Patrick annuisce, serio. - Kunta, mi piaci molto,
te l’ho detto, e non volevo offenderti. Scusami. Non ne parliamo più. Kunta apre la bocca, ma
non dice nulla. Continua a fissare Patrick, sul cui viso ora gli sembra che
appaia un sorriso canzonatorio, ma forse lo immagina soltanto. Guarda il
cazzo di Patrick, sempre duro, grosso, teso. - Patrick… Kunta fa un passo avanti.
Ora i loro corpi si sfiorano. - Hai mai baciato un uomo,
Kunta? E mentre lo dice Patrick
abbraccia Kunta e le sue labbra cercano la bocca del nero. Kunta non ha mai baciato
un uomo e quando le labbra di Patrick si posano sulle sue, la sensazione che
prova è strana: Kunta non saprebbe dire se è piacevole o spiacevole. Sentire
le braccia di Patrick che lo avvolgono e lo stringono invece è bello. E gli
piace anche sentire il cazzo di Patrick premere contro il ventre, a fianco
del proprio. Patrick lo bacia e le sue
mani lo stringono, lo accarezzano, gli afferrano il culo e premono. Kunta
sente il piacere avvolgerlo e si abbandona completamente alla stretta. Quando la lingua di
Patrick si infila tra i denti, Kunta sussulta, come se lo avessero colpito.
Lo disturba sentire questa lingua che entra nella sua bocca, eppure non gli
dispiace. Patrick ritrae la lingua,
ma continua a baciarlo e dopo un po’, di nuovo la sua lingua si spinge nella
bocca di Kunta, che questa volta l’accoglie. Tutto sommato, la sensazione non
è spiacevole. Adesso anche le mani di
Kunta si muovono, accarezzando e stringendo, ed è una bella sensazione. Infine Patrick smette di
baciare Kunta e dice: - Che cosa vuoi che
facciamo? Kunta lo guarda, incerto.
Patrick sorride e dice: - Kunta, per me va bene
tutto. A me va bene tutto. Non c’è niente che non abbia fatto nella mia vita,
proprio niente, e ben poco che non mi sia piaciuto. Te l’ho detto: sono un
maiale. Kunta sa quel che
vorrebbe, ma non osa dirlo. Patrick però intuisce: - Vuoi mettermelo in culo?
È questo quello che vuoi? Kunta annuisce. Poi
aggiunge: - Patrick, nessuno me lo
ha mai messo in culo. Io… Patrick sorride. - Non ti preoccupare,
Kunta. Non pretendo il tuo culo solo perché ti offro il mio. Patrick bacia ancora
Kunta, poi chiede: - Come vuoi che mi metta? Kunta ha sempre scopato allo
stesso modo, inculando Lou che stava disteso sul fieno. Non capisce la
domanda. Patrick gli legge in faccia che è confuso e spiega: - A quattro zampe, contro
la parete, disteso sulla pancia, disteso sulla schiena, sospeso a una trave…
ma quella è una posizione un po’ scomoda senza corde che ti sostengano. Patrick ride. Kunta è
confuso. - Disteso sulla schiena? E
come faccio… - Ti faccio vedere. Patrick si stende sul
fieno e solleva le gambe. - Te le appoggio sulle
spalle. Così possiamo vederci in faccia mentre tu mi fotti. Kunta annuisce. Guarda il
corpo forte di Patrick, il pelame rosso, il cazzo grosso e duro. Si mette in
ginocchio. - Inumidisci bene, perché
ce l’hai grosso. Io non sono propriamente vergine, ma non è che me lo prenda
in culo così spesso. Kunta annuisce. Inumidisce
bene l’apertura, poi avvicina la cappella e l’appoggia contro il buco.
Spinge, forzando la carne, che cede e l’accoglie. È bellissimo entrare dentro
Patrick, prendere possesso di questo corpo che gli si offre. Patrick gli poggia
le gambe sulle spalle e sorride. C’è un certo sforzo nel suo sorriso e quando
Kunta spinge, appare una smorfia. - Ti faccio male? Patrick annuisce. - Sì, ma va bene così. Un
po’ di dolore non guasta. E questo spiedo rovente che mi infilza è grandioso. Kunta sorride. La
sensazione del cazzo che affonda nel culo di Patrick è bellissima. Ed è bello
anche guardare Patrick, che sorride. C’è una certa tensione nel suo sorriso e
Kunta sa che Patrick sta provando piacere e dolore insieme. Kunta si muove con cautela.
Scopare con Lou gli piaceva, ma era una sensazione soltanto fisica. Adesso
c’è qualche cosa che va oltre, c’è il piacere di guardare Patrick, di
accarezzarlo, di stringergli con le mani i capezzoli. Fottere Patrick non è
come fottere uno qualunque, non è fottere un bianco come rivalsa, perché i
bianchi sono quelli che lo hanno reso schiavo. È fondersi con un uomo che lo
attrae moltissimo. Kunta fotte con energia: è
un bravo stallone. Sul viso di Patrick scorrono goccioline di sudore e ogni
tanto appare una smorfia di dolore, che poi un sorriso cancella. Infine Kunta sente che il
piacere non può più essere contenuto. Accelera il ritmo e con una serie di
spinte vigorose viene, spargendo il suo seme in culo a Patrick. È stato
bellissimo, il piacere più forte che abbia mai provato. Kunta accarezza il
viso di Patrick, poi le sue mani scorrono lungo il suo corpo. Kunta esce da
Patrick e le sue mani accarezzano ancora, fino a fermarsi al cazzo. Lo
stringono. Patrick sorride e dice: - Stringimi un po’ anche i
coglioni. Mi piace. Kunta è perplesso. Afferra
i coglioni di Patrick, li sente umidi sotto le dita, che il pelame rosso
solletica. Sorride e stringe deciso. Patrick sobbalza. - Cazzo! Non esagerare,
Kunta! Non ti ho detto di spaccarmeli, ci tengo. Stringili solo un po’. Kunta allenta la presa.
Poi, mentre la sinistra giocherella con i coglioni, la destra afferra il
cazzo di Patrick e si muove rapidamente. Patrick si tende, apre la bocca,
geme e infine il getto si spande sul suo ventre, fino al petto, mentre
l’irlandese emette una specie di lungo grugnito. Patrick allunga le
braccia, le sue mani si posano sulla schiena di Kunta e lo attirano a sé.
Kunta lascia che il cazzo scivoli fuori dal culo dell’irlandese e si stende
sul suo corpo. Adesso è la sua bocca a cercare quella di Patrick, in un lungo
bacio. Poi rimangono a lungo così, uno sull’altro. Patrick accarezza la
testa di Kunta. Kunta si sente bene, come
di rado gli è capitato nella vita. Solo dopo un lungo
momento, Kunta chiede: - Non ti ho fatto male,
Patrick? Patrick ride. - Certo, mi hai fatto
male. Ma va bene così. E avevo una voglia matta di scopare con te. Kunta sorride. - Anch’io, ma non lo
sapevo. Patrick sorride e lo
accarezza ancora. - Dormiamo abbracciati,
vuoi? Kunta annuisce. Scivola di
fianco a Patrick, che lo stringe. Il mattino dopo Kunta si
sveglia stretto a Patrick. L’irlandese dorme ancora. Kunta lo guarda e
sorride. Si sente felice. Gli sembra di avere avuto in un colpo solo ciò che
desiderava e ciò che non sapeva di desiderare: è un uomo libero, anche se la
sua libertà è minacciata, e ha accanto a sé un uomo che lo ha salvato e che
gli piace molto. Quando Patrick si sveglia,
hanno appena il tempo di baciarsi: è ormai ora di fare colazione e mettersi
al lavoro, anche se vorrebbero trascorrere il mattino nei giochi dell’amore. La giornata è piena, ma
più volte Kunta e Patrick si guardano e si sorridono. E guardando la schiena
di Patrick, madida di sudore, Kunta sente che il cazzo gli si tende. Si dice
che questa sera scoperanno ancora. Dopo pranzo però c’è una
pausa. Greenstone lavorerà in un campo lontano
dalla fattoria, nei pressi di una strada: è meglio che Patrick e Kunta non si
facciano vedere da quelle parti, dove qualcuno potrebbe notarli. Patrick sorride e dice: - Andiamo a bagnarci al
torrente, Kunta. Quando si spogliano per
bagnarsi, ce l’hanno tutti e due duro, ma Patrick si getta in acqua. Kunta
rimane vicino a riva, dove l’acqua non arriva oltre la vita. Patrick nuota un momento,
poi si avvicina. - Ora di imparare a
nuotare. Kunta è incerto, ma
Patrick lo guida a stendersi sull’acqua e lo sostiene. Gli spiega come
mettere le braccia, come muoverle. Kunta cerca di seguire gli insegnamenti.
Riesce a nuotare per un breve tratto, poi deve mettere i piedi sul fondo per
non finire sotto. Fanno ancora alcune prove, che vanno meglio. Al termine della lezione
di nuoto si stendono ad asciugare al sole, tutti e due sulla schiena. Poi
Patrick si volta sulla pancia e fa cenno a Kunta di fare lo stesso. Patrick si sposta, si
mette tra le gambe di Kunta e incomincia a mordergli il culo. - Che cazzo fai, Patrick? Patrick ride. Poi passa la
sua lingua sul solco tra le natiche. Kunta chiude gli occhi. Questa carezza
umida è piacevolissima. Patrick continua a leccare, a premere contro
l’apertura, a mordicchiare le natiche, ad accarezzare con la lingua la
cicatrice e poi di nuovo il solco. Kunta sente che il cazzo gli si tende. Le parole gli sfuggono
dalle labbra: - Prendimi, Patrick. Patrick si ferma. Chiede: - Sei sicuro, Kunta? Ti
farò male. Se non l’hai mai fatto, ti farà male. - Prendimi. Patrick annuisce. È ciò
che desidera di più al mondo in questo momento. Lavora ancora con la
lingua, poi inumidisce bene la cappella e con delicatezza la spinge contro
l’apertura. Avanza un poco e si ritrae, dando a Kunta il tempo di abituarsi.
Quando il buco infine è ben dilatato, entra e si ferma, subito. Kunta geme. - Vuoi che esca, Kunta? - No, va bene così. Fa male, è vero, ma è
anche piacevole, davvero. Patrick gli bacia la nuca,
gli mordicchia un orecchio, affonda i denti nella spalla e intanto avanza
lentamente, finché non ha preso possesso di questo culo vergine che gli si
offre. È una sensazione fortissima. - Sei bellissimo, Kunta. Kunta ride. Non è
particolarmente bello, lo sa benissimo, anche se ha un corpo forte. Ma non si
stupisce: anche lui trova Patrick bello, benché l’irlandese non lo sia. Il cazzo di Patrick ora è
tutto dentro Kunta. Le mani di Patrick accarezzano, le labbra baciano, i
denti mordono, la lingua lecca. Kunta affonda in un mare di sensazioni, in
cui il piacere si mescola al dolore. Non sa nuotare in questo mare, ma
Patrick lo accompagna e Kunta non ha paura. Patrick incomincia a
spingere e i movimenti provocano un po’ di dolore. Solo quando le spinte
diventano più violente, il dolore cresce e Kunta stringe i denti. Patrick
grugnisce, come la sera prima, un verso animale, prolungato, e Kunta sente
per la prima volta il seme di un uomo spandersi nelle sue viscere. Il cazzo di Patrick perde
consistenza e volume. Ora è piacevole averlo dentro. Patrick afferra Kunta e si
volta con lui: Kunta si ritrova disteso su Patrick ed è una bella sensazione
poggiare su questo corpo caldo, sentire ancora dentro di sé il cazzo che ha
preso possesso di lui. Patrick gli afferra con la destra l’uccello e muove la
mano lentamente. Kunta sente il piacere dilatarsi e infine esplodere. Poi rimangono immobili,
Patrick sotto, Kunta disteso sopra, stretto tra le sue braccia. La sensazione del sole
sulla pelle è piacevole, ma dopo un po’ entrambi provano il bisogno di
rinfrescarsi. Entrano di nuovo in acqua. Patrick dà ancora lezioni di nuoto a
Kunta. Poi escono e si stendono
uno a fianco dell’altro. Patrick chiede: - Che cosa conti di fare,
Kunta? - Non lo so. Paul, l’uomo
che ha organizzato la mia fuga, mi ha detto che arrivato a destinazione avrei
trovato qualcuno che mi avrebbe aiutato a trovare un lavoro, qui o sulla
costa. Patrick annuisce. - Kunta, a me piacerebbe
che tu rimanessi con me. Ci conosciamo poco, ma vorrei provare. Kunta guarda il cielo
sopra gli alberi. È azzurro e luminoso. Gli sembra di non averlo mai visto
così limpido e chiaro. Sorride. - È quello che voglio
anch’io. Kunta non sa se
riusciranno a costruire qualche cosa insieme, ma lo desidera. In questo momento
è ciò che desidera più di tutto al mondo. Patrick si mette su un
fianco e lo guarda un momento, poi sporge la testa e lo bacia sulla bocca. Un
bacio lungo, appassionato. Quando si stacca e torna a
stendersi, Kunta gli prende la mano e la stringe, poi gli chiede: - Che cosa fai tu,
Patrick, come vivi? - Fino a ora mi sono
occupato soprattutto di aiutare gli schiavi in fuga. Qui al nord ci sono
gruppi di cittadini che raccolgono fondi per questo. Patrick rimane un momento
zitto, poi aggiunge: - Io sono bruciato, ormai.
Non posso continuare a fare questo lavoro. E non ha molto senso che continui
a stare qui. - Che cosa pensi di fare? - Potrei tornare in
Inghilterra. O andare all’Ovest. In California. Patrick ride e prosegue: - Magari apro un bordello
maschile. - Un bordello maschile? - Sì, un bordello dove i
maschi pagano per scopare con altri maschi. Ne avevo uno a Londra. Kunta non sa se credere a
Patrick. Sospetta che l’irlandese lo stia prendendo in giro. Patrick capisce e gli
sorride. - Non sto raccontandoti
una storia. Ho davvero gestito un bordello maschile a Londra, ce ne sono
parecchi, ma posso dire che il mio era il migliore. Ma mi sono stufato e ho
deciso di incominciare da zero una nuova vita. No, Kunta, non aprirò un altro
bordello. Ho un po’ di soldi da parte e avvierò qualche attività. Tu dove
vorresti vivere? In Inghilterra, in California, a New York? Kunta non lo sa.
L’Inghilterra, New York, la California sono soltanto nomi, che ha sentito
altre volte, ma che non associa a nulla di preciso. - Non so, Patrick. Non so
come sono questi posti, che cosa potrei fare. Non so niente. So che vorrei
rimanere con te. Poi si vedrà. 2018 |