Se Dio vuole

 

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                                                                     A Riccardo e al suo lungo viaggio

                                                                                                                                                          

Il ciocco di legno, intaglio dopo intaglio, aveva ormai preso la forma desiderata e Attilio, dopo mesi di paziente lavoro, poteva girare e rigirare tra le mani callose e sporche quell'oggetto finito che - sorrideva di tenerezza al solo pensiero - avrebbe fatto urlare di gioia Sebastiano. Eppure, seduto sul grosso masso, lo sguardo accigliato e perso fra la distesa d'erba fresca e oltre, verso i dolci pendii, dove i contadini provvedevano alla semina sulla terra appena arata, Attilio sapeva bene che quel dono non sarebbe bastato a consolare le lacrime che, in un secondo momento, sarebbero sgorgate dagli occhi del bambino: deluso e disperato. Perché Attilio desiderava con tutto se stesso lasciare quei luoghi per poter seguire, al di là delle montagne grigio azzurre, la strada che lo avrebbe guidato verso un futuro che lui desiderava ardentemente poter afferrare e vivere. La sua coscienza però era rosa dai dubbi. L'unica certezza che possedeva era il legame che lo univa a Sebastiano e sapeva bene che il suo cuore si sarebbe spezzato nell'attimo stesso in cui avrebbe dovuto dirgli addio. Per questo aveva rimandato tanto a lungo la partenza decidendo, nell'autunno precedente, di iniziare a lavorare quel pezzo di legno e, a lavoro ultimato, poter lasciare a Sebastiano un ricordo di sé. 

Attilio aveva diciott'anni e la sua giovane vita era già stata messa alla prova da privazioni e sacrifici: servo pastore dall'età di dieci anni, il suo carattere era stato plasmato dalla natura aspra e selvaggia, che aveva fatto di lui un vagabondo.       

Nessuna nostalgia mentre maturava l'idea di abbandonare le basse case del suo villaggio con i vicoli scuri e tetri, come le vesti delle donne o i cappucci dei pesanti mantelli di orbace indossati dagli uomini. Nessuna nostalgia, se non per la perdita delle labbra vermiglie di Sebastiano, sempre pronte ad aprirsi in un sorriso fiducioso; o dei suoi occhi neri, così grandi che da soli bastavano a riempire il volto smunto e sempre pallido. Che ne sarebbe stato di lui? L'inverno appena trascorso era stato particolarmente piovoso e rigido e Attilio, rintanato insieme al suo gregge in una spelonca gelida scavata da secoli di vento e pioggia, si era trovato spesso a picchiare i pugni contro la pietra dura pensando a Sebastiano e al peccato che avrebbe commesso nell'abbandonarlo. Un peccato che si vedeva costretto a commettere e per il quale non trovava dentro di sé abbastanza forza per domandarne in anticipo il perdono.

 

                                                               *

 

Oltre a Sebastiano, il suo fratellino di appena cinque anni, nella modesta casa della famiglia Dasso, viveva un altro fratello di Attilio, Salvatore. Questi aveva ereditato dal padre il carattere duro e prepotente e a vent'anni, anziché lavorare la terra e contribuire al sostentamento della famiglia, errava per le campagne insieme a una banda di ribaldi, terrorizzando gli inermi e le donne con attacchi vigliacchi.

Negli ultimi tempi s'era spinto anche oltre, sottraendo un agnello da un ovile, non lontano da lì. Attilio, che era tenuto in buona considerazione dai pastori della zona, era stato messo sull'avviso dal proprietario dell'agnello rubato. L'anziano pastore, dal viso rugoso e cotto dal sole, aveva detto poche parole, ma molto chiare: - Bada, tuo fratello sta giocando col fuoco! - .

Attilio sapeva bene quanto la vita di quel ragazzo tanto irruento quanto imprudente potesse essere breve in un'epoca in cui non ci si faceva scrupolo a usare il coltello o il fucile per vendicarsi di uno sgarbo. Purtuttavia quella volta l'intervento del capo famiglia era riuscito a calmare la rabbia del pastore ed erano stati gli zii stessi a dare una lezione a Salvatore, dopo aver riparato al torto.

Attilio, al contrario di Salvatore, non aveva ereditato il fisico robusto e tarchiato dei Dasso. Di corporatura snella, si muoveva con grazia e agilità e quando si trattava di dimostrare di saperci fare con il coltello a serramanico, sempre pronto nella tasca della giacchetta di panno nero, raramente trovava qualcuno che lo eguagliasse in quanto a destrezza.

Negli otto anni trascorsi a badare alle greggi Attilio aveva imparato a farsi benvolere dai pastori e a farsi rispettare dagli agricoltori, svolgendo sempre al meglio i propri compiti. Aveva soprattutto imparato a stare lontano dai guai e per questo motivo mal sopportava il comportamento prepotente di Salvatore, verso il quale nutriva una forma di avversione ben saldata nel profondo del suo cuore: nel punto esatto in cui nasceva l'amore che lo legava a Sebastiano. Perché Attilio non aveva mai avuto timore della brutalità delle azioni di Salvatore: sapeva come difendersene; ma quando scorgeva i lividi e gli ematomi sul corpo di Sebastiano non si dava pace, arrivando persino a desiderarlo morto, quel fratello maledetto, assolutamente privo di compassione.

La presenza di Salvatore quindi, da sola sarebbe stata sufficiente a spingere Attilio lontano dalla casa e dal villaggio; se poi pensava, all'interno delle mura domestiche, all'autoritarismo di suo padre e alla figura minuta, umile e sottomessa di sua madre, la voglia di metterci piede era vicina allo zero. Se non per la presenza di Sebastiano, invisibile a chiunque e considerato alla stessa stregua del cane di casa. Attilio si struggeva e soffriva non per le proprie privazioni, ma per la debolezza e l'assenza di difese in un mondo troppo duro per una creatura come Sebastiano.

Durante il giorno egli teneva spesso con sé il fratello più piccolo e non mancava mai di trascinarselo dietro quando il richiamo delle feste dedicate ai santi, celebrate negli spazi campestri intorno ai Santuari e alle Chiese, era troppo forte. In quelle occasioni il ragazzo si illuminava tutto e, unendosi al gruppo degli amici con i quali era cresciuto, si lasciava catturare dall'euforia, dando mostra delle sue qualità di ballerino e facendo morir dal ridere Sebastiano. Questi adorava guardare suo fratello stando seduto sulla seggiola di legno, in prima fila, dove Attilio lo aveva sistemato, e dove non mancava di lanciare uno sguardo, ogni qualvolta il giro della danza gli riportava davanti quel faccino affascinato dalla musica e dai colori sgargianti delle vesti femminili. Per l'occasione le ragazze annodavano sulla guancia sinistra i fazzoletti di seta, lasciando scoperti i capelli fino a metà testa. I loro visi arrossati eccitavano come non mai gli animi maschili.

Attilio non perdeva un ballo e quando tentava di fermarsi per prendere respiro ecco che gli amici lo prendevano sotto braccio per riunirlo al cerchio danzante. La folta capigliatura scura del ragazzo, trattenuta dal berretto, si inumidiva sulla nuca e dalla fronte goccioline di sudore scivolavano lente sugli zigomi sporgenti e sulle guance arrossate e lisce. Egli dimostrava meno dei suoi diciotto anni e le orecchie leggermente a sventola contribuivano a dargli un'aria scanzonata. I suoi occhi però avevano preso il vizio di stringersi in continuazione e quando era assorto nei suoi pensieri le piccole rughe di espressione parlavano di lui, della sua vita agreste, dei sacrifici che questa comportava e del desiderio di affrancarsi da quello stato di schiavitù per ambire a qualcosa d'altro, per sé e per Sebastiano. Spesso pensava a una famiglia sua, ma ancora non si sentiva pronto a fare la corte alle ragazze del villaggio; meno che mai a trascinare le contadine in qualche fienile per prenderle con la forza. Quest'ultimo gli pareva un gesto vigliacco e il solo pensiero gli ripugnava.

Viveva però nel suo villaggio una ragazza, molto giovane e dai tratti talmente fini e delicati da farla assomigliare a una madonna, che Attilio non si stancava mai di guardare. Anche lei partecipava alle feste campestri e lo sguardo di Attilio la seguiva prima dentro la chiesetta, mentre sedeva dritta e rigida sulla panca di legno, tra i genitori; poi fuori, nella piazzola antistante il luogo di preghiera o sotto i portici, costruiti tutt'intorno per offrire ai pellegrini un riparo dal freddo della notte. Alla ragazza era permesso partecipare ai balli e subito dopo, a passo svelto e sempre affiancata dalla serva, raggiungeva una di quelle case di proprietà che spesso circondavano le chiese: piccole abitazioni che venivano aperte e rinfrescate dai servi delle famiglie benestanti solo per il tempo della durata della festa.

Attilio osservava ammirato i movimenti aggraziati della giovane donna e quando riusciva a strapparle un sorriso sospirava felice. Non osava desiderare altro. Annina apparteneva alla ricca famiglia Ibba e, cosa non trascurabile, la famiglia Dasso lavorava per suo padre: questo doveva bastare a tenerlo lontano dalla giovane. Perciò, passata la festa e terminati i balli, Attilio se ne tornava alla solitudine della campagna e al suo ovile. 

Per rendere meno solitarie e oziose le lunghe giornate Attilio si era procurato un libriccino, ormai logorato dall'uso, di un poeta estemporaneo noto a chi, come lui, amava recitare poesie, improvvisandole sul momento. Il libriccino lo occupava due o tre ore al giorno e durante quelle piacevoli letture, eseguite ad alta voce, l'unico ascoltatore presente era Lampo, il suo cane da pastore che, meravigliato, lo guardava con tanto d'occhi. Ma non sempre Attilio si doveva accontentare della compagnia delle pecore e dei cani: lo stesso prete che da bambino lo teneva con sé in canonica istruendolo, dopo gli esercizi scolastici, alla mansione di chierichetto, quando gli era possibile lo andava a trovare all'ovile, ogni volta portandogli dei dolci avvolti in un foglio di carta velina. 

Il prete del villaggio era un buon uomo di circa trent’anni, basso e corpulento, e affrontava il cammino di buona lena, spesso inciampando tra i massi affioranti dal terreno o impigliandosi con l'orlo della veste fra i cespugli pungenti dei rovi. Contro i cani che lo inseguivano ringhiando e spesso mostrandogli i denti, con cui desideravano azzannargli i polpacci, si serviva del breviario che portava sempre con sé: un paio di colpi ben assestati sul muso bastavano a calmarli. Durante il tragitto la testa tonda e calva del curato grondava sudore e mentre con il fazzoletto si tergeva gli occhi azzurri, enormi sotto le spesse lenti degli occhiali, da lontano cercava di individuare la figura di Attilio. Se lo scorgeva disteso sotto un grosso e frondoso albero, per attirarne l'attenzione e per farsi riconoscere urlava il suo nome, sbracciandosi e facendo scappare le bestie che poco prima pascolavano tranquille: - Ehilà Attilio, sono io, padre Pino! - Attilio continuava a mangiare il suo frutto o a far finta di sonnecchiare sino a che l'ombra del religioso non arrivava ad unirsi alla sua; allora il giovane sornione socchiudeva gli occhi di un particolare color nocciola, ombreggiati da lunghe ciglia scure, e, accennando un sorriso sghembo, spingeva il berretto dietro alla nuca, lasciando in bella vista la fronte lucida e bianca, laddove il sole non arrivava a colpirla. Quell'ometto gioioso gli faceva buona compagnia ed era sempre un piacere vederlo. Padre Pino, seduto anch'egli al fresco in quel vasto terreno costituito da bassi cespugli, con accanto le bestiole che brucavano ciuffi d'erba tenera, ogni volta gli raccontava le leggende di quella terra selvaggia, ma anche di città ricche e importanti che egli aveva conosciuto. Dopo quei racconti ad Attilio il suo mondo gli pareva ancora più primitivo e da instancabile sognatore quale era, immaginava ogni volta di partire un giorno e di andarle a visitare, quelle città fantastiche. E d'altra parte chi più di tutti poteva impedirgli di partire? Chi, se non Sebastiano con le sue braccine magre che gli abbracciavano forte il collo e le sue labbra che non ne volevano sapere di interrompere i tanti baci umidi di muco, gocciolante da un nasino eternamente raffreddato? E sarebbe stato proprio Sebastiano a legarlo al proprio destino.

 

                                                                     *                                                                            

 

Da appena una settimana Sebastiano stringeva il dono ricevuto da Attilio: era un cavallino di legno, ben tornito e robusto. Sebastiano non lo abbandonava un attimo e amava giocarci insieme stando rannicchiato in un angolo, nella penombra della cucina.

In quel tardo pomeriggio, nella casa dei Dasso, accanto alle braci ancora accese, dentro al grande camino era stata sistemata una grossa forma di cacio pecorino e questo, dopo pochi minuti, per effetto del calore, iniziava a sciogliersi. Il padrone di casa con un grosso coltello ne tagliava la parte fusa e la serviva ai commensali, adagiandola su fette di pane di grano duro. Davanti alla tavola, dove non mancava il fiasco del vino, si erano riuniti gli zii di Sebastiano, fratelli del padre, per discutere di certe questioni familiari. Sua moglie si era ritirata in silenzio nella stanza di fianco, con in mano il lavoro di cucito.

Sebastiano, preso dal gioco, non prestava ascolto alle voci concitate degli uomini, ma quando Salvatore era entrato nella cucina il bambino immediatamente si era messo a sedere con le spalle al muro, stringendo le ginocchia contro al petto per sentirsi più protetto e allo stesso tempo per proteggere il suo prezioso avere. Sebastiano aveva timore di quel ragazzo che a vent'anni era la fotocopia del padre e che non perdeva occasione per terrorizzarlo.

A parte l'assenza della barba Salvatore era in tutto e per tutto uno dei Dasso e quel corpo tozzo, i lineamenti marcati del viso e il carattere ombroso, contribuivano ad accentuarne i modi bruschi e molto spesso aggressivi. Sebastiano in casa era sempre stato la sua vittima preferita e quando Salvatore riusciva a stanarlo dal suo nascondiglio, lo torturava con pizzichi e botte, senza motivo alcuno.

C'era stata una volta in cui Salvatore l'aveva voluto condurre con sé a visitare alcune delle grotte che si trovavano poco lontano dal villaggio, nascoste dalla fitta vegetazione. Sebastiano aveva seguito titubante il fratello: sapeva dell'esistenza di certe donnine favolose, o piccole fate, buone o cattive, a seconda dell'occasione, che un tempo avevano avuto la loro dimora nelle piccole case di pietra, scavate nella roccia; ma Sebastiano non aveva paura di loro. Suo fratello Salvatore gliene faceva molta di più quando, sfidando gli amici, li obbligava a spingersi all'interno delle sale.

Il cielo si era già striato di rosso e il tramonto allungava le ombre dei rami e dei cespugli quando era giunto il momento in cui anche Salvatore doveva dimostrare il suo coraggio. Intanto gli animali selvatici avevano iniziato ad emettere i loro richiami notturni e i rumori intorno a loro si facevano sempre più sinistri. A Salvatore non andava di entrare nella casa delle fate. Non potendo però tirarsi indietro, senza diventare lo zimbello del gruppo, aveva fatto ciò che fanno i vigliacchi davanti alle proprie paure: si era scostato di scatto e aveva spinto nel buio il più debole. Sebastiano in un primo momento non aveva reagito, si era seduto all'interno dell'antro e aveva aspettato. Non era un fifone, lui, Attilio glielo diceva sempre, ma quando lo strepito provocato dagli atti buffoneschi dei ragazzi aveva raggiunto le sue orecchie, un brivido lo aveva percorso per tutto il corpo. Il buio aveva già invaso tutto lo spazio intorno e Sebastiano se ne stava accucciato: l'ambiente non era vasto e lui continuava a stare fermo e immobile, perché sapeva che quelle grotte nascondevano una serie di cunicoli, dentro ai quali si sarebbe perso. Anche questo gli aveva detto Attilio. Suo fratello gli diceva tante cose sagge, ma perché ora non era lì? In quel momento Sebastiano, senza rendersene conto, aveva iniziato ad urlare; le sue mani non toccavano solo l'aria come poco prima, ma il freddo della pietra: era stato chiuso nella grotta. Salvatore, per esorcizzare le sue paure, voleva far morire di terrore il fratello di cinque anni e aveva spinto un grosso masso davanti all'entrata. Non da solo, i cinque ribaldi che erano con lui lo avevano aiutato. Cinque, non sei, com'era composto il gruppo in partenza. Il sesto, non sopportando di vedere il bambino intrappolato, infuriato e attanagliato dai rimorsi era corso a cercare Attilio. Dentro la grotta Sebastiano piangeva e pregava la fata buona; fuori dalla grotta Salvatore fumava e raccontava storielle oscene che facevano sbellicare dalle risa i suoi compagni. L'assenza di uno di loro non li aveva messi in allarme e quando Attilio era piombato sui ragazzi urlando e menando legnate alle sagome che al buio non poteva distinguere, essi avevano giurato, ognuno dentro di sé, che il diavolo in persona quella notte era risalito dall'inferno per punirli. Salvatore era stato tra quelli che aveva urlato più forte, chiedendo pietà con la sua voce baritonale, e quando aveva riconosciuto la voce di Attilio che gli intimava di spostare il grosso masso e di liberare Sebastiano, il suo terrore era raddoppiato: prevedendo la collera di suo padre.

Sebastiano aveva trovato conforto fra le braccia di Attilio e insieme erano tornati a casa. Nessuno aveva detto niente, a nessuno di loro era venuto in mente di raccontare ai genitori i fatti di quella sera. Ma Attilio quella notte, carico d'ira, dopo aver puntato il coltello alla gola di Salvatore, aveva minacciato suo fratello di morte se solo si fosse azzardato a toccare ancora Sebastiano. Fatto ciò si era disteso sul lettino accanto al fratellino, senza peraltro riuscire a chiudere occhio. Poco più in là il capofamiglia russava nel suo letto e anche Salvatore non aveva tardato a imitarlo.

 

                                                                *

 

Quando Salvatore aveva messo piede nella cucina dove Sebastiano si era accucciato con il suo cavallino, erano trascorsi diversi mesi da quell'episodio e nel frattempo il ragazzo ne aveva combinate di sempre più gravi, quasi a volersi riscattare dall'umiliazione subita davanti al gruppo degli amici. Qualcuno di questi però gli aveva già voltato le spalle.

Entrando e trovandosi davanti gli uomini della famiglia, lo sguardo di Salvatore si era fissato, basso e sottomesso, sul pavimento di pietra. Inizialmente era stato suo zio Pietro a rivolgergli la parola e il suo vocione aveva fatto tremare Sebastiano che si era stretto ancora di più su se stesso. C'era stato il furto di un'altra pecora, aveva tuonato lo zio, e l'ovile quella volta apparteneva a un parente di sua moglie. Salvatore meritava una lezione esemplare.

Salvatore aveva sollevato gli occhi di scatto, incredulo, e fissando prima il padre, per cercare appoggio, poi suo zio, aveva giurato in tutti i modi e su tutto ciò aveva di più caro, che lui non c'entrava niente. Nessuno gli aveva creduto, dati i precedenti, e poi uno dei suoi amici aveva confessato che proprio Salvatore, la notte precedente, si era introdotto nell'ovile a seguito di una scommessa: c'era chi credeva che non ne avrebbe avuto il coraggio, e lui aveva raccolto la sfida.

Salvatore fremeva di frustrazione e, mentre pensava a come tirarsi fuori da quel grosso pasticcio, nello stesso tempo intesseva nella sua testa la tela della vendetta verso chi aveva osato tradirlo in quel modo bieco.

- Padre, vi ripeto che non sono stato io a commettere il furto; datemi un giorno, un giorno solo e vi condurrò qui il vero responsabile -.      

Il viso di Salvatore era distorto dallo sdegno. Le mani lungo i fianchi erano strette a pugno. Gli uomini nella stanza, riconoscendo la fierezza del ragazzo, iniziarono ad avere dei dubbi; ma non volevano esprimerli ad alta voce. Quindi lasciarono andare Salvatore con la minaccia, quella sì chiara e forte che, se per salvarsi dalla punizione era sua intenzione accusare un innocente, avrebbe fatto i conti con loro.

Salvatore era uscito dalla stanza con passo deciso e Sebastiano, incuriosito dalla scena cui aveva assistito, era saltato fuori dal suo angolo e, sempre con il cavallino di legno stretto al petto, si era diretto verso la porta lasciata aperta: il cavallino lo rendeva audace e così aveva deciso di seguire il fratello. Il suo passaggio in cucina era passato inosservato e una volta fuori dalla casa i suoi grandi e vispi occhi scuri si erano mossi veloci, guardando prima da una parte poi dall'altra nello stretto vicolo mal lastricato. Salvatore non era più in vista e il bambino, correndo scalzo lungo la stradina, sperava di scorgerlo nella piazza: luogo d'incontro dei giovani.

Sebastiano, su ammonimento severo di Attilio, si teneva sempre alla larga dai gruppi degli animosi ragazzi: succedeva spesso che dalle pacche sulle spalle si passasse a una rissa vera e propria. Attilio non mancava mai di avvertire Sebastiano riguardo i pericoli nei quali poteva incorrere; ma era un tranquillo pomeriggio primaverile e la brezza che giungeva dal mare, oltre le alture, portava con sé un inebriante profumo salmastro che Sebastiano respirava insieme alla sua dolce ingenuità. Egli non aveva percepito fino in fondo quanto era stato frustrante per Salvatore l'incontro che si era tenuto in casa con il padre e i parenti. Non credeva possibile che in una giornata così splendente di sole e luce potesse capitargli qualcosa di brutto e prima di rendersene conto, mentre camminava spavaldo, si era ritrovato proprio di fronte al gruppo capitanato da Salvatore.

Passavano i minuti e Sebastiano non faceva niente, se ne stava lì immobile a osservare i movimenti dei giovani: suo fratello gli dava le spalle e continuava a spintonare Gavino, l’uomo che aveva davanti e che a sua volta, si tratteneva dal mettergli le mani addosso. Sebastiano non aveva paura: nella piazza c'erano le donne che la attraversavano a passo svelto, con il fazzoletto in testa e le gonne larghe e lunghe; c'erano gruppi di uomini che, seduti sui sedili di pietra o appoggiati contro i muri delle case, fumavano e parlavano; c'erano diversi bambini, magri e sporchi, come lo era lui stesso, che correvano spensierati, inseguiti da un cucciolo di cane. Sebastiano sorrideva beato, pensando che Attilio esagerava sempre. Ad un tratto però il respiro gli si era bloccato, il naso aveva ripreso a gocciolare e gli occhi si erano fatti più grandi del solito: Salvatore, avvertito dagli amici della presenza del fratello più piccolo, si era voltato improvvisamente e, esasperato dagli ultimi eventi, dalla piega assurda che questi stavano prendendo, a stento riusciva a contenere la sua collera.

Gavino, colui che, ne era certo, era il responsabile dei suoi ultimi guai, si era chiuso in un silenzio omertoso e lo fissava con aria di sfida. Gavino non era dello stesso villaggio di Salvatore. Per qualche tempo ne aveva frequentato la banda, ma fin da subito aveva imposto agli altri il suo carattere deciso. Più grande di qualche anno rispetto a Salvatore, Gavino vantava uno sguardo penetrante, azzurro come il cielo, e una folta barba che rendevano più credibili le sue espressioni da duro, se messo vicino agli occhi spenti e alla poca peluria che tutt'al più macchiava appena la pelle di Salvatore. Era insopportabile, per il carattere capriccioso di Salvatore, realizzare che qualcuno stesse facendo tentennare il castello di carta che sino a quel momento aveva sorretto il suo ruolo di capo. Voltarsi e trovarsi davanti quel ritardato di suo fratello aveva acceso in lui una scintilla che da sola era bastata a provocare un'esplosione di furia omicida. Il bambino non solo la intuiva, ma la stava addirittura respirando, dato che in pochi secondi il viso scuro e dalle grosse sopracciglia aggrottate di Salvatore, era sopra di lui. Il ghigno faceva intendere guai, di quelli seri, quelli che Attilio aveva previsto e dai quali gli aveva sempre raccomandato di starne lontano.

Attilio, Attilio, Attilio! Scappare era ormai impossibile: Salvatore lo teneva fermo, stringendogli un braccio. Ripetere dentro la testa il nome del suo amato fratello non portava a nulla, ma almeno gli dava coraggio.

- E tu? Che cosa ci fai qui? - .                   

Sebastiano non aveva fiato per rispondere, lo teneva ancora bloccato nei polmoni; ma i secondi passavano veloci e per forza di cose doveva riprendere a respirare. Quando però il bambino aveva provato a soffiare fuori l'aria attraverso le narici otturate, un violento attacco di tosse aveva iniziato a sconquassargli il petto, per terminare con un grumo denso che, salendo dai polmoni, gli era esploso dalla bocca, andando ad atterrare sullo scarpone impolverato di Salvatore. Lo sguardo di Salvatore, quasi ipnotizzato, aveva seguito il getto lungo tutta la sua traiettoria, per ritornare subito dopo dentro agli occhi di Sebastiano, indugiandovi ancora costernato.

Intanto qualcuno contava i secondi. Intorno ai due fratelli i giovinastri del gruppo erano avvolti da un silenzio tombale. Poi, d'improvviso, il braccio di Salvatore si era sollevato e la mano aveva colpito violentemente il viso del fratello, ormai senza più colore.

Tra quanti assistettero alla scena qualcuno non aveva potuto evitare di concentrare la propria attenzione sulla parabola che il cavallino di Sebastiano aveva disegnato nell'aria, quando aveva lasciato le mani di Sebastiano: il dono di Attilio aveva danzato per un breve viaggio e infine era atterrato con un colpo sordo, sollevando tutt'intorno un piccolo sbuffo di polvere. Ma era stato il rumore delle ossa della testa di Sebastiano che, colpendo con forza lo spigolo di un sedile di pietra posto lì vicino, aveva raggelato chiunque si trovasse nella piazza. Il corpo aveva rimbalzato una volta, quando aveva toccato il terreno, poi era rimasto immobile: una pozza di sangue si era allargata immediatamente, proprio sotto alla tempia destra.

Salvatore aveva osservato la scena da freddo spettatore: la sua mano era rimasta aperta e poteva sentirla pulsare. Solo nel momento in cui gli amici lo avevano scrollato urlandogli di scappare, che stavolta Attilio lo avrebbe ammazzato, se prima non lo avessero arrestato i carabinieri, aveva potuto realizzare tutta la gravità di un'azione dalla quale mai più sarebbe potuto tornare indietro. Ma i piedi si erano incollati al suolo, mentre gli occhi piccoli e un po' strabici, gli dipingevano sul volto un'espressione inebetita. E poi la vista del sangue gli stava dando la nausea: avrebbe vomitato se non lo avessero scosso ulteriormente e spinto a montare sul cavallo condotto nella piazza da uno dei suoi compari: scartando e spaventando chiunque cercasse di metterglisi contro.

Giovanni Antonio era stato visto uscire come impazzito dalla casa nella quale, pochi istanti prima, si trovavano due dei suoi tre figli e subito si era ritrovato attorniato da una folla di persone che non gli dava modo di percepire gli ostacoli davanti sé. Aveva continuato a correre sulla scia di tutti quei corpi fino a che quasi non aveva inciampato sul cadavere del bambino. Nella sua testa rimbombava un coro di voci: - Sebastiano è morto! Sebastiano è morto! - .

Nessuno però era presente per poter descrivere il momento in cui lo sgomento e la disperazione avevano investito Attilio quando, dal campo di fronte a quello in cui si trovava, aveva visto arrivare Gavino in groppa al cavallo che schiumava dalla bocca. Egli si era diretto con il cuore in gola verso la bestia e quel cavaliere che lo raggiungeva urlando il suo nome e agitando un braccio sulla testa. Davanti ad Attilio, Gavino era balzato dalla sella con un salto che aveva costretto il cavallo a interrompere bruscamente la sua corsa e, porgendo le briglie al ragazzo che lo fissava serio, aveva trovato solo il fiato per dire: - Va' corri al villaggio, Sebastiano è morto - .

Alla domanda muta di Attilio Gavino aveva risposto con un cenno della testa e il nome di Salvatore aveva aleggiato tra loro, senza bisogno di dire altro. Da quel momento il tempo aveva preso a correre veloce.

Lungo il sentiero in salita che lo portava al villaggio Attilio poteva scorgere più in basso, ma ormai irraggiungibili, un gruppo di cavalieri che, a suon di frustate sul dorso dei cavalli, si allontanavano in tutta fretta. Attilio si era fermato e caricato il fucile aveva puntato colui che guidava il gruppo e che si mostrava nervoso sulla sella, voltando in continuazione la testa all'indietro, proprio nella direzione di Attilio. Pareva inseguito dal demonio; ma Attilio ci aveva messo troppo tempo a caricare la sua arma e a quella distanza ormai lo avrebbe mancato di sicuro. A quel punto la rabbia e la frustrazione erano talmente insopportabili che avrebbe voluto inseguire Salvatore e giustiziarlo sul posto; ma Sebastiano lo chiamava. Doveva andare da lui. Poi sarebbe andato a cercare Salvatore e lo avrebbe inseguito in capo al mondo se ce ne fosse stato bisogno.

 

                                                                *                                                            

 

Il fianco roccioso della montagna sulla quale Salvatore si trovava, all'alba era avvolto dalla nebbia e, guardando in lontananza, egli poteva solo immaginare ciò che non riusciva a distinguere. Quando però la coltre di vapore, umida da fargli sentire il freddo fin dentro al midollo, si disperdeva per pochi attimi, allora poteva riconoscere di fronte a sé le alture tondeggianti, dietro le quali si nascondeva il suo villaggio. Nella piana sottostante le greggi di pecore, viste dall'alto, erano come pugni di sassolini bianchi e neri sparsi per le campagne.

Il maledetto freddo era il suo compagno da una settimana e lo stringeva artigliandogli anche l'anima. Durante la notte il suo corpo tremava di febbre come non aveva mai fatto e non bastava il pesante mantello a trasmettergli calore, né tanto meno le coperte che i suoi compagni gli buttavano addosso. Poi il caldo ardente arrivava tutto insieme e a quel punto iniziavano gli incubi, terribili. Salvatore si svegliava urlando e a quelli del gruppo, nascosti fra le rocce a fare la guardia o a sonnecchiare, si accapponava la pelle e si rizzavano i peli.

Era passata solo una settimana da quel pomeriggio terribile e Salvatore viveva in uno stato penoso i rimorsi della coscienza. Il suo corpo aveva reagito al trauma provocandogli in un primo momento, oltre agli incubi più terrificanti, disturbi fisici di ogni genere e, di conseguenza, eruzioni cutanee che avevano martoriato il suo volto. Durante quella prima settimana i suoi compagni, gli stessi che lo avevano esortato a scappare, gli consigliavano di costituirsi e in quel modo ottenere una pena minore. D'altronde era stato un incidente, gli dicevano: Sebastiano era morto a causa sua, ma tutti erano testimoni del fatto che, senza quel maledetto sedile di pietra, Sebastiano sarebbe stato ancora vivo. Salvatore ascoltava, tra un crampo allo stomaco e l'altro, le assurdità dei compagni che percepiva a tratti, come in un sogno. Ma poi gli tornava alla mente suo fratello, Attilio. Salvatore lo aveva visto con il fucile in mano, pronto a sparargli: era stato solo per un colpo di fortuna che quel fucile non aveva fatto fuoco. Quando si era voltato e aveva visto Attilio prendere la mira aveva pensato solo di frustare a sangue il cavallo per farsi portare il più lontano possibile dalla vendetta: Salvatore temeva il carcere, ma non poteva accettare di morire per mano di suo fratello. E lo percepiva eccome il fiato di Attilio che gli stava alle calcagna e se di notte gli incubi e il freddo gli mordevano la coscienza, di giorno era il suo orgoglio a venire fuori e l'urgenza di una strategia imponeva a lui stesso e a quanti avevano scelto di essergli complici nella fuga, la ricerca di un piano ben preciso, se volevano sopravvivere. Egli infatti sapeva bene che rendere inoffensivo Attilio non sarebbe stato il suo unico problema: in quel mondo nascosto e traditore non sarebbero comunque vissuti a lungo. Avevano bisogno della protezione di tutta una rete di favoreggiatori e di uomini scaltri per facilitare la loro latitanza.

Inizialmente il nome di Salvatore Dasso non aveva suscitato un grande interesse fra chi latitava in quelle stesse montagne e in quel periodo ce n'erano diversi e per ragioni differenti. Il gesto di Salvatore perlopiù suscitava disprezzo: ammazzare un bambino per molti di loro, i meno sanguinari, quelli che si vantavano di avere un proprio codice d'onore, era un gesto da vigliacchi. Di certo in quei luoghi e tra banditi di quel calibro la presenza stessa di Salvatore e dei suoi appariva effimera e senza valore. Salvatore aveva poco tempo: era rimasto inattivo per un'intera settimana e, per come stavano le cose, in quel lasso di tempo sarebbe anche potuto essere già morto. Doveva agire al più presto per guadagnarsi il rispetto dei banditi.

Così, tramite conoscenze legate a personaggi loschi, Salvatore era riuscito a farsi ospitare nell'ovile del fratello di un famoso ricercato e a fare la sua conoscenza. Al termine dell'incontro, con una stretta di mano, i due avevano suggellato un patto che prevedeva una stretta collaborazione: quel patto garantiva a Salvatore una certa protezione, in quel modo però entrava egli stesso in un vortice di assassinii e violenza efferata; e ben presto a Salvatore la vista del sangue smise di provocare la nausea.     

 

                                                                  *

                                                                

Durante la prima settimana Attilio aveva seguito la fuga di Salvatore come era nelle sue abitudini: in completa solitudine; ma da solo non lo avrebbe mai potuto avvicinare abbastanza per poter vendicare la morte di Sebastiano.

In quell'errare incerto da un punto all'altro, con la mente sempre intenta a sfuggire i pericoli, il dolore straziante per i fatti accaduti era rimasto vivo nei pensieri del ragazzo, anche quando lo sguardo si perdeva all'orizzonte, in quel sogno infranto – o forse solo rimandato - di attraversare il mare, un giorno.

Si rivedeva Attilio mentre abbracciava il corpo inerme del fratellino. Accanto a lui suo padre, che non osava dire nulla; e poi sua madre e le altre donne che volevano prendere il corpo di Sebastiano e riportarlo a casa; ma a ogni tentativo un verso animale scaturiva dalla sua gola, spaventando chiunque osasse toccare il bambino.

Don Pino, senza pronunciare una sola parola, si era accasciato per terra, di fianco alla triste coppia che gli straziava il cuore. Nella piazza polverosa adagiate in terra vi erano le spoglie di un piccolo innocente, al quale era stata tolta la vita; accanto a queste languiva un giovane ragazzo, che avrebbe dato la propria di vita per poter rivederne il sorriso. La pena del prete cresceva a mano a mano che il futuro di Attilio gli appariva davanti agli occhi: egli sapeva bene che il ragazzo non si sarebbe dato pace sino a che il sangue non avesse lavato la morte di Sebastiano. E mentre rifletteva sul destino del giovane, don Pino posava la propria mano su quella di Attilio che, con forza, stringeva a sé Sebastiano. Attilio, sentito quel calore, si era voltato a guardare il faccione tondo del suo amico prete, ma non sembrava riconoscerlo. Alle parole: - Lascialo adesso. Vieni con me, figliolo - , d'improvviso i sensi del giovane si erano risvegliati e con loro tutta la tragica realtà che lo circondava. I mormorii, i pianti, i lamenti delle donne: le sue orecchie avevano ripreso a funzionare, e la voce suadente di don Pino che continuava a ripetergli di lasciare Sebastiano alla fine lo aveva convinto a deporre il bambino nelle braccia di sua madre e a osservarla con distacco mentre gli portava via Sebastiano, per sempre. Rialzandosi, con l'aiuto di don Pino, Attilio si era lasciato condurre sino alla gradinata della piccola chiesa e da lì al suo interno, dove l'odore dolciastro lo aveva preso subito alla gola. La luce delle candele era fredda e proiettava sui muri ombre fluttuanti, di fantasmi neri. Attilio si era seduto e, prendendosi la testa tra le mani, aveva finalmente iniziato a piangere.

Don Pino lo aveva lasciato sfogare, nel frattempo osservava la croce di legno con il Cristo che non ricambiava il suo sguardo e pregava di riuscire a trovare le parole adatte; ma nel momento in cui Attilio aveva smesso di piangere, il prete aveva letto in quegli occhi arrossati e gonfi il desiderio e la determinazione ad agire e a quella vista l'infelice uomo si era sentito inutile. Non poteva impedire simile decisione perché la vendetta scorreva naturalmente nel sangue di quegli uomini, anche in chi, come Attilio, aveva sempre avuto un'indole docile. Perciò, facendosi forza egli stesso, cercava di instillarne quanta più poteva nel giovane. Per più di un'ora, Attilio e don Pino si erano trattenuti su quella panca, davanti all'altare di pietra, con il freddo che gli congelava il respiro. Passato quel tempo Attilio si era detto pronto a lasciare il villaggio e, mettendosi in ginocchio, aveva aspettato di ricevere la benedizione del prete. Non volendo avvicinarsi alla casa di suo padre, aveva poi salutato con il pensiero suo fratello Sebastiano e, in groppa allo stesso cavallo consegnatogli da Gavino, era uscito dal villaggio che si era già all'imbrunire. Le scorte di cibo, la pistola, il mantello e una coperta le aveva prese dalle mani dei suoi compagni; il cavallo lo avrebbe fatto riavere al proprietario non appena avesse recuperato quello che, su direttive di don Pino, avrebbe trovato nella stalla di certi suoi parenti, in un altro villaggio, a circa mezz’ora dal suo, dove lo avrebbero ospitato per quella notte.

Alcuni compagni si proposero come accompagnatori, ma allo sguardo di diniego di Attilio si limitarono a salutarlo, dando una pacca vigorosa al di dietro del cavallo che, sorpreso e spaventato, scattava in avanti, uscendo al galoppo dal villaggio.       

                                                               *

 

Passata la prima settimana Attilio, seguendo gli spostamenti di Salvatore, si era reso conto dell'impossibilità di avvicinare suo fratello. Attilio era scaltro e riusciva a fiutare il pericolo nei momenti in cui da cacciatore rischiava di diventare preda, ma sapeva bene che la sua buona stella non lo avrebbe aiutato a lungo.      

Il suo pellegrinaggio lo aveva portato da un ovile all'altro, sempre sospettoso, con gli occhi sempre bene aperti, le orecchie tese, la mano pronta sul fucile. La sua era anche una posizione di difesa: in qualunque momento, per motivi di denaro o per scambio di favori, i pastori che lo proteggevano potevano voltargli le spalle e denunciare la sua presenza alla banda di Salvatore e lui, da solo, non avrebbe avuto nessuna possibilità di sopravvivere.

Una sera gli venne in mente di raggiungere il villaggio dove suo padre una volta lo aveva condotto da bambino, per una visita a dei parenti. Ricordava con piacere quella gita, forse perché era stata l'unica, e in quell'occasione, oltre a un cugino in primo grado di suo padre, aveva potuto conoscerne i figli: due ragazzini e una bambina molto piccola che ancora non camminava e stava seduta su un grosso seggiolone di legno a guardare i fratelli e a lanciare gridolini acuti. Ciò che aveva colpito Attilio era la serenità che si respirava in quella casa ben pulita e ordinata. Dei due ragazzi uno aveva quindici anni, sei più di Attilio; l'altro era più piccolo di qualche anno. Entrambi avevano la carnagione molto chiara ed erano ben pasciuti, al contrario di Attilio, dal colorito giallognolo e magro come un fuscello. Il primo giorno i ragazzini si erano studiati a vicenda con un po' di soggezione; Giovanni Antonio, il padre di Attilio, con il suo vocione e i modi rozzi, non gli facilitava le cose, facendolo sentire ancora più a disagio in quella famiglia che, al contrario, era abituata a conversare in maniera pacata e a non alzare mai troppo la voce. Quando però il giorno dopo di buon'ora i due uomini erano usciti per recarsi al mercato, luogo in cui il padrone di casa possedeva un recinto con i maiali, Attilio dentro di sé aveva gioito di gratitudine. Essendo di domenica, dopo la messa i tre maschietti avevano avuto il permesso di fare quello che volevano. Il villaggio era costituito da poche case e subito ci si ritrovava in aperta campagna. I due fratelli, lasciato il sentiero principale, avevano guidato Attilio all'interno di una ricca vegetazione, che in alcuni punti nascondeva il passaggio. D'improvviso il paesaggio cambiava: uscendo fuori da un intrico di rovi e fronde verdi, davanti agli occhi di Attilio si era palesata la riva sassosa di un basso e calmo torrente, sulle cui acque chiare e ferme si riflettevano i raggi del sole. I due ragazzini non ci avevano pensato due volte a spogliarsi dagli indumenti per correre e lanciarsi in acqua. Anche Attilio aveva seguito l'esempio e nell'acqua bassa erano esplosi in risa e giochi.

Quella giornata era trascorsa come in un sogno e per Attilio aveva rappresentato un'eccezione che non si era ripresentata mai più; così che in quegli anni ne aveva conservato gelosamente il ricordo. Eugenio, il più grande, prima di salutarlo, la sera, quando suo padre lo aveva issato sul carretto trainato dall'asino, gli aveva regalato un sasso bianco dalla forma triangolare, arrotondato e levigato dall'acqua del torrente. Attilio lo aveva stretto nel piccolo pugno; poi Eugenio lo aveva baciato sulla guancia.

 

In quel momento, davanti alla casa di suo cugino, l'emozione metteva Attilio in uno stato di agitazione tale che gli veniva istintiva la voglia di voltare il cavallo e tornarsene alla sua vita solitaria. Ma dopo tutto quello che aveva passato la solitudine lo stava opprimendo e il dolore per la perdita di Sebastiano a momenti gli artigliava talmente tanto il cuore da rendergli inaccettabile la vita stessa. E poi c'era anche la curiosa voglia di rincontrare quel viso che un giorno gli era stato tanto caro. Togliendo la mano dalla tasca del pantalone di fustagno sdrucito dall'uso Attilio esitava ancora, osservando per l'ennesima volta il sasso dai tre angoli smussati, donatogli da Eugenio. Finalmente, dopo aver fatto un grosso sospiro e dopo essersi guardato intorno, si era deciso a smontare da cavallo per avvicinarsi cautamente alla porta della casa. Bussando con insistenza non aveva ricevuto risposta per cui, provando a spingere l'uscio con discrezione, aveva aperto un piccolo spiraglio; quindi, infilando dentro la testa, si era messo a chiamare ad alta voce. Percependo dei rumori si era sentito incoraggiato a mettere un piede sulla soglia e a sbirciare all'interno. In un primo momento aveva dovuto abituare gli occhi alla penombra della sera che rendeva l'interno della casa indistinguibile; quando poi gli erano apparsi il tavolo con le sedie intorno aveva riconosciuto l'ambiente ed era entrato.

- Sono Attilio Dasso, il figlio di Giovanni Antonio Dasso, è permesso? - .

Il silenzio ostinato gli faceva nascere il sospetto che se anche lì dentro ci fosse stato qualcuno, forse non aveva voglia di ricevere visite e mentre pensava alla situazione dentro la quale si stava cacciando, con fare incerto aveva fatto altri due passi avanti. D'improvviso tutto il sangue che gli scorreva nel corpo gli si era ghiacciato completamente nelle vene e per poco non se l'era fatta sotto per lo spavento.

Imprecando contro se stesso per avere lasciato la pistola dentro la bisaccia, appesa sul dorso del cavallo e nello stesso tempo dimenando il corpo, imprigionato fra le braccia di colui che lo teneva stretto con forza, Attilio immaginava di essere arrivato alla fine. Sono stato uno stupido – pensava - uno stupido: come potevo sperare di farcela da solo?. No, non può essere la fine... dio... queste braccia sono peggio di una morsa e non posso fare niente, niente. Ma ecco, posso liberarmi adesso.... Imprecando e sbuffando finalmente Attilio stava per riprendere il controllo di sé e del suo corpo: Che almeno questo ribaldo mi mostri la sua faccia e combatta ad armi pari, da uomo... Ma non aveva fatto in tempo a concludere quel pensiero che l'uomo, lo stesso che prima gli bloccava braccia e corpo, a sorpresa, gli appioppava un bacio sulla guancia, per poi svelare il suo viso radioso. In quell'esatto momento Attilio si era come sgonfiato e rischiava di crollare per terra se Eugenio non lo avesse sorretto.  

 

                                                             *

 

Eugenio Dasso aveva rappresentato un'enorme sorpresa per Attilio. Nei ricordi di questo esisteva un ragazzo che, per i suoi nove anni di allora, vedeva già grande. Ricordava il suo corpo morbido e arrotondato e la pelle chiara venata di azzurro, come quella di sua zia e degli altri due cuginetti. E ricordava altrettanto bene quelle iridi grigio verde in un paio d'occhi che non avevano mai pace, luminosi, nel riverbero delle fiamme del caminetto, acceso per placare i suoi brividi di freddo.

I due ragazzi avevano parlato a lungo; meglio, Eugenio lo aveva fatto, Attilio non amava parlare; lui con le persone si predisponeva sempre all'ascolto e raramente interrompeva i discorsi per esprimere un suo pensiero. Sebastiano solo aveva avuto il dono di far parlare il fratello, per tutti gli altri Attilio era sempre stato il silente.

Durante la serata seguita all'inaspettato e gradevole incontro, dopo aver fatto accomodare dentro casa Attilio e dopo aver affidato il cavallo a un uomo che subito era sparito alla vista, Eugenio aveva iniziato a muoversi dentro la piccola abitazione con movimenti sicuri. Quei modi avevano ancora una volta sorpreso Attilio perché erano tutt'altra cosa rispetto a quelli rozzi di suo padre o di suo fratello. Giovanni Antonio quando entrava in casa sapeva solo urlare per pretendere il cibo e poi si aggirava per le uniche due stanze sbattendo e urtando seggiole o qualunque altro oggetto si trovasse tra i piedi. Salvatore, quando era assente il genitore, si sentiva in dovere di fare altrettanto e quell'atteggiamento era insopportabile.

Eugenio aveva acceso il fuoco con attenzione e calma. Il fuoco aveva preso subito a danzare scoppiettante e a quel punto il giovane aveva iniziato a occuparsi di Attilio, porgendogli un bicchiere di vino e apprestandosi ad affettare fette di carne secca e tocchi di formaggio stagionato, da porgere al cugino direttamente su un piatto ovale di sughero. Durante quelle operazioni Eugenio non aveva mai smesso di parlare e Attilio, seduto su un panchetto, vicino al camino, con i capelli lunghi e disordinati a coprire le sue curiose orecchie a sventola, le guance arrossate e gli occhi appesantiti dal torpore, mentre masticava il cibo si faceva trasportare dal flusso costante delle parole. Cullato dai toni bassi della voce del giovane Attilio stava vivendo all'interno di un'atmosfera insolita ed emozionante e quando, vinto dalla stanchezza, aveva palesato un cedimento, Eugenio, temendo di vederlo finire dentro alla bocca del grande camino, gli aveva proposto di stendersi sul lettino del fratello, copia gemella di quello alla sua destra, dove avrebbe dormito lui. Attilio, dopo aver ringraziato il cugino per l'ospitalità, si era coricato con gli abiti addosso, e in pochi secondi il sonno lo aveva rapito.

 

                                                                           *

                                                                

Eugenio era stato molto discreto nell'approccio con Attilio. Guardando la faccia del cugino egli vi leggeva tutta la disperazione di quei giorni. E se durante l'incontro avvenuto anni prima i lunghi silenzi di un bambino timido e riservato lo avevano incuriosito, in quel momento, trovandosi davanti quel ragazzo provato da un'esistenza che ne aveva precocemente fatto un uomo, sentiva il dovere di prendersene cura. Ma non aveva cambiato il suo atteggiamento: non aveva fatto domande, non avendo nessuna intenzione di forzarlo a parlare, né a raccontare di sé.

Peraltro Eugenio, nella sua posizione, sapeva già tutto il necessario, ed era proprio contento che Attilio avesse deciso di recarsi nella casa degli zii (morti di febbre malarica, la stessa che qualche anno prima si era portata via anche la loro figlioletta ), guidato da chissà quale sconosciuto destino.

I rischi che Attilio aveva corso durante quel periodo di vagabondaggi avevano tenuto Eugenio in grande apprensione ed egli non aspettava altro che di poterlo avvicinare. Doveva tentare di calmare la rabbia che di sicuro, sino a quel giorno, aveva nutrito il giovane ragazzo, trasmettendogli quel coraggio necessario a chi, come Attilio, seguiva le pericolose tracce di una banda di uomini pronti a eliminarlo pur di non averlo tra i piedi. Tra questi, purtroppo, anche il fratello, Salvatore: il cugino che Eugenio non aveva mai conosciuto personalmente, ma che gli era noto per fama. 

Dopo gli anni trascorsi lontano dalla sua terra, ospite della città regia che gli aveva dato la possibilità di formarsi alla scuola per diventare carabiniere, il destino aveva riportato Eugenio a casa nel momento in cui, fra le tante bande organizzate, vi trovava proprio suo cugino Salvatore protagonista di un tragico incidente nel quale il fratello più piccolo aveva trovato la morte. Il fatto più oscuro e penoso era che la sua situazione nel tempo si era aggravata ulteriormente: macchiandosi di numerosi delitti in quel momento il giovane era nella lista dei ricercati più pericolosi.

Avere Attilio lì, vicino a lui, al sicuro, gli dava la possibilità di dirigere i pensieri del ragazzo verso un terreno più ragionevole, lontano dai propositi di vendetta.

Il destino a cui Eugenio voleva credere aveva voluto farli incontrare nella casa che da mesi - dopo la decisione di suo fratello di raggiungere la capitale, a sud dell'isola -, era rimasta deserta e chiusa. Il giovane carabiniere, proprio quella mattina, aveva chiesto e ottenuto il permesso di poterci trascorrere due giornate, prima di riprendere il suo posto sul campo con il resto della truppa a cavallo.

Quella nottata gli aveva riservato sogni agitati e nemmeno il respiro regolare di Attilio era riuscito a calmarlo. Aprendo gli occhi, non aveva potuto fare a meno di sospirare: la responsabilità che sentiva nei confronti del cugino era davvero forte. L'atteggiamento fiero e carico di orgoglio di Attilio però rappresentava una montagna che difficilmente si sarebbe lasciata conquistare. Rinunciando al sonno - la stanza ancora completamente al buio - Eugenio era sceso dal letto e lentamente aveva raggiunto la cucina. Nel camino le braci non erano completamente spente ed era stato sufficiente aggiungere alcuni pezzi di legno perché il fuoco riprendesse vigore. Sedendosi sul panchetto che poche ore prima aveva sorretto il corpo spossato di Attilio, Eugenio si era lasciato ipnotizzare dalle lingue di fuoco e mentre il calore gli arrossava il volto i ricordi avevano iniziato a prendere forma. Di incontri tra loro due non ce n'erano stati altri – pensava -, ma egli in un'occasione aveva rivisto Attilio, seppur all'insaputa dell'altro.

 

                                                              *

 

Eugenio non poteva scordare lo stato d'animo di quel periodo, quando all'interno della sua famiglia la malaria si era già portata via sua madre e sua sorella. A pochi mesi di distanza anche suo padre iniziava ad avvertire gli stessi sintomi; i due fratelli invece ne sembravano immuni. Qualcuno aveva consigliato loro di recarsi al più presto al villaggio dove viveva suo zio, Giovanni Antonio, poiché lì avrebbero potuto trovare un medico. Eugenio, aggrappandosi a quella speranza di guarigione, aveva voluto affrontare il lungo viaggio da solo e, in groppa al cavallo che abitualmente trainava il carretto di cui suo padre si serviva per il trasporto del bestiame, aveva raggiunto il villaggio. Al suo arrivo era già sera. Eugenio si era diretto presso la casa del medico, ma la giovane moglie non era stata in grado di aiutarlo, spiegando al ragazzo che suo marito, assente da due giorni, si trovava a dover fare il giro delle campagne per visitare i suoi pazienti. Deluso dalla notizia e prima di rimettersi in viaggio, Eugenio si era fermato per la notte a casa degli zii. Giovanni Antonio e sua moglie gli avevano dato ospitalità, com'era loro sacrosanto dovere: rifocillandolo e srotolando per lui una stuoia, lo avevano sistemato per terra, davanti al camino. Non si erano scambiati molte parole però e anzi, Eugenio aveva avuto la netta sensazione che i due non vedessero l'ora di liberarsi dell'ospite inatteso. Essi avevano terrore delle malattie e nella casa dalla quale Eugenio giungeva si respirava aria di morte.

All’interno della casa, dentro la piccola stanza da letto, Sebastiano, ancora molto piccolo, dormiva dentro una cesta intrecciata con fibre di asfodelo. Attilio - gli dicevano con orgoglio - il cugino che Eugenio aveva sperato di rincontrare, era all'ovile, a custodire le pecore. Facendo mentalmente i conti egli aveva pensato che dovesse avere circa tredici o quattordici anni. 

Quella notte un violento temporale si era abbattuto sul villaggio e Eugenio, intabarrato nel suo mantello, aveva dovuto scacciare i brutti presentimenti: il gelo della morte sembrava averlo seguito sin lì e nel buio della cucina - il fuoco spento già da un bel pezzo -, la luce delle saette illuminava la scarsa mobilia e le suppellettili che tutt'intorno a lui sembravano prendere vita.

Lasciando il villaggio alle prime ore del nuovo giorno, l'umore di Eugenio precipitava nello sconforto. La sensazione era di completo fallimento: tornava a casa senza speranza alcuna di veder guarire suo padre. Con quei tristi pensieri egli incitava il cavallo con il proprio corpo, guidandolo a un'andatura più sostenuta. Voleva lasciare quel cupo villaggio il più presto possibile, sentendo dentro di sé il forte desiderio di riabbracciare i propri cari.

La pioggia torrenziale quella notte aveva sferzato la terra senza pietà, ma le nuvole, a mano a mano che il sole saliva nel cielo, si diradavano. Lame accecanti penetravano il folto bosco, illuminandolo. Con gli occhi pieni di luce Eugenio non si era accorto che di fronte a lui un uomo risaliva lo stesso suo sentiero, a passo deciso. Ne aveva percepito la presenza quando l'altro, con le mani dietro la schiena, si era fermato e aveva aspettato che il cavaliere gli passasse vicino per, eventualmente, riconoscerlo. Eugenio aveva arrestato il cavallo proprio accanto al contadino, salutandolo con un gesto della mano. Quello lo aveva osservato ben bene in faccia e alla fine, non riconoscendo il forestiero, si era mostrato curioso. Eugenio gli aveva detto che era un parente della famiglia Dasso e che, dopo aver fatto loro visita, stava tornando da suo padre, molto malato.

Se era un parente dei Dasso allora avrebbe salutato volentieri anche il figlio di Giovanni Antonio, Attilio. Stava proprio nella tanca che, abbandonando il sentiero, si trovava alla sua destra. Lì c'era l'ovile e lì si trovava Attilio, con le sue pecore. Eugenio sarebbe andato volentieri a salutare Attilio, aveva replicato, ma suo padre aveva bisogno di lui e andava di fretta.

L'uomo, sollevando appena la visiera del suo berretto, in segno di commiato, aveva sollevato le spalle, dopo di che aveva proseguito per la sua strada, non senza avergli dato la sua benedizione per il viaggio di ritorno. Eugenio, rimasto solo, aveva fatto schioccare la lingua sul palato e il cavallo aveva ripreso il cammino. All'ultima curva, prima che la strada sterrata si allungasse lungo la piana, inframmezzata dai campi coltivati a grano e da quelli lasciati al pascolo Eugenio attratto dalla curiosità, aveva lanciato un'occhiata sino a individuare l'ovile e il gregge, a quell'ora raggruppato intorno all'abbeveratoio, di fianco alla bassa costruzione. Obbligando la bestia a scartare verso destra e compiendo un largo giro che lo faceva rientrare nel bosco per riuscirne poco oltre, Eugenio, dopo essere smontato dall'arcione, aveva raggiunto una grossa quercia che gli offriva la propria ombra. Da quella posizione aveva lasciato che lo sguardo si aprisse sul paesaggio che aveva di fronte: pennellate di colori caldi e malinconici dipingevano una tela maestosa e inserito in quel paesaggio rurale vi era Attilio. L'emozione pervadeva l'animo di Eugenio mentre osservava il cugino. Attilio, ignaro di tutto, davanti a una grossa vasca di pietra che il temporale notturno aveva riempito d'acqua fino all'orlo, ne agitava la superficie con le mani. Allontanando fili di paglia e insetti, raccoglieva nelle palme delle mani piccole quantità che poi spargeva sul volto e sul collo. Il petto ossuto e candido di Attilio era attraversato da rivoli d'acqua che arrivavano a inzuppare il bordo dei pantaloni. Questi, ben calati sui fianchi, scoprivano appena il solco fra le due natiche. Terminate quelle abluzioni Attilio immergeva nella vasca anche la camicia per poi levarla gocciolante e stenderla sopra un cavalletto di legno.

Eugenio non aveva perso un solo movimento, il respiro leggermente ansimante. Infine si era voltato e, con il viso irrorato dal sangue, era rientrato nel bosco e preso il cavallo per le briglie, si era incamminato con la testa tenuta bassa sul petto. Non aveva raggiunto Attilio: si sentiva estraneo a quel paesaggio e all'intimità che conteneva. Non sapeva spiegarsene il motivo ma in qualche modo sentiva che la sua presenza avrebbe intaccato la bellezza di quel quadro meraviglioso.

A distanza di anni, mentre riviveva i ricordi, con gli occhi ancora fissi davanti al guizzo delle fiamme, Eugenio sorrideva di tenerezza per se stesso e per le sue emozioni giovanili.  

Dopo quel viaggio egli aveva potuto riabbracciare suo padre che però era morto quella notte stessa e lui, com'era stato per sua madre e per sua sorella, lo aveva pianto a lungo.                     

Ritornando con la mente ad Attilio, egli ne riconosceva le qualità: la sua destrezza con il coltello, ma anche le dispute in poesia grazie alle quali aveva ottenuto, ancora molto giovane, una certa notorietà.

 

                                                             *

 

Quei ricordi invitavano Eugenio a rincorrere altri pensieri e, riflettendo su se stesso, in quel momento della sua esistenza egli poteva asserire senza dubbio alcuno di sentirsi un uomo in buona parte soddisfatto: il suo desiderio di entrare nell'arma dei carabinieri si era concretizzato e pure quello di ritornare nella sua terra. Inoltre la passione per il suo lavoro lo aveva ricompensato per il duro impegno fisico. 

Gli restava un’ultima domanda: aveva ricevuto altrettante soddisfazioni dalla sua vita affettiva?

C’era un episodio che lo riportava indietro di qualche anno: quella volta in cui, più per goliardia e spinto da una discreta dose di urgenza fisica, nonché per porre fine alle insinuazioni dei giovani colleghi, si era dunque lasciato condurre in una casa di appuntamenti. Lì, per la prima volta, aveva fatto la conoscenza di un corpo femminile. Non era stata una gran cosa. Eugenio aveva fatto quello che doveva fare molto lentamente, concentrato e silenzioso. La donna, non più giovane ma con due fossette da bambina sulle guance, aveva osservato nello specchio appeso al soffitto il corpo nudo del giovane muoversi ritmicamente e intanto gli accarezzava distrattamente i capelli. Si era accorta che aveva terminato quando si era bloccato dentro di lei e la pelle, leggermente sudata, aveva avuto un brivido. Pochi istanti dopo la donna sedeva davanti alla specchiera, ravviandosi i lunghi capelli ramati che portava sciolti sulle spalle. Nel mentre conversava oziosamente con il ragazzo, impegnato a indossare i propri abiti eleganti. Alla richiesta di una seconda visita Eugenio, ormai vestito di tutto punto, l'aveva osservata ancora una volta e, dopo averle regalato un sorriso, aveva lasciato la stanza, certo che non l'avrebbe mai più rivista.

Eugenio non ricordava se sfiorando il giovane e allampanato collega era stato l'odore emanato da quel corpo a provocargli un capogiro o se quella vertigine era stata causata dal calore di un braccio appoggiato con noncuranza sulla sua spalla mentre, uscendo entrambi dal basso edificio, raggiungevano i commilitoni sulla strada di fronte. Restava il fatto che quell'odore e quel braccio, uniti ad altri odori e ai corpi maschili che aveva avuto accanto a sé ogni giorno durante la scuola di addestramento, sostenuti da una buona dose di fantasia, avevano stimolato per anni i suoi più profondi desideri; ma li considerava desideri proibiti, da mantenere segreti.

Perciò in quel momento Eugenio non aveva risposte se non che la sua vita affettiva era praticamente inesistente. Accarezzava i suoi sogni, niente di più. La sua mente fantasticava, viveva di immagini, e quelle immagini a volte lo spaventavano a morte.

Prima o poi avrebbe preso la decisione di sposare una brava ragazza, lo avrebbe fatto. Una casa e una donna che badasse a lui, ecco di cosa aveva bisogno. In fondo avrebbe dovuto fare solo ciò che facevano gli altri uomini. Diventare padre avrebbe di certo colmato il vuoto affettivo che sentiva dentro di sé e non avrebbe avuto più il timore di affrontare se stesso: semplicemente avrebbe soffocato quelle aspirazioni che mai avrebbe visto realizzare.

         

                                                                  *

 

Tornando con un sussulto alla realtà, Eugenio vedeva suo cugino Attilio come il protagonista di una tragedia immane, ma guardando oltre le vesti stazzonate e il corpo smagrito, nel suo incedere a testa alta, Eugenio aveva riconosciuto fin da subito la determinazione del giovane di perseguire nel suo intento. Quel ragazzo desiderava ardentemente vendicare Sebastiano, ma si illudeva che raggiungendo quello scopo lo avrebbe riportato in vita? Il sangue di quel fratello morto avrebbe fatto di lui un assassino. Era ciò che voleva diventare?

Quello sentiva di dire Eugenio, affrontando il ragazzo dopo una notte insonne, e quelle parole venivano ascoltate, educatamente, come Attilio sapeva di dover fare; ma a niente era servito portare Salvatore come l'esempio di un uomo vittima della sua stessa natura sanguinaria. Per Attilio in quel momento esisteva un unico sentimento possibile: l'odio più totale. Ma era pur vero che quelle parole avevano toccato una parte importante della sua coscienza e gli avevano permesso di muovere i primi passi nel cammino verso una più profonda conoscenza di se stesso.

Comunque, nonostante le buone intenzioni di Eugenio, nonostante i suoi discorsi accorati in uno stato d'animo pervaso dall'ansia, al termine del secondo giorno, prima che Eugenio venisse richiamato al servizio, niente era andato come sperato e Attilio, all'imbrunire, si preparava a lasciare sia la casa che il cugino.

Eugenio avrebbe desiderato altro tempo per riuscire ad allontanare Attilio dai pericoli di un'esistenza troppo rischiosa per un ragazzo solo; ma doveva obbedire agli ordini dei suoi superiori e, seppur con il cuore gonfio di apprensione, alla fine doveva pur lasciarlo andare per la propria strada. 

 

                                                                        *

                                      

Dormire profondamente, sentendosi protetto da una casa accogliente e dalla presenza di Eugenio aveva fatto sì che sotto le palpebre abbassate di Attilio balenassero immagini dimenticate da tempo. Giochi, inseguimenti e ruzzoloni, ma soprattutto risate: aperte, rumorose, contagiose. E il sorriso era stato il primo a destarsi quella mattina di un nuovo giorno, l’ultimo da trascorrere insieme. Sorriso che si era spento nell’istante in cui gli abitanti del piccolo villaggio venivano destati dal rumore degli spari dei moschetti.

Le donne, chiuse dentro alle loro casupole, con la coperta avvolta intorno al corpo e sulla testa, scendevano giù dal letto, inginocchiandosi per pregare. Pregavano a mani giunte, con la testa piegata sul petto e gli occhi chiusi. Imploravano la salvezza di un figlio o di un marito o di un altro parente, che in quelle prime ore mattutine rischiava di soccombere ai colpi delle armi.

Erano tempi duri; tempi di soprusi e ingiustizie da parte delle autorità a danno dei più deboli. Leggi ingiuste provocavano il caos: ci si uccideva tra i contadini, per un pezzo di terra o per altri motivi; tra bande rivali; tra fuggiaschi e forze dell'ordine.

Di lì a poco nelle orecchie di Attilio sarebbero risuonati i rintocchi delle campane: funereo sottofondo al pianto delle donne.

Dissolti i pensieri felici, il ragazzo, raggiungendo la cucina ancora in penombra, aveva ormai scacciato ogni residuo di sorriso. La figura di Eugenio vestito di tutto punto che lo aspettava in piedi vicino al camino, ormai completamente spento, aveva accentuato il suo stupore nei confronti del giovane cugino. In divisa da carabiniere Eugenio era un figurino e Attilio non poteva non rimanerne affascinato. Lui si sentiva in disordine e sporco e mai nella sua vita aveva trascurato la pulizia. Allora gli tornava alla mente l'acqua placida e splendente del torrente, dove tre bambini si divertivano a spruzzarsi e a lanciare sassi dalla riva. In quel momento Attilio sentiva forte il desiderio di infilare la mano in tasca, ma la vergogna di afferrare il sasso levigato davanti a Eugenio bloccava quella mano, che perciò era rimasta chiusa a pugno.

Al compimento di quella lunga giornata, quello che i due cugini avevano da dirsi se lo erano detti, perciò Eugenio era stato il primo a muoversi per andare incontro all'altro, con l'intenzione di salutarlo. Ma, preso dalla disperazione, Eugenio aveva voluto ripetere ancora una volta ad Attilio di stare lontano da suo fratello: Salvatore era pericoloso e non si sarebbe fatto scrupolo nel tendergli una trappola. Aveva già ucciso e lo avrebbe fatto ancora. Voleva andare via? Ora era libero di farlo: - Va’ via Attilio, vattene lontano da qui. Ma per l'amor di dio, non farti ammazzare!. L'ultima frase Eugenio l'aveva urlata stringendo forte le braccia del cugino e guardandolo con occhi opachi e spenti, come Attilio non aveva ancora conosciuto. Erano gli occhi di un uomo privo di sonno e di riposo, un uomo che avrebbe legato al letto quel somaro cocciuto se avesse potuto, pur di non vederlo allontanarsi. Pur di averlo accanto a sé e proteggerlo.

Attilio, incapace di reagire, aveva subito quella calorosa esplosione di affetto, non riuscendo a farsene una ragione. L'atteggiamento di Eugenio gli appariva eccessivo e comunque non aveva più voglia di starlo ad ascoltare: iniziava a sentire male dentro al petto e quel nuovo dolore non gli piaceva affatto. Era troppo simile al sentimento d'amore che lo aveva legato a Sebastiano; un sentimento che la morte improvvisa avrebbe potuto spezzare e la sofferenza che ne seguiva era troppo forte da sopportare.

Un amore viscerale, quello provato per suo fratello, nato nello stesso istante in cui lo aveva visto per la prima volta, quando suo padre aveva portato fuori dalla stanza da letto un fagottino avvolto in una coperta fatta di stracci, consunta e lisa in più punti. Era piccolissimo Sebastiano, nato di sette mesi, e non sarebbe sopravvissuto. Lo ripetevano tutti, certi che non avrebbe visto l'alba, e Don Pino lo aveva battezzato la notte stessa. Salvatore, che non appena gli veniva a tiro, aveva preso a pugni la pancia di sua madre per tutta la gravidanza, non aveva degnato di uno sguardo il fratellino. Attilio invece lo aveva voluto tenere in braccio e lo aveva cullato, per tutta la notte. Era stato il suo calore a salvargli la vita: questo gli ripeteva sempre il prete; ma Attilio dentro di sé sapeva che quello era un bambino forte, con tanta voglia di vivere. Se n'era accorto subito, quando Sebastiano gli aveva stretto l'indice e non lo aveva più lasciato.

In quel momento di tensione, desiderando ricacciare dentro le lacrime, Attilio, con il tessuto della manica, si asciugava gli occhi. Quel gesto stizzito non aveva lasciato indifferente Eugenio che commosso, sospirando forte, lo stringeva a sé.  

       

                                                                         *

 

L'ultimo grave episodio di sangue del quale si continuava a parlare, Salvatore Dasso lo aveva commesso il mese precedente. Fra i delitti perpetrati da Salvatore quello era stato il più vigliacco.

La vittima si chiamava Peppino. Questi era un bonaccione, un mezzo scemo che viveva con la mamma e diversi piccoli fratelli in una casa bassa, a guardia di una chiesa campestre. Veniva chiamato l'eremitano e, come tutti gli eremitani, egli aveva l'obbligo di aprire le porte della chiesa a tutti i devoti che vi si recavano per farvi le orazioni. La povera famiglia viveva delle elemosine dei visitatori, dello scarso frutto di un piccolo lembo di terra coltivata e dell'allevamento di qualche bestia, di cui Peppino era il mezzadro. 

Quel giorno l'umore di Salvatore era tetro; la morte del suo compagno, caduto poche sere prima in un'imboscata, lo rendeva irrequieto e nervoso e la noia, derivante dallo starsene rintanato come una bestia in un antro maleodorante, lo aveva spinto a sfidare la sorte. Perciò si era precipitato a rotta di collo giù per il sentiero impervio della montagna, attraversando il bosco per ritrovarsi infine in aperta campagna. Di fronte a lui stava la piccola chiesa medievale e intorno le casette della famiglia. Gli animali pascolavano e brucavano l'erba; al passaggio di Salvatore si scansavano appena, infastiditi. Raggiunto il casale dove si trovava Peppino, il ragazzo aveva adocchiato una scrofa con i porcellini.

Indicando uno di questi aveva esclamato: - Me ne regali uno? - Il pover'uomo, intimidito dalla stazza di Salvatore e dal coltello tenuto in bella mostra sotto la cintura che gli sorreggeva i pantaloni di fustagno, aveva risposto che no, non poteva. Egli era povero e le bestie non gli appartenevano, le aveva a metà con il proprietario. Salvatore sembrava convinto della risposta e, dopo aver dato un'altra occhiata ai porcellini, evitando di incontrare gli occhi di Peppino, aveva girato di spalle e se n'era andato. Era scesa la sera ed il buio. Peppino e la sua famiglia dormivano. Salvatore, tornato nei pressi del casale, questa volta non da solo, avanzava deciso tra le bestie chiuse nel recinto, ordinando al compare di prendere i porcellini. Lui teneva d'occhio la casa e nel momento in cui, illuminato dalla luce della luna, aveva distinto la figura di Peppino il quale, svegliato dal grugnito della scrofa, ne era uscito fuori imbracciando il fucile, senza indugio alcuno aveva fatto fuoco, stendendolo cadavere.

Quella vile azione era arrivata anche alle orecchie di Attilio, in quei giorni di passaggio al villaggio per incontrare padre Pino. Alla notizia dell'uccisione dell'eremitano, il prete si era segnato la fronte e il petto, bisbigliando una preghiera.

Attilio aveva stretto i pugni con forza. Sentiva tutto il male di quel fratello maledetto scorrergli nel sangue. E quel sangue si stava ammalando. Si era ridotto a condurre una vita miserevole, braccando un fuggiasco che ancora non aveva avuto modo di incontrare e a quel punto poteva solo sperare in uno scontro aperto e diretto, ma per quello Salvatore era troppo codardo.  

Il giorno dopo Attilio si era recato dalla famiglia disperata, abbandonata e lasciata a se stessa, in uno stato pietoso. Aveva lasciato loro qualche pane e qualche pezzo di carne. Poi aveva voltato lo sguardo verso la roccia granitica della montagna, colpita dai raggi del sole. Avrebbe voluto avere la forza di cento giganti per poter stritolare quella montagna con mani possenti. Avrebbe voluto schiacciarla con piedi di marmo e stanare, una volta per tutte, suo fratello e chi, come lui, uccideva vigliaccamente i deboli e gli indifesi.        

 

                                                          *                                  

 

Trascorso del tempo da quel triste episodio, l'intervento delle forze dei carabinieri, sparse capillarmente su tutto il territorio, era riuscito a calmare le acque turbolente di quei luoghi segnati da troppe croci. Grazie a una gigantesca operazione di polizia, allo scopo di fare terra bruciata attorno ai banditi, erano stati catturati oltre seicento favoreggiatori e complici, e questo aveva costretto i latitanti a costituirsi o a uscire allo scoperto. Quell'impresa non era rimasta a lungo la sola: dopo poco tempo un grosso contingente di carabinieri e di fanti avevano sgominato la banda più sanguinaria degli ultimi anni. Salvatore si era trovato coinvolto nelle diverse operazioni, ma era riuscito sempre a scampare agli agguati.

Per ciò che lo riguardava, nella lunga lista dei suoi crimini il peccato di lussuria era tra quelli che lo avevano portato a un passo dalla fine, in quella che era una miserabile carriera di bandito. Maria, una mugnaia che insieme al marito e a una figlia illegittima di questo viveva del lavoro dei campi, faceva andare avanti un mulino di proprietà di un signorotto di paese. Era una donna tanto opulenta e rozza quanto furba e malvagia, dedita a intrattenere rapporti illeciti con molti banditi della zona. Un membro della banda conosceva i due avendo, negli anni, concluso con essi diversi affari importanti. Quando questi aveva proposto a Salvatore di andare a fare la loro conoscenza, che certamente non avrebbe male impiegato il suo tempo, il giovane bandito, leggendo tutta la malizia negli occhi del compare, non se l'era fatto ripetere due volte e, baldanzoso, lo aveva seguito.

Maria, dal corpo procace e dall'atteggiamento impudico, aveva subito fatto breccia negli istinti animaleschi di Salvatore. Questi, senza tanti complimenti, aveva preso in disparte la donna spingendola contro un mucchio di sacchi di grano lasciati nell'aia dai contadini. Dopo averle palpato il grosso seno che saltava fuori dall'ampia scollatura del lurido camicione, l'aveva fatta voltare, costringendola a piegarsi in avanti. Preso l'orlo della lunga e lacera gonna glielo aveva buttato sulla testa, trovandosi davanti agli occhi un posteriore di dimensioni enormi e bianco come il latte. Maria, dimenando i fianchi robusti, si mostrava collaborativa e consenziente, ma a Salvatore così non andava bene: egli era abituato a prendere con la forza ciò che desiderava. L'atteggiamento lascivo della donna lo irritava perciò, mentre la penetrava selvaggiamente, aveva preso a percuoterla e quella, messa da parte ogni gentilezza, aveva iniziato a esprimere tutto il suo disappunto: urlando bestemmie e terribili maledizioni.

Sentendo le urla della donna costretta a subire violenza, il mugnaio si era alzato di scatto e, impugnando il coltello che da seduto teneva appoggiato sulle gambe, si era precipitato fuori dal mulino. Il bandito che era con lui, colto di sorpresa, non era riuscito a fermarlo e, proprio nell'istante in cui il seme di Salvatore riempiva il sesso seviziato della poveretta, alle urla di questa si era sovrapposto un altrettanto accorato urlo di dolore; ma anche di piacere, dato che entrambe le sensazioni avevano raggiunto il cervello di Salvatore praticamente nello stesso istante.  - Ahhhhh, maledetto! - Imprecando, Salvatore con una mano cercava di tenere su i pantaloni, mentre l'altro braccio, reso inerme dalla ferita alla spalla, sanguinava copiosamente. Maria che, riacquistato il dominio di sé, desiderava lasciare a quel demonio un ricordo del tutto personale, prima di permettere a Salvatore di dileguarsi, si era accanita su quella ferita. Con tutta la crudeltà di cui era capace, la donna aveva affondato le unghie nella carne viva, messa a nudo dal taglio profondo provocato dall'arma, decisa a non mollare la presa; sino a che una sberla dal formidabile impatto non l'aveva colpita, facendola atterrare due metri più in là. Salvatore stava perdendo la ragione e la vista gli si annebbiava mentre cercava di afferrare con la mano sinistra la pistola caduta davanti ai suoi piedi; ma non riusciva ad afferrarla. Nicolò, il compare di Salvatore, che gettandosi sul mugnaio, era riuscito a deviare il colpo mortale diretto al collo, l'aveva preso da sotto l'ascella per condurlo verso il cavallo e, una volta sotto, lo aveva aiutato a issarsi sulla sella.

A quel punto Maria aveva raccolto da terra un grosso sasso che, lanciato con forza, centrava la nuca dell'uomo in fuga. A mettere in fuga i due banditi però, non era stato il coraggio della donna che quasi certamente sarebbe stata uccisa, assieme al marito; né tantomeno le urla di quest'ultimo che, rialzatosi dolorante da terra, con il forcone minacciava loro di aprirgli la pancia. In realtà sul posto stavano arrivando i militi a cavallo e, stando al polverone che sollevavano, si trattava di un gruppo consistente.        

Era stata la figlia del mugnaio - passata inosservata per tutto il periodo in cui si consumava quel violento episodio - a chiamare i carabinieri. La ragazzina era riuscita a uscire di soppiatto dal mulino e, correndo tra i campi, aveva raggiunto il villaggio in cui li sapeva dislocati. Eugenio era tra quelli, ma non erano riusciti ad arrivare in tempo, nemmeno quella volta.  

Febbricitante e con il volto di un pallore mortale, Salvatore perdeva piano piano le forze mentre il compare si tirava dietro il suo cavallo, affrontando la ripida e contorta mulattiera che li avrebbe riportati al nascondiglio. Durante il faticoso tragitto per ben due volte il ragazzo era scivolato dalla sella, fino a che l’altro non lo aveva dovuto legare con una fune. Le condizioni di Salvatore, durante il lungo tragitto, si erano fatte via via sempre più gravi e quando, finalmente, i compagni che li attendevano sul posto erano riusciti a sdraiarlo sulla stuoia dentro alla caverna, la sua coscienza lo aveva abbandonato.

Le unghie della donna avevano provocato una brutta infezione e la sporcizia del luogo non ne avrebbe facilitato la guarigione. Salvatore si era dibattuto e aveva urlato di dolore quando Nicolò aveva dovuto cauterizzare la ferita con la punta incandescente della lama del coltello. Poi tutto era diventato nuovamente buio.    

                                                           

                                                               *                             

 

Le operazioni militari avevano dato i loro risultati: per un lungo lasso di tempo le imprese dei briganti avevano subito una frenata significativa. Erano molti i banditi uccisi, ma anche tra i carabinieri le perdite erano state piuttosto ingenti. Raggiunto il proprio villaggio Eugenio, con la morte nel cuore, aveva dovuto sostenere, con parole colme di dolcezza, i genitori di un carabiniere partito con lui anni prima e che ora giaceva cadavere. Terminati i tristi doveri, in possesso di un permesso di sette giorni, si era poi chiuso nella propria abitazione, deciso a tener fede alla promessa fatta al maresciallo e quindi a dedicare quella settimana al riposo. Ma da almeno un mese Eugenio non aveva notizie di Attilio perciò, dopo un solo giorno di sonno, prendeva la decisione di mettersi sulle sue tracce. Sapeva che per un certo periodo suo cugino era stato ospite di don Pino, il prete del suo villaggio, e di questo ringraziava tutti i santi conosciuti, che almeno lo avevano tenuto lontano dai guai. Da lì era iniziata la sua ricerca.

Padre Pino gli era andato incontro appena lo aveva visto entrare in chiesa, domandandogli se desiderasse confessarsi. - Sono Eugenio Dasso, il cugino di Attilio – aveva invece risposto. - Non ho più sue notizie, ma so che non molto tempo fa è stato qui, da lei. Può dirmi dove lo posso trovare? -.

Don Pino aveva invitato Eugenio a seguirlo in canonica. Una volta fatto accomodare gli aveva offerto un liquore leggero che l'uomo gentilmente aveva rifiutato e che lui invece aveva versato, con generosa dose, nel proprio bicchierino. - Attilio è stato qui, è vero ma, ahimè, non so dove sia adesso. - Un sorso di liquore dolce aveva allargato ulteriormente il sorriso sul volto del parroco e Eugenio, mentre osservava l'altro nell'atto di leccarsi le labbra con evidente soddisfazione, si domandava se la conversazione doveva ritenersi conclusa. Dopo qualche secondo, scoraggiato, stava per alzarsi dalla scomoda sedia in legno, dalla seduta sfondata, quando una stretta al braccio lo aveva bloccato. - Conosci Gavino Biosa? - Eugenio aveva risposto che sì, lo conosceva e per la sorpresa i ricordi gli erano arrivati alla mente tutti insieme, provocandogli un fremito di eccitazione.

 

                                                              *

 

Gavino Biosa era uno di quelli che non vedeva di buon occhio le divise militari e scherniva i carabinieri con i quali aveva a che fare. Anche lui, come tutti gli altri pastori e agricoltori della sua terra, aveva subito la prepotenza di leggi promulgate da un Governo che non conosceva affatto quel territorio, che disprezzava leggi non scritte e che calpestava i diritti dei poveri, imponendo con la forza scelte politiche, spesso sbagliate. Egli non sopportava i soprusi dei potenti e lottava per difendere anche i diritti di coloro che stavano inermi a guardare, soggiogati dalla forza di un macigno che calava dall'alto. Disprezzava chi si vendeva o tradiva i compagni per riscuotere un premio, oppure per guadagnarsi l'immunità. Aveva sempre disprezzato il comportamento di Salvatore, quando per un certo periodo ne aveva frequentato la banda. Ancora di più lo disprezzava dopo quello che aveva fatto a Sebastiano e intendeva mantenere la promessa fatta a se stesso nel momento in cui, lasciando ad Attilio le redini del suo cavallo, aveva giurato che non lo avrebbe lasciato da solo.

Gavino era sempre pronto ad aiutare un suo vicino o compaesano, senza chiedere niente in cambio, perché era nella sua natura farlo. Ad Attilio aveva fatto una promessa silenziosa e per tutto quel lungo periodo non aveva mai mancato di occuparsi del ragazzo. Aveva anticipato i suoi spostamenti, guidandolo da un ovile all'altro, e i pastori erano lieti e orgogliosi di fare qualcosa per lui. Gavino Biosa era considerato un balente, nel senso nobile del termine, e in lui albergavano vigore, ardimento, temerarietà e baldanza. Ospitarlo nel proprio ovile era un privilegio e a nessuno veniva in mente di tradirlo.  

Eugenio conosceva Gavino da quando erano ragazzini e già prima della sua partenza per il continente egli aveva potuto ammirare le gesta virili di quell’uomo che cavalcava come un demonio a pelo di cavallo.

Da carabiniere di recente aveva avuto modo di osservare Gavino durante i festeggiamenti in onore di San Nicola. Avendo ricevuto l'ordine dal brigadiere di prestare servizio di vigilanza, con altri tre colleghi pattugliava la zona campestre tutt'intorno alla chiesa. Eugenio sapeva bene che risse e accoltellamenti erano frequenti in quel tipo di assembramenti: in passato molte di quelle feste erano state bagnate dal sangue di intere famiglie. Durante le sue ricognizioni Eugenio aveva osservato con attenzione l'arrivo e il movimento continuo dei pellegrini – abituati alla presenza pacifica degli uomini in uniforme – nonché dei capannelli formati da gruppi di giovani i quali, accesi dal vino e dalla presenza femminile, diventavano più arroganti del solito. La festa avrebbe avuto la durata di tre giorni e nei primi due il suo intervento era stato richiesto per sedare litigi nati per futili motivi e mai aveva dovuto usare la forza. Di quello era soddisfatto: molte di quelle persone erano suoi conoscenti e desiderava che le famiglie arrivate sin lì con il carretto o a dorso di mulo, persino a piedi, si godessero la festa. 

La giornata che Eugenio aveva atteso, per suo piacere personale, era quella dedicata al torneo di corsa all'anello. La sua attenzione a ciò che lo circondava non era diminuita, ma dentro di sé l'eccitazione lo rendeva impaziente.

I partecipanti al torneo a inizio di giornata, dopo la Santa Messa e la benedizione, si muovevano tra la folla, a piedi, ricevendo numerose pacche sulla schiena e frasi d'incoraggiamento provenienti dai propri sostenitori. Nel tardo pomeriggio invece si era svolto tra due ali di folla il passaggio a cavallo e, pensava Eugenio, si potevano quasi toccare con mano la forza e la determinazione di chi concentrava tutta l'attenzione verso quel cerchio quasi invisibile, per arrivare a centrare con lo stocco più anelli – stelle -  possibili. In palio c'era la fortuna per la fertilità della terra e per il raccolto: buona o cattiva dipendeva dai cavalieri che puntavano alla stella.

I purosangue, bardati a festa con nastri e campanellini, percepivano la tensione dei cavalieri e si muovevano irrequieti. I potenti muscoli fremevano e i nitriti segnalavano l'impazienza dell'attesa. Sopra di loro gli uomini cercavano di calmarli. Sedendo impettiti e colmi di ardimento esercitavano continui movimenti del corpo che la bestia percepiva e ai quali si assoggettava.

Osservando da una certa distanza i movimenti di Gavino, Eugenio non poteva non apprezzarne la fierezza. Vestito con gli abiti tradizionali l'uomo si muoveva tra il gruppo dei suoi con fare deciso. Ogni tanto, mentre si accendeva una sigaretta, il sopracciglio destro si sollevava e lo sguardo catturava ogni particolare intorno a lui. I suoi occhi azzurri brillavano attenti come quelli della volpe e gli sarebbe bastato un secondo per reagire a un attacco a sorpresa. Era alto e imponente, con gli arti grossi e muscolosi; la sua testa, dalla forma tondeggiante, poggiava su un collo dal quale risaltava la tensione nervosa. I capelli, scuri e tagliati molto corti, ai lati presentavano una precoce stempiatura. La barba , altrettanto scura, era ben curata e faceva da cornice alle due labbra carnose e dal bel taglio. Il sorriso era aperto e metteva in mostra i denti. Eugenio lo aveva sorpreso diverse volte mentre guardava nella sua direzione e quel sorriso poteva avere diversi significati: sfida, audacia, controllo, padronanza di sé. Eugenio reggeva quello sguardo con la stessa intensità e poi si voltava per proseguire la sua ronda.

In quell'occasione Gavino con velocità, precisione e braccio fermo e teso, dritto davanti a sé, con il suo stocco aveva raccolto un buon numero di stelle.

Con la sua solita aria spregiudicata, la prima stella d'argento l'aveva dedicata ad Eugenio. L'uomo, con fare sfrontato, si era messo in piedi sulla sella e, sostenuto dai fischi della folla, aveva dapprima baciato il premio guardando Eugenio dritto negli occhi, e poi aveva mimato un inchino. Eugenio aveva mantenuto l'espressione del viso intatta, mentre il cuore faceva le capriole e, di rimando, aveva sfiorato la visiera rigida del cappello.

A mano a mano che la folla si disperdeva Eugenio si ricongiungeva al resto del drappello e quando ormai la sera oscurava il piazzale della Chiesa e tutto il campo intorno, i musicisti, alla luce dei falò sparsi un po' ovunque, iniziavano ad accordare i propri strumenti. I gruppi di danzatori si riunivano allegri e la festa si preparava alla lunga notte.

Gavino nel frattempo aveva raggiunto la scuderia di un fienile nei dintorni e dopo aver affidato il cavallo al compare, si era riunito al gruppo degli uomini coi quali aveva condiviso un pasto frugale. Uno di loro, quello che teneva lo sguardo basso, intimidito dalla presenza di Gavino, giocherellava con un bastone a smuovere i ciocchi di legno, messi ad ardere nel camino, provocando così una miriade di scintille. Il suo sguardo era rapito dalle lingue di fuoco che, danzandogli davanti, creavano giochi d'ombre sul viso giovane e attraente. Gavino, accucciato in terra, in una posizione che lo lasciava nella penombra, lo osservava, fumando dalla sua pipa in radica e rimuginando fra sé. Quando a una certa ora gli uomini, stanchi e assonnati, si erano finalmente decisi a ritirarsi Gavino, che doveva recarsi da uno zio in un villaggio situato a poca distanza, si era rivolto al ragazzo e, con assoluta noncuranza, gli aveva chiesto di accompagnarlo.                         

Il resto del gruppo non era rimasto sorpreso dalla proposta di Gavino. Solo Giomaria, il suo più fedele amico, si era risentito, ma non aveva osato dire nulla. Infine il gruppo si era diviso e Gavino, affiancato dal giovane, poteva guidare lento il suo cavallo, liberato da tutte le bardature, godendosi l'aria fresca e pulita della notte.

Inizialmente nessuno dei due aveva dato segno di voler parlare; dopo pochi chilometri, in prossimità di un rudere, vecchio di secoli e aggredito dalla vegetazione, Gavino aveva imposto una fermata per liberare la vescica. Francesco non se l'era fatto ripetere due volte e smontato di sella aveva preceduto Gavino dietro un grosso masso. Mentre rilassava i muscoli, gustando la sensazione rilassante di quel gesto, il ragazzo non si era accorto della presenza di Gavino, a un passo da lui. Una luna generosa quella notte era riuscita a bucare le nuvole e quando Francesco si era voltato per riprendere il sentiero, il corpo di Gavino gli era apparso tutto avvolto da un chiarore luminoso. In un primo momento un fremito di paura lo aveva percorso, provocandogli un brivido; sentendo poi la mano di Gavino sul proprio viso aveva reagito d'istinto facendo un passo indietro. Ma Gavino aveva insistito e le dita, dopo aver indugiato sui capelli, si erano spostate sulle labbra, sfiorandole dolcemente e disegnandone i contorni. Avvicinandosi sino a premere il proprio corpo contro quello del ragazzo, lentamente aveva poggiato le proprie labbra sulle labbra di Francesco che di nuovo si allontanava. Allora la mano di Gavino si era fatta più audace e attraverso la stoffa del pantalone gli aveva afferrato il membro, provocando nell'altro un nuovo sussulto e un ulteriore passo indietro. Gavino non aveva intenzione di prenderlo con la forza e dopo aver cercato negli occhi del ragazzo un segno di disprezzo o paura nei suoi confronti si preparava a lasciarlo perdere, pronto a girare sui tacchi e a riprendere il cammino.

Francesco aveva pensato spesso alla virilità che il corpo di Gavino sprigionava, ma quell'intimità lo rendeva nervoso e ne provava vergogna. Gavino gli piaceva, trovarsi in quella situazione però era imbarazzante; non sapeva bene che cosa dovesse fare e sarebbe scappato se solo l'altro non si fosse soffermato a fissarlo così intensamente. Gavino, visti gli indugi del giovane, aveva ripreso ad accarezzarlo e, spinto da una certa urgenza, mentre gli infilava la lingua in bocca iniziava a trafficare con la cintura del pantalone. Francesco pur senza riuscire a rilassarsi completamente aveva risposto come meglio poteva al bacio ruvido di Gavino e infine, cancellando ogni pensiero, si era lasciato spogliare. Quando il corpo caldo e fremente di Gavino aveva coperto il suo Francesco aveva sospirato di meraviglia; il piacere era sopraggiunto subito dopo: violento e prorompente.

Durante la mezz'ora successiva le stelle erano le uniche a cui era stato concesso di osservare quello spettacolo. Non proprio le sole però: un'ombra aveva seguito i due cavalieri. Dopo di che, vedendo ciò che accadeva, l'ombra aveva abbandonato quel luogo, ritornando sui propri passi.

Eugenio quella notte si sentiva come un vulcano prima di un'eruzione e, sebbene tentasse di calmare l'ansia, non c'era modo di evitare ai pensieri di andare sempre nella stessa direzione. Perciò, terminato il turno di lavoro e con ancora negli occhi lo sguardo di Gavino, senza nemmeno rifletterci sopra, aveva deciso di seguirlo. Aveva atteso che Gavino si allontanasse dall'abitazione e, incuriosito, aveva seguito i due cavalieri. Mai si sarebbe sognato di diventare testimone di una simile imprudenza e chiunque altro avrebbe condannato e giustiziato sul posto i due uomini. Quel pensiero lo aveva scosso profondamente e, con l'animo in pena, con il sangue che pulsava frenetico a causa dei battiti accelerati, dopo aver recuperato il proprio cavallo, se n'era tornato in caserma. La luna stava per lasciare il posto a un nuovo sole e lui dopo poche ore avrebbe ripreso il servizio di guardia. Quelle poche ore non sarebbero bastate ad allontanare l'immagine dei due corpi maschili stretti in un abbraccio erotico: una sofferenza atroce per chi, come lui, strozzava con le lacrime i propri sentimenti. 

 

- Allora, lo conosci Gavino Biosa? -. Padre Pino aveva continuato a sorseggiare il suo liquore e Eugenio, perso nei suoi pensieri, non si occupava più di lui. - Sì, lo conosco Gavino Biosa. Perché me lo chiedi? -. Il prete si era avvicinato così tanto a Eugenio che l'odore dell'alcool gli aveva pizzicato il naso. - Perché lui lo sa, dov'è Attilio -.

                  

                                                                          *

                                                                         

 

La capanna era stata realizzata con pietre e rami d'albero resistenti e rappresentava un rifugio per quei pastori che praticavano la transumanza, quando le greggi di pecore venivano condotte verso la pianura. All'interno di quella capanna Attilio si era recato dopo l'ultimo colloquio avuto con padre Pino: egli aveva molte cose su cui soffermarsi a riflettere perché il cammino interiore, intrapreso dopo aver ascoltato le parole di Eugenio, portava i suoi pensieri ogni giorno più lontano.

Di Salvatore Attilio aveva appreso la notizia di un grave ferimento. Non mortale, ma la ferita poteva essersi infettata e Salvatore poteva anche essere già morto. Non si sentiva meglio a quel pensiero. Svuotato, quello sì. I fatti sanguinosi che vedevano suo fratello protagonista lo avevano scosso ogni giorno di più e Attilio sentiva che le forze fisiche lo stavano abbandonando. L'autunno era alle porte e in quello stato di prostrazione egli temeva per la propria salute. Egli era un poeta, sapeva cantare le bellezze della natura e amava la vita; aver avuto a che fare con l'orrore della morte violenta così da vicino aveva fatto sì che all'interno del suo essere i sentimenti stessi subissero una forte lacerazione.

Attilio nella sua giovane esperienza di vita aveva imparato che il sangue versato dai propri cari doveva richiamare sempre la vendetta, quindi altro sangue, e mai e poi mai avrebbe preso in considerazione l'idea di rimangiarsi il giuramento fatto davanti alle spoglie di Sebastiano. Ma se davvero avesse raggiunto quell'intento come sarebbe stata in seguito la sua vita? Uccidere suo fratello lo avrebbe reso una bestia e la sua vita sarebbe terminata in quello stesso istante. Per Attilio quei pensieri erano diventati un tormento insopportabile e a volte aveva la sensazione che la testa gli stesse per scoppiare.

Don Pino nella sua infinita pazienza era stato testimone della battaglia interiore di Attilio che provocava malessere e febbre, ma non aveva cercato di accelerarne la guarigione: l'afflizione doveva fare il suo percorso e, se dio lo avesse voluto, quel ragazzo avrebbe salvato la sua anima.

Guardando innanzi a sé ad Attilio pareva che la vista del mare gli provocasse un languore infinito talmente profondo da condurlo alle lacrime. Il miraggio di una possibile esistenza felice lo commuoveva e dopo mesi d'inferno quell'orizzonte lontano iniziava a rappresentare una promessa di pace interiore. Il pensiero di poter solcare quelle acque - in quel momento rese impraticabili e spaventose da un forte vento proveniente da ovest - si insinuava prepotente nella sua mente, facendovi annegare tutte le sue disgrazie.       

Poco lontano da Attilio, con le mani sprofondate nelle tasche dei pantaloni e tra i denti un rametto secco, Gavino percorreva ampi giri tutt'intorno alla capanna. Di tanto in tanto scrutava anch'egli il mare in tempesta che si estendeva davanti ai suoi occhi, oltre la costa rocciosa. Il viso serio, il sopracciglio destro sollevato, com'era sua abitudine quando si trattava di scrutare nell'animo degli uomini, puntava Attilio in attesa di sentirlo parlare. Per buona parte della mattinata ne aveva rispettato il silenzio, ma a quel punto Gavino era stanco di aspettare.

Aveva raggiunto la capanna all'alba e urlando il suo nome aveva atteso che Attilio lo riconoscesse, prima di avvicinarsi cautamente. Il ragazzo era pronto alla difesa e Gavino ne aveva ammirato il coraggio. Seduti su un masso avevano ultimato il cibo che Attilio aveva portato con sé, dopo la visita al villaggio. Dopodiché, alla domanda curiosa di Attilio riguardo il motivo di quella visita, Gavino aveva risposto che lo aveva raggiunto per portargli notizie di Salvatore. Suo fratello era ancora vivo, gli aveva riferito Gavino, mentre Attilio ascoltava con attenzione. Non aveva perso la sua tracotanza ed era spesso ubriaco. L'alcool che doveva anestetizzarlo dal dolore gli aveva avvelenato il sangue e non poteva più farne a meno. L'ubriachezza lo aveva reso ancora più crudele, spesso contro i suoi stessi compari e quelli, uno dopo l'altro, lo avevano abbandonato.

Non sarebbe passato molto tempo, pensava tra sé Gavino, e uno qualunque di quegli uomini avrebbe potuto tradire Salvatore, magari facendo la spiata proprio a lui. 

Salvatore meritava di essere punito per l'efferatezza dei suoi assassinii e Gavino intendeva farlo, con le sue mani. Lo avrebbe fatto per vendicare la morte del suo piccolo amico, Sebastiano, e per Attilio, perché non voleva che quel ragazzo si sporcasse le mani di sangue.

Attilio ricambiava lo sguardo fiero di Gavino e ascoltava al massimo della concentrazione ma, presa finalmente la sua decisione, la sicurezza acquisita dopo tanto rimuginare non lo rendeva meno determinato dell'altro. La sua voce era ferma, nonostante l'emozione, e a Gavino che gli stava di fronte pareva che le spalle del ragazzo, così provato fisicamente, d'improvviso si ergessero ben oltre la loro ben poca naturale ampiezza.  - Desidero con tutto me stesso che Salvatore paghi per le sue colpe.- Il tono della voce era salito e Gavino si preparava a sentire il resto. - Ma non voglio più sentir parlare di vendetta. Spetta alle forze dell’ordine condurlo davanti alla giustizia e dentro l'aula di un tribunale potrà ricevere la giusta condanna per i suoi crimini. Io ti devo molto, Gavino, forse anche la vita, se è vero che non mi hai mai dimenticato in questi mesi; ora però ti chiedo di interrompere la caccia, così com'è nelle mie intenzioni, perché non intendo provocare lo spargimento di altro sangue “ -.

Gavino, al cospetto di tanta determinazione, non se l'era sentita di obiettare. Voltando le spalle e sprofondando con gli stivali nella terra sabbiosa, si era allontanato. Attilio, rilassando i muscoli tenuti in tensione così tanto a lungo, non aveva potuto fare altro che sospirare mentre lo seguiva con lo sguardo. Era tempo di riprendere la strada e ritornare al villaggio. In quel momento il bisogno di rivedere Eugenio e parlare con lui gli sembrava un'urgenza che se non soddisfatta lo avrebbe reso cieco e muto per il resto della vita.  

                                                    

                                                             *                               

 

Successivamente all'incontro con Attilio, tornandosene pensieroso e di malumore alla sua azienda agricola, Gavino aveva dovuto fare i conti con i malumori e le rivalità che si erano create tra i suoi uomini. Tra due in particolare: Francesco e Giomaria.

Francesco, forte del rapporto che lo legava a Gavino, negli ultimi tempi aveva alzato la cresta, diventando insolente con gli altri membri del gruppo, soprattutto nei confronti di Giomaria, verso il quale nutriva una forte gelosia. Quell'atteggiamento non garbava all'ombroso Giomaria il quale, puntando il suo sguardo acuto e tagliente in direzione del ragazzo, non si lasciava sfuggire il benché minimo movimento.

Gavino, prudente per natura, si era sempre guardato bene dall'inviare segnali che potessero tradirlo: reclamava la compagnia di Francesco solo quando era certo di trovarsi al riparo da occhi indiscreti; ma si rendeva conto che la spudoratezza dovuta alla giovane età del ragazzo aveva alimentato i sospetti del malizioso Giomaria e quello, in confidenza, non aveva mancato di farglielo notare. Con una scusa Gavino aveva provato ad allontanare Francesco, ma era servito solo a fare precipitare le cose: Francesco, indispettito, nei giorni successivi non aveva perso occasione per mettersi in mostra, ridicolizzando lo stesso Gavino, il quale iniziava ad averne abbastanza.

Dopo l'ultimo scontro verbale e qualche spintone di troppo Giomaria era sparito per tre giorni. Francesco non aveva nemmeno provato a nascondere la sua esultanza.

Gavino, consapevole di quella situazione insanabile, leggeva dentro alla mente del suo antico compagno e riusciva a vederlo mentre in silenzio, chiuso dentro ai suoi pensieri, con una pietra affilava la lama del coltello.

Al quarto giorno il padre di Francesco scopriva il corpo privo di vita di suo figlio, bocconi nell'abbeveratoio del bestiame: aveva un taglio profondo alla gola.

Scrutando l'espressione fredda di Giomaria che ben conosceva, Gavino rifletteva tra sé sulla posizione da adottare, consapevole che da quel momento in avanti non avrebbe potuto riporre molta fiducia nel compare. Gli eventi seguirono il cammino tragico della vendetta e dopo solo un giorno il corpo di Giomaria veniva trovato nella scuderia, con la testa spaccata in più punti: una distrazione, ed era finito sotto gli zoccoli dei cavalli che era andato a strigliare. Nessuno aveva fatto domande. Il resto del gruppo, cinque o sei uomini, compagni di corse e pariglie, già alquanto diffidenti, dopo quegli omicidi che avevano tutta l'aria di veri e propri regolamenti di conti, iniziavano a scambiarsi occhiate sospettose. Gavino, deciso a lasciarsi alle spalle quegli incresciosi episodi, e con il vivo desiderio di allontanarsi dallo sguardo truce dei suoi uomini, si preparava a raggiungere Attilio al villaggio e magari fare prima due chiacchiere con Eugenio, il bel carabiniere che dalla festa in onore di San Nicola non riusciva proprio a togliersi dalla testa, malgrado quegli ultimi tragici episodi di sangue.

 

                                                                *                               

  

Riuscire a tenere desto l'interesse verso una materia che la ragazza odiava con tutta se stessa, quella mattina stava diventando un'impresa impossibile. Annina non faceva che distrarsi e alla fine l'insegnante aveva perso la pazienza. - E' chiaro che la signorina non ha nessuna voglia di imparare oggi! -. Dopodiché l'uomo aveva chiuso il libro e con aria risentita si era diretto verso la porta aperta.

Donna Maddalena, che per tutta la mattinata non aveva mai smesso di passare e ripassare davanti alla porta dello studio, non aveva potuto trattenere un sorriso, mentre la serva, seduta alle spalle di Annina, poggiando esausta il lavoro di rammendo che aveva in mano, sbuffava di sollievo.

Annina osservava sua madre e si morsicava un labbro. L'insegnante di sicuro era andato a lamentarsi con suo padre e presto sarebbe arrivata la sfuriata. Ma don Vincenzo Ibba, sindaco del villaggio, per fortuna aveva già preso la carrozza per recarsi a una delle sue importanti riunioni cittadine e non sarebbe rientrato che il giorno successivo. Il viso di Annina aveva riacquistato colore ed era corsa ad abbracciare sua madre la quale, con il suo buon cuore, le aveva già perdonato la svogliatezza di quelle ultime ore. - Su, su, sta' buona, bambina mia -. Sussurrava con dolcezza donna Maddalena, mentre sistemava il fazzoletto sulla testa di sua figlia. Poi, rivolgendosi alla serva, affinché non perdesse d'occhio quella ragazzina indisciplinata, aveva dato il suo benestare per una breve uscita, nella piazza antistante. Una volta fuori dal portone dell'abitazione che si distingueva dalle altre casupole del villaggio per forma e grandezza, Annina, prendendo sottobraccio Bastiana, aveva affrettato il passo, dirigendosi sicura verso quell'attrazione che, attraverso la finestra dello studio, per tutta la mattinata l'aveva distratta e incuriosita.    

Avvicinandosi timidamente al carretto pieno di cianfrusaglie Annina era piena di aspettative e non riusciva a decidersi su cosa soffermare lo sguardo. Tutti quegli oggetti esposti arrivavano da molto lontano e le parlavano di storie esotiche e affascinanti; sino a che l'attenzione non era stata catturata da un volumetto dalla copertina in pelle, che il venditore aveva di proposito tirato fuori da un sacco, non appena aveva visto arrivare la ricca fanciulla accompagnata dalla serva. Gli occhi di Annina si erano illuminati. La serva, anticipando la presa di Annina, aveva soppesato il libro tra le sue mani, girandolo e sfogliandone le pagine con supponenza, davanti agli occhi carichi di derisione dell’ambulante, infine glielo aveva consegnato. Bastiana aveva dato così il suo consenso, convinta di aver fatto bene il proprio dovere, pur senza averne letto nemmeno una parola. Annina sorridendo tra sé aveva sistemato quel bene prezioso sul fondo di un borsone di panno; sopra il libro aveva poggiato un bel portacipria d'argento, da regalare a sua madre, e una bottiglietta di profumo che, sistemata accanto alle altre sul canterano della sua stanza, ne avrebbe arricchito la collezione. Soddisfatta aveva tirato per un braccio la serva per poi proseguire la passeggiata. Bastiana, che giudicava quegli oggetti perfettamente inutili, aveva seguito la ragazza, non senza aver prima battibeccato con l'ambulante al quale aveva infine pagato un prezzo ritenuto ragionevole per entrambi.

Quel giorno di mercato la piazza riuniva diversi ambulanti: girovaghi che viaggiando in lungo e largo sbarcavano periodicamente su quella terra isolana. Annina si era diretta verso chi, intuendo i suoi gusti, era riuscito ad ammaliarla. Lei adorava le storie di cappa e spada e con quanto fervore si appassionava alla lettura! Donna Maddalena era solita rimproverarla la sera quando, temendo per la vista della ragazza, la esortava a chiudere il volume, tenuto troppo vicino agli occhi, nella scarsa luce delle lampade di ottone a olio. Annina, costretta ad obbedire, dopo il bacio della buona notte, si ritirava nella propria stanza e lì le pagine che aveva appena letto prendevano vita nella sua testa, portandola a fantasticare su avvincenti avventure.   

Il mercato, in quei villaggi sperduti fra le montagne, dove la vita della popolazione seguiva i ritmi lenti e cadenzati dalle abitudini e dalle usanze, portava con sé i colori e gli odori della festa e ad Annina, che non si allontanava mai dalle gonne di Bastiana, tutto quel fluire di gente metteva addosso tanta allegria e aspettative di ogni genere.

Non accadeva lo stesso ad Attilio che quell'esiguo spiazzo, ingombro di persone e cose, innervosiva, distraendolo dalle proprie riflessioni.

Attilio aveva lasciato la capanna dieci giorni prima, il viaggio di ritorno era stato faticoso, a causa del terreno reso franoso dalle continue piogge, che lo avevano obbligato, tra l'altro, a ripetute soste. I suoi sensi erano sempre all'erta: saltare un muretto di confine rappresentava sempre un rischio, soprattutto in pianura, dove non lo conosceva nessuno; ma a mano a mano che si era introdotto nel proprio territorio aveva iniziato a riconoscerne gli ovili e i pastori amici erano stati ben felici di ospitarlo. Nonostante questo però non aveva perso l'abitudine alla diffidenza e non si staccava mai dalle sue armi. 

Una volta, insospettito dal comportamento di due rozzi contadini - due fratelli che lo avevano ospitato nel loro cascinale tra maiali e galline e che fin dal primo istante avevano incollato gli occhi colmi di curiosità sulla sua bisaccia -, appena aveva potuto se l'era svignata, portandosi dietro un pezzo di lardo e due pere.

Era comprensibile quindi che, dopo la solitudine del suo continuo errare, il baccano che facevano i venditori gli rimbombasse nella testa, infastidendolo. In quel momento si era aggiunto anche il frastuono dei dodici rintocchi della campana; ma quello era il segno della presenza rinfrancante di don Pino. Con passo deciso Attilio si stava perciò avviando verso i pochi gradini della chiesa quando due donne, a passo svelto e visibilmente distratte, gli tagliavano la strada. Fermandosi di botto il ragazzo aveva evitato uno scontro, ma nonostante tutto una delle due era finita dritta dritta nelle sue braccia. Attilio, sostenendo quel corpo femminile, cercava di salvarla da una brutta caduta, ma due mani pesanti si insinuavano prepotenti spingendo e martellandogli la spalla con energiche manate. - Santa madonna! Come osi toccare la mia bambina con quelle luride zampe? - .

Bastiana difendeva con le unghie la giovane donna per la quale quel contatto, seppur accidentale, rappresentava il massimo della sconvenienza. Attilio arrossiva davanti al viso angelico di Annina e lasciandole la mano che casualmente era finita nella propria, abbassava lo sguardo, consapevole dell'inferiorità del suo stato, per poi voltarsi e affrontare i tre gradini di pietra con un unico, lungo salto.

Annina non aveva staccato gli occhi dal giovane nemmeno per un attimo. Aveva tardato a riconoscere in lui l'Attilio dei mesi addietro, per via di quegli abiti sformati che indossava, per il corpo ancora più magro di come lo ricordava e per la tristezza infinita che si poteva leggere nei suoi begli occhi nocciola.

Anche lei, di fianco ai genitori e agli uomini e donne del villaggio, aveva partecipato al funerale di Sebastiano: con il rosario stretto tra le dita aveva pregato tanto per quel povero bambino. In seguito il suo pensiero si era spesso soffermato sui due fratelli, ancora così giovani e già turbati nell'animo. Uno oppresso dalla propria crudeltà, l'altro animato dalla vendetta. Il destino li avrebbe riuniti un giorno e Annina non poteva far altro che pregare San Giovanni Battista, il santo protettore dei pastori.

Non appena Bastiana terminava di raccogliere le provviste lasciate cadere dal paniere al momento dell'impatto con Attilio, si erano interrotte anche le male parole dirette ai vagabondi sporchi e arroganti. Annina che aveva sentito tutto, nonostante i suoi pensieri, aveva ripreso il braccio di Bastiana e, avviandosi verso casa, non aveva mancato di far notare alla sua fedele servitrice tutta la responsabilità che le riguardava. Ma Bastiana era stanca, non ascoltava più.

D'improvviso un'ombra era passata sulla piazza: il cielo si era improvvisamente fatto grigio. Anche l'umore di Annina aveva perso colore. Una folata di vento umido e freddo le aveva fatto tremare le spalle delicate, che Bastiana aveva subito provveduto a coprire con il suo ampio scialle. Dopo di che la serva era passata a farsi il segno della croce: nell'aria fluttuavano brutti presagi.                  

 

                                                                          *                                                                                                       

 

La pioggia invernale sbatteva contro il vetro dell'unica finestra attraversata, solo qualche ora prima, dalla luce del sole che aveva illuminato la stanza. Dietro quel vetro appannato, sia Eugenio che Gavino osservavano rapiti il fuggi fuggi generale che si era creato nella piccola piazza. Il vento, più della pioggia, rendeva difficile lo sforzo dei venditori ambulanti, i quali cercavano di opporsi a quel vortice che pareva voler inghiottire tutta la loro merce.

Passati venti minuti lo spiazzo allagato dalla pioggia torrenziale, ai lati del quale mulinavano rifiuti di ogni genere, si presentava deserto.

A quel punto i due giovani, riprendendosi dal torpore che la scena esterna gli infondeva, si erano voltati verso il prete, seduto davanti a un rozzo tavolaccio di legno. Don Pino aveva già riempito i bicchierini dei suoi due ospiti, il proprio lo teneva stretto tra indice e pollice accostato alle labbra, e alcune sorsate di liquore avevano già intiepidito il freddo delle sue ossa.

Quando aveva mandato a chiamare Gavino don Pino non si aspettava di vederlo arrivare in compagnia di Eugenio. I due si erano incontrati qualche giorno prima e avevano parlato a lungo, forse per la prima volta in tutta la loro vita, e la diffidenza iniziale aveva ben presto lasciato il posto alla ragionevolezza: era chiaro che entrambi avevano a cuore il futuro di Attilio.

Gavino, irruente, una volta lasciato il ragazzo alla capanna, era stato preso da un impeto di furia. Niente e nessuno lo poteva trattenere dallo stanare Salvatore dalla sua tana. Quel folle aveva ucciso con crudeltà e vigliaccheria: doveva morire.

E mentre il suo cavallo si riposava sulla spianata di terra erbosa, indifferente alle congetture degli umani, Gavino, seduto con le spalle poggiate su un muretto di confine, valutava il da farsi. Fino a che le parole di Attilio non avevano raggiunto la sua coscienza, con tutta la forza e la determinazione con le quali erano state espresse, e a quel punto Gavino Biosa, rilassando i muscoli e inclinando la testa all'indietro fino a poggiare la nuca sui massi, aveva chiuso gli occhi, arrendendosi alla realtà delle cose.

Eugenio aveva sorriso mentre ascoltava Gavino interloquire più che altro con se stesso: le deduzioni a cui era arrivato gli facevano onore. Tra i due uomini si era presto instaurata una fiducia e una stima reciproca e prima che Attilio facesse rientro al villaggio Gavino e Eugenio avevano avuto modo di scambiarsi informazioni utili. Gavino aveva i suoi contatti, ma anche Eugenio sapeva come muoversi in quel vasto territorio, tra collaboratori e spie. Se tutto fosse andato come speravano, presto Salvatore sarebbe stato catturato e arrestato. Prima di storcere il naso Gavino aveva avuto l'accortezza di voltarsi dall'altra parte. Eugenio, che non era uno stupido, aveva sorriso tra sé per la sua impazienza.

Arrivata la chiamata, da don Pino che non stava nella pelle per l'arrivo del giovane pastore, finalmente Gavino e Eugenio avevano potuto raggiungere la canonica. Attilio attendeva trepidante l'arrivo di suo cugino e aveva accolto Eugenio con un caloroso abbraccio ricambiato dall'altro, al quale però non era sfuggito il viso tirato e nemmeno le profonde borse sotto agli occhi. Quel ragazzo aveva solo diciotto anni, pensava Eugenio, cos'altro ancora gli serbava il destino? 

Gavino era rimasto leggermente indietro e Attilio aveva dovuto cercare i suoi occhi nella penombra. Il cielo plumbeo aveva anticipato le tenebre e la stanza era rischiarata dalla luce fioca delle candele. L'espressione severa di Gavino inizialmente aveva intristito Attilio, ma appena gli animi si erano riscaldati un sorriso era apparso anche sulle sue labbra.

Eugenio riconosceva in Gavino un fascino virile che in quei giorni di vicinanza gli infiammava la bocca dello stomaco. In quell'istante, per vincere il turbamento, aveva dovuto voltare lo sguardo, dedicando la propria attenzione alle gocce d'acqua che striavano il vetro della stretta finestra.        

Ma a quel punto la stanchezza di Attilio aveva raggiunto il limite oltre cui veniva meno la volontà per contrastarla. Le forze lo abbandonavano e Eugenio, colui che gli stava più vicino, vedendolo vacillare lo aveva sorretto per poi farlo sedere sulla sedia. Il ragazzo aveva bisogno di mangiare qualcosa e mettersi a letto. Padre Pino avrebbe voluto chiamare i genitori, ma Attilio si era opposto con decisione. Quel gesto di ribellione era stata l'ultima reazione concessa a un fisico così penosamente debilitato; dopodiché, chiudendo gli occhi, Attilio si era arreso.

Gli uomini nella stanzetta del parroco si erano mossi in un rispettoso silenzio: Gavino prendendolo in braccio si era commosso, tanto ossuto e leggero era quel corpo. Eugenio, dietro di lui, ne osservava gli scarponi consumati e dal fondo bucato. Don Pino, passato davanti a tutti, guidava entrambi verso il proprio letto. A fine serata la fronte di Attilio ardeva di febbre e il corpo sotto le pesanti coltri tremava. Eugenio, che aveva visto spegnersi così i propri familiari, pareva un'anima in pena. Le pezze bagnate nell'aceto che Gavino cambiava a brevi intervalli di tempo sembravano inutili e solo quando il dottore aveva fatto il suo ingresso i tre uomini si erano potuti ritirare.

 

                                                              *

 

Le cure avevano dato risultati apprezzabili e la febbre, la nemica più temibile, dopo tre giorni era finalmente calata. Eugenio e Gavino facevano a turno per stare al capezzale del malato, ma Attilio ne percepiva a malapena la presenza. Una volta gli era sembrato di riconoscere il viso di Annina che gli sorrideva. Nel delirio della febbre aveva visto anche Sebastiano e forse sua madre, del tutto dimenticata in quel precipitare di tristi eventi.

Passati i tre giorni di incoscienza, le giornate solitarie di Attilio si allungavano con l'alternarsi di sogno e veglia. Don Pino giustificava l'assenza di Eugenio e Gavino come meglio poteva, ma a mano a mano che le ore di veglia si allungavano agli occhi di Attilio il disagio del prete diventava sempre più riconoscibile. Un pomeriggio, trascinando i piedi in terra, sorretto dalla spalliera di una sedia, Attilio era riuscito a raggiungere l'unica finestra della stanza, quella che dava sulla piazza. Il cielo era sereno, poche nuvole lo screziavano appena, ma al di qua del cielo, esattamente in quel ristretto quadrato circondato dalle panche di pietra e da qualche albero rinsecchito, ciò che colpiva gli occhi del ragazzo era la totale assenza di persone. Erano assenti gli anziani, i ragazzini; anche i cani randagi, numerosi nel villaggio, se ne stavano acciambellati sulle soglie di pietra, davanti ai portoni.

Le finestre della casa di Annina erano sprangate. Sembrava un villaggio fantasma. Quella considerazione gli dava i brividi e dopo lo sforzo immane che lo aveva tenuto in piedi per pochi minuti, vinto dalla stanchezza, Attilio aveva dovuto raggiungere il letto, per poi perdersi nuovamente nell'insensibilità.

Al risveglio, fidandosi della luce fioca di una candela, aveva subito riconosciuto Gavino che, seduto davanti al tavolo schiacciava delle noci. Al richiamo di Attilio l'uomo si era avvicinato per avere notizie sul suo stato. Attilio lo aveva tranquillizzato sbrigativamente, ma era impaziente di fare la domanda che lo angosciava. - Sento che qualcosa di molto grave ha colpito il villaggio. Non nascondermi nulla Gavino, dimmi cosa succede, te ne prego! -. Gavino, con gli occhi appesantiti dalla fatica e dalle preoccupazioni, avrebbe preferito continuare a nascondergli la verità: era consapevole che emozioni troppo forti sarebbero state devastanti; ma dopo qualche minuto di silenzio e le continue insistenze di Attilio, si era deciso a parlare.

Due giorni addietro Salvatore era stato visto aggirarsi nel villaggio. Doveva essere disperato o totalmente impazzito per arrivare a tanto. Aveva vagato per i vicoli deserti, stretti e bui, per una notte intera, passando davanti agli usci bloccati dall'interno dai grossi ganci di ferro. In un'occasione era stato circondato da tre balordi ubriachi dai quali si era preso botte e insulti. Qualcuno aveva chiamato i carabinieri, ma al loro arrivo Salvatore era sparito nel nulla.

Attilio ascoltava Gavino e intanto pensava agli abitanti del villaggio: qualcuno poteva trovarsi in pericolo. Che cosa faceva Eugenio? Esasperato dall'espressione contrita di Gavino, Attilio sentiva che il cuore gli scoppiava nel petto. Il sangue gli irrorava il volto e mentre ritto in piedi si guardava intorno alla ricerca dei propri abiti, la mano forte e decisa del suo amico lo rimetteva seduto, su quello stesso giaciglio che solo pochi giorni prima lo aveva visto delirante. Il freddo di quella stretta immobilizzava Attilio. Gavino non aveva terminato del tutto il racconto e il gelo che si era concentrato in quella stanza stava ad indicare che il peggio doveva ancora arrivare. E il peggio infatti era arrivato.

 

                                                            *                               

 

 Dopo la malinconia delle giornate piovose trascorse tra studio e ricamo, distratta dal pensiero di Attilio che sapeva malato, quella domenica mattina Annina, aprendo gli scuri della finestra, aveva riacquistato fiduciosa il sorriso. Finalmente il sole aveva ripreso a splendere e donna Maddalena, intenerita dall'espressione e dallo sguardo adorante di sua figlia, non aveva saputo dire di no alla richiesta di una giornata da trascorrere all'aperto. Perciò, percorrendo lo stradone che oltre le case del villaggio portava alla vigna di don Vincenzo, le due donne, seguite da Bastiana e da un nutrito gruppetto di accompagnatrici, sorelle e nipoti di donna Maddalena, nonché da un asinello con la bisaccia carica di provviste, si erano incamminate felici.

Alla prima tappa le aspettava una sorgente di acqua pura e luminosa che scaturiva in una piccola conca di pietre e si spandeva tra l'erba fangosa. Tutto intorno i lecci facevano da corona. Annina per prima aveva raggiunto la sorgente e, inginocchiandosi sulla pietra, aveva raccolto l'acqua nell'incavo della mano per poi portarla alla bocca. Le altre ragazze avevano seguito il suo esempio e le loro risate, a tratti sguaiate, avevano riempito l'aria tutt'intorno. Donna Maddalena, che nel frattempo aveva già raggiunto la casa agricola posta poco più avanti, insieme alle sorelle si riposava seduta su un muricciolo di pietre, osservando le giovinette inseguirsi piene di allegria, con le gonne tirate appena sopra le ginocchia.

Spinta dalla curiosità Annina, staccandosi dalle altre ragazze, si era voluta addentrare nel bosco, attratta dalla presenza di una strana pietra poggiata su altre e detta la tomba del gigante. Sembrava una grande bara, di granito, coperta di muschio. Annina conosceva la leggenda dei giganti che un tempo abitavano la montagna. Uno di essi, a turno, vigilava l'ingresso della foresta: l'ultimo si era disteso per morire sulla pietra che segnava il confine e la pietra si era chiusa su di lui, custodendone il corpo. Quello rappresentava l'ingresso al mondo degli eroi, dei forti, di quelli che non potevano concepire pensieri meschini. Annina toccava il masso come se appartenesse a un luogo sacro dove riposava qualche santo. Poi, con il corpo e la mente inebriati da una sensazione di leggerezza, si voltava per lasciare la solitudine di quel luogo magico; ma d'improvviso sentiva che intorno a lei qualcosa era mutato e quella sensazione le provocava delle ondate di panico. Aumentando il passo - in fondo non aveva da fare che pochi metri e subito poteva riunirsi alla sua famiglia -, anche il battito del cuore aveva iniziato ad accelerare e le orecchie a ronzare. Girando su se stessa e guardandosi attorno con ansia crescente le pareva di non udire più le voci concitate delle ragazze, sostituite da un respiro affannoso, quasi un ansito. Era come se l'intera foresta sospirasse.

Era stata via pochi minuti, ma l'espressione di Bastiana mentre le andava incontro, rimproverandola per quell'allontanamento, era una maschera di inquietudine. Donna Maddalena si era trattenuta dallo schiaffeggiarla per lo spavento che le aveva provocato e ad Annina - mentre si sforzava di riprendersi dal turbamento -, nell'osservare il colorito pallido e gli occhi lucidi di sua madre, rimordeva la coscienza.

Dopo quell'episodio la gioiosità del gruppo femminile si era smorzata e così, dopo aver fatto un pranzo spiccio, nel primo pomeriggio si decidevano a rientrare. Le più pettegole della compagnia bisbigliavano fra loro soffocando i risolini tra le dita chiuse, poggiate sulle labbra. Annina non ci faceva caso, sapeva di aver mancato di rispetto e pensava alle parole che, una volta rientrata a casa, avrebbe usato per scusarsi con sua madre.

La mesta comitiva ripercorreva lo stesso stradone che al mattino le donne avevano seguito così cariche di aspettative e Annina, tormentata dai suoi pensieri, mentre avanzava lenta strascicando i passi, si trovava ad essere l'ultima rispetto ai gruppetti di due o tre ragazze le quali, indifferenti alla sofferenza della parente, continuavano a parlottare e a sogghignare tra loro. Bastiana si girava spesso a osservare Annina e dentro di sé la esortava a camminare più svelta, mal sopportando il non averla vicina. Donna Maddalena per due volte aveva fulminato la serva con lo sguardo, interpretando l'insofferenza di Bastiana come un tentativo di intervento per difendere la ragazza. Arrivate a una delle ultime svolte, mentre le donne si preparavano ad affrontare l'ultimo tratto di salita, Bastiana, non facendo più caso agli scatti di impazienza di donna Maddalena, si girava ancora una volta con l'intento di richiamare a sé la ragazza. Ma Annina non era lì dove la domestica si aspettava di trovarla. Decisa ad attenderla Bastiana prendeva posizione proprio in mezzo allo stradone, scaricando il peso del corpo sulle robuste gambe, ben piantate nel terreno.                 

Quando anche l'ultimo terzetto di ragazze era passato oltre la donna, sempre in attesa di vedere spuntare Annina, sentiva il malessere attaccarle le viscere. Nonostante ciò i piedi avevano preso a muoversi da soli e correndo per la breve discesa spariva anch'essa alla vista delle altre donne, rimaste ferme a domandarsi cosa mai stesse capitando ancora. Lo stradone svoltava a destra e non incontrando subito la ragazza Bastiana aveva continuato a correre urlando il nome di Annina.

Ferma sul posto, donna Maddalena prima era diventata di marmo: le urla di Bastiana l'avevano percorsa per tutto il corpo e poi, non riuscendo più a stare in piedi, la povera donna si era accasciata a terra come una bambola di pezza.

Bastiana girava su se stessa, si guardava intorno, faceva per entrare nel bosco e ne usciva subito dopo, sperando di rivedere Annina sulla strada, ferma ad aspettarla. La vana ricerca della serva durava da diversi minuti ormai e il resto della comitiva nel frattempo aveva pensato bene di dividersi, mandando avanti le tre ragazze più grandi a raggiungere gli uomini o, ancora meglio, i carabinieri.

Donna Maddalena percepiva appena le voci intorno a lei, ma d'improvviso le forze sembravano esserle tornate e, alzandosi di scatto come impazzita, si metteva anch’essa a correre lungo la discesa sterrata, invocando il nome della figlia. Le sorelle che la seguivano gridando a loro volta il nome di Maddalena, piangevano maledicendo quella giornata infausta.

 

Arrivata la sera, le donne ormai tutte dentro casa, il villaggio era sprofondato nel silenzio. Una maledizione sembrava averlo colpito e nessuno usciva per strada se non gli uomini che, impugnando armi di ogni foggia e genere, si riunivano per poi raggiungere il bosco e lì aprirsi a ventaglio per contribuire alle ricerche. I carabinieri dirigevano quell'orda di persone cercando al contempo di calmare gli spiriti più accesi. Annina sembrava sparita nel nulla e la notte era calata sugli abitanti chiusi nelle casupole del villaggio, non meno che sugli uomini che si trovavano all'aperto, coprendo tutto come una nera e fitta coperta. Qualcuno proponeva di rientrare, rimandando le ricerche alle prime luci del giorno dopo, ma poi nessuno si muoveva dal proprio posto. Continuavano a gridare il nome della ragazza e con l'ausilio delle torce costruite alla bell'e meglio, per tutta la notte il bosco veniva setacciato in lungo e in largo. All'alba alcuni uomini tornavano agli ovili o alle stalle per occuparsi delle bestie, altri si davano il cambio con parenti e amici per poi sdraiarsi nei propri letti, gli abiti ancora addosso, e riposare qualche ora.

A casa di don Vincenzo Bastiana entrava e usciva dalla stanza della signora senza fare alcun rumore. Avrebbe voluto scappare da quel silenzio tremendo e dalla staticità che pervadeva la padrona. Il suo carattere la portava ad agire e non riusciva a stare ferma. Smaniando per avere notizie della sua bambina appena aveva potuto si era inventata una scusa e lasciandosi alle spalle quella cupa abitazione aveva attraversato la piazza a passo svelto per poi entrare in canonica e quindi far visita a don Pino.            

Che cosa mai poteva dirle il povero parroco? I carabinieri non si stancavano di cercare la ragazza scomparsa, lui faceva quello che poteva, invitando le donne a recarsi in chiesa a pregare e gli uomini a collaborare con le forze dell'ordine.

In quel momento lo preoccupava molto anche la salute del ragazzo che si trovava nel suo letto, ancora convalescente, e che lui accudiva con l'aiuto di Gavino e di Eugenio, quando a questi era consentito.

Bastiana ascoltava le parole di don Pino pronunciate a bassa voce e tra sé pensava a quella mattina quando insieme ad Annina era andata a sbattere contro il guardiano di pecore. Aveva visto come i due giovani si erano guardati e successivamente era stata testimone dei sospiri di quell'anima sognatrice che era la sua Annina. Ricordava molto bene quelle ore e il brutto presentimento che l'aveva turbata. Se in quel momento Attilio non si fosse trovato a pochi metri da lei avrebbe di certo pensato a un rapimento o peggio. Provava compassione per quel ragazzo, per la perdita tragica del fratellino, per inciso un mezzo deficiente; ma Bastiana aveva da sempre avuto il sospetto che in quella famiglia scorresse sangue malato; quel ragazzone grosso e sempre scontroso.... sì, quel Salvatore Dasso... ah-ah! Ne aveva sentite di cotte e di crude su di lui: irascibile e violento. Le donne gli stavano alla larga temendolo come se fosse il diavolo in persona. Si sentiva il prete di escludere che anche Attilio potesse essere soggetto alle stesse reazioni aggressive e violente?

Don Pino, infastidito da quel fiume di parole sciocche e inutili e desideroso di riprendere i suoi affari, aveva invitato la donna ad avviarsi verso la porta con fare deciso.  Bastiana, risentita per il comportamento del prete, in un primo momento aveva opposto resistenza poi, vista l'espressione sul viso tondo dell'uomo, decisa e determinata, si era lasciata guidare fino alla piazza.

Tornando sui propri passi con addosso una sgradevole sensazione di allarme don Pino, tenendo sollevata di pochi centimetri la veste, raggiungeva col fiatone la stanza dove sperava di trovare Attilio ancora addormentato. Un secondo dopo aver spinto l'uscio di legno la speranza era diventata un’evidente delusione: Attilio non era più nel suo letto. La finestra posta in quell'unica parte della stanza che dava sulla piazza era aperta. Il vento spazzava il pavimento e matassine di polvere, assieme ai piccoli frammenti di gherigli di noci, rotolavano sotto al tavolo.     

Attilio se n'era andato! Gavino aveva dovuto dirgli della scomparsa di Annina e Bastiana con i suoi sproloqui aveva completato l'opera. Padre Pino si era seduto sulla sedia e poggiando gli occhiali sull'asse di legno che fungeva da tavolo si massaggiava le tempie e gli occhi stanchi. Intanto rifletteva tra sé.

 

*

 

Il vento soffiava forte e gli abiti che indossava non bastavano a ripararlo dal freddo. Correndo curvo lungo il muro posteriore della canonica, il ragazzo, magro e debole, inciampava sul selciato che lo conduceva fuori dal paese. Le parole di Bastiana, udite da dietro la porta, gli avevano fatto tremare le mani mentre con le sue dita lunghe e sottili si abbottonava la camicia, per poi indossare la giacca di lana. La rabbia gli aveva dato la forza di sedersi sul davanzale della finestra per poi lasciarsi cadere dall'altra parte. L'altezza era poca, ma ugualmente le caviglie avevano avuto un cedimento e il dolore acuto lo aveva raggiunto al cervello, provocandogli una serie di vibrazioni lungo tutto il corpo. 

Una volta lasciatosi alle spalle le case del paese, Attilio si era seduto su un masso e respirando dal naso si era imposto di calmarsi. Uno sguardo al cielo, striato da sfilacciate nuvole bianche, gli aveva strappato un sorriso e il viso, seppur emaciato e pallido, per un attimo era ritornato a risplendere di giovinezza.

Attilio aveva ascoltato incredulo le parole di Gavino: Salvatore si era spinto sin dentro al villaggio. Annina era scomparsa. Poteva Salvatore aver fatto del male ad Annina? Per un attimo il timore di essere ancora stretto nell'abbraccio infuocato della febbre gli aveva provocato una vertigine, ma il desiderio di agire, di fare qualcosa, qualunque cosa, lo aveva incoraggiato a muoversi. Nell'arco di poco tempo la sua coscienza si vedeva costretta a cambiare ancora una volta direzione. Doveva restare immobile e aspettare, ma aspettare che cosa? Chi? La mano ferma di Gavino? O l'operato della giustizia che una volta per tutte si apprestava a chiudere quel capitolo di storia? E lui Attilio, in che maniera voleva chiuderlo quel capitolo? Quella storia sembrava che appartenesse a lui, più di tutti. Più confuso che mai e in preda a una forte frustrazione Attilio percorreva lo stesso stradone che, oltre a condurre alle campagne e agli ovili a lui ben noti, sfiorava gli alberi del bosco e la vigna di don Vincenzo Ibba.

Egli sentiva che le forze gli ritornavano a mano a mano che procedeva. Con la mente che continuava a formulare pensieri e i sensi di nuovo all'erta, pronti a cogliere il minimo movimento sospetto, a un certo punto Attilio si scontrava contro un corpo che, lanciato in una corsa irrefrenabile, lo trascinava con sé per poi farlo ruzzolare per terra. Sorpreso più che spaventato, mentre si spolverava la polvere e la terra dal fondo del pantalone, Attilio si apprestava a formulare la domanda più ovvia, ma senza averne il tempo che l’altro, come un fulmine, si era già rimesso in piedi e con quelle gambe lunghe e magre aveva ripreso la corsa. La voce squillante gli era arrivata da lontano: Corro a chiamare i carabinieri: mio padre ha trovato il corpo della signorina!.

Dio mio!....Ma dove, dove?”.

Alla tanca”.

Quale tanca?”.

Quella di San Rocco.      

Attilio continuava a correre mentre, per stare dietro al bambino, ripercorreva la salita. Solo dopo essersi fermato, piegandosi in avanti per riprendere fiato, con le mani premute sulle ginocchia, si era reso conto delle lacrime che gli bagnavano le guance.

 

                                                                       *                                                                                                                                               

 

Dopo lunghi mesi di vita randagia Salvatore Dasso, se messo davanti a uno specchio, non avrebbe saputo riconoscersi. Il giovane corpulento aveva un addome prominente e la pelle del suo corpo aveva assunto un colorito malsano. La barba rossiccia cresceva a chiazze e i capelli, lunghi e opachi sulle spalle, erano radi sulla parte alta della testa. 

Nel suo spirito albergavano solo sentimenti distruttivi e a nessuno era permesso di entrare nella sua caverna-nascondiglio, dentro cui da tempo viveva solo, braccato come un animale. Soltanto uno dei compari non lo aveva ancora abbandonato. Quel giovane uomo faceva buona guardia fuori dalla caverna e inoltre si occupava di raccattare provviste, polvere da sparo, palle e acquavite, soprattutto quella.

Salvatore nei suoi deliri rivedeva spesso il fratellino morto, il quale però andava a confondersi con i visi degli uomini morti per mano sua. E poi c'erano tutte quelle uniformi armate e pronte a consegnarlo al boia, diventate il suo peggior incubo. Sotto forma di ratti, neri come la notte e dai lunghi denti color avorio, entravano nella caverna a centinaia circondandolo e puntandolo con occhi neri e lucidi, pronti ad attaccarlo.

Ma non passava giorno senza che il viso di Attilio si facesse strada dentro la sua testa, facendolo urlare di dolore e lasciandolo a rantolare sulla sudicia stuoia, macchiata dal vomito e dall'urina che il più delle volte non riusciva a trattenere. Era sempre Attilio a provocargli spasmi atroci, quando con il coltello gli perforava l'intestino. Suo fratello si presentava all'ingresso buio mostrandogli la testa insanguinata di Sebastiano, per poi lanciarla ai suoi piedi. Quella testa che gli rotolava davanti lo rendeva pazzo ed era impossibile scappare perché Attilio, mentre si passava il coltello da una mano all'altra, sogghignava e gli ostacolava la fuga.

Così per Salvatore quello era diventato il bersaglio principale da colpire e distruggere. Probabilmente a causa di un odio, attecchito anni addietro e diventato estremo in quel lasso di tempo, in cui il male aveva finito per ingigantire ogni cosa. E quel male, diventato il suo più intimo consigliere, cosa poteva suggerirgli se non le azioni più bestiali? Colpire Attilio, ma non direttamente, non ancora.

Salvatore conosceva il punto debole di suo fratello e quanto veleno aveva dovuto ingoiare nell'osservarlo scambiare sguardi amorevoli con quella smorfiosa di Annina!

Annina era molto bella e lui la odiava per la sua bellezza. Disprezzava Attilio per il suo aspetto curato e il viso allegro e cordiale che si illuminava di gioia, facendone risaltare gli occhi da cerbiatto. Provava disgusto nei confronti dei due ragazzi e disdegnava ogni genere di gioia festosa: davanti ai loro volti accesi dall’allegria Salvatore scappava via lontano, magari presso uno dei mulini sparsi lungo il territorio, oppure dentro una capanna isolata. Aggredire una serva o una contadina intenta nel proprio lavoro serviva a scaricare con la violenza tutto il fiele amaro che aveva in circolo e che in certe occasioni non faceva altro che aumentare.

Qualche giorno prima aveva deciso di rientrare nel suo villaggio: soffriva molto. Lo stomaco gli bruciava come fuoco e per spegnere quel fuoco aveva bisogno di bere altro alcool. Il suo compare, Nicolò, era sparito, forse arrestato o ucciso dai carabinieri, accidenti a lui! Con il cappuccio del mantello calato sulla testa la sua ombra era come uno spettro che scivolava lunghi i muri delle case e mentre tentava di forzare la porta di una bottega per introdursi all'interno, uomini ubriachi lo avevano aggredito per poi lasciarlo in mezzo al fango. Non aveva idea del tempo in cui era rimasto a terra, tramortito. Ricordava solo la rabbia che incalzava sempre più prepotente e quando dalle tenebre aveva iniziato a profilarsi la luce tremolante delle lucerne, sollevandosi da terra e allontanandosi con passo malfermo, era riuscito a dileguarsi. Davanti a lui l'immagine del sorriso di Attilio e di Annina si trasformava in un ghigno, due sberleffi nei confronti di quel miserabile che fuggiva impantanandosi in un fiume di melma. Così aveva atteso l'alba in un parossismo febbrile, nascosto tra le rocce muscose, lontano dalle abitazioni.

L'occasione era venuta da sé: aveva seguito Annina durante la passeggiata, il giorno seguente, e aveva aspettato il momento propizio per sottomettere la donna alla propria volontà; niente di più facile. Lasciarla esanime nel bosco affinché il suo spasimante - poeta dei suoi stivali! - la potesse ritrovare, doveva rappresentare un macabro dono che avrebbe accecato Attilio di dolore e rabbia. Salvatore lo voleva così: voleva suo fratello carico di tutta la collera del mondo e allora lo avrebbe ucciso, senza pietà. E con la morte di Attilio intendeva uccidere tutti i brutti ricordi che tanto a lungo lo avevano fatto vivere nel dolore. Quel dolore che per anni aveva ferito il suo corpo di bambino e di giovane ragazzo. Perché Salvatore era cresciuto dentro la casa del mostro più orribile: colui che non trovava uguali nemmeno nei suoi peggiori incubi; quell'essere immondo che solo al cospetto di un figlio diventato ormai uomo aveva provato vergogna per sé stesso; ma a quel punto niente e nessuno poteva cambiare la tragica realtà del ragazzo: vittima molto prima che carnefice.

Attilio si era salvato dalle grinfie di quel mostro. Sebastiano aveva ricevuto la sua dose di punizione e sofferenza solo per il fatto di essere sopravvissuto alla nascita. Gonaria, colei che essendo madre avrebbe dovuto difendere quei figli disgraziati, non ne aveva avuto la forza e aveva perso via via ogni genere di volontà. Sottomessa al marito aveva finito per estraniarsi dall'intera famiglia, trasformando il suo cuore in puro ghiaccio e vivendo sempre nell'ombra. Attilio aveva dovuto affrontare la dura vita di servo pastore, ma Salvatore non ne aveva mai voluto vedere i sacrifici, bensì la salvezza da un male nettamente peggiore. E per quello, sin da piccolo, aveva iniziato ad odiarlo. Per una inspiegabile forma di perversione Attilio avrebbe pagato per ciò che il loro padre gli aveva inflitto.       

 

                                                              *                          

 

Il triste destino di Annina si era consumato non lontano dal luogo dove sua madre era impazzita per il gran dolore.

Salvatore era stato paziente: freddo nel suo intento aveva atteso il momento a lui favorevole per avventarsi sulla preda. All'interno del bosco, vicino ai grossi massi che avevano attratto la curiosità della ragazza, non c'era stato il tempo. La serva, sopraggiunta tempestivamente, gli aveva impedito ogni mossa. Così aveva atteso ancora e l'eccitazione lo aveva infiammato mentre immaginava il momento in cui le sue mani avrebbero toccato la pelle setosa e profumata della bella Annina. Ancora più bella mentre rallentava i piccoli passi, immusonita e pensierosa. Lo sforzo era stato minimo: la ragazza era minuta. Vinto dall'odio che provava nei suoi confronti l'avrebbe potuta uccidere se lo avesse voluto, ma lui la desiderava viva e come una bestia uscita fuori da una leggenda fantastica, l'aveva rapita per condurla all'interno della fitta boscaglia. Annina, dopo lo shock di quell'aggressione, aveva cercato di opporre resistenza, ma la mano di Salvatore le tappava la bocca e i piedi si agitavano nel vuoto mentre veniva strattonata e costretta a camminare velocemente. Era nelle mani di un essere brutale, lo sapeva bene, conosceva la crudeltà di Salvatore, e nessuno l'avrebbe salvata: nessun eroe in quella tragica storia che qualcuno in seguito avrebbe narrato; solo il sacrificio senza senso di una giovane donna.

Voltando la testa di lato per non vedere il volto di colui che oltraggiava il suo corpo; trattenendo il respiro, per non sentire il puzzo di marcio che emanava dalla bocca aperta; con la mente già staccata e lontana da quel luogo, gli occhi di Annina, velati dalle lacrime, improvvisamente si andavano ad incrociare con quelli grandi e tondi di una lepre che mentre la osservava curiosa faceva vibrare le lunghe vibrisse. Annina l'avrebbe potuta toccare con le sue dita affusolate, non era molto lontana da lei, ma quelle dita riuscivano solo ad annaspare sul terreno del sottobosco. Quello scambio di sguardi tra tenere creature era durato pochi istanti, poi la lepre era saltata via; proprio come aveva fatto Attilio pochi giorni addietro, pensava Annina chiudendo gli occhi. A quel punto non sentiva più dolore, il suo corpo disteso sulla nuda terra non le apparteneva più. Poteva alzarsi e camminare, ma solo grazie a una forza che non era la sua; poteva usare le mani per sistemare le fitte pieghe della gonna; poteva anche spazzolare la stoffa lucida per staccare fili d'erba secca e rametti rimasti impigliati tra le trame. Con la forza del pudore poteva stringere sul petto coperto di graffi la camicia ridotta a brandelli. I capelli, senza più il fazzoletto, erano arruffati e sporchi: che disastro! Sua madre l'avrebbe rimproverata di certo, e allora Annina cercava di fare del suo meglio per sistemarli, ma con le mani sporche di terra peggiorava solo le cose. Pazienza – pensava Annina -, donna Maddalena le avrebbe perdonato quella mancanza. Divenuta ormai un'estranea nel mondo che la circondava, Annina continuava a camminare e a salire, sempre più in alto; scalza, senza sapere dove la portavano i suoi passi. Lo aveva capito solo nel momento in cui vi era arrivata e a quel punto, davanti all’abisso, non aveva esitato. Un ultimo passo nel vuoto e il volo verso il basso. Con gli occhi chiusi. Non era durato poi tanto e il dolore era sparito subito.    

                                                                         

                                                                      *

 

Alle prime luci dell'alba Isidoro lasciava la casa del villaggio dopo una colazione a base di pane duro e formaggio, per provvedere agli animali. Anche lui aveva partecipato alle ricerche della ragazza, durante tutta la sera del giorno precedente e la notte appena conclusa. Avrebbe volentieri offerto ancora il suo contributo, ma la sua mucca gravida poteva aver partorito durante la notte e non poteva rischiare di perdere il vitello. Salendo dentro al bosco verso il cucuzzolo accidentato del monte, fra i cespugli di lentischio, Isidoro finalmente individuava la mucca che pascolava solitaria. Dopo averla raggiunta osservandone il ventre non capiva bene quale era il suo stato, allora, scostata la coda, Isidoro ne aveva tastato le mucose con le sue dita grosse, ma aggraziate nel gesto professionale. Non essendo ancora sicuro ne aveva saggiato i capezzoli fra i polpastrelli aprendosi poi in un sorriso di soddisfazione: il vitello aveva succhiato. Guardandosi intorno tra le rocce e le macchie di arbusti egli sentiva l'urgenza di ritrovare il vitello prima della volpe che ne avrebbe mangiato la lingua, lasciandolo poi morire dissanguato. Oltre la volpe c'era la cornacchia che da furba quale era si appollaiava sul dorso della mucca gravida, in apparenza rendendole un servizio perché beccava le zecche, ma in realtà stava lì in attesa di veder sbucare il vitello, con le sue ossa ancora tenere. Bucandogli il cranio gli succhiava il cervello.

Non avendo idea di dove la mucca avesse nascosto il vitello, Isidoro era ricorso ai cani. Il territorio era troppo vasto, ma i cani con il loro abbaiare avevano allarmato la bestia che subito trotterellava verso l'anfratto dove aveva nascosto il vitello. E il guardiano gli andava appresso. Facendo attenzione a non innervosire la mucca, Isidoro si apprestava a portarle via il neonato, ma la sua attenzione veniva attirata da un oggetto che, rimasto incastrato fra due sassi, a prima vista non riusciva a riconoscere. Avvicinandosi e inchinandosi prendeva tra le sue mani una scarpina di cuoio nero: una calzatura femminile. In quel punto la terra era avara di vegetazione e fra le aspre rocce Isidoro calpestava il terreno sassoso fino a raggiungere il ciglio di un profonda voragine. Sporgendosi a guardare verso il basso Isidoro, stringendo tra le mani la calzatura, aveva distinto un corpo immobile poggiato in maniera scomposta su un enorme masso attaccato dalla vegetazione. A quel punto non gli restava che avvisare le autorità. Con una tristezza immane che gli stringeva il cuore, dopo aver messo al sicuro i suoi animali, Isidoro aveva percorso in fretta e furia la campagna per raggiungere un pastorello il quale, con in mano un lungo bastone, faceva uscire le caprette fuori dal recinto.

Scuro come la pece, con un berretto che aveva portato indietro sulla nuca, una camicia sotto un grosso maglione di lana grezza e pantaloni di panno, il piccolo, di circa otto, nove anni, vedendo l'uomo andargli incontro con i tratti del viso più tirati del solito, temeva che il vitello appena nato non ce l'avesse fatta, e si preparava alla sfuriata; ma ancora prima di raggiungerlo Isidoro aveva comandato di correre verso il villaggio e tornare con i carabinieri poiché il corpo di Annina era stato trovato. Giuseppe, sussultando per la sorpresa, guardava a bocca aperta oltre le spalle di suo padre, come se uno spettro stesse in quel momento attraversando la campagna. Isidoro, senza tanti complimenti si era precipitato a mollare uno scappellotto sulla testa del figlio e quello, intimorito e al contempo desideroso di portare a termine quella grave incombenza, aveva iniziato a correre quanto più in fretta poteva.

 

                                                                   *                                

 

Fin dalle prime ore del mattino Eugenio, di turno nell'ufficio della caserma, si stava occupando di una pila di documenti che il maresciallo gli aveva ordinato di compilare. Quelle ore passate al chiuso lo rendevano irrequieto. Avrebbe voluto trovarsi fuori, tra i boschi, impegnato anch'egli nella ricerca della giovane donna. La sorte di Annina lo distraeva dalla mole di lavoro cartaceo depositato sulla sua scrivania e ogni tanto Eugenio sollevava la testa e fissava lo sguardo oltre i vetri della finestra aperta.

Cercava di farsi un'idea del tragico evento in base a quelle che erano state le deposizioni raccolte dai colleghi durante tutta la notte, ma Annina sembrava sparita nel nulla, per alcuni addirittura rapita da uno spirito maligno. Ma Eugenio non credeva agli spiriti: gli esseri umani da soli bastavano a terrorizzare i villaggi e le campagne. Poteva trattarsi di un rapimento e allora presto sarebbe arrivata la richiesta di un riscatto. Ma nessuno si sentiva di escludere il gesto cruento e infame di una vendetta: la famiglia Dasso era una famiglia molto ricca e anche molto in vista, politicamente parlando. Il padre di Annina era sindaco del villaggio, si sapeva bene, ma altri Dasso occupavano le alte sfere e il potere che ne traevano spesso e volentieri li vedeva protagonisti della cronaca nera: invischiati dentro scandali e intrighi. Niente di eccezionale per le vicende losche che all'epoca vedevano implicati avvocati, notai e, non di rado, ordini religiosi. La sensazione di Eugenio era che presto la verità sarebbe venuta a galla e mentre riprendeva a concentrarsi sul suo lavoro un fischio lungo e acuto simile ai richiami per gli uccelli che tante volte aveva sentito da suo padre durante le battute di caccia, lo distraeva nuovamente. Il primo gli aveva fatto rizzare le orecchie, il secondo aveva acceso la curiosità, al terzo fischio si era alzato dalla sedia e aveva raggiunto la finestra, tenuta spalancata affinché ne uscisse il fumo e l'odore acre delle sigarette che fumava il collega. Su quel lato la caserma aveva davanti a sé i larghi ripiani ondulati dell'altopiano dalle tinte autunnali e di fronte la parete grigio azzurro della montagna, proprio in quell'istante colpita dal sole di mezzogiorno. Quella vista non stancava mai gli occhi di Eugenio il quale, dimenticando il motivo che lo aveva portato a guardare fuori, con le dita intrecciate dietro la schiena se ne stava pensieroso a dondolare sui tacchi delle scarpe. D’improvviso un sasso di piccole dimensioni lo raggiunse colpendolo al petto ed egli, temendo un'aggressione, stava per impugnare la pistola quando, nello stesso istante, da dietro un cespuglio, poco oltre la recinzione, prima il berretto, poi la faccia barbuta e infine l'intero corpo di Gavino vestito di velluto e panno nero gli si mostrava in tutta la sua irriverenza. Eugenio, indispettito per essersi fatto cogliere di sorpresa, osservava Gavino mantenendo il volto serio, con le sopracciglia leggermente corrugate: Gavino non poteva guardare al mondo con quell'arroganza e sfacciataggine, infischiandosene di tutte le regole; ma si rendeva conto di ciò che stava facendo? E lui, Eugenio? Se ne rendeva conto? Quello che aveva di fronte era un sorriso, un invito, una tentazione e il muro di punto in bianco crollava portandosi dietro quella finestra; spariva la recinzione e su quel tappeto marrone e giallo le braccia di un uomo, il suo uomo? - non osava nemmeno pensarci - erano lì pronte ad abbracciarlo. Gavino attendeva lui e Eugenio, sollevando prima il braccio timidamente, subito dopo aprendosi in un largo sorriso, rispondeva all'ilarità dell'altro che, seppur lontano, lo stringeva a sé con lo sguardo.             

Eugenio ancora percepiva la realtà come protetta da un velo di pudore. Ciò che era accaduto tra lui e Gavino era stata l'esperienza più magica di tutta la sua vita: la più dolce e violenta allo stesso tempo.

 

                                                              *

 

Pochi giorni addietro, prima ancora dell’alba, Eugenio si preparava a salutare suo cugino Attilio mentre Gavino, puntuale, entrava in punta di piedi nella stanza del malato. Durante tutta la nottata la febbre non aveva dato segno di cedimento e studiando il volto serio di Eugenio Gavino vi leggeva tutta la drammaticità del momento. Era stato un gesto d'affetto il suo, voleva dimostrare al giovane uomo tutta la sua partecipazione e commozione. Era preoccupato anch'egli per le sorti di Attilio, ma forse in quell'abbraccio partito spontaneo aveva espresso molto più della preoccupazione e Eugenio, sentendosi stringere con tanta energia e calore, aveva reagito d'impulso, forse per la stanchezza di una notte insonne o per il tormento dentro pensieri che non ne volevano sapere di concentrarsi solo sulla salute del cugino e la paura di perderlo. La mente imperterrita tornava a Gavino. A quegli occhi di ghiaccio, a quella bocca di fuoco, al calore emanato dal petto coperto di peli ricciuti e folti che spesso la camicia aperta lasciava intravedere. Aveva perciò ricambiato l’abbraccio chiudendo gli occhi e assaporando il calore che quella sensazione gli infondeva e che da sempre desiderava provare. Quella stretta aveva svelato segreti tenuti a lungo al sicuro e Gavino avrebbe potuto deriderlo, avrebbe potuto disprezzarlo. Al contrario invece, Gavino lo aveva abbracciato ancora più forte e quelle carezze che Eugenio poteva sentire bruciare sulla sua schiena erano tutt'altro che ostili. Per Eugenio era troppo: con le dita a spingere i capelli indietro e un no ripetuto più volte, dopo aver allontanato Gavino, era uscito di corsa dalla stanza, improvvisamente divenuta troppo stretta e dall'aria irrespirabile.   

Gavino, sulle prime incredulo e poi stizzito da quella reazione aveva seguito deciso i passi di Eugenio per trovarlo seduto sulla soglia di una porta laterale che immetteva in un piccolo giardino interno alla canonica e quindi alla Chiesa.

Il giardino, coperto dall’erba alta e incolta, era recintato da un alto muro. In fondo si trovava una porticina. Don Pino, prima che Gavino arrivasse, aveva percorso quel cortile e una volta uscito dalla porticina aveva affrontato con passo deciso e svelto il sentiero che conduceva fuori dal villaggio. Qualcuno lo aveva mandato a chiamare e all'interno di una casupola di campagna era atteso dai parenti di un moribondo per ungerlo con l'estrema benedizione. Sarebbe stato via per parecchio tempo e Gavino e Eugenio, a parte Attilio che lottava contro la febbre, erano soli, su quel gradino, nel giardino immerso ancora nella penombra. Un piccolo mondo che racchiudeva e proteggeva entrambi. Gavino, seduto accanto a Eugenio, sperimentava per la prima volta il tremore di un sentimento inatteso e intenso. Tremava anche Eugenio e mentre si voltava con lo sguardo acceso sperava di non incontrare gli occhi indagatori dell’altro. Il cuore urlava di ansia e quando non solo gli occhi, ma le labbra di Gavino si erano posate indugiando sulle sue, in quel preciso istante egli era stato  preso dal panico: - Ecco - pensava - sto per morire. Questo cuore che non ha mai conosciuto amore non reggerà al colpo!”- E invece il cuore di Eugenio aveva retto benissimo. La lingua di Gavino si era fatta strada, via via sempre più decisa, e con estrema naturalezza all'interno di quelle aspre cavità dal gusto forte era avvenuta la loro prima unione. Un bacio lungo e insaziabile, eccitante fino a portarli a perdere il controllo delle proprie mani, inarrestabili mentre si insinuavano sotto gli abiti a cercare il contatto con la pelle calda e fremente di desiderio. Eugenio non poteva credere che fosse tutto vero... quel corpo che fremeva sotto le sue dita. L’aveva sognato troppo a lungo, e ora lui era lì.

Gavino lo stringeva a sé. Aveva spogliato Eugenio e non si stancava di baciarlo, poi si era steso su di lui, strofinandosi contro le sue cosce. Aveva aspettato il più a lungo possibile, accarezzando Eugenio con calma, e poi si era spinto dentro di lui, con tutta la delicatezza di cui era capace. Cercava di muoversi piano, ma non ci riusciva, capiva che anche per Eugenio era troppo… sembrava sull’orlo del delirio. Anche Gavino era sovreccitato, non aveva più fiato. Eugenio si sentiva come aveva immaginato: lacerato. Ma provava anche un desiderio incontenibile. All’improvviso Gavino aveva preso a muoversi con più veemenza e a quel punto Eugenio credeva davvero di morire. Aveva smesso di respirare, il cuore gli batteva all’impazzata, aveva la gola secca, le labbra umide. Poi il fiato era ritornato a entrambi, lentamente. Gavino si era fermato, aveva espirato con forza e si era abbandonato sul corpo di Eugenio.  

C'era voluto il canto di un gallo ritardatario e di seguito l'abbaiare dei cani a rendere nuovamente reale la vita intorno a loro. L'imbarazzo di Eugenio e il sorriso sghembo di Gavino: una miscela di eccitazione pronta a farli riesplodere. Rialzarsi dal morbido letto di erba e paglia del giardino per finire nuovamente uno nelle braccia dell'altro era stato un unico gesto. Per dirsi arrivederci pareva loro che tutti i baci del mondo fossero insufficienti; lunghi e interminabili baci ai quali Gavino aveva voluto aggiungere qualcosa di suo: una stretta vigorosa alle natiche del giovane carabiniere e, per finire, un'occhiata soddisfatta davanti alla sorpresa di Eugenio.

Sparendo nel buio del corridoio e uscendo dalla canonica un mare di pensieri già si accavallavano rombando nella testa di Eugenio, ma ben presto sul suo volto teso si apriva un ampio sorriso, spinto fuori dalle profondità del suo essere.          

 

                                                            *

 

Dopo il cenno fatto a Gavino di lasciare quel posto così scoperto e davvero poco indicato per uno scambio di messaggi personali, Eugenio si soffermava qualche minuto ancora, presso il vano della finestra. Il tenente Carmine Augello che aveva lasciato la sua postazione poco più di venti minuti prima, rientrando dentro l'ufficio e non scorgendo il collega seduto dietro alla scrivania proprio di fronte alla propria, si preparava ad accendersi l'ennesima sigaretta della mattinata. Un colpo di tosse alle sue spalle e la figura non tanto alta ma ben piazzata di Eugenio, nonché il cipiglio di rimprovero affilato come un coltello, gli avevano subito fatto cambiare idea. Ma era già ora di pranzo e Eugenio, ammorbidendo l'espressione e sorridendo fra sé per la reazione del collega, si apprestava a lasciare la caserma per fare una visita in canonica e quindi accertarsi sulle condizioni di salute di Attilio. Dopo la tensione dei primi giorni, la preoccupazione per il cugino si andava piano piano attenuando. Non si poteva dire che il ragazzo avesse ripreso appieno le proprie forze, ma la convalescenza procedeva ottimamente.

La caserma era un po' discostata dal resto delle case del villaggio e per raggiungere la piazza Eugenio si era concesso la libertà di procedere a passo lento. Voleva sfruttare quel momento per raccogliere i pensieri: Annina, Salvatore, Attilio. Ognuno di essi imponeva riflessioni che prendevano direzioni diverse, ognuna di quelle strade portava con sé qualcosa di tremendo. Per di più il sentimento d'amore che provava nei confronti di Gavino a momenti, quando non lo estasiava, lo raggelava. La realtà per loro due poteva diventare orribile: niente e nessuno avrebbe impedito a chiunque di ucciderli, se solo quel sentimento fosse uscito allo scoperto. Tutti quei pensieri messi insieme costringevano Eugenio a rabbrividire sotto l’uniforme e ad aumentare il passo: la voglia di passeggiare gli era passata. Davanti a don Pino poi il mondo intero gli crollava addosso: Attilio se n'era andato? Ma andato dove? Non poteva credere che Gavino fosse stato così incosciente da metterlo al corrente della scomparsa di Annina.

Ma prendersela con Gavino non aveva senso e nemmeno con Bastiana o con il prete. Mangiando del cibo alla buona seduto davanti al tavolo, Eugenio si era chiuso in un silenzio che il religioso sapeva essere sacro, per cui lo aveva lasciato da solo.

 

                                                              *

 

Non era trascorsa nemmeno mezz'ora dall’uscita di Eugenio dalla caserma, quando all'interno degli uffici arrivarono i suoni tipici di una folla agitata. Alle grida degli uomini e delle donne che avevano invaso prima il cortile e immediatamente dopo il posto di guardia, il giovane tenente Augello raggiungeva il collega, mentre quello, con evidente difficoltà, tentava di placare l'eccitazione di quell'orda di persone.  - Calma, calma, che cosa sta succedendo qui? -  Qualcuno aveva spinto avanti un pastorello il quale, con lo sguardo basso, teneva educatamente il berretto in mano. Giuseppe lungo la strada non aveva resistito e, senza mai interrompere la corsa, aveva reso partecipe chiunque incontrasse dell'importante notizia, compreso il povero Attilio che in quel momento stava per raggiungere il luogo indicatogli. Al cospetto di quegli uomini in divisa, però la voce del bambino sembrava non voler uscire. Dopo aver imposto il silenzio alla folla che si era accalcata in quello spazio ristretto il tenente con lo sguardo incoraggiava Giuseppe a parlare. - Mio padre mi ha mandato a dirvi che ha ritrovato il corpo della signorina che state cercando... Dovete salire a San Rocco.

Il giovane in divisa, emozionato per quella notizia, rientrava di filato nell'ufficio del maresciallo. Dopo pochi minuti un drappello di carabinieri a cavallo si preparava a lasciare la caserma per seguire le indicazioni. Al pastorello era stato permesso di montare sul cavallo del tenente Augello e da dietro le spalle dell'impettito carabiniere Giuseppe non smetteva di fare le boccacce ai bambini del villaggio che per un tratto avevano rincorso le cavalcature: correndo a piedi scalzi sul terreno ghiaioso quei monelli lo canzonavano, deridendolo con fischi e schiamazzi d'allegria. Appena lasciato il villaggio però anche Giuseppe, imitando la compostezza dei militari, era rimasto dritto sulla sella mentre con il pensiero tornava allo strano episodio del giorno precedente.

                                               

                                                               *

 

La sera in cui Isidoro prendeva parte alle ricerche della giovane donna, Giuseppe aveva ricevuto il compito di sorvegliare il bestiame. Le mucche pascolavano tranquille mentre le caprette brucavano nella parte bassa del tancato, poco distanti dall'ovile. Egli si era allontanato per raccogliere una fascina di frasche che quella notte avrebbe messo ad ardere nel camino per riscaldarsi dal freddo autunnale, ma al ritorno si era accorto subito che mancava una capretta. Fischiando e gridando Giuseppe, spinto dalla preoccupazione, dopo aver rovistato tra la macchia come un cinghiale e proseguendo nella ricerca, si era allontanato sempre più dall'ovile. La sua voce si spandeva lungo i sentieri e giungendo alla fine di un viottolo si era trovato al bordo di un bosco sconosciuto, ai piedi di un costone roccioso. Della capretta non vedeva le tracce: disperato e ansioso di ritrovare il sentiero stava per tornare indietro quando un rumore tra il fogliame e i rami del sottobosco aveva attirato la sua attenzione. Urlando ancora una volta il nome della capretta per spaventare gli animali nascosti dalla vegetazione aveva tremato di paura quando di fronte a sé aveva visto avanzare un uomo che ciondolando in avanti sbandava a ogni passo. Il coltello nella cintura e il fucile sulla spalla facevano pensare a un pastore bandito e Giuseppe non ci aveva messo troppo a capirlo. Non sapeva però quali fossero le sue intenzioni e pur non avendo nessuna voglia di scoprirlo, Giuseppe era rimasto comunque colpito da quella miserabile figura che avanzava. A guardarlo infatti quel signore gli pareva ridotto piuttosto male, eppure non doveva essere tanto più vecchio di suo fratello che di anni ne aveva già ventitré. Forse l'espressione sul viso di Giuseppe e un movimento impercettibile del suo corpo lasciavano trapelare l'intenzione di darsi alla fuga, fatto sta che un richiamo urlato forte e con una tonalità di voce che Giuseppe non credeva possibile potesse uscire da un corpo così male in arnese, aveva inchiodato il bambino sul posto. -Ohè ragazzino!-. Giuseppe non si muoveva e aspettava che l'altro gli arrivasse davanti. - Ho fame, portami al tuo ovile e dammi da mangiare!.

Non sembrava a Giuseppe una richiesta tanto strana; altre volte era capitato che all'ovile di suo padre venissero ospitati personaggi non troppo raccomandabili: facce torve e portamento bellicoso, se ne stavano seduti davanti al camino ad arrostire pezzi di agnello, macellato in onore dell'ospitalità. Stavano muti, con il berretto calato sugli occhi, il fucile appoggiato contro il muro, il coltello bene in vista. Giuseppe li osservava sempre con una certa curiosità mista a fascino, ma suo padre ogni volta gli mollava certi calci al sedere da farlo correre fuori. Quella volta si rendeva conto che l'essere di fronte a sé era un bandito tutto suo e toccava a lui fare da padrone di casa. Nella speranza però che una volta terminato il cibo quello se ne andasse: dover passare la notte in sua compagnia non gli garbava affatto.

Ritrovata la strada e raggiunto finalmente l'ovile per prima cosa Giuseppe riconosceva la capretta che quel pomeriggio lo aveva fatto dannare: la vera responsabile di quel sinistro incontro. Le avrebbe dato una pedata per rimproverarla, ma quella continuava a strofinare il muso contro la sua gamba e Giuseppe, intenerito dall'affetto che l'animale gli dimostrava, si inchinava ad accarezzarla, dimenticandosi completamente dell'ospite. Salvatore, dopo essersi guardato intorno, accertandosi che all'ovile non ci fosse nessun altro, aveva tirato per un orecchio il povero pastorello costringendolo a rimettersi in piedi e Giuseppe, una volta entrato dentro alla stanza che fungeva da cucina e dormitorio, pronto a ubbidire ai comandi, si era subito dato da fare per sfamarlo. Terminata la cena Giuseppe continuava ad osservare Salvatore di sottecchi pensando al modo di liberarsene. 

Salvatore dal canto suo non pensava minimamente a Giuseppe. Terminato di mangiare era rimasto seduto in terra, davanti al camino, e da una borraccia ingollava a più riprese il vino di Isidoro. Il ricordo di quel che aveva fatto ad Annina svaniva dentro ai fumi dell'alcool e sarebbe rimasto così, immobile, e in uno stato di semi incoscienza se Giuseppe strattonandolo non lo avesse convinto ad alzarsi. Il bambino era determinato ad allontanarlo: quando il buio fosse arrivato non intendeva averlo ancora accanto.

Poco distante dall'ovile si trovava la chiesa di San Rocco, sita nell’appezzamento di terreno che portava lo stesso nome, come anche l'orrida spaccatura della roccia che in seguito a una frana, in tempi antichi, aveva aperto una profonda voragine.

A Giuseppe erano note le leggende che gli anziani della famiglia amavano raccontare. La chiesa di San Rocco, lui lo sapeva, da tempo ormai era stata abbandonata e sconsacrata e dell'antico monastero dei frati cercanti era rimasta soltanto qualche pietra di muro, almeno quelle che i contadini più sciagurati avevano lasciato. Tutto il resto era stato preso di nascosto e utilizzato per chiudere le proprietà. A Giuseppe non piaceva trovarsi nei pressi del sagrato di quella chiesa. La penombra della sera ingigantiva le paure e le storie delle donne vampiro e di altri esseri del genere gli avevano sempre fatto impressione. Ma da qualche parte doveva accompagnarlo, quel bandito che puzzava come un caprone, e quale posto migliore della chiesa di San Rocco? Se poi durante il sonno gli spiriti dei morti, per secoli seppelliti sotto al sagrato, fossero tornati per portarselo via, be', tanto peggio per lui. Vedendo che quello si dirigeva verso l'ingresso della chiesa con l'intento di passarci la notte, Giuseppe aveva fatto qualche passo indietro, prima lentamente poi, una volta girato il corpo verso la direzione che lo riportava al suo ovile, di corsa, con il cuore che gli saltava nel petto e la speranza che l'uomo non lo cercasse più.

Salvatore aveva deciso di rimanere soltanto per qualche ora al riparo tra le mura della chiesa: quel posto gli trasmetteva brutti presentimenti. Gli era parso che calpestando il sagrato della chiesa un vortice di aria fredda gli avvolgesse le gambe, con una forza tale da tirarlo verso il basso. Liberandosi da quella stretta invisibile e raggiungendo l'interno della chiesa il sudore aveva incominciato a bagnargli la schiena e il volto. Non riuscendo a calmare il tremore si era accucciato in un angolo e lì, come un animale vecchio e malato in attesa della morte, era rimasto, del tutto inconsapevole del corpo di Annina, freddo e solitario, che giaceva abbandonato poco distante.

                                                             

                                                                  *                                                            

                                                                

Mentre i carabinieri lasciavano la caserma con Giuseppe seduto alle spalle del tenente Augello, Attilio raggiungeva la chiesa di San Rocco. Isidoro avrebbe dovuto farsi trovare nei pressi del luogo dove aveva rinvenuto il corpo di Annina, ma il suo dovere egli sentiva di averlo già compiuto: quella poverina era morta ormai, mentre le sue bestie, ancora vive e vegete, necessitavano di cure.

Giuseppe aveva parlato della tanca, ma il territorio vasto apriva la mente di Attilio a ogni tipo di congettura. Tutte tragiche, ripensando alle parole del pastorello. Guardandosi attorno, oltre alla chiesa e a quelle file di pietre che ricordavano le antiche mura, Attilio non sapeva dove soffermare lo sguardo. In quella vastità di vegetazione bruciata e inaridita dal sole il corpo di Annina poteva trovarsi ovunque. Egli non conosceva quel territorio e non si era ancora reso conto della spaccatura del terreno, che si trovava proprio sulla sommità di quella montagna; così come Annina nella sua cieca corsa verso il baratro, non aveva avuto percezione della chiesetta, posta più in basso e nascosta dalla macchia.        

Quel giorno grosse nuvole nere erano tornate a coprire il cielo e dopo la pausa degli ultimi giorni un vento da ponente rinfrescava l'aria. Attilio si riparava come meglio poteva, tirando su il colletto della giacca. Non sapeva che cosa aspettarsi e il tremore dentro e fuori il suo corpo non ne voleva sapere di fermarsi. A tratti vampe di calore gli ricordavano che la sua convalescenza non era affatto terminata e una ricaduta della malattia avrebbe di certo potuto ucciderlo. Ma non se ne preoccupava, tutto il suo essere ora era concentrato su ciò che lo circondava e la chiesa abbandonata sin dal primo momento in cui l'aveva intravista così solitaria, maltrattata dal tempo e dagli uomini, lo attirava a sé. I primi passi sul sagrato coperto da uno strato di foglie essiccate avevano provocato uno scricchiolio e un piccolo animaletto dei boschi, forse un roditore, era corso via, passandogli a poca distanza. Prima di oltrepassare l’ingresso della chiesa Attilio si era guardato ancora una volta attorno: percepiva il silenzio come fosse una inquietante entità e il cuore aveva preso a battergli velocemente. L'interno della chiesa era vuoto fatta eccezione per la presenza di una grande panca in muratura, posta al centro della sala, sopra cui, si narrava, un tempo venivano adagiati i morti di morte violenta per la benedizione, prima di essere sepolti. Oltre a quella Attilio riconosceva solo terra e polvere e ragnatele, ma ad un tratto, buttando l'occhio in direzione dell'angolo prossimo all'ingresso, proprio mentre si apprestava ad oltrepassarne la soglia, veniva attratto da quello che aveva tutta l'aria d'essere un fazzoletto da testa. Sudicio, ma di stoffa buona e con ancora il ricordo di una fragranza delicata imprigionata tra le trame. La reazione a quella scoperta aveva colpito Attilio come un pugno allo stomaco: egli sapeva chi l'aveva posseduto. Quel fazzoletto apparteneva ad Annina, ne era certo. Non era passato poi tanto tempo dallo scontro-incontro con la dolce Annina e davanti all'immagine di quel viso di madonna incorniciato da quello stesso fazzoletto Attilio si buttava in ginocchio, stringendolo tra le sue mani e lasciandosi andare al pianto.         

Solo lo scalpiccio degli zoccoli dei cavalli lo ridestarono dall'abbandono e uscendo come una furia dalla costruzione poco c'era mancato che non finisse travolto dalle cavalcature, che proprio in quell'istante transitavano lì davanti. Giuseppe, smontando dalla cavalcatura con un agile balzo riconosceva nel giovane colui che aveva fatto ruzzolare a terra e senza spiccicare parola, ma fissandolo con insistenza negli occhi formulava in silenzio tra sé la domanda che lo aveva tormentato per tutto il viaggio. Ma oltre la spalla di Attilio Giuseppe non scorgeva nessuno: il bandito che aveva nascosto la sera prima era di certo andato via, quindi era inutile farne cenno. Suo padre non lo avrebbe approvato e perché prendersi le botte quando quello chissà dov'era? Aveva portato i carabinieri dove gli era stato comandato, ma Isidoro non aveva specificato il punto esatto del ritrovamento: cosa doveva fare ancora? La cosa migliore per lui era quella di raggiungere l'ovile e avvisare il padre dell'arrivo dei carabinieri.

Nel frattempo il maresciallo che guidava la truppa rivolgendosi ad Attilio ne chiedeva il nome e il motivo della sua presenza in quel luogo. Insospettito dal fazzoletto che il ragazzo ancora stringeva, nel momento in cui si abbassava per riceverlo nelle proprie mani, con un gesto del capo segnalava al resto degli uomini di stare in guardia. Ma l'aspetto dimesso di Attilio e l'intervento del tenente Augello che riconosceva in lui il cugino di Eugenio Dasso avevano fatto sì che il nervosismo per il momento si placasse.

Attilio stava riprendendo a poco a poco il controllo di sé e di certo vedersi circondato dai militari influiva non poco sulle sue emozioni; non vedendo Eugenio tra loro però ne rimaneva deluso. Il tenente Dasso avrebbe raggiunto quel primo drappello di lì a poco, gli disse il tenente Augello, mentre si dirigeva a ispezionare l'interno della chiesa, dietro ordine del maresciallo: essendo partito con il secondo gruppo li dividevano ancora almeno quindici minuti. 

Tranquillizzato, Attilio si preparava a partecipare anch'egli alle ricerche quando uno sparo di carabina riempiva l'aria attorno a loro. Al grido del maresciallo i cavalieri smontavano dai cavalli per portarli sul lato della costruzione e per mettersi al riparo essi stessi. Attilio, cui era stato ordinato di stare al coperto, seguiva i movimenti dei militari. Giuseppe che era corso anche lui al riparo, sapeva di dover raggiungere l’ovile, ma la sua giovanissima età non disdegnava quell’insolita avventura, per cui era rimasto fermo al suo posto. Allo sparo non era seguita risposta alcuna e solo uno stormo di uccelli alzandosi in volo dava movimento all'immagine di quel luogo, per il resto tutto restava immobile.

 

                                                              *                                           

                                                                                 

     La corsa sfrenata di Giuseppe, che per raggiungere la caserma del villaggio non aveva badato a ostacoli di sorta, non gli aveva di fatto impedito di gridare a tutti la notizia. Le donne e gli uomini, intenti ad arare o a seminare la terra, in cui il bambino si era imbattuto, erano stati tutti resi partecipi della notizia e tra questi, oltre ad Attilio, anche Gavino, per un’assurda casualità, se lo era ritrovato sulla propria strada.

In groppa al suo cavallo, dopo aver salutato Eugenio, egli si recava all’azienda agricola, mantenendo un’andatura piuttosto lenta. Vedendo quel furetto andargli incontro si era fermato ad aspettarlo. Era stato solo per soddisfare la sua curiosità: in quel momento l'animo di Gavino era pervaso da un sentimento ricco di emozioni che per la prima volta poteva chiamare amore e che lo stupiva alquanto, per la potenza con cui si sentiva afferrare lo stomaco e dal quale non voleva essere abbandonato. Potersi distrarre con le stravaganze di un bambino che quasi certamente correva all'inseguimento di una qualche bestiola, lo divertiva. Era pronto a bloccare Giuseppe afferrandolo per la collottola della maglia quando con sua sorpresa quello scricciolo d’uomo aveva rallentato il passo e, chissà per quale motivo, forse preso dalla foga di dare al mondo intero la notizia di cui lui era l'unico messaggero, urlava a Gavino che il corpo della signorina era stato trovato. Che suo padre l'aveva trovato. A San Rocco.

Gavino, che conosceva quel territorio come le sue tasche era magari anche più perspicace della maggior parte degli uomini ai quali era stata già data la notizia, con il pensiero aveva raggiunto non solo la chiesa ma, visualizzando mentalmente tutto il podere, ne individuava l’orrida ferita del terreno, fatale per chi si avventurava senza meta o per chi fuggiva da qualcosa o qualcuno. E di sicuro Annina non si era arrischiata volontariamente sin lassù: qualcuno l’aveva inseguita. E, lasciando al bambino la ripresa della salita, Gavino con una pressione decisa dei talloni sul ventre del suo cavallo lo aveva portato immediatamente al galoppo.

 

                                                                           *                                                       

                                                                            

Gavino quindi aveva preceduto di pochi minuti Attilio, raggiungendo per primo il luogo della tragedia. Egli, dopo aver messo al sicuro la propria cavalcatura, si era sporto sul ciglio del costone per guardare verso il basso. Annina era lì, dove anche Isidoro l’aveva vista. Gavino pensava a un modo per riportarla in superficie ma da solo era impensabile: rami forti e fronde robuste sbucavano dalla parete esterna della roccia e avrebbero potuto facilitargli la discesa, ma risalire con il corpo della ragazza avrebbe voluto dire rischiare la propria vita. Aveva bisogno dell’aiuto di qualcuno, ma sapeva bene che presto i carabinieri avrebbero raggiunto anch’essi quel luogo, avvisati dal pastorello, e a lui non restava che farsi da parte. Mentre con lo sguardo faceva il punto della situazione una rabbia acuta iniziava ad afferrargli la gola: Salvatore non era estraneo a ciò che gli si parava davanti. Quella povera donna non era finita in fondo alla voragine arrivandoci per proprio conto: qualcuno l’aveva spinta di sotto e quel qualcuno era stato avvistato proprio in quei giorni, mentre si aggirava per il villaggio. Non aveva prove che confermassero quei sospetti ma, pensando ad Attilio, la morte della ragazza gli appariva come una coltellata che di certo avrebbe frantumato orribilmente e definitivamente il cuore del giovane. Un’ultima sfida che avrebbe deciso le sorti dei due fratelli, ma che Gavino non avrebbe permesso. Attilio era inesperto e fisicamente provato dalla recente malattia. Salvatore aveva dalla sua la crudeltà e l’assenza di compassione. Quei mesi di latitanza inoltre, lo avevano reso un essere mostruoso.

Con in testa una girandola di pensieri, mentre Gavino si rimetteva in piedi, risollevando entrambe le ginocchia dal terreno, un rumore sordo di passi che avanzavano nella sua direzione lo faceva irrigidire. In pochi secondi il corpo di un uomo dalle fattezze robuste e dalla poca agilità gli era già addosso, gravandogli sulle spalle con tutto il suo peso. La reazione di Gavino era stata immediata, ma non era facile liberarsi da quell’abbraccio mortale. Il coltello nella mano dell’assalitore gli aveva già provocato una ferita al braccio che iniziava a sanguinare, ma Gavino non se ne curava affatto, preso com’era dal tentativo di rendere lucidi e sicuri i movimenti che lo avrebbero salvato da una seconda stilettata. Il viso dell’aggressore gli era ancora sconosciuto, ma dopo un tira e molla di arti che si allacciavano e si scioglievano, tra il ringhio e il respiro affannoso dei due lottatori, Gavino riusciva finalmente a stringere nella morsa della sua mano il polso destro dell’altro, a prendere il coltello e a lanciarlo lontano. A quel punto Gavino aveva potuto fissare l'uomo che aveva davanti: Salvatore respirava a fatica, il viso congestionato e gli occhi spiritati lo rendevano simile a un folle.

                                         

                                                            *                                         

                           

Dopo un’ennesima notte di non sonno, ancora prima dell’alba, Salvatore aveva deciso di lasciare l’interno della chiesetta. Quella costruzione mezzo diroccata rappresentava una trappola dentro la quale gli uomini che gli davano la caccia lo avrebbero inchiodato. Non si era allontanato di molto però. Aveva fame e pensava di fare visita a uno dei tanti ovili della zona. Gli era ritornato alla mente il pastorello della sera innanzi, ma aveva già rischiato troppo fermandosi in quel nascondiglio, meglio non sfidare ulteriormente la sorte. Avvicinarsi agli altri ovili significava rischiare oltremodo, ma la fame era impellente e soprattutto la sete. Doveva bere.

Procedeva cauto spostandosi da una roccia all’altra quando il calpestio degli zoccoli di un cavallo lo avevano messo in allarme. Acquattandosi tra i cespugli grande era stata la sua sorpresa quando aveva riconosciuto il cavaliere che cavalcava serio e impettito sulla sella. Mai avrebbe sperato di poter cogliere di sorpresa quell’uomo, dopo Attilio, suo immenso cruccio. In quel preciso istante Gavino rappresentava l’origine di tutti i suoi guai, a partire dal giorno in cui, nella cucina di suo padre, era stato accusato di aver rubato e macellato quella dannata pecora. Sì – pensava pieno di orgoglio Salvatore – era stato lui, ma lo avrebbe negato sino alla morte e sarebbe stato pronto a sacrificare uno qualunque dei suoi compari per sgravarsi da quell’accusa. Non era stato Gavino a tradirlo, Salvatore lo sapeva benissimo, Gavino era solito combattere le proprie battaglie a viso aperto, ma quell’uomo lo aveva comunque reso ridicolo, sbeffeggiandolo davanti al resto della sua banda, e quell’affronto non lo poteva dimenticare. Aveva quindi seguito Gavino, sino a che quello non era balzato di sella e a piedi aveva raggiunto il ciglio del costone. Non si era soffermato a pensare a un piano. Raramente egli si fermava a riflettere e mentre l’ignaro sembrava osservare il panorama, accovacciato sulle ginocchia, Salvatore come un orso, pesante e sgraziato, gli si era buttato sopra. Se fosse stato scaltro sarebbe arrivato alle spalle dell’uomo in punta di piedi e poi gli avrebbe piantato il coltello nella schiena, ma a tenere in vita Salvatore sino a quel giorno non era stata di certo la sua furbizia, bensì una forte dose di fortuna e qualche compare che, non senza ricevere niente in cambio, gli guardava le spalle. Gavino invece, ripresosi dalla sorpresa, sapeva bene come affrontare un uomo, sebbene armato di coltello e pronto ad ucciderlo.

Con una mossa fulminea Gavino modificava la presa iniziale e a quel punto, con uno sforzo sovrumano, riconoscendo il suo aggressore, acceso da una rabbia bestiale, tenendo l’uomo per i capelli e premendogli la faccia contro il terreno sassoso e dalla rada e spinosa vegetazione, con tutto il peso del suo corpo andava a gravargli completamente sulla schiena. Il giovane, urlando per il gran dolore, sentiva la pelle del volto aprirsi in sottili ferite e sanguinare.

     -  “ Hai fatto tu questo?” –.

Salvatore in un primo momento, gli occhi bagnati dalle lacrime e dal sangue che gli colava dalla fronte, non capiva a cosa l’altro facesse riferimento, ma continuava a contorcere il busto e le gambe nel tentativo, illusorio, di strattonarsi e liberarsi. Le braccia incrociate e tenute ferme dietro la schiena a ogni suo movimento si tendevano sempre di più e il dolore alle spalle diventava insopportabile.

     - “ Salvato’, te lo ripeto per l’ultima volta: questa è opera tua?” –.

A quel punto Salvatore, con la testa e parte del busto spinti oltre il ciglio del costone roccioso, per un attimo si concentrava verso la profondità della voragine. Non poteva credere a ciò che vedeva. Quel corpo scomposto e senza vita era di Annina, lo riconosceva, ma sapeva bene di non essere stato lui a ridurlo così. E gli tornava alla mente la violenza che aveva inflitto alla povera ragazza, a quel corpo rigido che poi aveva lasciato inerme nel sottobosco, piuttosto distante da lì. La ragazza di certo aveva perso il controllo, era fuggita via, da lui, dal villaggio, dal mondo intero: nessuno avrebbe avuto pietà di lei, nessun uomo l’avrebbe mai più rispettata. Era ciò che aveva desiderato avvenisse, no? La giovinetta era scappata per andare incontro alla morte. La morte l’aveva salvata dalla vergogna e ora il corpo era lì, proprio davanti ai suoi occhi.

Salvatore giaceva sotto il peso di Gavino che ancora lo strattonava inveendogli contro per tutto il male di cui era stato la causa. Salvatore, costretto a guardare verso il fondo della sua stessa coscienza per non averla più dinnanzi stringeva gli occhi con forza, fino ad avere le vertigini, mentre un lamento, forse un pianto gli risaliva dalla gola, arsa dalla polvere.

Poi d’improvviso aveva sentito uno sparo e il corpo inerme di Gavino che gli gravava ancora addosso e che lo imbrattava di viscido sangue scarlatto.

 

                                                              *                                                               

 

Da settimane ormai Nicolò si era allontanato dal nascondiglio che lo aveva visto al servizio di un uomo con cui si era ritrovato a condividerne la latitanza. Lui non apparteneva a quel territorio: arrivava da una zona dell’isola più interna e inospitale. Le persone dalle quali si nascondeva avevano la triste nomea di essere tra i sicari più sanguinari. Anche Salvatore non aveva scrupoli ad uccidere chicchessia, ma dopo l’accoltellamento e quindi dopo averlo visto in fin di vita, Nicolò, poco più giovane di lui, animato da un moto di altruismo, si era prodigato nelle cure, strappando il compare da morte certa. Le dosi massicce di alcool ingollato però avevano creato dipendenza e il giovane bandito, in piena crisi di astinenza, aveva iniziato a dare segni di pazzia e a elargirgli una quotidiana dose di botte se non rientrava al nascondiglio con provviste di vino e cibo. Nicolò non aveva timore di Salvatore, più che altro si era stufato di sopportare quella violenza gratuita e così aveva deciso che per qualche tempo lo avrebbe lasciato cuocere nel proprio brodo.

Due guardie da tempo seguivano i suoi spostamenti, perdendone le tracce ogni qualvolta il ragazzo, simile a una capra di montagna, si inerpicava sulle rocce, penetrando tra gli anfratti rocciosi. Dopo qualche giorno di vagabondaggi, lo sorpresero mentre si bagnava sulla riva del lago. Mentre veniva scortato a piedi verso la caserma, una delle due guardie, quella che gli aveva legato le mani con una catena, aveva compiuto l’imprudenza di sonnecchiare con le spalle contro una roccia, mentre il collega si era accovacciato poco distante per liberare l’intestino. Nicolò ne aveva approfittato per strappare la carabina dalla mano del suo guardiano e, dopo aver svoltato per un viottolo, si era messo a correre verso la campagna. La guardia aveva gridato con quanto fiato aveva in gola, ma Nicolò pareva un capriolo e presto aveva raggiunto la montagna. Si era cacciato in un folto cespuglio e lì era rimasto per tre giorni e tre notti, riuscendo a liberarsi dalla catena. Trascorso quel periodo di tempo aveva deciso di tornare al nascondiglio. Aveva pensato a Salvatore e pur senza provare emozione alcuna nei suoi confronti, ma pervaso da un’arida curiosità, più guardingo del solito aveva ripercorso i sentieri angusti a lui ben noti. Salvatore però non era all’interno della grotta. Nicolò era rimasto incerto sul da farsi poi si era convinto che il ragazzo non sarebbe tornato a breve e la necessità di sfamarsi lo aveva riportato in pianura.

La notizia della scomparsa di Annina aveva ormai raggiunto tutti i villaggi sparsi nella zona. I boschi e le campagne pullulavano di carabinieri e Nicolò faticava a trovare punti sicuri in cui nascondersi. Ma ecco che nel suo vagabondare sospettoso e con gli occhi sempre ben aperti, nel pomeriggio del giorno precedente, anche Nicolò si era imbattuto in quel pastorello che, simile a uno strillone, urlava ai quattro venti il ritrovamento del corpo della povera Annina, nella tanca di San Rocco. Quella notizia avrebbe dovuto portare Nicolò da tutt’altra parte, ma essendo egli poco distante da quel podere e non avendo niente di meglio da fare si era spinto proprio nella zona più infestata dalle guardie e dai soldati, attraversando i campi di erba alta, con la carabina a tracolla sulla spalla e con la schiena sempre piegata in avanti.    

Nicolò si ricordava bene della chiesetta abbandonata, nascosta dalla vegetazione, ma una volta sul luogo si era tenuto distante da essa, sbirciando attraverso i cespugli e assicurandosi che non vi fosse anima viva. Qualcosa di vitale però colpiva i suoi sensi e mentre si muoveva guardingo cercava di stabilirne la provenienza. Spostandosi di diversi metri non aveva tardato a scorgere i due uomini che lottavano proprio sul ciglio del precipizio. La decisione di sparare contro Gavino non era stata indotta da un motivo personale, infatti egli non lo aveva mai visto, ma riconoscere Salvatore e vederlo soggiogato dalla forza di quell’individuo aveva innescato una forma di difesa nei confronti del compare che di fatto faceva sparire tutte le precauzioni per proteggere la propria incolumità, adottate sino a quel momento.

Una rosa di pallottole avevano centrato Gavino alla schiena. Gli occhi dell’uomo erano rimasti spalancati, ma vitrei perché la vita lo aveva abbandonato in quello stesso istante, senza che potesse vedere il volto del suo assassino.

Moriva così Gavino Biosa: per mano di un giovane, un ladro di galline a lui sconosciuto, e con il quale non aveva mai avuto a che fare. Non era la fine che aveva immaginato per sé e se avesse avuto il tempo per un’ultima boccata di ossigeno di questo egli si sarebbe rammaricato. L’ultimo respiro lo avrebbe speso per chiedere perdono a Eugenio, gridandogli tutto il suo amore. Quel grido avrebbe scosso il suo corpo mortale per un’ultima volta e lacrime di gioia, abbandonando quegli occhi azzurri ormai senza più profondità, sarebbero state accolte dalla terra, custode dei più recenti e amati ricordi, per sempre.

 

                                                             *

 

Quando il secondo gruppo di carabinieri aveva raggiunto il luogo segnalato, Eugenio e i suoi avevano ricevuto l’ordine di scendere da cavallo e di proseguire a piedi attraverso l’intrico di alberi e di folta vegetazione.

I primi militari arrivati erano già tutti posizionati e aprendosi a ventaglio, l’arma pronta a sparare, avanzavano verso quella che sembrava essere una spianata di pietre e bassi cespugli. Seguendo lo sbuffo di fumo che per pochi istanti aveva disegnato una spirale portata via dal vento, gli uomini si erano bloccati quando a poca distanza avevano individuato il corpo di Gavino, crivellato dalle pallottole e riverso a terra, in una pozza di sangue.

Poco più indietro Eugenio e gli altri militari procedevano, anche loro con lo sguardo puntato verso la piattaforma granitica. Eugenio vedeva i colleghi davanti a sé, ma il maresciallo che era con loro dava ordine di allargare il proprio cerchio e garantire più protezione. Eugenio quindi puntava il suo sguardo verso la macchia nel tentativo di sorprendere chiunque si fosse nascosto in mezzo ad essa. Il secondo sparo non sorprese il suo gruppo: il tenente Migheli, addentrandosi nella boscaglia, aveva percepito un movimento alla sua destra e si era fermato, facendo cenno di acquattarsi. Poco distante Nicolò cercava di caricare l’arma ed era quasi pronto a sparare se il militare non fosse stato più reattivo e bene addestrato. Dopo lo sparo il fucile era saltato dalle mani del giovane ragazzo e il corpo si era accasciato a terra. Raggiunto dal resto della squadra il tenente Migheli indicava loro un uomo seduto con la schiena appoggiata contro un grosso albero. Se ne stava immobile, con gli occhi chiusi, le braccia di fianco al corpo e con le palme delle mani rivolte verso l’alto. La testa, senza berretto, era incrostata di sangue e terra ed era leggermente reclinata di lato: pareva morto, ma non lo era. Respirava lentamente e bisbigliava parole incomprensibili.

 

Attilio aveva obbedito agli ordini e per tutto il tempo era rimasto al riparo delle mura dell’antica costruzione, insieme a un militare della sua stessa età e con i nervi a fior di pelle. Entrambi avevano richiamato più volte Giuseppe che sbirciava oltre l’angolo di pietre, nella speranza di vedere cosa succedeva. Non avevano potuto vedere il passaggio di Eugenio e degli altri carabinieri perché quelli avevano percorso un sentiero discosto dalla chiesa. Quando il tenente Migheli aveva fatto fuoco contro Nicolò, Giuseppe, sorpreso da quello sparo, aveva fatto un balzo indietro scivolando nelle braccia di Attilio, pronto a sorreggerlo per evitare che finisse per terra. Il giovane militare, preso da un attacco d’ansia, continuava a guardarsi intorno e tra sé pregava che tutto finisse al più presto.

E realmente tutto era finito, ma egli non poteva saperlo.

                                           

                                                               *

                                                                      

Tirare su Salvatore era stata un’impresa faticosa che aveva impegnato diversi uomini. Sorreggerlo era stato ancora più arduo. Qualcuno dei militari di certo, dentro di sé, pensava che avrebbero fatto meglio a sparargli, ma avrebbe voluto dire commettere un omicidio volontario. Qualcun altro lo guardava spazientito e avrebbe voluto scuoterlo per farlo tornare alla realtà, ma Salvatore era ben lontano dalla realtà. Egli sembrava meritarsi l’appellativo di pazzo. Tuttavia, non appena aveva smesso di strattonare, divincolarsi e urlare frasi sconnesse, Salvatore si era lasciato trascinare dagli uomini in divisa, senza più opporre resistenza. Un sorriso ebete era rimasto a distorcere la sua bocca dalle labbra screpolate e spaccate, da dove stillavano ancora gocce di sangue miste alla saliva.

Eugenio non aveva mai conosciuto di persona suo cugino Salvatore, ma lo riconobbe ugualmente dato che in caserma campeggiava una bacheca con esposte le fotografie dei latitanti, tra queste anche quella di Salvatore. L’aveva fornita suo padre, per ordine del Capitano. Di certo ora era molto diverso dall’immagine di quel ragazzo dall’aria torva, da duro, e con le guance coperte dai brufoli, ritagliata dal gruppo familiare. Mentre lo guardava Eugenio pensava ad Attilio e a quanto enorme era stata la sorpresa nel saperlo a pochi metri da lì. Doveva fare in modo di stargli accanto: Salvatore sembrava innocuo, ma Eugenio temeva lo stesso un gesto inconsulto, nel momento in cui si fosse trovato davanti suo fratello. Accelerando il passo egli percorreva il tratto in declivio per avviarsi sicuro verso la chiesa, dove gli avevano detto si trovasse suo cugino.  

Nel mentre diversi carabinieri si stavano prodigando affinché il corpo di Annina venisse recuperato. C’era molta animazione in quella piazzuola di roccia e Eugenio, incuriosito anche lui da tutta quell’agitazione decideva di spendere pochi secondi prima di raggiungere Attilio, per avvicinarsi a vedere. Non era morbosità la sua, egli si sentiva attratto da una forza che a mano a mano che si avvicinava lo calamitava verso quel punto. Solo dopo essersi ritrovato in ginocchio, con la testa di Gavino sulle sue cosce, si era reso conto di aver percorso gli ultimi metri di terreno di corsa. L’urlo che gli scaturiva dalla gola non aveva più niente di composto e di razionale. Anche lui, come Salvatore, stava perdendo il lume della ragione e lo desiderava, dio come lo avrebbe desiderato. Invece, dopo alcuni minuti di angoscia pura, la coscienza gli aveva imposto di riappropriarsi di tutto il suo autocontrollo perché il maresciallo, il capitano, tutti i suoi colleghi, gli si erano fatti intorno e lo osservavano increduli. Ricacciando indietro le lacrime, ma soffrendo dentro di sé sino a sentire un acuto dolore al petto, Eugenio chiudeva gli occhi del suo uomo e delicatamente ne poggiava la bella testa sulla terra, rossa del suo stesso sangue, evitando di posare lo sguardo sul quel petto crivellato dai colpi. Asciugando poi i propri occhi fiammeggianti, Eugenio si voltava a incontrare lo sguardo sgomento di Attilio il quale, raggelato dalle urla rauche di Eugenio, con passo lento e tremante, avanzava tra due ali di militari e di decine di persone che dai villaggi e dalle campagne limitrofe sopraggiungevano in quel luogo di morte. Dietro Attilio, coperto da quell’esile e triste figura, Giuseppe osservava il viso di Eugenio, reso irriconoscibile dal dolore, e viveva quella scena assorbendone tutta l’immensa tragicità. Alla loro destra il passaggio di Salvatore con i polsi trattenuti da una catena ne aveva richiamato gli sguardi. Attilio, avvicinandosi a quella misera figura si sforzava di riconoscere i tratti del fratello e lo fissava cercando di ingoiare quel po’ di saliva che a stento riusciva a inumidirgli l’interno della bocca. Nel momento in cui i due si trovarono uno di fronte all’altro Salvatore aveva sollevato gli occhi che immediatamente si erano accesi per la sorpresa. In quei pochi secondi Salvatore rimaneva immobile, le guardie al suo fianco pronte a bloccare ogni suo gesto. Attilio sosteneva lo sguardo, la mente vuota, il respiro regolare: “ Che sia fatta la volontà di dio”, era tutto ciò che gli veniva da pensare.

 

                                                           *

 

Il giorno dell’esecuzione Attilio non era presente. Accanto a Salvatore, nella piazza del patibolo nella città dove sorgeva il Castello, solo il prete e il boia.  

Nel suo villaggio, davanti al portone della chiesetta, in una tarda mattinata invernale, ad attendere il carretto con sopra disteso il corpo senza vita di Salvatore, c’erano i genitori e qualche parente. Attilio era lontano da lì.

Immerso nei suoi pensieri lanciava sassi sul pelo dell’acqua placida di un torrente. Ogni tanto si voltava a osservare Eugenio. Questi, seduto sull’erba umida e fangosa, aveva seguito suo cugino senza fiatare e ora osservava attento i cerchi che quei sassi creavano nell’acqua. Improvvisamente un brivido di freddo gli aveva percorso il corpo e Attilio lo aveva raggiunto solerte per abbracciarlo e sussurrargli parole di conforto. Poi, vincendo la timidezza, il ragazzo si infilava la mano nella tasca del pantalone per offrire a Eugenio quel tesoro che aveva a lungo tenuto nascosto. Nel vedere il sasso di forma triangolare, reso ancora più liscio dagli anni in cui era stato sfregato dal tessuto, Eugenio cedeva alla commozione, ricambiando la stretta di Attilio.            

                                            

                                          

                                         

Epilogo

 

L’uomo, vestito con abiti eleganti e a capo scoperto, varca l’ingresso dell’antico camposanto del paese, delimitato, su tre lati, da una bassa recinzione in ferro arrugginito. Camminando lungo il terreno invaso dall’erba alta e dalle margherite, con le mani gira e rigira la falda del cappello e intanto osserva assorto il susseguirsi di lastre di marmo e croci annerite dalla muffa del tempo. Leggendo tra i nomi e le date scolpite ogni tanto si ferma, lasciando che i minuti scorrano lenti. Il cimitero è piccolo e lui con lo sguardo può abbracciarlo per intero, ma ci impiega lo stesso una buona mezz’ora prima di raggiungere la tomba che cerca, proprio in fondo a quel quadrato di terra. La lastra che poggia sul muro di confine contiene quattro fotografie, ognuna racchiusa dentro una cornice di gesso e protetta da un vetro sottile. Non ci sono date su quella lapide, solo i nomi e l’età dei defunti. Guardando quelle fotografie l’uomo non riesce a trattenere l’emozione: sebbene diversi anni siano ormai trascorsi, egli non ha mai smesso di rivivere nella sua mente i ricordi del passato.

Ora che ha deciso di ritornare nella malinconica terra natia è un uomo fatto, ma le lacrime bagnano il suo viso dalla pelle ancora tesa. Egli non ha perso quell’aria un po’ ingenua e scanzonata del ragazzino che durante le feste si lasciava trasportare dal cerchio della danza: leggero, ondeggiante, intenso e frenetico. Porta un paio di occhialini dalla montatura rotonda che durante gli anni di studio hanno contribuito ad attirare gli sguardi sfrontati delle signorine. Sulle lenti bianche e sempre lucide si possono immaginare i riflessi della tastiera della macchina per scrivere, a lui ormai così famigliare. Il suo mestiere di scrittore lo ha spinto a viaggiare o forse è meglio dire che il suo desiderio di viaggiare ad un tratto lo ha spinto a scrivere.         

Attilio fissa assorto la fotografia e rivede Eugenio lì, davanti a sé. Lo rivede in quel lungo periodo di depressione, seguito alla morte di Gavino, durante il quale gli era stato vicino, facendogli decidere di abitare nella sua stessa casa. 

Con lui Eugenio non si era mai aperto completamente, ma era bastato poco; in fondo erano bastate pochissime frasi e il luccichio nei suoi occhi; l’emozione che interrompeva la voce; nonché il tremore a entrambe le mani che non lo aveva mai più abbandonato, fino al compimento della sua stessa vita; il corpo tutto di Eugenio di fronte ad Attilio rappresentava di per sé una verità talmente profonda e evidente, da rendergli inutili le più ovvie domande. Essere testimone di quella sofferenza che in sua presenza Eugenio non si curava di nascondere era abbastanza per lui che, per quanto gli era stato possibile, aveva sorretto e consolato. Poi, quando per Attilio era arrivato il momento di partire, seppur a malincuore, ma incoraggiato da padre Pino e dalla fermezza dello stesso Eugenio a non rimandare oltre, aveva dovuto dirgli addio.

 

                                                             *

   

A Eugenio la fedeltà nei confronti dell’arma non era mai venuta meno, casomai la sua dedizione era cresciuta ulteriormente. Nessuno però riusciva a spiegarsi il perché improvviso di quelle sue alzate di testa. Nessuno poteva saperlo perché nessuno era a conoscenza dello struggimento che provava dentro di sé e che non trovava consolazione alcuna. Doveva tenersi tutto dentro Eugenio e sfogare la propria frustrazione e rabbia nelle azioni sul campo, nella caccia ai delinquenti. A dispetto di ciò che aveva predicato a suo tempo ad Attilio il suo carattere si era trasformato: era diventato cinico, spietato e impavido, spesso mettendo in pericolo i suoi stessi colleghi e la buona riuscita delle operazioni. Più di una volta il capitano lo aveva minacciato di prendere provvedimenti seri nei suoi confronti, ma lui non se ne preoccupava e dopo un periodo di riposo forzato, riprendeva come prima. Eugenio sfidava la morte, semplicemente. E la morte aveva dunque accettato la sfida e l’aveva anche vinta.

La mano era stata quella del Serpente; l’arma un fucile. Al grido: “Compagni coraggio”, Eugenio, durante un appostamento, si apprestava a raggiungere l’interno di una capanna, dentro la quale si era nascosto un ricercato. Con la furia di un gatto selvatico il bandito si era lanciato fuori con il fucile in faccia, scaricando prima una delle canne a destra e poi l’altra a sinistra. Il carabiniere Eugenio Dasso era stramazzato al suolo. Gli altri, i compagni, si erano mossi istintivamente, come per scansare il colpo, e il bandito era saltato come un capriolo in mezzo agli aggressori. Gettato a terra il fucile scarico aveva impugnato le pistole correndo a capofitto verso il ciglione del monte, riuscendo a nascondersi.

 

                                                                 *

 

La notizia della morte di Eugenio aveva raggiunto Attilio in Australia, molti mesi più tardi. Il mittente della triste missiva aveva cercato le parole più dolci per raggiungere il cuore del ragazzo. Un cuore che egli aveva conosciuto bene e che aveva aiutato a crescere. La lettera conteneva i ragguagli dell’episodio perché padre Pino sapeva di non dover nascondere niente. Preso da un moto d’affetto aveva poi affidato alla penna il desiderio di riabbracciarlo, un giorno. Infine, quasi a riprendersi per l’euforia di quello slancio, aveva deposto tutte le speranze nelle mani del suo dio, invocandolo con quelle poche parole che in tanti momenti della sua vita gli erano affiorate sulle labbra: “ – Se dio vuole, ragazzo mio; solo se dio lo vorrà! -”.  

 

E il suo dio in questo è stato clemente, permettendo ad Attilio di fare ritorno nella sua terra e di poterne raccontare le storie.

 

2016

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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