Se Dio vuole
A Riccardo e al suo lungo viaggio
Il ciocco di legno,
intaglio dopo intaglio, aveva ormai preso la forma desiderata e Attilio, dopo
mesi di paziente lavoro, poteva girare e rigirare tra le mani callose e
sporche quell'oggetto finito che - sorrideva di tenerezza al solo pensiero -
avrebbe fatto urlare di gioia Sebastiano. Eppure, seduto sul grosso masso, lo
sguardo accigliato e perso fra la distesa d'erba fresca e oltre, verso i
dolci pendii, dove i contadini provvedevano alla semina sulla terra appena
arata, Attilio sapeva bene che quel dono non sarebbe bastato a consolare le
lacrime che, in un secondo momento, sarebbero sgorgate dagli occhi del
bambino: deluso e disperato. Perché Attilio desiderava con tutto se stesso
lasciare quei luoghi per poter seguire, al di là delle montagne grigio
azzurre, la strada che lo avrebbe guidato verso un futuro che lui desiderava
ardentemente poter afferrare e vivere. La sua coscienza però era rosa dai
dubbi. L'unica certezza che possedeva era il legame che lo univa a Sebastiano
e sapeva bene che il suo cuore si sarebbe spezzato nell'attimo stesso in cui
avrebbe dovuto dirgli addio. Per questo aveva rimandato tanto a lungo la
partenza decidendo, nell'autunno precedente, di iniziare a lavorare quel
pezzo di legno e, a lavoro ultimato, poter lasciare a Sebastiano un ricordo
di sé. Attilio aveva diciott'anni e la sua giovane vita era già stata messa
alla prova da privazioni e sacrifici: servo pastore dall'età di dieci anni,
il suo carattere era stato plasmato dalla natura aspra e selvaggia, che aveva
fatto di lui un vagabondo. Nessuna nostalgia mentre
maturava l'idea di abbandonare le basse case del suo villaggio con i vicoli
scuri e tetri, come le vesti delle donne o i cappucci dei pesanti mantelli di
orbace indossati dagli uomini. Nessuna nostalgia, se non per la perdita delle
labbra vermiglie di Sebastiano, sempre pronte ad aprirsi in un sorriso
fiducioso; o dei suoi occhi neri, così grandi che da soli bastavano a
riempire il volto smunto e sempre pallido. Che ne sarebbe stato di lui?
L'inverno appena trascorso era stato particolarmente piovoso e rigido e
Attilio, rintanato insieme al suo gregge in una spelonca gelida scavata da
secoli di vento e pioggia, si era trovato spesso a picchiare i pugni contro
la pietra dura pensando a Sebastiano e al peccato che avrebbe commesso
nell'abbandonarlo. Un peccato che si vedeva costretto a commettere e per il
quale non trovava dentro di sé abbastanza forza per domandarne in anticipo il
perdono.
* Oltre a Sebastiano, il suo
fratellino di appena cinque anni, nella modesta casa della famiglia Dasso, viveva un altro fratello di Attilio, Salvatore.
Questi aveva ereditato dal padre il carattere duro e prepotente e a
vent'anni, anziché lavorare la terra e contribuire al sostentamento della
famiglia, errava per le campagne insieme a una banda di ribaldi,
terrorizzando gli inermi e le donne con attacchi vigliacchi. Negli ultimi tempi s'era
spinto anche oltre, sottraendo un agnello da un ovile, non lontano da lì.
Attilio, che era tenuto in buona considerazione dai pastori della zona, era
stato messo sull'avviso dal proprietario dell'agnello rubato. L'anziano
pastore, dal viso rugoso e cotto dal sole, aveva detto poche parole, ma molto
chiare: - “Bada,
tuo fratello sta giocando col fuoco!“ - . Attilio sapeva bene quanto
la vita di quel ragazzo tanto irruento quanto imprudente potesse essere breve
in un'epoca in cui non ci si faceva scrupolo a usare il coltello o il fucile
per vendicarsi di uno sgarbo. Purtuttavia
quella volta l'intervento del capo famiglia era riuscito a calmare la rabbia
del pastore ed erano stati gli zii stessi a dare una lezione a Salvatore,
dopo aver riparato al torto. Attilio, al contrario di
Salvatore, non aveva ereditato il fisico robusto e tarchiato dei Dasso. Di corporatura snella, si muoveva con grazia e
agilità e quando si trattava di dimostrare di saperci fare con il coltello a
serramanico, sempre pronto nella tasca della giacchetta di panno nero,
raramente trovava qualcuno che lo eguagliasse in quanto a destrezza. Negli otto anni trascorsi
a badare alle greggi Attilio aveva imparato a farsi benvolere dai pastori e a
farsi rispettare dagli agricoltori, svolgendo sempre al meglio i propri
compiti. Aveva soprattutto imparato a stare lontano dai guai e per questo
motivo mal sopportava il comportamento prepotente di Salvatore, verso il
quale nutriva una forma di avversione ben saldata nel profondo del suo cuore:
nel punto esatto in cui nasceva l'amore che lo legava a Sebastiano. Perché
Attilio non aveva mai avuto timore della brutalità delle azioni di Salvatore:
sapeva come difendersene; ma quando scorgeva i lividi e gli ematomi sul corpo
di Sebastiano non si dava pace, arrivando persino a desiderarlo morto, quel
fratello maledetto, assolutamente privo di compassione. La presenza di Salvatore
quindi, da sola sarebbe stata sufficiente a spingere Attilio
lontano dalla casa e dal villaggio; se poi pensava, all'interno delle mura
domestiche, all'autoritarismo di suo padre e alla figura minuta, umile e
sottomessa di sua madre, la voglia di metterci piede era vicina allo zero. Se
non per la presenza di Sebastiano, invisibile a chiunque e considerato alla stessa
stregua del cane di casa. Attilio si struggeva e soffriva non per le proprie
privazioni, ma per la debolezza e l'assenza di difese in un mondo troppo duro
per una creatura come Sebastiano. Durante il giorno egli
teneva spesso con sé il fratello più piccolo e non mancava mai di
trascinarselo dietro quando il richiamo delle feste dedicate ai santi,
celebrate negli spazi campestri intorno ai Santuari e alle Chiese, era troppo
forte. In quelle occasioni il ragazzo si illuminava tutto e, unendosi al gruppo
degli amici con i quali era cresciuto, si lasciava catturare dall'euforia,
dando mostra delle sue qualità di ballerino e facendo morir dal ridere
Sebastiano. Questi adorava guardare suo fratello stando seduto sulla seggiola
di legno, in prima fila, dove Attilio lo aveva sistemato, e dove non mancava
di lanciare uno
sguardo, ogni qualvolta il giro della danza gli riportava davanti quel
faccino affascinato dalla musica e dai colori sgargianti delle vesti
femminili. Per l'occasione le ragazze annodavano sulla guancia sinistra i
fazzoletti di seta, lasciando scoperti i capelli fino a metà testa. I loro
visi arrossati eccitavano come non mai gli animi maschili. Attilio non perdeva un
ballo e quando tentava di fermarsi per prendere respiro ecco che gli amici lo
prendevano sotto braccio per riunirlo al cerchio danzante. La folta
capigliatura scura del ragazzo, trattenuta dal berretto, si inumidiva sulla
nuca e dalla fronte goccioline di sudore scivolavano lente sugli zigomi
sporgenti e sulle guance arrossate e lisce. Egli dimostrava meno dei suoi
diciotto anni e le orecchie leggermente a sventola contribuivano a dargli
un'aria scanzonata. I suoi occhi però avevano preso il vizio di stringersi in
continuazione e quando era assorto nei suoi pensieri le piccole rughe di
espressione parlavano di lui, della sua vita agreste, dei sacrifici che
questa comportava e del desiderio di affrancarsi da quello stato di schiavitù per ambire a
qualcosa d'altro, per sé e per Sebastiano. Spesso pensava a una famiglia sua,
ma ancora non si sentiva pronto a fare la corte alle ragazze del villaggio;
meno che mai a trascinare le contadine in qualche fienile per prenderle con
la forza. Quest'ultimo gli pareva un gesto vigliacco e il solo pensiero gli
ripugnava. Viveva però nel suo
villaggio una ragazza, molto giovane e dai tratti talmente fini e delicati da
farla assomigliare a una madonna, che Attilio non si stancava mai di
guardare. Anche lei partecipava alle feste campestri e lo sguardo di Attilio
la seguiva prima dentro la chiesetta, mentre sedeva dritta e rigida sulla
panca di legno, tra i genitori; poi fuori, nella piazzola antistante il luogo
di preghiera o sotto i portici, costruiti tutt'intorno per offrire ai
pellegrini un riparo dal freddo della notte. Alla ragazza era permesso
partecipare ai balli e subito dopo, a passo svelto e sempre affiancata dalla
serva, raggiungeva una di quelle case di proprietà che spesso circondavano le
chiese: piccole abitazioni che venivano aperte e rinfrescate dai servi delle
famiglie benestanti solo per il tempo della durata della festa. Attilio osservava ammirato
i movimenti aggraziati della giovane donna e quando riusciva a strapparle un
sorriso sospirava felice. Non osava desiderare altro. Annina
apparteneva alla ricca famiglia Ibba e, cosa non
trascurabile, la famiglia Dasso lavorava per suo
padre: questo doveva bastare a tenerlo lontano dalla giovane. Perciò, passata
la festa e terminati i balli, Attilio se ne tornava alla solitudine della
campagna e al suo ovile. Per rendere meno solitarie
e oziose le lunghe giornate Attilio si era procurato un libriccino, ormai
logorato dall'uso, di un poeta estemporaneo noto a chi, come lui, amava
recitare poesie, improvvisandole sul momento. Il libriccino lo occupava due o
tre ore al giorno e durante quelle piacevoli letture, eseguite ad alta voce,
l'unico ascoltatore presente era Lampo, il suo cane da pastore che,
meravigliato, lo guardava con tanto d'occhi. Ma non sempre Attilio si doveva
accontentare della compagnia delle pecore e dei cani: lo stesso prete che da
bambino lo teneva con sé in canonica istruendolo, dopo gli esercizi
scolastici, alla mansione di chierichetto, quando gli era possibile lo andava
a trovare all'ovile, ogni volta portandogli dei dolci avvolti in un foglio di
carta velina. Il prete del villaggio era
un buon uomo di circa trent’anni, basso e corpulento, e affrontava il cammino
di buona lena, spesso inciampando tra i massi affioranti dal terreno o
impigliandosi con l'orlo della veste fra i cespugli pungenti dei rovi. Contro
i cani che lo inseguivano ringhiando e spesso mostrandogli i denti, con cui desideravano azzannargli i
polpacci, si serviva del breviario che portava sempre con sé: un paio di
colpi ben assestati sul muso bastavano a calmarli. Durante il tragitto la
testa tonda e calva del curato grondava sudore e mentre con il fazzoletto si
tergeva gli occhi azzurri, enormi sotto le spesse lenti degli occhiali, da
lontano cercava di individuare la figura di Attilio. Se lo scorgeva disteso
sotto un grosso e frondoso albero, per attirarne l'attenzione e per farsi
riconoscere urlava il suo nome, sbracciandosi e facendo scappare le bestie
che poco prima pascolavano tranquille: - “Ehilà Attilio, sono io, padre Pino! “ - Attilio continuava a mangiare il suo
frutto o a far finta di sonnecchiare sino a che l'ombra del religioso non
arrivava ad unirsi alla sua; allora il giovane sornione socchiudeva gli occhi
di un particolare color nocciola, ombreggiati da lunghe ciglia scure, e,
accennando un sorriso sghembo, spingeva il berretto dietro alla nuca,
lasciando in bella vista la fronte lucida e bianca, laddove il sole non
arrivava a colpirla. Quell'ometto gioioso gli faceva buona compagnia ed era
sempre un piacere vederlo. Padre Pino, seduto anch'egli al fresco in quel
vasto terreno costituito da bassi cespugli, con accanto le bestiole che
brucavano ciuffi d'erba tenera, ogni volta gli raccontava le leggende di
quella terra selvaggia, ma anche di città ricche e importanti che egli aveva
conosciuto. Dopo quei racconti ad Attilio il suo mondo gli pareva ancora più
primitivo e da instancabile sognatore quale era, immaginava ogni volta di
partire un giorno e di andarle a visitare, quelle città fantastiche. E
d'altra parte chi più di tutti poteva impedirgli di partire? Chi, se non
Sebastiano con le sue braccine
magre che gli abbracciavano forte il collo e le sue labbra che non ne
volevano sapere di interrompere i tanti baci umidi di muco, gocciolante da un
nasino eternamente raffreddato? E sarebbe stato proprio Sebastiano a legarlo
al proprio destino.
*
Da appena una settimana
Sebastiano stringeva il dono ricevuto da Attilio: era un cavallino di legno,
ben tornito e robusto. Sebastiano non lo abbandonava un attimo e amava
giocarci insieme stando rannicchiato in un angolo, nella penombra della
cucina. In quel tardo pomeriggio,
nella casa dei Dasso,
accanto alle braci ancora accese, dentro al grande camino era
stata sistemata una grossa forma di cacio pecorino e questo, dopo pochi
minuti, per effetto del calore, iniziava a sciogliersi. Il padrone di casa
con un grosso coltello ne tagliava la parte fusa e la serviva ai commensali,
adagiandola su fette di pane di grano duro. Davanti alla tavola, dove non
mancava il fiasco del vino, si erano riuniti gli zii di Sebastiano, fratelli
del padre, per discutere di certe questioni familiari. Sua moglie si era
ritirata in silenzio nella stanza di fianco, con in mano il lavoro di cucito. Sebastiano, preso dal
gioco, non prestava ascolto alle voci concitate degli uomini, ma quando
Salvatore era entrato nella cucina il bambino immediatamente si era messo a
sedere con le spalle al muro, stringendo le ginocchia contro al petto per
sentirsi più protetto e allo stesso tempo per proteggere il suo prezioso
avere. Sebastiano aveva timore di quel ragazzo che a vent'anni era la
fotocopia del padre e che non perdeva occasione per terrorizzarlo. A parte l'assenza della
barba Salvatore era in tutto e per tutto uno dei Dasso
e quel corpo tozzo, i lineamenti marcati del viso e il carattere ombroso,
contribuivano ad accentuarne i modi bruschi e molto spesso aggressivi.
Sebastiano in casa era sempre stato la sua vittima preferita e quando
Salvatore riusciva a stanarlo dal suo nascondiglio, lo
torturava con pizzichi e botte, senza motivo alcuno. C'era stata una volta in
cui Salvatore l'aveva voluto condurre con sé a visitare alcune delle grotte
che si trovavano poco lontano dal villaggio, nascoste dalla fitta
vegetazione. Sebastiano aveva seguito titubante il fratello: sapeva
dell'esistenza di certe donnine favolose, o piccole fate, buone o cattive, a
seconda dell'occasione, che un tempo avevano avuto la loro dimora nelle
piccole case di pietra, scavate nella roccia; ma Sebastiano non aveva paura
di loro. Suo fratello Salvatore gliene faceva molta di più quando, sfidando
gli amici, li obbligava a spingersi all'interno delle “sale”. Il cielo si era già
striato di rosso e il tramonto allungava le ombre dei rami e dei cespugli
quando era giunto il momento in cui anche Salvatore doveva dimostrare il suo
coraggio. Intanto gli animali selvatici avevano iniziato ad emettere i loro
richiami notturni e i rumori intorno a loro si facevano sempre più sinistri.
A Salvatore non andava di entrare nella casa delle fate. Non potendo però
tirarsi indietro, senza diventare lo zimbello del gruppo, aveva fatto ciò che
fanno i vigliacchi davanti alle proprie paure: si era scostato di scatto e
aveva spinto nel buio il più debole. Sebastiano in un primo momento non aveva
reagito, si era seduto all'interno dell'antro e aveva aspettato. Non era un fifone,
lui, Attilio glielo diceva sempre, ma quando lo strepito provocato dagli atti
buffoneschi dei ragazzi aveva raggiunto le sue orecchie, un brivido lo aveva
percorso per tutto il corpo. Il buio aveva già invaso tutto lo spazio intorno
e Sebastiano se ne stava accucciato: l'ambiente non era vasto e lui
continuava a stare fermo e immobile, perché sapeva che quelle grotte
nascondevano una serie di cunicoli, dentro ai quali si sarebbe perso. Anche
questo gli aveva detto Attilio. Suo fratello gli diceva tante cose sagge, ma
perché ora non era lì? In quel momento Sebastiano, senza rendersene conto,
aveva iniziato ad urlare; le sue mani non toccavano solo l'aria come poco
prima, ma il freddo della pietra: era stato chiuso nella grotta. Salvatore,
per esorcizzare le sue paure, voleva far morire di terrore il fratello di
cinque anni e aveva spinto un grosso masso davanti all'entrata. Non da solo,
i cinque ribaldi che erano con lui lo avevano aiutato. Cinque, non sei,
com'era composto il gruppo in partenza. Il sesto, non sopportando di vedere
il bambino intrappolato, infuriato e attanagliato dai rimorsi era corso a
cercare Attilio. Dentro la grotta Sebastiano piangeva e pregava la fata
buona; fuori dalla grotta Salvatore fumava e raccontava storielle oscene che facevano
sbellicare dalle risa i suoi compagni. L'assenza di uno di loro non li aveva
messi in allarme e quando Attilio era piombato sui ragazzi urlando e menando
legnate alle sagome che al buio non poteva distinguere, essi avevano giurato,
ognuno dentro di sé, che il diavolo in persona quella notte era risalito
dall'inferno per punirli. Salvatore era stato tra quelli che aveva urlato più
forte, chiedendo pietà con la sua voce baritonale, e quando aveva
riconosciuto la voce di Attilio che gli intimava di spostare il grosso masso
e di liberare Sebastiano, il suo terrore era raddoppiato: prevedendo la
collera di suo padre. Sebastiano aveva trovato
conforto fra le braccia di Attilio e insieme erano tornati a casa. Nessuno
aveva detto niente, a nessuno di loro era venuto in mente di raccontare ai
genitori i fatti di quella sera. Ma Attilio quella notte, carico d'ira, dopo
aver puntato il coltello alla gola di Salvatore, aveva minacciato suo
fratello di morte se solo si fosse azzardato a toccare ancora Sebastiano. Fatto
ciò si era disteso sul lettino accanto al fratellino, senza peraltro riuscire
a chiudere occhio. Poco più in là il capofamiglia russava nel suo letto e
anche Salvatore non aveva tardato a imitarlo.
* Quando Salvatore aveva
messo piede nella cucina dove Sebastiano si era accucciato con il suo
cavallino, erano trascorsi diversi mesi da quell'episodio e nel frattempo il
ragazzo ne aveva combinate di sempre più gravi, quasi a volersi riscattare dall'umiliazione subita
davanti al gruppo degli amici. Qualcuno di questi però gli aveva già voltato
le spalle. Entrando e trovandosi
davanti gli uomini della famiglia, lo sguardo di Salvatore si era fissato,
basso e sottomesso, sul pavimento di pietra. Inizialmente era stato suo zio
Pietro a rivolgergli la parola e il suo vocione aveva fatto tremare
Sebastiano che si era stretto ancora di più su se stesso. C'era stato il
furto di un'altra pecora, aveva tuonato lo zio, e l'ovile quella volta apparteneva
a un parente di sua moglie. Salvatore meritava una lezione esemplare. Salvatore aveva sollevato
gli occhi di scatto, incredulo, e fissando prima il padre, per cercare
appoggio, poi suo zio, aveva giurato in tutti i modi e su tutto ciò aveva di
più caro, che lui non c'entrava niente. Nessuno gli aveva creduto, dati i
precedenti, e poi uno dei suoi amici aveva confessato che proprio Salvatore,
la notte precedente, si era introdotto nell'ovile a seguito di una scommessa:
c'era chi credeva che non ne avrebbe avuto il coraggio, e lui aveva raccolto
la sfida. Salvatore fremeva di
frustrazione e, mentre pensava a come tirarsi fuori da quel grosso pasticcio,
nello stesso tempo intesseva nella sua testa la tela della vendetta verso chi
aveva osato tradirlo in quel modo bieco. - “Padre, vi ripeto che non sono stato io a
commettere il furto; datemi un giorno, un giorno solo e vi condurrò qui il
vero responsabile “-. Il viso di Salvatore era
distorto dallo sdegno. Le mani lungo i fianchi erano strette a pugno. Gli
uomini nella stanza, riconoscendo la fierezza del ragazzo, iniziarono ad
avere dei dubbi; ma non volevano esprimerli ad alta voce. Quindi lasciarono
andare Salvatore con la minaccia, quella sì chiara e forte che, se per
salvarsi dalla punizione era sua intenzione accusare un innocente, avrebbe fatto i conti con loro. Salvatore era uscito dalla
stanza con passo deciso e Sebastiano, incuriosito dalla scena cui aveva
assistito, era saltato fuori dal suo angolo e, sempre con il cavallino di
legno stretto al petto, si era diretto verso la porta lasciata aperta: il
cavallino lo rendeva audace e così aveva deciso di seguire il fratello. Il
suo passaggio in cucina era passato inosservato e una volta fuori dalla casa
i suoi grandi e vispi occhi scuri si erano mossi veloci, guardando prima da
una parte poi dall'altra nello stretto vicolo mal lastricato. Salvatore non
era più in vista e il bambino, correndo scalzo lungo la stradina, sperava di
scorgerlo nella piazza: luogo d'incontro dei giovani. Sebastiano, su ammonimento
severo di Attilio, si teneva sempre alla larga dai gruppi degli animosi
ragazzi: succedeva spesso che dalle pacche sulle spalle si passasse a una
rissa vera e propria. Attilio non mancava mai di avvertire Sebastiano
riguardo i pericoli nei quali poteva incorrere; ma era un tranquillo
pomeriggio primaverile e la brezza che giungeva dal mare, oltre le alture,
portava con sé un inebriante profumo
salmastro che Sebastiano respirava insieme alla sua dolce ingenuità. Egli non
aveva percepito fino in fondo quanto era stato frustrante per Salvatore
l'incontro che si era tenuto in casa con il padre e i parenti. Non credeva
possibile che in una giornata così splendente di sole e luce potesse
capitargli qualcosa di brutto e prima di rendersene conto, mentre camminava
spavaldo, si era ritrovato proprio di fronte al gruppo capitanato da
Salvatore. Passavano i minuti e
Sebastiano non faceva niente, se ne stava lì immobile a osservare i movimenti
dei giovani: suo fratello gli dava le spalle e continuava a spintonare
Gavino, l’uomo che aveva davanti e che a sua volta, si tratteneva dal
mettergli le mani addosso. Sebastiano non aveva paura: nella piazza c'erano
le donne che la attraversavano a passo svelto, con il fazzoletto in testa e
le gonne larghe e lunghe; c'erano gruppi di uomini che, seduti sui sedili di
pietra o appoggiati contro i muri delle case, fumavano e parlavano; c'erano
diversi bambini, magri e sporchi, come lo era lui stesso, che correvano
spensierati, inseguiti da un cucciolo di cane. Sebastiano sorrideva beato,
pensando che Attilio esagerava sempre. Ad un tratto però il respiro gli si
era bloccato, il naso aveva ripreso a gocciolare e gli occhi si erano fatti
più grandi del solito: Salvatore, avvertito dagli amici della presenza del
fratello più piccolo, si era voltato improvvisamente e, esasperato dagli
ultimi eventi, dalla piega assurda che questi stavano prendendo, a stento
riusciva a contenere la sua collera. Gavino, colui che, ne era
certo, era il responsabile dei suoi ultimi guai, si era chiuso in un silenzio
omertoso e lo fissava con aria di sfida. Gavino non era dello stesso
villaggio di Salvatore. Per qualche tempo ne aveva frequentato la banda, ma
fin da subito aveva imposto agli altri il suo carattere deciso. Più grande di
qualche anno rispetto a Salvatore, Gavino vantava uno sguardo penetrante,
azzurro come il cielo, e una folta barba che rendevano più credibili le sue
espressioni da duro, se messo vicino agli occhi spenti e alla poca peluria
che tutt'al più macchiava appena la pelle di Salvatore. Era insopportabile,
per il carattere capriccioso di Salvatore, realizzare che qualcuno stesse
facendo tentennare il castello di carta che sino a quel momento aveva
sorretto il suo ruolo di capo. Voltarsi e trovarsi davanti quel ritardato di
suo fratello aveva acceso in lui una
scintilla che da sola era bastata a provocare un'esplosione di furia omicida.
Il bambino non solo la intuiva, ma la stava addirittura respirando, dato che
in pochi secondi il viso scuro e dalle grosse sopracciglia aggrottate di
Salvatore, era sopra
di lui. Il ghigno faceva intendere guai, di quelli seri, quelli che Attilio
aveva previsto e dai quali gli aveva sempre raccomandato di starne lontano. “Attilio,
Attilio, Attilio!”
Scappare era ormai impossibile: Salvatore lo teneva fermo, stringendogli un
braccio. Ripetere dentro la testa il nome del suo amato fratello non portava
a nulla, ma almeno gli dava coraggio. - “E tu? Che cosa ci fai qui? “ - . Sebastiano non aveva fiato
per rispondere, lo teneva ancora bloccato nei polmoni; ma i secondi passavano
veloci e per forza di cose doveva riprendere a respirare. Quando però il
bambino aveva provato a soffiare fuori l'aria attraverso le narici otturate,
un violento attacco di tosse aveva iniziato a sconquassargli il petto, per
terminare con un grumo denso che, salendo dai polmoni, gli era esploso dalla
bocca, andando ad atterrare sullo scarpone impolverato di Salvatore. Lo
sguardo di Salvatore, quasi ipnotizzato, aveva seguito il getto lungo tutta
la sua traiettoria, per ritornare subito dopo dentro agli occhi di
Sebastiano, indugiandovi ancora costernato. Intanto qualcuno contava i
secondi. Intorno ai due fratelli i giovinastri del gruppo erano avvolti da un
silenzio tombale. Poi, d'improvviso, il braccio di Salvatore si era sollevato
e la mano aveva colpito violentemente il viso del fratello, ormai senza più
colore. Tra quanti assistettero
alla scena qualcuno non aveva potuto evitare di concentrare la propria
attenzione sulla parabola che il cavallino di Sebastiano aveva disegnato
nell'aria, quando aveva lasciato le mani di Sebastiano: il dono di Attilio
aveva danzato per un breve viaggio e infine era atterrato con un colpo sordo,
sollevando tutt'intorno un piccolo sbuffo di polvere. Ma era stato il rumore
delle ossa della testa di Sebastiano che, colpendo con forza lo spigolo di un
sedile di pietra posto lì vicino, aveva raggelato chiunque si trovasse nella
piazza. Il corpo aveva rimbalzato una volta, quando aveva toccato il terreno,
poi era rimasto immobile: una pozza di sangue si era allargata
immediatamente, proprio sotto alla tempia destra. Salvatore aveva osservato
la scena da freddo spettatore: la sua mano era rimasta aperta e poteva
sentirla pulsare. Solo nel momento in cui gli amici lo avevano scrollato urlandogli
di scappare, che stavolta Attilio lo avrebbe ammazzato, se prima non lo
avessero arrestato i carabinieri, aveva potuto realizzare tutta la gravità di
un'azione dalla quale mai più sarebbe potuto tornare indietro. Ma i piedi si
erano incollati al suolo, mentre gli occhi piccoli e un po' strabici, gli
dipingevano sul volto un'espressione inebetita. E poi la vista del sangue gli
stava dando la nausea: avrebbe vomitato se non lo avessero scosso
ulteriormente e spinto a montare sul cavallo condotto nella piazza da uno dei
suoi compari: scartando e spaventando chiunque cercasse di metterglisi contro. Giovanni Antonio era stato
visto uscire come impazzito dalla casa nella quale, pochi istanti prima, si
trovavano due dei suoi tre figli e subito si era ritrovato attorniato da una
folla di persone che non gli dava modo di percepire gli ostacoli davanti sé.
Aveva continuato a correre sulla scia di tutti quei corpi fino a che quasi
non aveva inciampato sul cadavere del bambino. Nella sua testa rimbombava un
coro di voci: - “Sebastiano
è morto! Sebastiano è morto! “ - . Nessuno però era presente
per poter descrivere il momento in cui lo sgomento e la disperazione avevano
investito Attilio quando, dal campo di fronte a quello in cui si trovava,
aveva visto arrivare Gavino in groppa al cavallo che schiumava dalla bocca.
Egli si era diretto con il cuore in gola verso la bestia e quel cavaliere che
lo raggiungeva urlando il suo nome e agitando un braccio sulla testa. Davanti
ad Attilio, Gavino era balzato dalla sella con
un salto che aveva costretto il cavallo a interrompere bruscamente la sua
corsa e, porgendo le briglie al ragazzo che lo fissava serio, aveva trovato
solo il fiato per dire: - “Va' corri al villaggio, Sebastiano è morto“ - . Alla domanda muta di
Attilio Gavino aveva risposto con un cenno della testa e il nome di Salvatore
aveva aleggiato tra loro, senza bisogno di dire altro. Da quel momento il
tempo aveva preso a correre veloce. Lungo il sentiero in
salita che lo portava al villaggio Attilio poteva scorgere più in basso, ma
ormai irraggiungibili, un gruppo di cavalieri che, a suon di frustate sul
dorso dei cavalli, si allontanavano in tutta fretta. Attilio si era fermato e
caricato il fucile aveva puntato colui che guidava il gruppo e che si
mostrava nervoso sulla sella, voltando in continuazione la testa
all'indietro, proprio nella direzione di Attilio. Pareva inseguito dal
demonio; ma Attilio ci aveva messo troppo tempo a caricare la sua arma e a
quella distanza ormai lo avrebbe mancato di sicuro. A quel punto la rabbia e
la frustrazione erano talmente insopportabili che avrebbe voluto inseguire
Salvatore e giustiziarlo sul posto; ma Sebastiano lo chiamava. Doveva andare
da lui. Poi sarebbe andato a cercare Salvatore e lo avrebbe inseguito in capo
al mondo se ce ne fosse stato bisogno.
*
Il fianco roccioso della
montagna sulla quale
Salvatore si trovava, all'alba era
avvolto dalla nebbia e, guardando in lontananza, egli poteva solo immaginare
ciò che non riusciva a distinguere. Quando però la coltre di vapore, umida da
fargli sentire il freddo fin dentro al midollo, si disperdeva per pochi
attimi, allora poteva riconoscere di fronte a sé le alture tondeggianti,
dietro le quali si nascondeva il suo villaggio. Nella piana sottostante le
greggi di pecore, viste dall'alto, erano come pugni di sassolini bianchi e
neri sparsi per le campagne. Il maledetto freddo era il
suo compagno da una settimana e lo stringeva artigliandogli anche l'anima.
Durante la notte il suo corpo tremava di febbre come non aveva mai fatto e
non bastava il pesante mantello a trasmettergli calore, né tanto meno le
coperte che i suoi compagni gli buttavano addosso. Poi il caldo ardente
arrivava tutto insieme e a quel punto iniziavano gli incubi, terribili.
Salvatore si svegliava urlando e a quelli del gruppo, nascosti fra le rocce a
fare la guardia o a sonnecchiare, si accapponava la pelle e si rizzavano i peli. Era passata solo una
settimana da quel pomeriggio terribile e Salvatore viveva in uno stato penoso
i rimorsi della coscienza. Il suo corpo aveva reagito al trauma provocandogli
in un primo momento, oltre agli incubi più terrificanti, disturbi fisici di
ogni genere e, di conseguenza, eruzioni cutanee che avevano martoriato il suo
volto. Durante quella prima settimana i suoi compagni, gli stessi che lo
avevano esortato a scappare, gli consigliavano di costituirsi e in quel modo
ottenere una pena minore. D'altronde era stato un incidente, gli dicevano:
Sebastiano era morto a causa sua, ma tutti erano testimoni del fatto che,
senza quel maledetto sedile di pietra, Sebastiano sarebbe stato ancora vivo.
Salvatore ascoltava, tra un crampo allo stomaco e l'altro, le assurdità dei
compagni che percepiva a tratti, come in un sogno. Ma poi gli tornava alla
mente suo fratello, Attilio. Salvatore lo aveva visto con il fucile in mano,
pronto a sparargli: era stato solo per un colpo di fortuna che quel fucile
non aveva fatto fuoco. Quando si era voltato e aveva visto Attilio prendere
la mira aveva pensato solo di frustare a sangue il cavallo per farsi portare
il più lontano possibile dalla vendetta: Salvatore temeva il carcere, ma non
poteva accettare di morire per mano di suo fratello. E lo percepiva eccome il
fiato di Attilio che gli stava alle calcagna e se di notte gli incubi e il
freddo gli mordevano la coscienza, di giorno era il suo orgoglio a venire
fuori e l'urgenza di una strategia imponeva a lui stesso e a quanti avevano
scelto di essergli complici nella fuga, la ricerca di un piano ben preciso,
se volevano sopravvivere. Egli infatti sapeva bene che rendere inoffensivo
Attilio non sarebbe stato il suo unico problema: in quel mondo nascosto e
traditore non sarebbero comunque vissuti a lungo. Avevano bisogno della
protezione di tutta una rete di favoreggiatori e di uomini scaltri per
facilitare la loro latitanza. Inizialmente il nome di
Salvatore Dasso non aveva suscitato un grande
interesse fra chi latitava in quelle stesse montagne e in quel periodo ce
n'erano diversi e per ragioni differenti. Il gesto di Salvatore perlopiù
suscitava disprezzo: ammazzare un bambino per molti di loro, i meno
sanguinari, quelli che si vantavano di avere un proprio codice d'onore, era
un gesto da vigliacchi. Di certo in quei luoghi e tra banditi di quel calibro
la presenza stessa di Salvatore e dei suoi appariva effimera e senza valore.
Salvatore aveva poco tempo: era rimasto inattivo per un'intera settimana e,
per come stavano le cose, in quel lasso di tempo sarebbe anche potuto essere
già morto. Doveva agire al più presto per guadagnarsi il rispetto dei
banditi. Così, tramite conoscenze
legate a personaggi loschi, Salvatore era riuscito a farsi ospitare nell'ovile
del fratello di un famoso ricercato e a fare la sua conoscenza. Al termine
dell'incontro, con una stretta di mano, i due avevano suggellato un patto che
prevedeva una stretta collaborazione: quel patto garantiva a Salvatore una
certa protezione, in quel modo però entrava egli stesso in un vortice di
assassinii e violenza efferata; e ben presto a Salvatore la vista del sangue
smise di provocare la
nausea.
*
Durante la prima settimana
Attilio aveva seguito la fuga di Salvatore come era nelle sue abitudini: in
completa solitudine; ma da solo non lo avrebbe mai potuto avvicinare abbastanza
per poter vendicare la morte di Sebastiano. In quell'errare incerto da
un punto all'altro, con la mente sempre intenta a sfuggire i pericoli, il
dolore straziante per i fatti accaduti era rimasto vivo nei pensieri del
ragazzo, anche quando lo sguardo si perdeva all'orizzonte, in quel sogno
infranto – o forse solo rimandato - di attraversare il mare, un giorno. Si rivedeva Attilio mentre
abbracciava il corpo inerme del fratellino. Accanto a lui suo padre, che non
osava dire nulla; e poi sua madre e le altre donne che volevano prendere il
corpo di Sebastiano e riportarlo a casa; ma a ogni tentativo un verso animale
scaturiva dalla sua gola, spaventando chiunque osasse toccare il bambino. Don Pino, senza
pronunciare una sola parola, si era accasciato per terra, di fianco alla
triste coppia che gli straziava il cuore. Nella piazza polverosa adagiate in
terra vi erano le spoglie di un piccolo innocente, al quale era stata tolta
la vita; accanto a queste languiva un giovane ragazzo, che avrebbe dato la propria
di vita per poter rivederne il sorriso. La pena del prete cresceva a mano a
mano che il futuro di Attilio gli appariva davanti agli occhi: egli sapeva
bene che il ragazzo non si sarebbe dato pace sino a che il sangue non avesse
lavato la morte di Sebastiano. E mentre rifletteva sul destino del giovane, don
Pino posava la propria mano su quella di Attilio che, con forza, stringeva a
sé Sebastiano. Attilio, sentito quel calore, si era voltato a guardare il
faccione tondo del suo amico prete, ma non sembrava riconoscerlo. Alle
parole: - “Lascialo
adesso. Vieni con me, figliolo” - , d'improvviso i sensi del giovane si erano risvegliati e
con loro tutta la tragica realtà che lo circondava. I mormorii, i pianti, i
lamenti delle donne: le sue orecchie avevano ripreso a funzionare, e la voce
suadente di don Pino che continuava a ripetergli di lasciare Sebastiano alla
fine lo aveva convinto a deporre il bambino nelle braccia di sua madre e a
osservarla con distacco mentre gli portava via Sebastiano, per sempre.
Rialzandosi, con l'aiuto di don Pino, Attilio si era lasciato condurre sino
alla gradinata della piccola chiesa e da lì al suo interno, dove l'odore
dolciastro lo aveva preso subito alla gola. La luce delle candele era fredda
e proiettava sui muri ombre fluttuanti, di fantasmi neri. Attilio si era
seduto e, prendendosi la testa tra le mani, aveva finalmente iniziato a
piangere. Don Pino lo aveva lasciato
sfogare, nel frattempo osservava la croce di legno con il Cristo che non
ricambiava il suo sguardo e pregava di riuscire a trovare le parole adatte;
ma nel momento in cui Attilio aveva smesso di piangere, il prete aveva letto
in quegli occhi arrossati e gonfi il desiderio e la determinazione ad agire e
a quella vista l'infelice uomo si era sentito inutile. Non poteva impedire
simile decisione perché la vendetta scorreva naturalmente nel sangue di
quegli uomini, anche in chi, come Attilio, aveva sempre avuto un'indole
docile. Perciò, facendosi forza egli stesso, cercava di instillarne quanta
più poteva nel giovane. Per più di un'ora, Attilio e don Pino si erano
trattenuti su quella panca, davanti all'altare di pietra, con il freddo che
gli congelava il respiro. Passato quel tempo Attilio si era detto pronto a
lasciare il villaggio e, mettendosi in ginocchio, aveva aspettato di ricevere
la benedizione del prete. Non volendo avvicinarsi alla casa di suo padre,
aveva poi salutato con il pensiero suo fratello Sebastiano e, in groppa allo
stesso cavallo consegnatogli da Gavino, era uscito dal villaggio che si era già
all'imbrunire. Le scorte di cibo, la pistola, il mantello e una coperta le
aveva prese dalle mani dei suoi compagni; il cavallo lo avrebbe fatto riavere
al proprietario non appena avesse recuperato quello che, su direttive di don
Pino, avrebbe trovato nella stalla di certi suoi parenti, in un altro
villaggio, a circa mezz’ora dal suo, dove lo avrebbero ospitato per quella
notte. Alcuni compagni si
proposero come accompagnatori, ma allo sguardo di diniego di Attilio si
limitarono a salutarlo, dando una pacca vigorosa al di dietro del cavallo
che, sorpreso e spaventato, scattava in avanti,
uscendo al galoppo dal villaggio.
* Passata la prima settimana
Attilio, seguendo gli spostamenti di Salvatore, si era reso conto
dell'impossibilità di avvicinare suo fratello. Attilio era scaltro e riusciva
a fiutare il pericolo nei momenti in cui da cacciatore rischiava di diventare
preda, ma sapeva bene che la sua buona stella non lo avrebbe aiutato a
lungo. Il suo pellegrinaggio lo
aveva portato da un ovile all'altro, sempre sospettoso, con gli occhi sempre
bene aperti, le orecchie tese, la mano pronta sul fucile. La sua era anche
una posizione di difesa: in qualunque momento, per motivi di denaro o per
scambio di favori, i pastori che lo proteggevano potevano voltargli le spalle
e denunciare la sua presenza alla banda di Salvatore e lui, da solo, non avrebbe avuto nessuna possibilità di sopravvivere. Una sera gli venne in
mente di raggiungere il villaggio dove suo padre una volta lo aveva condotto
da bambino, per una visita a dei parenti. Ricordava con piacere quella gita,
forse perché era stata l'unica, e in quell'occasione, oltre a un cugino in
primo grado di suo padre, aveva potuto conoscerne i figli: due ragazzini e
una bambina molto piccola che ancora non camminava e stava seduta su un
grosso seggiolone di legno a guardare i fratelli e a lanciare gridolini
acuti. Ciò che aveva colpito Attilio era la serenità che si respirava in
quella casa ben pulita e ordinata. Dei due ragazzi uno aveva quindici anni,
sei più di Attilio; l'altro era più piccolo di qualche anno. Entrambi avevano
la carnagione molto chiara ed erano ben pasciuti, al contrario di Attilio,
dal colorito giallognolo e magro come un fuscello. Il primo giorno i
ragazzini si erano studiati a vicenda con un po' di soggezione; Giovanni
Antonio, il padre di Attilio, con il suo vocione e i modi rozzi, non gli
facilitava le cose, facendolo sentire ancora più a disagio in quella famiglia
che, al contrario, era abituata a conversare in maniera pacata e a non alzare mai troppo la voce. Quando però il giorno dopo di
buon'ora i due uomini erano usciti per recarsi al mercato, luogo in cui il
padrone di casa possedeva un recinto con i maiali, Attilio dentro di sé aveva
gioito di gratitudine. Essendo di domenica, dopo la messa i tre maschietti
avevano avuto il permesso di fare quello che volevano. Il villaggio era costituito da poche case e
subito ci si ritrovava in aperta campagna. I due fratelli, lasciato il
sentiero principale, avevano guidato Attilio all'interno di una ricca
vegetazione, che in alcuni punti nascondeva il passaggio. D'improvviso il
paesaggio cambiava: uscendo fuori da un intrico di rovi e fronde verdi,
davanti agli occhi di Attilio si era palesata la riva sassosa di un basso e
calmo torrente, sulle cui acque chiare e ferme si riflettevano i raggi del
sole. I due ragazzini non ci avevano pensato due volte a spogliarsi dagli
indumenti per correre e lanciarsi in acqua. Anche Attilio aveva seguito
l'esempio e nell'acqua bassa erano esplosi in risa e giochi. Quella giornata era
trascorsa come in un sogno e per Attilio aveva rappresentato un'eccezione che
non si era ripresentata mai più; così che in quegli anni ne aveva conservato
gelosamente il ricordo. Eugenio, il più grande, prima di salutarlo, la sera,
quando suo padre lo aveva issato sul carretto trainato dall'asino, gli aveva
regalato un sasso bianco dalla forma triangolare, arrotondato e levigato
dall'acqua del torrente. Attilio lo aveva stretto nel piccolo pugno; poi
Eugenio lo aveva baciato sulla guancia. In quel momento, davanti
alla casa di suo cugino, l'emozione metteva Attilio in uno stato di
agitazione tale che gli veniva istintiva la voglia di voltare il cavallo e
tornarsene alla sua vita solitaria. Ma dopo tutto quello che aveva passato la
solitudine lo stava opprimendo e il dolore per la perdita di Sebastiano a
momenti gli artigliava talmente tanto il cuore da rendergli inaccettabile la
vita stessa. E poi c'era anche la curiosa voglia di rincontrare quel viso che
un giorno gli era stato tanto caro. Togliendo la mano dalla tasca del
pantalone di fustagno sdrucito dall'uso Attilio esitava ancora, osservando
per l'ennesima volta il sasso dai tre angoli smussati, donatogli da Eugenio.
Finalmente, dopo aver fatto un grosso sospiro e dopo essersi guardato
intorno, si era deciso a smontare da cavallo per avvicinarsi cautamente alla
porta della casa. Bussando con insistenza non aveva ricevuto risposta per
cui, provando a spingere l'uscio con discrezione, aveva aperto un piccolo
spiraglio; quindi, infilando dentro la testa, si era messo a chiamare ad alta
voce. Percependo dei rumori si era sentito incoraggiato a mettere un piede
sulla soglia e a sbirciare all'interno. In un primo momento aveva dovuto
abituare gli occhi alla penombra della sera che rendeva l'interno della casa
indistinguibile; quando poi gli erano apparsi il tavolo con le sedie intorno
aveva riconosciuto l'ambiente ed era entrato. - “Sono Attilio Dasso,
il figlio di Giovanni Antonio Dasso, è permesso?“ - . Il silenzio ostinato gli
faceva nascere il sospetto che se anche lì dentro ci fosse stato qualcuno,
forse non aveva voglia di ricevere visite e mentre pensava alla situazione
dentro la quale si stava cacciando, con fare incerto aveva fatto altri due
passi avanti. D'improvviso tutto il sangue che gli scorreva nel corpo gli si
era ghiacciato completamente nelle vene e per poco non se l'era fatta sotto
per lo spavento. Imprecando contro se
stesso per avere lasciato la pistola dentro la bisaccia, appesa sul dorso del
cavallo e nello stesso tempo dimenando il corpo, imprigionato fra le braccia
di colui che lo teneva stretto con forza, Attilio immaginava di essere
arrivato alla fine. “Sono stato uno stupido – pensava - uno stupido: come potevo
sperare di farcela da solo?. No, non può essere la fine... dio... queste
braccia sono peggio di una morsa e non posso fare niente, niente. Ma ecco,
posso liberarmi adesso...”. Imprecando e sbuffando finalmente Attilio stava per
riprendere il controllo di sé e del suo corpo: “Che almeno questo ribaldo mi mostri la
sua faccia e combatta ad armi pari, da uomo...” Ma non aveva fatto in tempo a concludere
quel pensiero che l'uomo, lo stesso che prima gli bloccava braccia e corpo, a
sorpresa, gli appioppava un bacio sulla guancia, per poi svelare il suo viso
radioso. In quell'esatto momento Attilio si era come sgonfiato e rischiava di
crollare per terra se Eugenio non lo avesse sorretto.
* Eugenio Dasso aveva rappresentato un'enorme sorpresa per Attilio.
Nei ricordi di questo esisteva un ragazzo che, per i suoi nove anni di
allora, vedeva già grande. Ricordava il suo corpo morbido e arrotondato e la
pelle chiara venata di azzurro, come quella di sua zia e degli altri due
cuginetti. E ricordava altrettanto bene quelle iridi grigio verde in un paio
d'occhi che non avevano mai pace, luminosi, nel riverbero delle fiamme del
caminetto, acceso per placare i suoi brividi di freddo. I due ragazzi avevano
parlato a lungo; meglio, Eugenio lo aveva fatto, Attilio non amava parlare;
lui con le persone si predisponeva sempre all'ascolto e raramente
interrompeva i discorsi per esprimere un suo pensiero. Sebastiano solo aveva
avuto il dono di far parlare il fratello, per tutti gli altri Attilio era sempre
stato “ il
silente”. Durante la serata seguita
all'inaspettato e gradevole incontro, dopo aver fatto accomodare dentro casa
Attilio e dopo aver affidato il cavallo a un uomo che subito era sparito alla
vista, Eugenio aveva iniziato a muoversi dentro la piccola abitazione con
movimenti sicuri. Quei modi avevano ancora una volta sorpreso Attilio perché
erano tutt'altra cosa rispetto a quelli rozzi di suo padre o di suo fratello.
Giovanni Antonio quando entrava in casa sapeva solo urlare per pretendere il
cibo e poi si aggirava per le uniche due stanze sbattendo e urtando seggiole
o qualunque altro oggetto si trovasse tra i piedi. Salvatore, quando era
assente il genitore, si sentiva in dovere di fare altrettanto e
quell'atteggiamento era insopportabile. Eugenio aveva acceso il
fuoco con attenzione e calma. Il fuoco aveva preso subito a danzare
scoppiettante e a quel punto il giovane aveva iniziato a occuparsi di
Attilio, porgendogli un bicchiere di vino e apprestandosi ad affettare fette
di carne secca e tocchi di formaggio stagionato, da porgere al cugino
direttamente su un piatto ovale di sughero. Durante quelle operazioni Eugenio
non aveva mai smesso di parlare e Attilio, seduto su un panchetto, vicino al
camino, con i capelli lunghi e disordinati a coprire le sue curiose orecchie
a sventola, le guance arrossate e gli occhi appesantiti dal torpore, mentre
masticava il cibo si faceva trasportare dal flusso costante delle parole.
Cullato dai toni bassi della voce del giovane Attilio stava vivendo
all'interno di un'atmosfera insolita ed emozionante e quando, vinto dalla
stanchezza, aveva palesato un cedimento, Eugenio, temendo di vederlo finire
dentro alla bocca del grande camino, gli aveva proposto di stendersi sul
lettino del fratello, copia gemella di quello alla sua destra, dove avrebbe
dormito lui. Attilio, dopo aver ringraziato il cugino per l'ospitalità, si
era coricato con gli abiti addosso, e in pochi secondi il sonno lo aveva
rapito.
* Eugenio era stato molto
discreto nell'approccio con Attilio. Guardando la
faccia del cugino egli vi leggeva tutta la disperazione di quei giorni. E se
durante l'incontro avvenuto anni prima i lunghi silenzi di un bambino timido
e riservato lo avevano incuriosito, in quel momento, trovandosi davanti quel
ragazzo provato da un'esistenza che ne aveva precocemente fatto un uomo,
sentiva il dovere di prendersene cura. Ma
non aveva cambiato il suo atteggiamento: non aveva fatto domande, non avendo nessuna intenzione di
forzarlo a parlare, né a raccontare di sé. Peraltro Eugenio, nella
sua posizione, sapeva già tutto il necessario, ed era proprio contento che
Attilio avesse deciso di recarsi nella casa degli zii (morti di febbre
malarica, la stessa che qualche anno prima si era portata via anche la loro
figlioletta ), guidato da chissà quale sconosciuto destino. I rischi che Attilio aveva
corso durante quel periodo di vagabondaggi avevano tenuto Eugenio in grande
apprensione ed egli non aspettava altro che di poterlo avvicinare. Doveva
tentare di calmare la rabbia che di sicuro, sino a quel giorno, aveva nutrito
il giovane ragazzo, trasmettendogli quel coraggio necessario a chi, come
Attilio, seguiva le
pericolose tracce di una banda di uomini pronti a eliminarlo pur di
non averlo tra i piedi. Tra questi, purtroppo, anche il fratello, Salvatore:
il cugino che Eugenio non aveva mai conosciuto personalmente, ma che gli era
noto per fama. Dopo gli anni trascorsi
lontano dalla sua terra, ospite della città regia che gli aveva dato la
possibilità di formarsi alla scuola per diventare carabiniere, il destino
aveva riportato Eugenio a casa nel momento in cui, fra le tante bande
organizzate, vi trovava proprio suo cugino Salvatore protagonista di un tragico
incidente nel quale il fratello più piccolo aveva trovato la morte. Il fatto
più oscuro e penoso era che la sua situazione nel tempo si era aggravata
ulteriormente: macchiandosi di numerosi delitti in quel momento il giovane
era nella lista dei ricercati più pericolosi. Avere Attilio lì, vicino a
lui, al sicuro, gli dava la possibilità di dirigere i pensieri del ragazzo verso un terreno
più ragionevole, lontano dai propositi di vendetta. Il destino a cui Eugenio
voleva credere aveva voluto farli incontrare nella casa che da mesi - dopo la
decisione di suo fratello di raggiungere la capitale, a sud dell'isola -, era
rimasta deserta e chiusa. Il giovane carabiniere, proprio quella mattina,
aveva chiesto e ottenuto il permesso di poterci trascorrere due giornate,
prima di riprendere il suo posto sul campo con il resto della truppa a
cavallo. Quella nottata gli aveva
riservato sogni agitati e nemmeno il respiro regolare di Attilio era riuscito
a calmarlo. Aprendo gli occhi, non aveva potuto fare a meno di sospirare: la
responsabilità che sentiva nei confronti del cugino era davvero forte.
L'atteggiamento fiero e carico di orgoglio di Attilio però rappresentava una
montagna che difficilmente si sarebbe lasciata conquistare. Rinunciando al sonno - la stanza ancora completamente al
buio - Eugenio era sceso dal letto e lentamente aveva raggiunto la cucina.
Nel camino le braci non erano completamente spente ed era stato sufficiente
aggiungere alcuni pezzi di legno perché il fuoco riprendesse vigore.
Sedendosi sul panchetto che poche ore prima aveva sorretto il corpo spossato
di Attilio, Eugenio
si era lasciato ipnotizzare dalle lingue di fuoco e mentre il calore gli
arrossava il volto i ricordi avevano iniziato a prendere forma. Di incontri
tra loro due non ce n'erano stati altri – pensava -, ma egli in un'occasione
aveva rivisto Attilio, seppur all'insaputa dell'altro.
* Eugenio non poteva
scordare lo stato d'animo di quel periodo, quando all'interno della sua
famiglia la malaria si era già portata via sua madre e sua sorella. A pochi
mesi di distanza anche suo padre iniziava ad avvertire gli stessi sintomi; i
due fratelli invece ne sembravano immuni. Qualcuno aveva consigliato loro di
recarsi al più presto al villaggio dove viveva suo zio, Giovanni Antonio, poiché lì avrebbero potuto trovare un medico. Eugenio, aggrappandosi a quella
speranza di guarigione, aveva voluto affrontare il lungo viaggio da solo e,
in groppa al cavallo che abitualmente trainava il carretto di cui suo padre
si serviva per il trasporto del bestiame, aveva raggiunto il villaggio. Al
suo arrivo era già sera. Eugenio si era diretto presso la casa del medico, ma
la giovane moglie non era stata in grado di aiutarlo, spiegando al ragazzo
che suo marito, assente da due giorni, si trovava a dover fare il giro delle
campagne per visitare i suoi pazienti. Deluso dalla notizia e prima di
rimettersi in viaggio, Eugenio si era fermato per la notte a casa degli zii.
Giovanni Antonio e sua moglie gli avevano dato ospitalità, com'era loro
sacrosanto dovere: rifocillandolo e srotolando per lui una stuoia, lo avevano
sistemato per terra, davanti al camino. Non si erano scambiati molte parole
però e anzi, Eugenio aveva avuto la netta sensazione che i due non vedessero
l'ora di liberarsi dell'ospite inatteso. Essi avevano terrore delle malattie
e nella casa dalla quale Eugenio giungeva si respirava aria di morte. All’interno della casa,
dentro la piccola stanza da letto, Sebastiano, ancora molto piccolo, dormiva dentro una cesta
intrecciata con fibre di asfodelo. Attilio - gli dicevano con orgoglio - il
cugino che Eugenio aveva sperato di rincontrare, era all'ovile, a custodire
le pecore. Facendo mentalmente i conti egli aveva pensato che dovesse avere
circa tredici o quattordici anni. Quella notte un violento
temporale si era abbattuto sul villaggio e Eugenio, intabarrato nel suo
mantello, aveva dovuto scacciare i brutti presentimenti: il gelo della morte
sembrava averlo seguito sin lì e nel buio della cucina - il fuoco spento già
da un bel pezzo -, la luce delle saette illuminava la scarsa mobilia e le
suppellettili che tutt'intorno a lui sembravano prendere vita. Lasciando il villaggio
alle prime ore del nuovo giorno, l'umore di Eugenio precipitava nello
sconforto. La sensazione era di completo fallimento: tornava a casa senza
speranza alcuna di veder guarire suo padre. Con quei tristi pensieri egli
incitava il cavallo con il proprio corpo, guidandolo a un'andatura più
sostenuta. Voleva lasciare quel cupo villaggio il più presto possibile,
sentendo dentro di sé il forte desiderio di riabbracciare i propri cari. La pioggia torrenziale
quella notte aveva sferzato la terra senza pietà, ma le nuvole, a mano a mano
che il sole saliva nel cielo, si diradavano. Lame accecanti penetravano il
folto bosco, illuminandolo. Con gli occhi pieni di luce Eugenio non si era
accorto che di fronte a lui un uomo risaliva lo stesso suo sentiero, a passo
deciso. Ne aveva percepito la presenza quando l'altro, con le mani dietro la
schiena, si era fermato e aveva aspettato che il cavaliere gli passasse
vicino per, eventualmente, riconoscerlo. Eugenio aveva arrestato il cavallo
proprio accanto al contadino, salutandolo con un gesto della mano. Quello lo
aveva osservato ben bene in faccia e alla fine, non riconoscendo il
forestiero, si era mostrato curioso. Eugenio gli aveva detto che era un
parente della famiglia Dasso e che, dopo aver fatto
loro visita, stava tornando da suo padre, molto malato. Se era un parente dei Dasso allora avrebbe salutato volentieri anche il figlio
di Giovanni Antonio, Attilio. Stava proprio nella tanca che, abbandonando il sentiero, si trovava alla sua destra.
Lì c'era l'ovile e lì si trovava Attilio,
con le sue pecore. Eugenio sarebbe andato volentieri a salutare Attilio,
aveva replicato, ma suo padre aveva bisogno di lui e andava di fretta. L'uomo, sollevando appena
la visiera del suo berretto, in segno di commiato, aveva sollevato le spalle,
dopo di che aveva proseguito per la sua strada, non
senza avergli dato la sua
benedizione per il viaggio di ritorno. Eugenio, rimasto solo, aveva fatto
schioccare la lingua sul palato e il cavallo aveva ripreso il cammino. All'ultima curva,
prima che la strada sterrata si allungasse lungo la piana, inframmezzata dai
campi coltivati a grano e da quelli lasciati al pascolo Eugenio attratto dalla curiosità, aveva lanciato
un'occhiata sino a individuare l'ovile e il gregge, a quell'ora raggruppato
intorno all'abbeveratoio, di fianco alla bassa costruzione. Obbligando la
bestia a scartare verso destra e compiendo un largo giro che lo faceva
rientrare nel bosco per riuscirne poco oltre, Eugenio, dopo essere smontato
dall'arcione, aveva raggiunto una grossa quercia che gli offriva la propria
ombra. Da quella posizione aveva lasciato che lo sguardo si aprisse sul
paesaggio che aveva di fronte: pennellate di colori caldi e malinconici
dipingevano una tela maestosa e inserito in quel paesaggio rurale vi era
Attilio. L'emozione pervadeva l'animo di Eugenio mentre osservava il cugino.
Attilio, ignaro di tutto, davanti a una grossa vasca di pietra che il
temporale notturno aveva riempito d'acqua fino all'orlo, ne agitava la
superficie con le mani. Allontanando fili di paglia e insetti, raccoglieva
nelle palme delle mani piccole quantità che poi spargeva sul volto e sul
collo. Il petto ossuto e candido di Attilio era attraversato da rivoli
d'acqua che arrivavano a inzuppare il bordo dei pantaloni. Questi, ben calati
sui fianchi, scoprivano appena il solco fra le due natiche. Terminate quelle
abluzioni Attilio immergeva nella vasca anche la camicia per poi levarla
gocciolante e stenderla sopra un cavalletto di legno. Eugenio non aveva perso un
solo movimento, il respiro leggermente
ansimante. Infine si era voltato e, con il viso irrorato dal sangue, era
rientrato nel bosco e preso il cavallo per le briglie, si era incamminato con
la testa tenuta bassa sul petto. Non aveva raggiunto Attilio: si sentiva
estraneo a quel paesaggio e all'intimità che conteneva. Non sapeva
spiegarsene il motivo ma in qualche modo sentiva che
la sua presenza avrebbe intaccato la bellezza di quel quadro meraviglioso. A distanza di anni, mentre
riviveva i ricordi, con gli occhi ancora fissi davanti al guizzo delle
fiamme, Eugenio sorrideva di tenerezza per se stesso e per le sue emozioni
giovanili. Dopo quel viaggio egli
aveva potuto riabbracciare suo padre che però era morto quella notte stessa e
lui, com'era stato per sua madre e per sua sorella, lo aveva pianto a
lungo. Ritornando con
la mente ad Attilio, egli ne riconosceva le qualità: la sua destrezza con il coltello, ma
anche le dispute in poesia grazie alle quali aveva
ottenuto, ancora molto giovane, una certa notorietà.
* Quei ricordi invitavano
Eugenio a rincorrere altri pensieri e, riflettendo su se stesso, in quel momento della sua esistenza egli
poteva asserire senza dubbio alcuno di sentirsi un uomo in buona parte
soddisfatto: il suo desiderio di entrare nell'arma dei carabinieri si era
concretizzato e pure quello di ritornare nella sua terra. Inoltre la passione
per il suo lavoro lo aveva ricompensato per il duro impegno fisico. Gli restava un’ultima
domanda: aveva ricevuto altrettante soddisfazioni dalla sua vita affettiva? C’era un episodio che lo
riportava indietro di qualche anno: quella volta in cui, più per goliardia e
spinto da una discreta dose di urgenza fisica, nonché per porre fine alle
insinuazioni dei giovani colleghi, si era dunque lasciato condurre in una
casa di appuntamenti. Lì, per la prima volta, aveva fatto la conoscenza di un
corpo femminile. Non era stata una gran cosa. Eugenio
aveva fatto quello che doveva fare molto lentamente, concentrato e
silenzioso. La donna, non più giovane ma con due fossette da bambina sulle
guance, aveva osservato nello specchio appeso al soffitto il corpo nudo del
giovane muoversi ritmicamente e intanto gli accarezzava distrattamente i capelli.
Si era accorta che aveva terminato quando si era bloccato dentro di lei e la
pelle, leggermente sudata, aveva avuto un brivido. Pochi istanti dopo la
donna sedeva davanti alla specchiera, ravviandosi i lunghi capelli ramati che
portava sciolti sulle spalle. Nel mentre conversava oziosamente con il
ragazzo, impegnato a indossare i propri abiti eleganti. Alla richiesta di una
seconda visita Eugenio, ormai vestito di tutto punto, l'aveva osservata
ancora una volta e, dopo averle regalato un sorriso, aveva lasciato la
stanza, certo che non l'avrebbe mai più rivista. Eugenio non ricordava se
sfiorando il giovane e allampanato collega era stato l'odore emanato da quel
corpo a provocargli un capogiro o se quella vertigine era stata causata dal
calore di un braccio appoggiato con noncuranza sulla sua spalla mentre,
uscendo entrambi dal basso edificio, raggiungevano i commilitoni sulla strada
di fronte. Restava il fatto che quell'odore e quel braccio, uniti ad altri
odori e ai corpi maschili che aveva avuto accanto a sé ogni giorno durante la
scuola di addestramento, sostenuti da una buona dose di fantasia, avevano
stimolato per anni i suoi più profondi desideri; ma li considerava desideri
proibiti, da mantenere segreti. Perciò in quel momento
Eugenio non aveva risposte se non che la sua vita affettiva era praticamente
inesistente. Accarezzava i suoi sogni, niente di più. La sua mente
fantasticava, viveva di immagini, e quelle immagini a volte lo spaventavano a
morte. Prima o poi avrebbe preso
la decisione di sposare una brava ragazza, lo avrebbe fatto. Una casa e una
donna che badasse a lui, ecco di cosa aveva bisogno. In fondo avrebbe dovuto
fare solo ciò che facevano gli altri uomini. Diventare padre avrebbe di certo
colmato il vuoto affettivo che sentiva dentro di sé e non avrebbe avuto più
il timore di affrontare se stesso: semplicemente avrebbe soffocato quelle
aspirazioni che mai avrebbe visto realizzare.
* Tornando con un sussulto alla
realtà, Eugenio vedeva suo cugino Attilio come il protagonista di una
tragedia immane, ma guardando oltre le vesti stazzonate e il corpo smagrito,
nel suo incedere a testa alta, Eugenio aveva riconosciuto fin da subito la
determinazione del giovane di perseguire nel suo intento. Quel ragazzo
desiderava ardentemente vendicare Sebastiano, ma si
illudeva che raggiungendo quello scopo
lo avrebbe riportato in vita? Il sangue di quel fratello morto avrebbe fatto
di lui un assassino. Era ciò che voleva diventare? Quello sentiva di dire
Eugenio, affrontando il ragazzo dopo una notte insonne, e quelle parole
venivano ascoltate, educatamente, come Attilio sapeva di dover fare; ma a
niente era servito portare Salvatore come l'esempio di un uomo vittima della
sua stessa natura sanguinaria. Per Attilio in quel momento esisteva un unico
sentimento possibile: l'odio più totale. Ma era pur vero che quelle parole
avevano toccato una parte importante della sua coscienza e gli avevano
permesso di muovere i primi passi nel cammino verso
una più profonda conoscenza di se stesso. Comunque, nonostante le
buone intenzioni di Eugenio, nonostante i suoi discorsi accorati in uno stato
d'animo pervaso dall'ansia, al termine del secondo giorno, prima che Eugenio
venisse richiamato al servizio, niente era andato come sperato e Attilio,
all'imbrunire, si preparava a lasciare sia la casa che il cugino. Eugenio avrebbe desiderato
altro tempo per riuscire ad allontanare Attilio dai pericoli di un'esistenza
troppo rischiosa per un ragazzo solo; ma doveva obbedire agli ordini dei suoi
superiori e, seppur con il cuore gonfio di apprensione, alla fine doveva pur
lasciarlo andare per la propria strada.
* Dormire profondamente,
sentendosi protetto da una casa accogliente e dalla presenza di Eugenio aveva
fatto sì che sotto le palpebre abbassate di Attilio balenassero immagini dimenticate da
tempo. Giochi, inseguimenti e ruzzoloni, ma soprattutto risate: aperte,
rumorose, contagiose. E il sorriso era stato il primo a destarsi quella
mattina di un nuovo giorno, l’ultimo da trascorrere insieme. Sorriso che si
era spento nell’istante in cui gli abitanti del piccolo villaggio venivano
destati dal rumore degli spari dei moschetti. Le donne, chiuse dentro
alle loro casupole, con la coperta avvolta intorno al corpo e sulla testa,
scendevano giù dal letto, inginocchiandosi per pregare. Pregavano a mani
giunte, con la testa piegata sul petto e gli occhi chiusi. Imploravano la
salvezza di un figlio o di un marito o di un altro parente, che
in quelle prime ore mattutine rischiava di soccombere ai colpi
delle armi. Erano tempi duri; tempi di
soprusi e ingiustizie da parte delle autorità a danno dei più deboli. Leggi
ingiuste provocavano il caos: ci si uccideva
tra i contadini, per un pezzo di terra o per altri motivi; tra bande rivali;
tra fuggiaschi e forze dell'ordine. Di lì a poco nelle
orecchie di Attilio sarebbero risuonati i rintocchi delle campane: funereo
sottofondo al pianto delle donne. Dissolti i pensieri
felici, il ragazzo, raggiungendo la cucina ancora in penombra, aveva ormai
scacciato ogni residuo di sorriso. La figura di Eugenio vestito di tutto
punto che lo aspettava in piedi vicino al camino, ormai completamente spento,
aveva accentuato il suo stupore nei confronti del giovane cugino. In divisa
da carabiniere Eugenio era un figurino e Attilio non poteva non rimanerne
affascinato. Lui si sentiva in disordine e sporco e mai nella sua vita aveva
trascurato la pulizia. Allora gli tornava alla mente l'acqua placida e
splendente del torrente, dove tre bambini si divertivano a spruzzarsi e a
lanciare sassi dalla riva. In quel momento Attilio sentiva forte il desiderio
di infilare la mano in tasca, ma la vergogna di afferrare il sasso levigato
davanti a Eugenio bloccava quella mano, che perciò era rimasta chiusa a
pugno. Al compimento di quella
lunga giornata, quello che i due cugini avevano da dirsi se lo erano detti,
perciò Eugenio era stato il primo a muoversi per andare incontro all'altro,
con l'intenzione di salutarlo. Ma, preso dalla disperazione, Eugenio aveva
voluto ripetere ancora una volta ad Attilio di stare lontano da suo fratello:
Salvatore era pericoloso e non si sarebbe fatto scrupolo nel tendergli una
trappola. Aveva già ucciso e lo avrebbe fatto ancora. Voleva andare via? Ora
era libero di farlo: - “Va’ via Attilio, vattene lontano da qui. Ma per l'amor di
dio, non farti ammazzare!”. L'ultima frase Eugenio l'aveva urlata stringendo forte le
braccia del cugino e guardandolo con occhi opachi e spenti, come Attilio non
aveva ancora conosciuto. Erano gli occhi di un uomo privo di sonno e di
riposo, un uomo che avrebbe legato al letto quel somaro cocciuto se avesse
potuto, pur di non vederlo allontanarsi. Pur di averlo accanto a sé e
proteggerlo. Attilio, incapace di
reagire, aveva subito quella calorosa esplosione di affetto, non riuscendo a
farsene una ragione. L'atteggiamento di Eugenio gli appariva eccessivo e
comunque non aveva più voglia di starlo ad ascoltare: iniziava a sentire male
dentro al petto e quel nuovo dolore non gli piaceva affatto. Era troppo
simile al sentimento d'amore che lo aveva legato a Sebastiano; un sentimento
che la morte improvvisa avrebbe potuto spezzare e la sofferenza che ne
seguiva era troppo forte da sopportare. Un amore viscerale, quello
provato per suo fratello, nato nello stesso istante in cui lo aveva visto per
la prima volta, quando
suo padre aveva portato fuori dalla stanza da letto un fagottino avvolto in
una coperta fatta di stracci, consunta e lisa in più punti. Era piccolissimo
Sebastiano, nato di sette mesi, e non sarebbe sopravvissuto. Lo ripetevano
tutti, certi che non avrebbe visto l'alba, e Don Pino lo aveva battezzato la
notte stessa. Salvatore, che non appena gli veniva a tiro, aveva preso a
pugni la pancia di sua madre per tutta la gravidanza, non aveva degnato di
uno sguardo il fratellino. Attilio invece lo aveva voluto tenere in braccio e
lo aveva cullato, per tutta la notte. Era stato il suo calore a salvargli la
vita: questo gli ripeteva sempre il prete; ma Attilio dentro di sé sapeva che
quello era un bambino forte, con tanta voglia di vivere. Se n'era accorto subito,
quando Sebastiano gli aveva stretto l'indice e non lo aveva più lasciato. In quel momento di
tensione, desiderando ricacciare dentro le lacrime,
Attilio, con il tessuto della manica, si asciugava gli occhi. Quel gesto stizzito non aveva lasciato indifferente Eugenio che
commosso, sospirando forte, lo stringeva a sé.
* L'ultimo grave episodio di
sangue del quale si continuava a parlare, Salvatore Dasso
lo aveva commesso il mese precedente. Fra i delitti perpetrati da Salvatore
quello era stato il più vigliacco. La vittima si chiamava
Peppino. Questi era un bonaccione, un mezzo scemo che viveva con la mamma e
diversi piccoli fratelli in una casa bassa, a guardia di una chiesa
campestre. Veniva chiamato l'eremitano e, come tutti gli eremitani, egli aveva l'obbligo
di aprire le porte della chiesa a tutti i devoti che vi si recavano per farvi
le orazioni. La povera famiglia viveva delle elemosine dei visitatori, dello
scarso frutto di un piccolo lembo di terra coltivata e dell'allevamento di
qualche bestia, di cui Peppino era il mezzadro. Quel giorno l'umore di
Salvatore era tetro; la morte del suo compagno, caduto poche sere prima in un'imboscata, lo
rendeva irrequieto e nervoso e la noia, derivante dallo starsene rintanato
come una bestia in un antro maleodorante, lo aveva spinto a sfidare la sorte.
Perciò si era precipitato a rotta di collo giù per il sentiero impervio della
montagna, attraversando il bosco per ritrovarsi infine in aperta campagna. Di
fronte a lui stava la piccola chiesa medievale e intorno le casette della
famiglia. Gli animali pascolavano e brucavano l'erba; al passaggio di
Salvatore si scansavano appena, infastiditi. Raggiunto il casale dove si
trovava Peppino, il ragazzo aveva adocchiato una scrofa con i porcellini. Indicando uno di questi
aveva esclamato: - “Me ne regali uno?” - Il pover'uomo, intimidito dalla stazza di Salvatore e dal
coltello tenuto in bella mostra sotto la cintura che gli sorreggeva i
pantaloni di fustagno, aveva risposto che no, non poteva. Egli era povero e
le bestie non gli appartenevano, le aveva a metà con il proprietario.
Salvatore sembrava convinto della risposta e, dopo aver dato un'altra
occhiata ai porcellini, evitando di incontrare gli occhi di Peppino, aveva
girato di spalle e se n'era andato. Era scesa la sera ed il buio. Peppino e
la sua famiglia dormivano. Salvatore, tornato nei pressi del casale, questa
volta non da solo, avanzava deciso tra le bestie chiuse nel recinto,
ordinando al compare di prendere i porcellini. Lui teneva d'occhio la casa e
nel momento in cui, illuminato dalla luce della luna, aveva distinto la
figura di Peppino il quale, svegliato dal grugnito della scrofa, ne era
uscito fuori imbracciando il fucile, senza indugio alcuno aveva fatto fuoco,
stendendolo cadavere. Quella vile azione era
arrivata anche alle orecchie di Attilio, in quei giorni di passaggio al villaggio
per incontrare padre Pino. Alla notizia dell'uccisione dell'eremitano, il
prete si era segnato la fronte e il petto, bisbigliando una preghiera. Attilio aveva stretto i
pugni con forza. Sentiva tutto il male di quel fratello maledetto scorrergli
nel sangue. E quel sangue si stava ammalando. Si era ridotto a condurre una
vita miserevole, braccando un fuggiasco che ancora non aveva avuto modo di
incontrare e a quel punto poteva solo sperare in uno scontro aperto e
diretto, ma per quello Salvatore era troppo codardo. Il giorno dopo Attilio si
era recato dalla famiglia disperata, abbandonata e lasciata a se stessa, in
uno stato pietoso. Aveva lasciato loro qualche pane e qualche pezzo di carne.
Poi aveva voltato lo sguardo verso la roccia granitica della montagna,
colpita dai raggi del sole. Avrebbe voluto avere la forza di cento giganti
per poter stritolare quella montagna con mani possenti. Avrebbe voluto
schiacciarla con piedi di marmo e stanare, una volta per tutte, suo fratello
e chi, come lui, uccideva vigliaccamente i deboli e gli indifesi.
*
Trascorso del tempo da
quel triste episodio, l'intervento delle forze dei carabinieri, sparse
capillarmente su tutto il territorio, era riuscito a calmare le acque turbolente di quei luoghi segnati da
troppe croci. Grazie a una gigantesca operazione di polizia, allo scopo di
fare terra bruciata attorno ai banditi, erano stati catturati oltre seicento
favoreggiatori e complici, e questo aveva costretto i latitanti a costituirsi
o a uscire allo scoperto. Quell'impresa non era rimasta a lungo la sola: dopo
poco tempo un grosso contingente di carabinieri e di fanti avevano sgominato
la banda più sanguinaria degli ultimi anni. Salvatore si era trovato
coinvolto nelle diverse operazioni, ma era riuscito sempre a scampare agli agguati. Per ciò che lo riguardava,
nella lunga lista dei suoi crimini il peccato di lussuria era tra quelli che
lo avevano portato a un passo dalla fine, in quella che era una miserabile carriera di bandito.
Maria, una mugnaia che insieme al marito e a una figlia illegittima di questo viveva del lavoro dei campi, faceva andare
avanti un mulino di proprietà di un signorotto di paese. Era una donna tanto
opulenta e rozza quanto furba e malvagia, dedita a intrattenere rapporti
illeciti con molti banditi della zona. Un membro della banda conosceva i due
avendo, negli anni, concluso con essi diversi affari importanti. Quando questi aveva proposto a Salvatore di andare a fare
la loro conoscenza, che certamente non avrebbe male impiegato il suo tempo,
il giovane bandito, leggendo tutta la malizia negli occhi del compare, non se
l'era fatto ripetere due volte e, baldanzoso, lo aveva seguito. Maria, dal corpo procace e
dall'atteggiamento impudico, aveva subito fatto breccia negli istinti
animaleschi di Salvatore. Questi, senza tanti complimenti, aveva preso in
disparte la donna spingendola contro un mucchio di sacchi di grano lasciati
nell'aia dai contadini. Dopo averle palpato il grosso seno che saltava fuori
dall'ampia scollatura del lurido camicione, l'aveva fatta voltare,
costringendola a piegarsi in avanti. Preso l'orlo della lunga e lacera gonna
glielo aveva buttato sulla testa, trovandosi davanti agli occhi un posteriore
di dimensioni enormi e bianco come il latte. Maria, dimenando i fianchi
robusti, si mostrava collaborativa e consenziente, ma a Salvatore così non
andava bene: egli era abituato a prendere con la forza ciò che desiderava.
L'atteggiamento lascivo della donna lo irritava perciò, mentre la penetrava
selvaggiamente, aveva preso a percuoterla e quella, messa da parte ogni
gentilezza, aveva iniziato a esprimere tutto il suo disappunto: urlando
bestemmie e terribili maledizioni. Sentendo le urla della
donna costretta a subire violenza, il mugnaio si era alzato di scatto e,
impugnando il coltello che da seduto teneva appoggiato sulle gambe, si era
precipitato fuori dal mulino. Il bandito che era con lui, colto di sorpresa,
non era riuscito a fermarlo e, proprio nell'istante in cui il seme di
Salvatore riempiva il sesso seviziato della poveretta, alle urla di questa si
era sovrapposto un altrettanto accorato urlo di dolore; ma anche di piacere,
dato che entrambe le sensazioni avevano raggiunto il cervello di Salvatore
praticamente nello stesso istante. - “Ahhhhh, maledetto!” - Imprecando, Salvatore con una mano
cercava di tenere su i pantaloni, mentre l'altro braccio, reso inerme dalla
ferita alla spalla, sanguinava copiosamente. Maria che, riacquistato il
dominio di sé, desiderava lasciare a quel demonio un ricordo del tutto
personale, prima di permettere a Salvatore di dileguarsi, si era accanita su
quella ferita. Con tutta la crudeltà di cui era capace, la donna aveva
affondato le unghie nella carne viva, messa a nudo dal taglio profondo
provocato dall'arma, decisa a non mollare la presa; sino a che una sberla dal
formidabile impatto non l'aveva colpita, facendola atterrare due metri più in
là. Salvatore stava perdendo la ragione e la vista gli si annebbiava mentre
cercava di afferrare con la mano sinistra la pistola caduta davanti ai suoi
piedi; ma non riusciva ad afferrarla. Nicolò, il compare di Salvatore, che
gettandosi sul mugnaio, era riuscito a deviare il colpo mortale diretto al
collo, l'aveva preso da sotto l'ascella per condurlo verso il cavallo e, una
volta sotto, lo aveva aiutato a issarsi sulla
sella. A quel punto
Maria aveva raccolto da terra un grosso sasso che, lanciato con forza,
centrava la nuca dell'uomo in fuga.
A mettere in fuga i due banditi però, non era stato il coraggio della donna
che quasi certamente sarebbe stata uccisa, assieme al marito; né tantomeno le
urla di quest'ultimo che, rialzatosi dolorante da terra, con il forcone
minacciava loro di aprirgli la pancia. In realtà sul posto stavano arrivando
i militi a cavallo e, stando al polverone che sollevavano, si trattava di un
gruppo consistente. Era stata la figlia del
mugnaio - passata inosservata per tutto il periodo in cui si consumava quel
violento episodio - a chiamare i carabinieri. La ragazzina era riuscita a
uscire di soppiatto dal mulino e, correndo tra i campi, aveva raggiunto il
villaggio in cui li sapeva dislocati. Eugenio era tra quelli, ma non erano
riusciti ad arrivare in tempo, nemmeno quella volta. Febbricitante e con il
volto di un pallore mortale, Salvatore perdeva piano piano le
forze mentre il compare si tirava dietro il suo cavallo, affrontando la
ripida e contorta mulattiera che li avrebbe riportati al nascondiglio.
Durante il faticoso tragitto per ben due volte il ragazzo era scivolato dalla
sella, fino a che l’altro non lo aveva dovuto legare con una fune. Le
condizioni di Salvatore, durante il lungo tragitto, si erano fatte via via sempre più gravi e quando, finalmente, i compagni che
li attendevano sul posto erano riusciti a sdraiarlo sulla stuoia dentro alla
caverna, la sua coscienza lo aveva abbandonato. Le unghie della donna
avevano provocato una brutta infezione e la sporcizia del luogo non ne
avrebbe facilitato la guarigione. Salvatore si era dibattuto e aveva urlato
di dolore quando Nicolò aveva dovuto cauterizzare la ferita con la punta
incandescente della lama del coltello. Poi tutto era diventato nuovamente
buio.
* Le operazioni
militari avevano dato i loro risultati: per un lungo lasso di tempo le
imprese dei briganti avevano subito una frenata significativa. Erano molti i banditi uccisi, ma anche
tra i carabinieri le perdite erano state piuttosto ingenti. Raggiunto il
proprio villaggio Eugenio, con la morte nel cuore, aveva dovuto sostenere,
con parole colme di dolcezza, i genitori di un carabiniere partito con lui
anni prima e che ora giaceva cadavere. Terminati i tristi doveri, in possesso
di un permesso di sette giorni, si era poi chiuso nella propria abitazione,
deciso a tener fede alla promessa fatta al maresciallo e quindi a dedicare quella
settimana al riposo. Ma da almeno un
mese Eugenio non aveva notizie di Attilio perciò, dopo un solo giorno di
sonno, prendeva la decisione di mettersi sulle sue tracce. Sapeva che per un
certo periodo suo cugino era stato ospite di don Pino, il prete del suo
villaggio, e di questo ringraziava tutti i santi conosciuti, che almeno lo
avevano tenuto lontano dai guai. Da lì era iniziata la sua ricerca. Padre Pino gli era andato
incontro appena lo aveva visto entrare in chiesa, domandandogli se
desiderasse confessarsi. - “Sono Eugenio Dasso, il cugino di
Attilio” – aveva
invece risposto. - “Non ho più sue notizie, ma so che non molto tempo fa è stato
qui, da lei. Può dirmi dove lo posso trovare?” -. Don Pino aveva invitato
Eugenio a seguirlo in canonica. Una volta fatto accomodare gli aveva offerto
un liquore leggero che l'uomo gentilmente aveva rifiutato e che lui invece
aveva versato, con generosa dose, nel proprio bicchierino. - “Attilio è stato qui, è vero ma, ahimè,
non so dove sia adesso”. - Un sorso di liquore dolce aveva allargato ulteriormente
il sorriso sul volto del parroco e Eugenio, mentre osservava l'altro
nell'atto di leccarsi le labbra con evidente soddisfazione, si domandava se
la conversazione doveva ritenersi conclusa. Dopo qualche secondo,
scoraggiato, stava per alzarsi dalla scomoda sedia in legno, dalla seduta
sfondata, quando una stretta al braccio lo aveva bloccato. - “Conosci Gavino Biosa?” - Eugenio aveva risposto che sì, lo
conosceva e per la sorpresa i ricordi gli erano
arrivati alla mente tutti insieme,
provocandogli un fremito di eccitazione.
* Gavino Biosa
era uno di quelli che non vedeva di buon occhio le divise militari e
scherniva i carabinieri con i quali aveva a che fare. Anche lui, come tutti gli altri pastori
e agricoltori della sua terra, aveva subito la prepotenza di leggi promulgate
da un Governo che non conosceva affatto quel territorio, che disprezzava
leggi non scritte e che calpestava i diritti dei poveri, imponendo con la forza
scelte politiche, spesso sbagliate. Egli non sopportava i soprusi dei potenti
e lottava per difendere anche i diritti di coloro che stavano inermi a
guardare, soggiogati dalla forza di un macigno che calava dall'alto.
Disprezzava chi si vendeva o tradiva i compagni per riscuotere un premio, oppure per guadagnarsi l'immunità. Aveva
sempre disprezzato il comportamento di Salvatore, quando per un certo periodo
ne aveva frequentato la banda. Ancora di più lo disprezzava dopo quello che
aveva fatto a Sebastiano e intendeva mantenere la promessa fatta a se stesso
nel momento in cui, lasciando ad Attilio le redini del suo cavallo, aveva
giurato che non lo avrebbe lasciato da solo. Gavino era sempre pronto
ad aiutare un suo vicino o compaesano, senza chiedere niente in cambio,
perché era nella sua natura farlo. Ad Attilio aveva fatto una promessa
silenziosa e per tutto quel lungo periodo non aveva mai mancato di occuparsi
del ragazzo. Aveva anticipato i suoi spostamenti, guidandolo da un ovile
all'altro, e i pastori erano lieti e orgogliosi di fare qualcosa per lui.
Gavino Biosa era considerato un balente, nel senso nobile del termine, e in
lui albergavano vigore, ardimento, temerarietà e baldanza. Ospitarlo
nel proprio ovile era un privilegio e a nessuno veniva in mente di
tradirlo. Eugenio conosceva Gavino
da quando erano ragazzini e già prima della sua partenza per il continente
egli aveva potuto ammirare le gesta virili di quell’uomo che cavalcava come
un demonio a pelo di cavallo. Da carabiniere di recente
aveva avuto modo di osservare Gavino durante i festeggiamenti in onore di San
Nicola. Avendo ricevuto l'ordine dal brigadiere di prestare servizio di
vigilanza, con altri tre colleghi pattugliava la zona campestre tutt'intorno
alla chiesa. Eugenio sapeva bene che risse e accoltellamenti erano frequenti
in quel tipo di assembramenti: in passato molte di quelle feste erano state
bagnate dal sangue di intere famiglie. Durante le sue ricognizioni Eugenio
aveva osservato con attenzione l'arrivo e il movimento continuo dei
pellegrini – abituati alla presenza pacifica degli uomini in uniforme –
nonché dei capannelli formati da gruppi di giovani i quali, accesi dal vino e
dalla presenza femminile, diventavano più arroganti del solito. La festa
avrebbe avuto la durata di tre giorni e nei primi due il suo intervento era
stato richiesto per sedare litigi nati per futili motivi e mai aveva dovuto
usare la forza. Di quello era soddisfatto: molte di quelle persone erano suoi
conoscenti e desiderava che le famiglie arrivate
sin lì con il carretto o a dorso di mulo, persino a piedi, si godessero la
festa. La giornata che Eugenio
aveva atteso, per suo piacere personale, era quella dedicata al torneo di
corsa all'anello. La sua attenzione a ciò che lo circondava non era diminuita,
ma dentro di sé l'eccitazione lo rendeva impaziente. I partecipanti al torneo a
inizio di giornata, dopo la Santa Messa e la benedizione, si muovevano tra la
folla, a piedi, ricevendo numerose pacche sulla schiena e frasi
d'incoraggiamento provenienti dai propri sostenitori. Nel tardo pomeriggio
invece si era svolto tra due ali di folla il
passaggio a cavallo e, pensava Eugenio, si potevano quasi toccare con mano la
forza e la determinazione di chi concentrava tutta l'attenzione verso quel
cerchio quasi invisibile, per arrivare a centrare con lo stocco più anelli –
stelle - possibili. In palio c'era la fortuna per la fertilità della
terra e per il raccolto: buona o cattiva dipendeva dai cavalieri che
puntavano alla stella. I purosangue, bardati a
festa con nastri e campanellini, percepivano la tensione dei cavalieri e si
muovevano irrequieti. I potenti muscoli fremevano e i nitriti segnalavano l'impazienza dell'attesa. Sopra di loro gli uomini
cercavano di calmarli. Sedendo impettiti e colmi di ardimento esercitavano
continui movimenti del corpo che la bestia percepiva e ai quali si
assoggettava. Osservando da una certa
distanza i movimenti di Gavino, Eugenio non poteva non apprezzarne la
fierezza. Vestito con gli abiti tradizionali l'uomo si muoveva tra il gruppo
dei suoi con fare deciso. Ogni tanto, mentre si accendeva una sigaretta, il sopracciglio destro si sollevava e lo sguardo
catturava ogni particolare intorno a lui. I suoi occhi azzurri brillavano
attenti come quelli della volpe e gli sarebbe bastato un secondo per reagire a un attacco a sorpresa. Era alto e
imponente, con gli arti grossi e muscolosi; la sua testa, dalla forma
tondeggiante, poggiava su un collo dal quale risaltava la tensione nervosa. I
capelli, scuri e tagliati molto corti, ai lati presentavano una precoce
stempiatura. La barba , altrettanto scura, era ben curata e faceva da cornice
alle due labbra carnose e dal bel taglio. Il sorriso era aperto e metteva in
mostra i denti. Eugenio lo aveva sorpreso diverse volte mentre guardava nella
sua direzione e quel sorriso poteva avere diversi significati: sfida,
audacia, controllo, padronanza di sé. Eugenio reggeva quello sguardo con la
stessa intensità e poi si voltava per proseguire la sua ronda. In quell'occasione Gavino
con velocità, precisione e braccio fermo e teso, dritto davanti a sé, con il
suo stocco aveva raccolto un buon numero di stelle. Con la sua solita aria
spregiudicata, la prima stella d'argento l'aveva dedicata ad Eugenio. L'uomo,
con fare sfrontato, si era messo in piedi sulla sella e, sostenuto dai fischi
della folla, aveva dapprima baciato il premio guardando Eugenio dritto negli
occhi, e poi aveva mimato un inchino. Eugenio aveva mantenuto l'espressione
del viso intatta, mentre il cuore faceva le capriole e, di rimando, aveva
sfiorato la visiera rigida del cappello. A mano a mano che la folla
si disperdeva Eugenio si ricongiungeva al resto del drappello e quando ormai
la sera oscurava il piazzale della Chiesa e tutto il campo intorno, i
musicisti, alla luce dei falò sparsi un po' ovunque, iniziavano ad accordare
i propri strumenti. I gruppi di danzatori si riunivano allegri e la festa si
preparava alla lunga notte. Gavino nel frattempo aveva
raggiunto la scuderia di un fienile nei dintorni e dopo aver affidato il cavallo
al compare, si era riunito al gruppo degli uomini coi quali aveva condiviso
un pasto frugale. Uno di loro, quello che teneva lo sguardo basso, intimidito
dalla presenza di Gavino, giocherellava con un bastone a smuovere i ciocchi
di legno, messi ad ardere nel camino, provocando così una miriade di
scintille. Il suo sguardo era rapito dalle lingue di fuoco che, danzandogli
davanti, creavano giochi d'ombre sul viso giovane e attraente. Gavino,
accucciato in terra, in una posizione che lo lasciava nella penombra, lo
osservava, fumando dalla sua pipa in radica e rimuginando fra sé. Quando a
una certa ora gli uomini, stanchi e assonnati, si erano finalmente decisi a
ritirarsi Gavino, che doveva recarsi da uno zio in un villaggio situato a
poca distanza, si era rivolto al ragazzo e, con assoluta noncuranza, gli
aveva chiesto di accompagnarlo. Il resto del
gruppo non era rimasto sorpreso dalla proposta di Gavino. Solo Giomaria,
il suo più fedele amico, si era risentito, ma non aveva osato dire nulla.
Infine il gruppo si era diviso e Gavino, affiancato dal giovane, poteva
guidare lento il suo cavallo, liberato da tutte le bardature, godendosi
l'aria fresca e pulita della notte. Inizialmente nessuno dei
due aveva dato segno di voler parlare; dopo pochi chilometri, in prossimità
di un rudere, vecchio di secoli e aggredito dalla vegetazione, Gavino aveva
imposto una fermata per liberare la vescica. Francesco non se l'era fatto
ripetere due volte e smontato di sella aveva preceduto Gavino dietro un
grosso masso. Mentre rilassava i muscoli, gustando la sensazione rilassante
di quel gesto, il ragazzo non si era accorto della presenza di Gavino, a un
passo da lui. Una luna generosa quella notte era riuscita a bucare le nuvole
e quando Francesco si era voltato per riprendere il sentiero, il corpo di
Gavino gli era apparso tutto avvolto da un chiarore luminoso. In un primo
momento un fremito di paura lo aveva percorso, provocandogli un brivido;
sentendo poi la mano di Gavino sul proprio viso aveva reagito d'istinto
facendo un passo indietro. Ma Gavino aveva insistito e le dita, dopo aver
indugiato sui capelli, si erano spostate sulle labbra, sfiorandole dolcemente
e disegnandone i contorni. Avvicinandosi sino a premere il proprio corpo
contro quello del ragazzo, lentamente aveva poggiato le proprie labbra sulle
labbra di Francesco che di nuovo si allontanava. Allora la mano di Gavino si
era fatta più audace e attraverso la stoffa del pantalone gli aveva afferrato
il membro, provocando nell'altro un nuovo sussulto e
un ulteriore passo indietro. Gavino non
aveva intenzione di prenderlo con la forza e dopo aver cercato negli occhi
del ragazzo un segno di disprezzo o paura nei suoi confronti si preparava a
lasciarlo perdere, pronto a girare sui tacchi e a riprendere il cammino. Francesco aveva pensato
spesso alla virilità che il corpo di Gavino sprigionava, ma quell'intimità lo
rendeva nervoso e ne provava vergogna. Gavino gli piaceva, trovarsi in quella
situazione però era imbarazzante; non sapeva bene che cosa dovesse fare e
sarebbe scappato se solo l'altro non si fosse soffermato a fissarlo così
intensamente. Gavino, visti gli indugi del giovane, aveva ripreso ad
accarezzarlo e, spinto
da una certa urgenza, mentre gli infilava la lingua in bocca iniziava a
trafficare con la cintura del pantalone. Francesco pur senza riuscire a
rilassarsi completamente aveva risposto come meglio poteva al bacio ruvido di
Gavino e infine, cancellando ogni pensiero, si era lasciato spogliare. Quando il
corpo caldo e fremente di Gavino aveva coperto il suo Francesco aveva
sospirato di meraviglia; il piacere era sopraggiunto subito dopo: violento e
prorompente. Durante la mezz'ora
successiva le stelle erano le uniche a cui era stato concesso di osservare
quello spettacolo. Non proprio le sole però: un'ombra aveva seguito i due
cavalieri. Dopo di che, vedendo ciò che accadeva, l'ombra aveva abbandonato
quel luogo, ritornando sui propri passi. Eugenio quella notte si sentiva come un vulcano prima di un'eruzione e,
sebbene tentasse
di calmare l'ansia, non c'era modo di evitare ai pensieri di andare
sempre nella stessa direzione. Perciò, terminato il turno di lavoro e con
ancora negli occhi lo sguardo di Gavino, senza nemmeno rifletterci sopra,
aveva deciso di seguirlo. Aveva atteso che Gavino si allontanasse
dall'abitazione e, incuriosito, aveva seguito i due cavalieri. Mai si sarebbe
sognato di diventare testimone di una simile imprudenza e chiunque altro
avrebbe condannato e giustiziato sul posto i due uomini. Quel pensiero lo aveva
scosso profondamente e, con l'animo in pena, con il sangue che pulsava
frenetico a causa dei battiti accelerati, dopo aver recuperato il proprio
cavallo, se n'era tornato in caserma. La luna stava per lasciare il posto a
un nuovo sole e lui dopo poche ore avrebbe ripreso il servizio di guardia.
Quelle poche ore non sarebbero bastate ad allontanare l'immagine dei due
corpi maschili stretti in un abbraccio erotico: una sofferenza atroce per
chi, come lui, strozzava con le lacrime i propri sentimenti. - “Allora, lo conosci Gavino Biosa?” -. Padre Pino aveva continuato a sorseggiare il suo liquore
e Eugenio, perso nei suoi pensieri, non si occupava più di lui. - ”Sì, lo conosco Gavino Biosa.
Perché me lo chiedi?” -. Il prete si era avvicinato così tanto a Eugenio che
l'odore dell'alcool gli aveva pizzicato il naso. - ”Perché lui lo sa, dov'è Attilio” -.
*
La capanna era stata
realizzata con pietre e rami d'albero resistenti e rappresentava un rifugio
per quei pastori che praticavano la transumanza, quando le greggi di pecore
venivano condotte verso la pianura. All'interno di quella capanna Attilio si
era recato dopo l'ultimo colloquio avuto con padre Pino: egli aveva molte
cose su cui soffermarsi a riflettere perché il
cammino interiore, intrapreso dopo aver ascoltato le parole di Eugenio,
portava i suoi pensieri ogni giorno più lontano. Di Salvatore
Attilio aveva appreso la notizia di un grave ferimento. Non mortale, ma la ferita poteva
essersi infettata e Salvatore poteva anche essere già morto. Non si sentiva
meglio a quel pensiero. Svuotato, quello sì. I fatti sanguinosi che vedevano suo fratello
protagonista lo avevano scosso ogni giorno di più e Attilio sentiva
che le forze fisiche lo stavano abbandonando. L'autunno era alle porte e in
quello stato di prostrazione egli temeva per la propria salute. Egli era un
poeta, sapeva cantare le bellezze della natura e amava la vita; aver avuto a
che fare con l'orrore della morte violenta così da vicino aveva fatto sì che
all'interno del suo essere i sentimenti stessi subissero una forte
lacerazione. Attilio nella sua giovane
esperienza di vita aveva imparato che il sangue versato dai propri cari
doveva richiamare sempre la vendetta, quindi altro sangue, e mai e poi mai
avrebbe preso in considerazione l'idea di rimangiarsi il giuramento fatto
davanti alle spoglie di Sebastiano. Ma se davvero avesse raggiunto
quell'intento come sarebbe stata in seguito la sua
vita? Uccidere suo fratello lo avrebbe reso
una bestia e la sua vita sarebbe terminata in quello stesso istante.
Per Attilio quei pensieri erano diventati un tormento insopportabile e a
volte aveva la sensazione che la testa gli stesse per scoppiare. Don Pino nella sua
infinita pazienza era stato testimone della battaglia interiore
di Attilio che
provocava malessere e febbre, ma non aveva cercato di accelerarne la
guarigione: l'afflizione doveva fare il suo percorso e, se dio lo avesse voluto, quel ragazzo avrebbe salvato
la sua anima. Guardando innanzi a sé ad
Attilio pareva che la vista del mare gli provocasse un languore infinito talmente profondo da
condurlo alle lacrime. Il miraggio di una possibile esistenza felice lo
commuoveva e dopo mesi d'inferno quell'orizzonte lontano iniziava a
rappresentare una promessa di pace interiore. Il pensiero di poter solcare
quelle acque - in quel momento rese impraticabili e
spaventose da un forte vento proveniente da ovest - si insinuava
prepotente nella sua mente, facendovi annegare tutte le sue disgrazie. Poco lontano da Attilio,
con le mani sprofondate nelle tasche dei pantaloni e tra i denti un rametto
secco, Gavino percorreva ampi giri tutt'intorno alla capanna. Di tanto in
tanto scrutava anch'egli il mare in tempesta che si estendeva davanti ai suoi
occhi, oltre la costa rocciosa. Il viso serio, il sopracciglio destro
sollevato, com'era sua abitudine quando si trattava di scrutare nell'animo
degli uomini, puntava Attilio in attesa di sentirlo parlare. Per buona parte
della mattinata ne
aveva rispettato il silenzio, ma a quel
punto Gavino era stanco di aspettare. Aveva raggiunto la capanna
all'alba e urlando il suo nome aveva atteso che Attilio lo riconoscesse,
prima di avvicinarsi cautamente. Il ragazzo era pronto alla difesa e Gavino
ne aveva ammirato il coraggio. Seduti su un masso avevano ultimato il cibo
che Attilio aveva portato con sé, dopo la visita al villaggio. Dopodiché,
alla domanda curiosa di Attilio riguardo il motivo di quella visita, Gavino
aveva risposto che lo aveva raggiunto per portargli notizie di Salvatore. Suo
fratello era ancora vivo, gli aveva riferito Gavino, mentre Attilio ascoltava
con attenzione. Non aveva perso la sua tracotanza ed era spesso ubriaco.
L'alcool che doveva anestetizzarlo dal dolore gli aveva avvelenato il sangue
e non poteva più farne a meno. L'ubriachezza lo aveva reso ancora più
crudele, spesso contro i suoi stessi compari e quelli, uno dopo l'altro, lo
avevano abbandonato. Non sarebbe passato molto
tempo, pensava tra sé Gavino, e uno qualunque di quegli uomini avrebbe potuto
tradire Salvatore, magari facendo la spiata proprio a lui. Salvatore meritava di
essere punito per l'efferatezza dei suoi assassinii e Gavino intendeva farlo,
con le sue mani. Lo avrebbe fatto per vendicare la morte del suo piccolo
amico, Sebastiano, e per Attilio, perché non voleva che quel ragazzo si
sporcasse le mani di sangue. Attilio ricambiava lo
sguardo fiero di Gavino e ascoltava al massimo della concentrazione ma, presa
finalmente la sua decisione, la sicurezza acquisita dopo tanto rimuginare non
lo rendeva meno determinato dell'altro. La sua voce era ferma, nonostante
l'emozione, e a Gavino che gli stava di fronte pareva che le spalle del
ragazzo, così provato fisicamente, d'improvviso si ergessero ben oltre la
loro ben poca naturale ampiezza. - “Desidero con tutto me stesso che
Salvatore paghi per le sue colpe.” - Il tono della voce era salito e Gavino
si preparava a sentire il resto. - “ Ma non voglio
più sentir parlare di vendetta. Spetta alle forze dell’ordine condurlo
davanti alla giustizia e dentro l'aula di un tribunale potrà ricevere la
giusta condanna per i suoi crimini. Io ti devo molto, Gavino, forse anche la
vita, se è vero che non mi hai mai dimenticato in questi mesi; ora però ti
chiedo di interrompere la caccia, così com'è nelle mie intenzioni, perché non
intendo provocare lo spargimento di altro sangue “
-. Gavino, al cospetto di
tanta determinazione, non se l'era sentita di obiettare. Voltando le spalle e
sprofondando con gli stivali nella terra sabbiosa, si era allontanato.
Attilio, rilassando i muscoli tenuti in tensione così tanto a lungo, non
aveva potuto fare altro che sospirare mentre lo seguiva con lo sguardo. Era
tempo di riprendere la strada e ritornare al villaggio. In quel momento il
bisogno di rivedere Eugenio e parlare con lui gli sembrava un'urgenza che se
non soddisfatta lo avrebbe reso cieco e muto per il resto della vita.
*
Successivamente
all'incontro con Attilio, tornandosene pensieroso e di malumore alla sua
azienda agricola, Gavino aveva dovuto fare i conti con i malumori e le
rivalità che si erano create tra i suoi uomini. Tra due in particolare:
Francesco e Giomaria. Francesco, forte del
rapporto che lo legava a Gavino, negli ultimi tempi aveva alzato la cresta,
diventando insolente con gli altri membri del gruppo, soprattutto nei
confronti di Giomaria, verso il quale nutriva una
forte gelosia. Quell'atteggiamento non garbava all'ombroso Giomaria il quale, puntando il suo sguardo acuto e
tagliente in direzione del ragazzo, non si lasciava sfuggire il benché minimo
movimento. Gavino, prudente per
natura, si era sempre guardato bene dall'inviare segnali che potessero
tradirlo: reclamava la compagnia di Francesco solo quando era certo di
trovarsi al riparo da occhi indiscreti; ma si rendeva conto che la
spudoratezza dovuta alla giovane età del ragazzo aveva alimentato i sospetti
del malizioso Giomaria e quello, in confidenza, non
aveva mancato di farglielo notare. Con una scusa Gavino aveva provato ad
allontanare Francesco, ma era servito solo a fare precipitare le cose:
Francesco, indispettito, nei giorni successivi non aveva perso occasione per
mettersi in mostra, ridicolizzando lo stesso Gavino, il quale iniziava ad
averne abbastanza. Dopo l'ultimo scontro
verbale e qualche spintone di troppo Giomaria era
sparito per tre giorni. Francesco non aveva nemmeno provato a nascondere la
sua esultanza. Gavino, consapevole di
quella situazione insanabile, leggeva dentro alla mente del suo antico
compagno e riusciva a vederlo mentre in silenzio, chiuso dentro ai suoi
pensieri, con una pietra affilava la lama del coltello. Al quarto giorno il padre
di Francesco scopriva il corpo privo di vita di suo figlio, bocconi
nell'abbeveratoio del bestiame: aveva un taglio profondo alla gola. Scrutando
l'espressione fredda di Giomaria che ben conosceva,
Gavino rifletteva tra sé sulla posizione da adottare, consapevole che da quel
momento in avanti non avrebbe potuto riporre molta fiducia nel compare. Gli eventi seguirono il cammino tragico
della vendetta e dopo solo un giorno il corpo di Giomaria
veniva trovato nella scuderia, con la testa spaccata in più punti: una
distrazione, ed era finito sotto gli zoccoli dei cavalli che era andato a
strigliare. Nessuno aveva fatto domande. Il resto del gruppo, cinque o sei
uomini, compagni di corse e pariglie, già alquanto diffidenti, dopo quegli
omicidi che avevano tutta l'aria di veri e propri regolamenti di conti,
iniziavano a scambiarsi occhiate sospettose. Gavino, deciso a lasciarsi alle
spalle quegli incresciosi episodi, e con il vivo desiderio di allontanarsi dallo
sguardo truce dei suoi uomini, si preparava a raggiungere
Attilio al villaggio e magari fare prima due chiacchiere con Eugenio, il bel carabiniere che dalla
festa in onore di San Nicola non riusciva proprio a togliersi dalla testa,
malgrado quegli ultimi tragici episodi di sangue.
*
Riuscire a tenere desto
l'interesse verso una materia che la ragazza odiava con tutta se stessa,
quella mattina stava diventando un'impresa impossibile. Annina
non faceva che distrarsi e alla fine l'insegnante aveva perso la pazienza. - “E' chiaro che la signorina non ha nessuna
voglia di imparare oggi!” -. Dopodiché l'uomo aveva chiuso il libro e con aria
risentita si era diretto verso la porta aperta. Donna Maddalena, che per
tutta la mattinata non aveva mai smesso di passare e ripassare davanti alla
porta dello studio, non aveva potuto trattenere un sorriso, mentre la serva, seduta
alle spalle di Annina, poggiando esausta il lavoro
di rammendo che aveva in mano, sbuffava di sollievo. Annina osservava sua madre e si morsicava un
labbro. L'insegnante di sicuro era andato a lamentarsi con suo padre e presto
sarebbe arrivata la sfuriata. Ma don Vincenzo Ibba,
sindaco del villaggio, per fortuna aveva già preso la carrozza per recarsi a
una delle sue importanti riunioni cittadine e non sarebbe rientrato che il
giorno successivo. Il viso di Annina aveva
riacquistato colore ed era corsa ad abbracciare sua madre la quale, con il
suo buon cuore, le aveva già perdonato la svogliatezza di quelle ultime ore.
- ”Su, su,
sta' buona, bambina mia “ -. Sussurrava con dolcezza donna Maddalena, mentre
sistemava il fazzoletto sulla testa di sua figlia. Poi, rivolgendosi alla
serva, affinché non perdesse d'occhio quella ragazzina indisciplinata, aveva
dato il suo benestare per una breve uscita, nella piazza antistante. Una
volta fuori dal portone dell'abitazione che si distingueva dalle altre casupole
del villaggio per forma e grandezza, Annina, prendendo sottobraccio Bastiana,
aveva affrettato il passo, dirigendosi sicura verso quell'attrazione che,
attraverso la finestra dello studio, per tutta la mattinata l'aveva distratta
e incuriosita. Avvicinandosi timidamente
al carretto pieno di cianfrusaglie Annina era piena
di aspettative e non riusciva a decidersi su cosa soffermare lo sguardo.
Tutti quegli oggetti esposti arrivavano da molto lontano e le parlavano di
storie esotiche e affascinanti; sino a che l'attenzione non era stata
catturata da un volumetto dalla copertina in pelle, che il venditore aveva di
proposito tirato fuori da un sacco, non appena aveva visto arrivare la ricca
fanciulla accompagnata dalla serva. Gli occhi di Annina
si erano illuminati. La serva, anticipando la presa di Annina,
aveva soppesato il libro tra le sue mani, girandolo e sfogliandone le pagine
con supponenza, davanti agli occhi carichi di derisione dell’ambulante,
infine glielo aveva consegnato. Bastiana aveva dato
così il suo consenso, convinta di aver fatto bene il proprio dovere, pur
senza averne letto nemmeno una parola. Annina sorridendo tra sé aveva sistemato quel bene
prezioso sul fondo di un borsone di panno; sopra il libro aveva poggiato un
bel portacipria d'argento, da regalare a sua madre, e una bottiglietta di
profumo che, sistemata accanto alle altre sul canterano della sua stanza, ne
avrebbe arricchito la collezione. Soddisfatta aveva tirato per un braccio la
serva per poi proseguire la passeggiata. Bastiana,
che giudicava quegli oggetti perfettamente inutili, aveva seguito la ragazza,
non senza aver prima battibeccato con l'ambulante al quale aveva infine
pagato un prezzo ritenuto ragionevole per entrambi. Quel giorno di mercato la
piazza riuniva diversi ambulanti: girovaghi che viaggiando in lungo e largo
sbarcavano periodicamente su quella terra isolana. Annina
si era diretta verso chi, intuendo i suoi gusti, era riuscito ad ammaliarla.
Lei adorava le storie di cappa e spada e con quanto fervore si appassionava
alla lettura! Donna Maddalena era solita rimproverarla la sera quando,
temendo per la vista della ragazza, la esortava a chiudere il volume, tenuto
troppo vicino agli occhi, nella scarsa luce delle lampade di ottone a olio. Annina, costretta ad obbedire, dopo il bacio della buona
notte, si ritirava nella propria stanza e lì le pagine che aveva appena letto
prendevano vita nella sua testa, portandola a fantasticare su avvincenti
avventure. Il mercato, in quei
villaggi sperduti fra le montagne, dove la vita della popolazione seguiva i
ritmi lenti e cadenzati dalle abitudini e dalle
usanze, portava con sé i colori e gli odori della festa e ad Annina, che non si allontanava mai dalle gonne di Bastiana, tutto quel fluire di gente metteva addosso
tanta allegria e aspettative di ogni genere. Non accadeva lo stesso ad
Attilio che quell'esiguo spiazzo, ingombro
di persone e cose, innervosiva, distraendolo dalle proprie riflessioni. Attilio aveva lasciato la
capanna dieci giorni prima, il viaggio di ritorno era stato faticoso, a causa
del terreno reso franoso dalle continue piogge, che lo avevano obbligato, tra
l'altro, a ripetute soste. I suoi sensi erano sempre all'erta: saltare un
muretto di confine rappresentava sempre un rischio, soprattutto in pianura,
dove non lo conosceva nessuno; ma a mano a mano che si era introdotto nel
proprio territorio aveva iniziato a riconoscerne gli ovili e i pastori amici
erano stati ben felici di ospitarlo. Nonostante questo però non aveva perso
l'abitudine alla diffidenza e non si staccava mai dalle sue armi. Una volta, insospettito
dal comportamento di due rozzi contadini - due fratelli che lo avevano
ospitato nel loro cascinale tra maiali e galline e che fin dal primo istante
avevano incollato gli occhi colmi di curiosità sulla sua bisaccia -, appena
aveva potuto se l'era svignata, portandosi dietro un pezzo di lardo e due
pere. Era comprensibile quindi
che, dopo la solitudine del suo continuo errare, il baccano che facevano i
venditori gli rimbombasse nella testa, infastidendolo. In quel momento si era
aggiunto anche il frastuono dei dodici rintocchi della campana; ma quello era
il segno della presenza rinfrancante di don Pino. Con passo deciso Attilio si
stava perciò avviando verso i pochi gradini della chiesa quando due donne, a
passo svelto e visibilmente distratte, gli tagliavano la strada. Fermandosi di botto il ragazzo aveva evitato uno scontro, ma nonostante tutto una delle
due era finita dritta dritta nelle sue braccia.
Attilio, sostenendo quel corpo femminile, cercava di salvarla da una brutta
caduta, ma due mani pesanti si insinuavano prepotenti spingendo e
martellandogli la spalla con energiche manate. - “Santa madonna! Come osi toccare la mia
bambina con quelle luride zampe? “ - . Bastiana difendeva con le unghie la giovane donna
per la quale quel contatto, seppur
accidentale, rappresentava il massimo della sconvenienza. Attilio arrossiva
davanti al viso angelico di Annina e lasciandole la
mano che casualmente era finita nella propria, abbassava lo sguardo,
consapevole dell'inferiorità del suo stato, per poi voltarsi e affrontare i
tre gradini di pietra con un unico, lungo salto. Annina non aveva staccato gli occhi dal giovane
nemmeno per un attimo. Aveva tardato a riconoscere in lui l'Attilio dei mesi
addietro, per via di quegli abiti sformati che indossava, per il corpo ancora
più magro di come lo ricordava e per la tristezza infinita che si poteva
leggere nei suoi begli occhi nocciola. Anche lei, di fianco ai
genitori e agli uomini e donne del villaggio, aveva partecipato al funerale
di Sebastiano: con il rosario stretto tra le dita aveva
pregato tanto per quel povero bambino. In seguito il suo pensiero si era
spesso soffermato sui due fratelli, ancora così giovani e già turbati
nell'animo. Uno oppresso dalla propria crudeltà, l'altro animato dalla
vendetta. Il destino li avrebbe riuniti un giorno e Annina
non poteva far altro che pregare San Giovanni Battista, il santo protettore
dei pastori. Non appena Bastiana terminava di
raccogliere le provviste lasciate cadere dal paniere al momento dell'impatto
con Attilio, si erano interrotte anche le male
parole dirette ai vagabondi sporchi e arroganti. Annina
che aveva sentito tutto, nonostante i suoi pensieri, aveva ripreso il braccio di Bastiana
e, avviandosi verso casa, non aveva mancato di far notare alla sua fedele servitrice tutta la
responsabilità che le riguardava. Ma Bastiana
era stanca, non ascoltava più. D'improvviso un'ombra era
passata sulla piazza: il cielo si era improvvisamente fatto grigio. Anche l'umore
di Annina aveva perso colore. Una folata di vento
umido e freddo le aveva fatto tremare le spalle delicate, che Bastiana aveva subito provveduto a coprire con il suo
ampio scialle. Dopo di che la serva era passata a farsi il segno della croce:
nell'aria fluttuavano brutti presagi.
* La pioggia invernale
sbatteva contro il vetro dell'unica finestra attraversata, solo qualche ora
prima, dalla luce del sole che aveva illuminato la stanza. Dietro quel vetro
appannato, sia Eugenio che Gavino osservavano rapiti il fuggi fuggi generale che si era creato nella piccola piazza. Il
vento, più della pioggia, rendeva difficile lo sforzo dei venditori
ambulanti, i quali cercavano di opporsi a quel vortice che pareva voler
inghiottire tutta la loro merce. Passati venti minuti lo
spiazzo allagato dalla pioggia torrenziale, ai lati del quale mulinavano
rifiuti di ogni genere, si presentava deserto. A quel punto i due
giovani, riprendendosi dal torpore che la scena esterna gli infondeva, si
erano voltati verso il prete, seduto davanti a un rozzo tavolaccio di legno.
Don Pino aveva già riempito i bicchierini dei suoi due ospiti, il proprio lo
teneva stretto tra indice e pollice accostato alle labbra, e alcune sorsate
di liquore avevano già intiepidito il freddo delle sue ossa. Quando aveva mandato a
chiamare Gavino don Pino non si aspettava di vederlo arrivare in compagnia di
Eugenio. I due si erano incontrati qualche giorno prima e avevano parlato a
lungo, forse per la prima volta in tutta la loro vita, e la diffidenza
iniziale aveva ben presto lasciato il posto alla ragionevolezza: era chiaro
che entrambi avevano a cuore il futuro di Attilio. Gavino, irruente, una volta lasciato il ragazzo alla
capanna, era stato preso da un impeto di furia. Niente e nessuno lo poteva
trattenere dallo stanare Salvatore dalla sua tana. Quel folle aveva ucciso
con crudeltà e vigliaccheria: doveva morire. E mentre il suo cavallo si
riposava sulla spianata di terra erbosa, indifferente alle congetture degli
umani, Gavino, seduto con le spalle poggiate su un muretto di confine,
valutava il da farsi. Fino a che le parole di Attilio non avevano raggiunto
la sua coscienza, con tutta la forza e la determinazione con le quali erano
state espresse, e a quel punto Gavino Biosa,
rilassando i muscoli e inclinando la testa all'indietro fino a poggiare la
nuca sui massi, aveva chiuso gli occhi, arrendendosi alla realtà delle cose. Eugenio aveva sorriso
mentre ascoltava Gavino interloquire più che altro con se stesso: le
deduzioni a cui era arrivato gli facevano onore. Tra i due uomini si era
presto instaurata una fiducia e una stima reciproca e prima che Attilio
facesse rientro al villaggio Gavino e Eugenio avevano avuto modo di
scambiarsi informazioni utili. Gavino aveva i suoi contatti, ma anche Eugenio
sapeva come muoversi in quel vasto territorio, tra collaboratori e spie. Se
tutto fosse andato come speravano, presto Salvatore sarebbe stato catturato e arrestato. Prima
di storcere il naso Gavino aveva avuto l'accortezza di voltarsi dall'altra
parte. Eugenio, che non era uno stupido, aveva sorriso tra sé per la sua impazienza. Arrivata la chiamata, da
don Pino che non stava nella pelle per l'arrivo del giovane pastore,
finalmente Gavino e Eugenio avevano potuto raggiungere la canonica. Attilio
attendeva trepidante l'arrivo di suo cugino e aveva accolto Eugenio con un
caloroso abbraccio ricambiato dall'altro, al quale però non era sfuggito il
viso tirato e nemmeno le profonde borse sotto agli occhi. Quel ragazzo aveva
solo diciotto anni, pensava Eugenio, cos'altro ancora gli serbava il destino? Gavino era rimasto
leggermente indietro e Attilio aveva dovuto cercare i suoi occhi nella
penombra. Il cielo plumbeo aveva anticipato le tenebre e la stanza era
rischiarata dalla luce fioca delle candele. L'espressione severa di Gavino
inizialmente aveva intristito Attilio, ma appena gli animi si erano
riscaldati un sorriso era apparso anche sulle sue labbra. Eugenio riconosceva in
Gavino un fascino virile che in quei giorni di vicinanza gli infiammava la
bocca dello stomaco. In quell'istante, per vincere il turbamento, aveva
dovuto voltare lo sguardo, dedicando la propria attenzione alle gocce d'acqua
che striavano il vetro della stretta finestra. Ma a quel punto la
stanchezza di Attilio aveva raggiunto il limite oltre cui veniva meno la
volontà per contrastarla. Le forze lo abbandonavano e Eugenio, colui che gli
stava più vicino, vedendolo vacillare lo aveva sorretto per poi farlo sedere
sulla sedia. Il ragazzo aveva bisogno di mangiare qualcosa e mettersi a
letto. Padre Pino avrebbe voluto chiamare i genitori, ma Attilio si era
opposto con decisione. Quel gesto di ribellione era stata l'ultima reazione
concessa a un fisico così penosamente debilitato; dopodiché, chiudendo gli
occhi, Attilio si era arreso. Gli uomini nella stanzetta
del parroco si erano mossi in un rispettoso silenzio: Gavino prendendolo in
braccio si era commosso, tanto ossuto e leggero era quel corpo. Eugenio,
dietro di lui, ne osservava gli scarponi consumati e dal fondo bucato. Don
Pino, passato davanti a tutti, guidava entrambi verso il proprio letto. A
fine serata la fronte di Attilio ardeva di febbre e il corpo sotto le pesanti
coltri tremava. Eugenio, che aveva visto spegnersi così i propri familiari,
pareva un'anima in pena. Le pezze bagnate nell'aceto che Gavino cambiava a
brevi intervalli di tempo sembravano inutili e solo quando il dottore aveva
fatto il suo ingresso i tre uomini si erano potuti ritirare.
* Le cure avevano dato
risultati apprezzabili e la febbre, la nemica più temibile, dopo tre giorni
era finalmente calata. Eugenio e Gavino facevano a turno per stare al
capezzale del malato, ma Attilio ne percepiva a malapena la presenza. Una
volta gli era sembrato di riconoscere il
viso di Annina che gli sorrideva. Nel delirio della
febbre aveva visto anche Sebastiano e forse sua madre, del tutto dimenticata
in quel precipitare di tristi eventi. Passati i tre giorni di
incoscienza, le giornate solitarie di Attilio si allungavano con l'alternarsi
di sogno e veglia. Don Pino giustificava l'assenza di Eugenio e Gavino come
meglio poteva, ma a mano a mano che le ore di veglia si allungavano agli
occhi di Attilio il disagio del prete diventava sempre più riconoscibile. Un
pomeriggio, trascinando i piedi in terra, sorretto dalla spalliera di una
sedia, Attilio era riuscito a raggiungere l'unica finestra della stanza,
quella che dava sulla piazza. Il cielo era sereno, poche nuvole lo
screziavano appena, ma al di qua del cielo, esattamente in quel ristretto
quadrato circondato dalle panche di pietra e da qualche albero rinsecchito,
ciò che colpiva gli occhi del ragazzo era la totale assenza di persone. Erano
assenti gli anziani, i ragazzini; anche i cani randagi, numerosi nel
villaggio, se ne stavano acciambellati sulle soglie di pietra, davanti ai
portoni. Le finestre della casa di Annina erano sprangate. Sembrava un villaggio fantasma.
Quella considerazione gli dava i brividi e dopo lo sforzo immane che lo aveva
tenuto in piedi per pochi minuti, vinto dalla stanchezza, Attilio aveva
dovuto raggiungere il letto, per poi perdersi nuovamente nell'insensibilità. Al risveglio, fidandosi
della luce fioca di una candela, aveva subito riconosciuto Gavino che, seduto davanti al tavolo schiacciava
delle noci. Al richiamo di Attilio l'uomo si era avvicinato per avere notizie
sul suo stato. Attilio lo aveva tranquillizzato sbrigativamente, ma era
impaziente di fare la domanda che lo angosciava. - “Sento che qualcosa di molto grave ha
colpito il villaggio. Non nascondermi nulla Gavino, dimmi cosa succede, te ne
prego!” -.
Gavino, con gli occhi appesantiti dalla fatica e dalle preoccupazioni,
avrebbe preferito continuare a nascondergli la verità: era consapevole che
emozioni troppo forti sarebbero state devastanti; ma dopo qualche minuto di silenzio
e le continue insistenze di Attilio, si era deciso a parlare. Due giorni addietro
Salvatore era stato visto aggirarsi nel villaggio. Doveva
essere disperato
o totalmente impazzito per
arrivare a tanto. Aveva vagato per i vicoli deserti, stretti e bui,
per una notte intera, passando davanti agli usci bloccati dall'interno dai
grossi ganci di ferro. In un'occasione era stato circondato da tre balordi
ubriachi dai quali si era preso botte e insulti. Qualcuno aveva chiamato i
carabinieri, ma al loro arrivo Salvatore era sparito nel nulla. Attilio ascoltava Gavino e
intanto pensava agli abitanti del villaggio: qualcuno poteva trovarsi in
pericolo. Che cosa faceva Eugenio? Esasperato dall'espressione contrita di
Gavino, Attilio sentiva che il cuore gli scoppiava nel petto. Il sangue gli
irrorava il volto e mentre ritto in piedi si guardava intorno alla ricerca
dei propri abiti, la mano forte e decisa del suo amico lo rimetteva seduto,
su quello stesso giaciglio che solo pochi giorni prima lo aveva visto
delirante. Il freddo di quella stretta immobilizzava Attilio. Gavino non
aveva terminato del tutto il racconto e il gelo che si era concentrato in
quella stanza stava ad indicare che il peggio doveva ancora arrivare. E il
peggio infatti era arrivato.
*
Dopo la malinconia delle giornate piovose
trascorse tra studio e ricamo, distratta dal pensiero di Attilio che sapeva malato,
quella domenica mattina Annina, aprendo gli scuri
della finestra, aveva riacquistato fiduciosa il sorriso. Finalmente il sole aveva
ripreso a splendere e donna Maddalena, intenerita dall'espressione e dallo
sguardo adorante di sua figlia, non aveva saputo dire di no alla richiesta di
una giornata da trascorrere all'aperto. Perciò, percorrendo lo stradone che
oltre le case del villaggio portava alla vigna di don Vincenzo, le due donne, seguite da Bastiana e da un
nutrito gruppetto di accompagnatrici, sorelle e nipoti di donna Maddalena,
nonché da un asinello con la bisaccia carica di provviste, si erano incamminate felici. Alla
prima tappa le aspettava una sorgente di acqua pura e luminosa che scaturiva
in una piccola conca di pietre e si spandeva tra l'erba fangosa. Tutto
intorno i lecci facevano da corona. Annina per
prima aveva raggiunto la sorgente e, inginocchiandosi sulla pietra, aveva
raccolto l'acqua nell'incavo della mano per poi portarla alla bocca. Le altre
ragazze avevano seguito il suo esempio e le loro risate, a tratti sguaiate,
avevano riempito l'aria tutt'intorno. Donna Maddalena, che nel frattempo
aveva già raggiunto la casa agricola posta poco più avanti, insieme alle
sorelle si riposava seduta su un muricciolo di pietre, osservando le
giovinette inseguirsi piene di allegria, con le gonne tirate appena sopra le
ginocchia. Spinta dalla curiosità Annina, staccandosi dalle altre ragazze, si era voluta
addentrare nel bosco, attratta dalla presenza di una strana pietra poggiata su
altre e detta la tomba del gigante.
Sembrava una grande bara, di granito, coperta di muschio. Annina
conosceva la leggenda dei giganti che un tempo
abitavano la montagna. Uno di essi, a turno, vigilava l'ingresso della foresta: l'ultimo
si era disteso per morire sulla pietra che segnava il confine e la pietra si
era chiusa su di lui, custodendone il corpo. Quello rappresentava l'ingresso
al mondo degli eroi, dei forti, di quelli che non potevano concepire pensieri
meschini. Annina toccava il masso come se
appartenesse a un luogo sacro dove riposava qualche santo. Poi, con il corpo
e la mente inebriati da una sensazione di leggerezza, si voltava per lasciare
la solitudine di quel luogo magico; ma d'improvviso sentiva che intorno a lei
qualcosa era mutato e quella sensazione le provocava delle ondate di panico.
Aumentando il passo - in fondo non aveva da fare che pochi metri e subito
poteva riunirsi alla sua famiglia -, anche il battito del cuore aveva
iniziato ad accelerare e le orecchie a ronzare. Girando su se stessa e
guardandosi attorno con ansia crescente le pareva di non udire più le voci
concitate delle ragazze, sostituite da un respiro affannoso, quasi un ansito.
Era come se l'intera foresta sospirasse. Era stata via pochi
minuti, ma l'espressione di Bastiana mentre le
andava incontro, rimproverandola per quell'allontanamento, era una maschera
di inquietudine. Donna Maddalena si era trattenuta dallo schiaffeggiarla per
lo spavento che le aveva provocato e ad Annina -
mentre si sforzava di riprendersi dal turbamento -, nell'osservare il
colorito pallido e gli occhi lucidi di sua madre, rimordeva la coscienza. Dopo quell'episodio la
gioiosità del gruppo femminile si era smorzata e così, dopo aver fatto un
pranzo spiccio, nel primo pomeriggio si decidevano a rientrare. Le più
pettegole della compagnia bisbigliavano fra loro soffocando i risolini tra le
dita chiuse,
poggiate sulle labbra. Annina non ci faceva caso,
sapeva di aver mancato di rispetto e pensava alle parole che, una volta
rientrata a casa, avrebbe usato per scusarsi con sua madre. La mesta comitiva
ripercorreva lo stesso stradone che al mattino le
donne avevano seguito così cariche di aspettative e Annina, tormentata dai suoi pensieri, mentre avanzava
lenta strascicando i passi, si trovava ad essere l'ultima rispetto ai
gruppetti di due o tre ragazze le quali, indifferenti alla sofferenza della
parente, continuavano a parlottare e a sogghignare tra loro. Bastiana si girava spesso a osservare Annina
e dentro di sé la esortava a camminare più svelta, mal sopportando il non
averla vicina. Donna Maddalena per due volte aveva fulminato la serva con lo
sguardo, interpretando l'insofferenza di Bastiana
come un tentativo di intervento per difendere la ragazza. Arrivate a una
delle ultime svolte, mentre le donne si preparavano ad affrontare l'ultimo
tratto di salita, Bastiana, non facendo più caso
agli scatti di impazienza di donna Maddalena, si girava ancora una volta con
l'intento di richiamare a sé la ragazza. Ma Annina
non era lì dove la domestica si aspettava di trovarla. Decisa ad attenderla Bastiana prendeva posizione proprio in mezzo allo
stradone, scaricando il peso del corpo sulle robuste gambe, ben piantate nel
terreno. Quando anche l'ultimo
terzetto di ragazze era passato oltre la donna, sempre in attesa di vedere
spuntare Annina, sentiva il malessere attaccarle le
viscere. Nonostante ciò i piedi avevano preso a muoversi da soli e correndo
per la breve discesa spariva anch'essa alla vista delle altre donne, rimaste ferme a domandarsi cosa mai
stesse capitando ancora. Lo stradone svoltava a destra e non incontrando
subito la ragazza Bastiana aveva continuato a
correre urlando il nome di Annina. Ferma sul posto, donna
Maddalena prima era diventata di marmo: le urla di Bastiana
l'avevano percorsa per tutto il corpo e poi, non riuscendo più a stare in
piedi, la povera donna si era accasciata a terra come una bambola di pezza. Bastiana girava su se stessa, si guardava
intorno, faceva per entrare nel bosco e ne usciva subito dopo, sperando di
rivedere Annina sulla strada, ferma ad aspettarla.
La vana ricerca della serva durava da diversi minuti ormai e il resto della
comitiva nel frattempo aveva pensato bene di dividersi, mandando avanti le
tre ragazze più grandi a raggiungere gli uomini o, ancora meglio, i
carabinieri. Donna Maddalena percepiva
appena le voci intorno a lei, ma d'improvviso le forze sembravano esserle
tornate e, alzandosi di scatto come impazzita, si metteva anch’essa a correre
lungo la discesa sterrata, invocando il nome della figlia. Le sorelle che la
seguivano gridando a loro volta il nome di Maddalena, piangevano maledicendo
quella giornata infausta. Arrivata la sera, le donne
ormai tutte dentro casa, il villaggio era sprofondato nel silenzio. Una
maledizione sembrava averlo colpito e nessuno usciva per strada se non gli
uomini che, impugnando armi di ogni foggia e genere, si riunivano per poi
raggiungere il bosco e lì aprirsi a ventaglio per contribuire alle ricerche.
I carabinieri dirigevano quell'orda di persone cercando al contempo di
calmare gli spiriti più accesi. Annina sembrava
sparita nel nulla e la notte era calata sugli abitanti chiusi nelle casupole
del villaggio, non
meno che sugli uomini che si trovavano all'aperto, coprendo tutto come una
nera e fitta coperta. Qualcuno proponeva di rientrare, rimandando le ricerche
alle prime luci del giorno dopo, ma poi nessuno si muoveva dal proprio posto.
Continuavano a gridare il nome della ragazza e con l'ausilio delle torce
costruite alla bell'e meglio, per tutta la notte il bosco veniva setacciato
in lungo e in largo. All'alba alcuni uomini tornavano agli ovili o alle
stalle per occuparsi delle bestie, altri si davano il cambio con parenti e
amici per poi sdraiarsi nei propri letti, gli abiti ancora addosso, e
riposare qualche ora. A casa di don Vincenzo Bastiana entrava e usciva dalla stanza della signora
senza fare alcun rumore. Avrebbe voluto scappare da quel silenzio tremendo e
dalla staticità che pervadeva la padrona. Il suo carattere la portava ad
agire e non riusciva a stare ferma. Smaniando per avere notizie della sua
bambina appena aveva potuto si era inventata una scusa e lasciandosi alle
spalle quella cupa abitazione aveva attraversato la piazza a passo svelto per
poi entrare in canonica e quindi far visita a don Pino. Che cosa mai poteva dirle
il povero parroco? I carabinieri non si stancavano di cercare la ragazza
scomparsa, lui faceva quello che poteva, invitando le donne a recarsi in
chiesa a pregare e gli uomini a collaborare con le forze dell'ordine. In quel momento lo
preoccupava molto anche la salute del ragazzo che si trovava nel suo letto,
ancora convalescente, e che lui accudiva con l'aiuto di Gavino e di Eugenio,
quando a questi era consentito. Bastiana ascoltava le parole di don Pino
pronunciate a bassa voce e tra sé pensava a quella mattina quando insieme ad Annina era andata a sbattere contro il guardiano di
pecore. Aveva visto come i due giovani si erano guardati e successivamente
era stata testimone dei sospiri di quell'anima sognatrice che era la sua Annina. Ricordava molto bene quelle ore e il brutto
presentimento che l'aveva turbata. Se in quel momento Attilio non si fosse
trovato a pochi metri da lei avrebbe di certo pensato a un rapimento o
peggio. Provava compassione per quel ragazzo, per la perdita tragica del
fratellino, per inciso un mezzo deficiente; ma Bastiana
aveva da sempre avuto il sospetto che in quella famiglia scorresse sangue
malato; quel ragazzone grosso e sempre scontroso.... sì, quel Salvatore Dasso... ah-ah! Ne aveva sentite di cotte e di crude su
di lui: irascibile e violento. Le donne gli stavano alla larga temendolo come
se fosse il diavolo in persona. Si sentiva il prete di escludere che anche
Attilio potesse essere soggetto alle stesse
reazioni aggressive e violente? Don Pino, infastidito da
quel fiume di parole sciocche e inutili e desideroso di riprendere i suoi
affari, aveva invitato la donna ad avviarsi
verso la porta con fare deciso. Bastiana, risentita per il comportamento del prete, in
un primo momento aveva opposto resistenza poi, vista l'espressione sul viso tondo
dell'uomo, decisa e determinata, si era lasciata guidare fino alla piazza. Tornando sui propri passi
con addosso una sgradevole sensazione di allarme don Pino, tenendo sollevata
di pochi centimetri la veste, raggiungeva col fiatone la stanza dove
sperava di trovare Attilio ancora addormentato. Un secondo dopo aver
spinto l'uscio di legno la speranza era diventata un’evidente delusione:
Attilio non era più nel suo letto. La finestra posta in quell'unica parte
della stanza che dava sulla piazza era aperta. Il vento spazzava il pavimento
e matassine di polvere, assieme ai piccoli
frammenti di gherigli di noci, rotolavano sotto al tavolo. Attilio se n'era andato!
Gavino aveva dovuto dirgli della scomparsa di Annina
e Bastiana con i suoi sproloqui aveva completato
l'opera. Padre Pino si era seduto sulla sedia e poggiando gli occhiali
sull'asse di legno che fungeva da tavolo si massaggiava le tempie e gli occhi
stanchi. Intanto rifletteva tra sé. * Il vento soffiava forte e
gli abiti che indossava non bastavano a ripararlo dal freddo. Correndo curvo
lungo il muro posteriore della canonica, il ragazzo, magro e debole,
inciampava sul selciato che lo conduceva fuori dal paese. Le parole di Bastiana, udite da dietro la porta, gli avevano fatto
tremare le mani mentre con le sue dita lunghe e sottili si abbottonava la
camicia, per poi indossare la giacca di lana. La rabbia gli aveva dato la
forza di sedersi sul davanzale della finestra per poi lasciarsi cadere
dall'altra parte. L'altezza era poca, ma ugualmente le caviglie avevano avuto
un cedimento e il dolore acuto lo aveva raggiunto al cervello, provocandogli una serie di vibrazioni
lungo tutto il corpo. Una volta lasciatosi alle
spalle le case del paese, Attilio si era seduto su un masso e respirando dal
naso si era imposto di calmarsi. Uno sguardo al cielo, striato da sfilacciate nuvole bianche,
gli aveva strappato un sorriso e il viso, seppur emaciato e pallido, per un
attimo era ritornato a risplendere di giovinezza. Attilio aveva ascoltato
incredulo le parole di Gavino: Salvatore si era spinto sin dentro al
villaggio. Annina era scomparsa. Poteva Salvatore
aver fatto del male ad Annina? Per un attimo il
timore di essere ancora stretto nell'abbraccio infuocato della febbre gli
aveva provocato una vertigine, ma il desiderio di agire, di fare qualcosa,
qualunque cosa, lo aveva incoraggiato a muoversi. Nell'arco di poco tempo la
sua coscienza si vedeva costretta a cambiare ancora una volta direzione. Doveva
restare immobile e aspettare, ma aspettare che cosa? Chi? La mano ferma di
Gavino? O l'operato della giustizia che una volta per tutte si apprestava a
chiudere quel capitolo di storia? E lui Attilio, in che maniera voleva
chiuderlo quel capitolo? Quella storia sembrava che appartenesse a lui, più
di tutti. Più confuso che mai e in preda a una forte frustrazione Attilio
percorreva lo stesso stradone che, oltre a condurre alle campagne e agli
ovili a lui ben noti, sfiorava gli alberi del bosco e la vigna di don
Vincenzo Ibba. Egli sentiva
che le forze gli ritornavano a mano a mano che procedeva. Con la mente che
continuava a formulare pensieri e i sensi di nuovo all'erta, pronti a
cogliere il minimo movimento sospetto, a un certo punto Attilio si scontrava contro un corpo che, lanciato in una
corsa irrefrenabile, lo trascinava con sé per poi farlo
ruzzolare per terra. Sorpreso più che spaventato, mentre si spolverava la
polvere e la terra dal fondo del pantalone, Attilio si apprestava a formulare
la domanda più ovvia, ma senza averne il tempo che l’altro, come un fulmine,
si era già rimesso in piedi e con quelle gambe lunghe e magre aveva ripreso
la corsa. La voce squillante gli era arrivata da lontano: “Corro a chiamare i carabinieri: mio padre
ha trovato il corpo della signorina!”. “Dio mio!....Ma dove, dove?”. “Alla tanca”. “Quale tanca?”. “Quella di San Rocco”. Attilio continuava a
correre mentre, per
stare dietro al bambino, ripercorreva la salita. Solo dopo essersi fermato,
piegandosi in avanti per riprendere fiato, con le mani premute sulle
ginocchia, si era reso conto delle lacrime che gli bagnavano le guance.
*
Dopo lunghi mesi di vita
randagia Salvatore Dasso, se messo davanti a uno
specchio, non
avrebbe saputo riconoscersi. Il giovane corpulento aveva un addome prominente
e la pelle del suo corpo aveva assunto un colorito malsano. La barba
rossiccia cresceva a chiazze e i capelli, lunghi e opachi sulle spalle, erano
radi sulla parte alta della testa. Nel suo spirito
albergavano solo sentimenti distruttivi e a nessuno era permesso di entrare
nella sua caverna-nascondiglio, dentro cui da tempo viveva solo, braccato
come un animale. Soltanto uno dei compari non lo aveva ancora abbandonato.
Quel giovane uomo faceva buona guardia fuori dalla caverna e inoltre si
occupava di raccattare provviste, polvere da sparo, palle e acquavite, soprattutto quella. Salvatore nei suoi deliri
rivedeva spesso il fratellino morto, il quale però andava a confondersi con i
visi degli uomini morti per mano sua. E poi c'erano tutte quelle uniformi
armate e pronte a consegnarlo al boia, diventate il suo peggior incubo. Sotto
forma di ratti, neri come la notte e dai lunghi denti color avorio, entravano
nella caverna a centinaia circondandolo e puntandolo con occhi neri e lucidi,
pronti ad attaccarlo. Ma non passava giorno
senza che il viso di Attilio si facesse strada dentro la sua testa, facendolo
urlare di dolore e lasciandolo a rantolare sulla sudicia stuoia, macchiata dal
vomito e dall'urina che il più delle volte non riusciva a trattenere. Era
sempre Attilio a provocargli spasmi atroci, quando con il coltello gli
perforava l'intestino. Suo fratello si presentava all'ingresso buio mostrandogli
la testa insanguinata di Sebastiano, per poi lanciarla ai suoi piedi. Quella
testa che gli rotolava davanti lo rendeva pazzo ed era impossibile scappare
perché Attilio, mentre si passava il coltello da una mano all'altra, sogghignava
e gli ostacolava la fuga. Così per Salvatore quello
era diventato il bersaglio principale da colpire e distruggere. Probabilmente
a causa di un odio,
attecchito anni addietro e diventato estremo in quel lasso di tempo, in cui il male aveva finito per
ingigantire ogni cosa. E quel male, diventato il suo più intimo consigliere,
cosa poteva suggerirgli se non le azioni più bestiali? Colpire Attilio, ma
non direttamente, non ancora. Salvatore conosceva il
punto debole di suo fratello e quanto veleno aveva dovuto ingoiare
nell'osservarlo scambiare sguardi amorevoli con quella smorfiosa di Annina! Annina era molto bella e lui la odiava per la
sua bellezza. Disprezzava Attilio per il suo aspetto curato e il viso allegro
e cordiale che si illuminava di gioia, facendone risaltare gli occhi da cerbiatto. Provava
disgusto nei confronti dei due ragazzi e disdegnava ogni genere di gioia
festosa: davanti ai loro volti accesi dall’allegria Salvatore scappava via
lontano, magari presso uno dei mulini sparsi lungo il territorio, oppure
dentro una capanna isolata. Aggredire una serva o una contadina intenta nel
proprio lavoro serviva a scaricare con la violenza tutto il fiele amaro che
aveva in circolo e che in certe occasioni non faceva altro che aumentare. Qualche giorno prima aveva
deciso di rientrare nel suo villaggio: soffriva molto. Lo stomaco gli
bruciava come fuoco e per spegnere quel fuoco aveva bisogno di bere altro
alcool. Il suo compare, Nicolò, era sparito, forse arrestato o ucciso dai
carabinieri, accidenti a lui! Con il cappuccio del mantello calato sulla
testa la sua ombra era come uno spettro che scivolava lunghi i muri delle
case e mentre tentava di forzare la porta di una bottega per introdursi
all'interno, uomini ubriachi lo avevano aggredito per poi lasciarlo in mezzo
al fango. Non aveva idea del tempo in cui era rimasto a terra, tramortito.
Ricordava solo la rabbia che incalzava sempre più prepotente e quando dalle
tenebre aveva iniziato a profilarsi la luce tremolante delle lucerne,
sollevandosi da terra e allontanandosi con passo malfermo, era riuscito a
dileguarsi. Davanti a lui l'immagine del sorriso di Attilio e di Annina si trasformava in un ghigno, due sberleffi nei
confronti di quel miserabile che fuggiva impantanandosi in un fiume di melma.
Così aveva
atteso l'alba in un parossismo febbrile, nascosto tra le rocce
muscose, lontano dalle abitazioni. L'occasione era venuta da
sé: aveva seguito Annina durante la passeggiata, il
giorno seguente, e aveva aspettato il momento propizio per sottomettere la
donna alla propria volontà; niente di più facile. Lasciarla
esanime nel bosco affinché il suo spasimante - poeta dei suoi stivali! - la
potesse ritrovare, doveva
rappresentare un macabro dono che avrebbe accecato Attilio di dolore e
rabbia. Salvatore lo voleva così: voleva suo fratello carico di tutta la
collera del mondo e allora lo avrebbe ucciso, senza pietà. E con la morte di
Attilio intendeva uccidere tutti i brutti ricordi che tanto a lungo lo
avevano fatto vivere nel dolore. Quel dolore che per anni aveva ferito il suo
corpo di bambino e di giovane ragazzo. Perché Salvatore era cresciuto dentro
la casa del mostro più orribile: colui che non trovava uguali nemmeno nei
suoi peggiori incubi; quell'essere immondo che solo al cospetto di un figlio
diventato ormai uomo aveva provato vergogna per sé stesso; ma a quel punto
niente e nessuno poteva cambiare la tragica realtà del ragazzo: vittima molto
prima che carnefice. Attilio si era salvato
dalle grinfie di quel mostro. Sebastiano aveva ricevuto la sua dose di
punizione e sofferenza solo per il fatto di essere sopravvissuto alla
nascita. Gonaria, colei che essendo madre avrebbe
dovuto difendere quei figli disgraziati, non ne aveva avuto la forza e aveva
perso via via ogni genere di volontà. Sottomessa al
marito aveva finito per estraniarsi dall'intera famiglia, trasformando il suo
cuore in puro ghiaccio e vivendo sempre nell'ombra. Attilio aveva dovuto
affrontare la dura vita di servo pastore, ma Salvatore non ne aveva mai voluto
vedere i sacrifici, bensì la salvezza da un male nettamente peggiore. E per
quello, sin da piccolo, aveva iniziato ad odiarlo. Per una inspiegabile forma
di perversione Attilio avrebbe pagato per ciò che il loro padre gli aveva
inflitto.
* Il triste destino di Annina si era consumato non lontano dal luogo dove sua
madre era impazzita per il gran dolore. Salvatore era stato
paziente: freddo nel suo intento aveva atteso il momento a lui favorevole per
avventarsi sulla preda. All'interno del bosco, vicino ai grossi massi che
avevano attratto la curiosità della ragazza, non
c'era stato il tempo. La serva, sopraggiunta tempestivamente, gli
aveva impedito ogni mossa. Così aveva atteso ancora e l'eccitazione lo aveva
infiammato mentre immaginava il momento in cui le sue mani avrebbero toccato
la pelle setosa e profumata della bella Annina.
Ancora più bella mentre rallentava i piccoli passi, immusonita e pensierosa.
Lo sforzo era stato minimo: la ragazza era minuta. Vinto dall'odio che
provava nei suoi confronti l'avrebbe potuta uccidere se lo avesse voluto, ma
lui la desiderava viva e come una bestia uscita fuori da una leggenda
fantastica, l'aveva rapita per condurla all'interno della fitta boscaglia. Annina, dopo lo shock di quell'aggressione, aveva cercato
di opporre resistenza, ma la mano di Salvatore le tappava la bocca e i piedi
si agitavano nel vuoto mentre veniva strattonata e costretta a camminare velocemente.
Era nelle mani di un essere brutale, lo sapeva bene, conosceva la crudeltà di
Salvatore, e nessuno l'avrebbe salvata: nessun eroe in quella tragica storia
che qualcuno in seguito avrebbe narrato; solo il sacrificio senza senso di
una giovane donna. Voltando la testa di lato
per non vedere il volto di colui che oltraggiava il suo corpo; trattenendo il
respiro, per non sentire il puzzo di marcio che
emanava dalla bocca aperta; con la mente già staccata e lontana da
quel luogo, gli
occhi di Annina, velati dalle lacrime,
improvvisamente si andavano ad incrociare con quelli grandi e tondi di una
lepre che mentre la osservava curiosa faceva vibrare le lunghe vibrisse. Annina l'avrebbe potuta toccare con le sue dita
affusolate, non era molto lontana da lei, ma quelle dita riuscivano solo ad
annaspare sul terreno del sottobosco. Quello scambio di sguardi tra tenere
creature era durato pochi istanti, poi la lepre era saltata via; proprio come
aveva fatto Attilio pochi giorni addietro, pensava Annina
chiudendo gli occhi. A quel punto non sentiva più dolore, il suo corpo
disteso sulla nuda terra non le apparteneva più. Poteva alzarsi e camminare,
ma solo grazie a una forza che non era la sua; poteva usare le mani per
sistemare le fitte pieghe della gonna; poteva anche spazzolare la stoffa
lucida per staccare fili d'erba secca e rametti rimasti impigliati tra le
trame. Con la forza del pudore poteva stringere sul petto coperto di graffi
la camicia ridotta a brandelli. I capelli, senza più il fazzoletto, erano arruffati
e sporchi: che disastro! Sua madre l'avrebbe rimproverata di certo, e allora Annina
cercava di fare del suo meglio per sistemarli, ma con le mani sporche di
terra peggiorava solo le cose. Pazienza – pensava Annina
-, donna Maddalena le avrebbe perdonato quella mancanza. Divenuta ormai
un'estranea nel mondo che la circondava, Annina
continuava a camminare e a salire, sempre più in alto; scalza, senza sapere
dove la portavano i suoi passi. Lo aveva capito solo nel momento in cui vi
era arrivata e a quel punto, davanti all’abisso, non aveva esitato. Un ultimo
passo nel vuoto e il volo verso il basso. Con gli occhi chiusi. Non era
durato poi tanto e il dolore era sparito subito.
* Alle prime luci dell'alba
Isidoro lasciava la casa del villaggio dopo una colazione a base di pane duro
e formaggio, per provvedere agli animali. Anche lui aveva partecipato alle
ricerche della ragazza, durante tutta la sera del giorno precedente e la
notte appena conclusa. Avrebbe volentieri offerto ancora il suo contributo,
ma la sua mucca gravida poteva aver partorito durante la notte e non poteva
rischiare di perdere il vitello. Salendo dentro al bosco verso il cucuzzolo
accidentato del monte, fra i cespugli di lentischio, Isidoro finalmente
individuava la mucca che pascolava solitaria. Dopo averla raggiunta
osservandone il ventre non capiva bene quale era il suo stato,
allora, scostata la coda, Isidoro ne aveva tastato le mucose con le sue dita
grosse, ma aggraziate nel gesto professionale. Non essendo ancora sicuro ne
aveva saggiato i capezzoli fra i polpastrelli aprendosi poi in un sorriso di
soddisfazione: il vitello aveva succhiato. Guardandosi intorno tra le rocce e
le macchie di arbusti egli sentiva l'urgenza di ritrovare il vitello prima
della volpe che ne avrebbe mangiato la lingua, lasciandolo poi morire
dissanguato. Oltre la volpe c'era la cornacchia che da furba quale era si
appollaiava sul dorso della mucca gravida, in apparenza rendendole un
servizio perché beccava le zecche, ma in realtà stava lì in attesa di veder
sbucare il vitello, con le sue ossa ancora tenere. Bucandogli il cranio gli
succhiava il cervello. Non avendo idea di dove la
mucca avesse nascosto il vitello, Isidoro era ricorso ai cani. Il territorio
era troppo vasto, ma i cani con il loro abbaiare avevano allarmato la bestia
che subito trotterellava verso l'anfratto dove aveva nascosto il vitello. E
il guardiano gli andava appresso. Facendo attenzione a non innervosire la
mucca, Isidoro si apprestava a portarle via il neonato, ma la sua attenzione
veniva attirata da un oggetto che, rimasto incastrato fra due sassi, a prima
vista non riusciva a riconoscere. Avvicinandosi e inchinandosi prendeva tra le sue
mani una scarpina di cuoio nero: una calzatura femminile. In quel punto la
terra era avara di vegetazione e fra le aspre rocce Isidoro calpestava il terreno sassoso fino a raggiungere
il ciglio di un profonda voragine. Sporgendosi a guardare verso il basso
Isidoro, stringendo tra le mani la calzatura, aveva
distinto un corpo immobile poggiato in
maniera scomposta su un enorme masso attaccato dalla vegetazione. A quel
punto non gli restava che avvisare le autorità. Con una tristezza immane che
gli stringeva il cuore, dopo aver
messo al sicuro i suoi animali, Isidoro aveva percorso in fretta e furia la
campagna per raggiungere un pastorello il quale, con in mano un lungo
bastone, faceva uscire le caprette fuori dal recinto. Scuro come la pece, con un
berretto che aveva portato indietro sulla nuca, una camicia sotto un grosso
maglione di lana grezza e pantaloni di panno, il piccolo, di circa otto,
nove anni, vedendo l'uomo andargli incontro con i tratti del viso più tirati
del solito, temeva che il vitello appena nato non ce l'avesse fatta, e si
preparava alla sfuriata; ma ancora prima di raggiungerlo Isidoro aveva comandato di
correre verso il villaggio e tornare con i carabinieri poiché il corpo di Annina
era stato trovato. Giuseppe, sussultando per la sorpresa, guardava a bocca
aperta oltre le spalle di suo padre, come se uno spettro stesse in quel
momento attraversando la campagna. Isidoro, senza tanti complimenti si era
precipitato a mollare uno scappellotto sulla testa del figlio e quello,
intimorito e al contempo desideroso di portare a termine quella grave
incombenza, aveva
iniziato a correre quanto più in fretta poteva.
* Fin dalle prime ore del
mattino Eugenio, di turno nell'ufficio della caserma, si stava occupando di
una pila di documenti che il maresciallo gli aveva ordinato di compilare.
Quelle ore passate al chiuso lo rendevano irrequieto. Avrebbe voluto trovarsi
fuori, tra i boschi, impegnato anch'egli nella ricerca della giovane donna.
La sorte di Annina lo distraeva dalla mole di
lavoro cartaceo depositato sulla sua scrivania e ogni tanto Eugenio sollevava la testa e fissava lo sguardo oltre
i vetri della finestra aperta. Cercava di farsi un'idea
del tragico evento in base a quelle che erano state le deposizioni raccolte
dai colleghi durante tutta la notte, ma Annina sembrava sparita nel nulla, per alcuni addirittura
rapita da uno spirito maligno. Ma Eugenio non credeva agli spiriti: gli
esseri umani da soli bastavano a terrorizzare i villaggi e le campagne.
Poteva trattarsi di un rapimento e allora presto sarebbe arrivata la
richiesta di un riscatto. Ma nessuno si sentiva di escludere il gesto cruento
e infame di una vendetta: la famiglia Dasso era una
famiglia molto ricca e anche molto in vista, politicamente parlando. Il padre
di Annina era sindaco del villaggio, si sapeva
bene, ma altri Dasso occupavano le alte sfere e il
potere che ne traevano spesso e volentieri li vedeva protagonisti della
cronaca nera: invischiati dentro scandali e intrighi. Niente di eccezionale
per le vicende losche che all'epoca vedevano implicati avvocati, notai e, non di rado, ordini religiosi. La sensazione di Eugenio
era che presto la verità sarebbe venuta a galla e mentre riprendeva a
concentrarsi sul suo lavoro un fischio lungo e acuto simile ai richiami per
gli uccelli che tante volte aveva sentito da suo padre durante le battute di
caccia, lo distraeva nuovamente. Il primo gli aveva fatto rizzare le
orecchie, il secondo aveva acceso la curiosità, al terzo fischio si era
alzato dalla sedia e aveva raggiunto la finestra, tenuta spalancata affinché ne uscisse il
fumo e l'odore acre delle sigarette che fumava il collega. Su quel lato la
caserma aveva davanti a sé i larghi ripiani ondulati dell'altopiano dalle
tinte autunnali e di fronte la parete grigio azzurro della montagna, proprio in quell'istante colpita dal
sole di mezzogiorno. Quella vista non stancava mai gli occhi di Eugenio il
quale, dimenticando il motivo che lo aveva portato a guardare fuori, con le
dita intrecciate dietro la schiena se ne stava pensieroso a dondolare sui
tacchi delle scarpe. D’improvviso un sasso di piccole dimensioni lo raggiunse
colpendolo al petto ed egli, temendo un'aggressione, stava per impugnare la
pistola quando, nello stesso istante, da dietro un cespuglio, poco oltre la
recinzione, prima il berretto, poi la faccia barbuta e infine l'intero corpo
di Gavino vestito di velluto e panno nero gli si mostrava in tutta la sua
irriverenza. Eugenio, indispettito per essersi fatto cogliere di sorpresa,
osservava Gavino mantenendo il volto serio, con le sopracciglia leggermente
corrugate: Gavino non poteva guardare al mondo con quell'arroganza e
sfacciataggine, infischiandosene di tutte le regole; ma si rendeva conto di
ciò che stava facendo? E lui, Eugenio? Se ne rendeva conto? Quello che aveva
di fronte era un sorriso, un invito, una tentazione e il muro di punto in
bianco crollava portandosi dietro quella finestra; spariva la recinzione e su
quel tappeto marrone e giallo le braccia di un uomo, il suo uomo? - non osava
nemmeno pensarci - erano lì pronte ad abbracciarlo. Gavino attendeva lui e
Eugenio, sollevando prima il braccio timidamente, subito dopo aprendosi in un largo
sorriso, rispondeva all'ilarità dell'altro che, seppur lontano, lo stringeva
a sé con lo sguardo. Eugenio ancora percepiva
la realtà come protetta da un velo di pudore. Ciò che era accaduto tra lui e
Gavino era stata l'esperienza più magica di tutta la sua vita: la più dolce e
violenta allo stesso tempo.
* Pochi giorni addietro,
prima ancora dell’alba, Eugenio si preparava a salutare suo cugino Attilio
mentre Gavino, puntuale, entrava in punta di piedi nella
stanza del malato. Durante tutta la nottata la febbre non aveva dato segno di
cedimento e studiando il volto serio di Eugenio Gavino vi leggeva tutta la
drammaticità del momento. Era stato un gesto d'affetto il suo, voleva
dimostrare al giovane uomo tutta la sua partecipazione e commozione. Era
preoccupato anch'egli per le sorti di Attilio, ma forse in quell'abbraccio
partito spontaneo aveva espresso molto più della preoccupazione e Eugenio,
sentendosi stringere con tanta energia e calore, aveva reagito d'impulso,
forse per la stanchezza di una notte insonne o per
il tormento dentro pensieri che non ne volevano sapere di concentrarsi solo
sulla salute del cugino e la paura di perderlo. La mente imperterrita tornava
a Gavino. A quegli occhi di ghiaccio, a quella bocca di fuoco, al calore
emanato dal petto coperto di peli ricciuti e folti che spesso la camicia
aperta lasciava intravedere. Aveva perciò ricambiato l’abbraccio chiudendo
gli occhi e assaporando il calore che quella sensazione gli infondeva e che
da sempre desiderava provare. Quella stretta aveva svelato segreti tenuti a
lungo al sicuro e Gavino avrebbe potuto deriderlo, avrebbe potuto
disprezzarlo. Al contrario invece, Gavino lo aveva abbracciato ancora più
forte e quelle carezze che Eugenio poteva sentire bruciare sulla sua schiena
erano tutt'altro che ostili. Per Eugenio era
troppo: con le dita a spingere i capelli indietro e un no ripetuto più volte,
dopo aver allontanato Gavino, era uscito di corsa dalla stanza,
improvvisamente divenuta troppo stretta e dall'aria irrespirabile. Gavino, sulle prime
incredulo e poi stizzito da quella reazione aveva seguito deciso i passi di
Eugenio per trovarlo seduto sulla soglia di una porta laterale che immetteva
in un piccolo giardino interno alla canonica e quindi alla Chiesa. Il giardino, coperto
dall’erba alta e incolta, era recintato da un alto muro. In fondo si trovava una porticina. Don Pino, prima
che Gavino arrivasse, aveva percorso quel cortile e una volta uscito dalla
porticina aveva affrontato con passo deciso e svelto il sentiero che
conduceva fuori dal villaggio. Qualcuno lo aveva mandato a chiamare e
all'interno di una casupola di campagna era atteso dai parenti di un moribondo
per ungerlo con l'estrema benedizione. Sarebbe stato via per parecchio tempo
e Gavino e Eugenio, a parte Attilio che lottava contro la febbre, erano soli,
su quel gradino, nel giardino immerso ancora nella penombra. Un piccolo mondo
che racchiudeva e proteggeva entrambi. Gavino, seduto accanto a Eugenio, sperimentava per la prima volta il
tremore di un sentimento inatteso e intenso. Tremava anche Eugenio e mentre
si voltava con lo sguardo acceso sperava di non incontrare gli occhi
indagatori dell’altro. Il cuore urlava di ansia e quando non solo gli occhi,
ma le labbra di Gavino si erano posate indugiando sulle sue, in quel
preciso istante egli era stato preso
dal panico: - “Ecco -
pensava - sto per morire. Questo cuore che non ha mai conosciuto amore non
reggerà al colpo!”- E
invece il cuore di Eugenio aveva retto benissimo. La lingua di Gavino si era
fatta strada, via via sempre più decisa, e con estrema naturalezza all'interno di
quelle aspre cavità dal gusto forte era avvenuta la loro prima unione. Un
bacio lungo e insaziabile, eccitante fino a portarli a perdere il controllo
delle proprie mani, inarrestabili mentre si insinuavano sotto gli abiti a
cercare il contatto con la pelle calda e fremente di desiderio. Eugenio non
poteva credere che fosse tutto vero... quel
corpo che fremeva sotto le sue dita. L’aveva sognato troppo a lungo, e ora
lui era lì. Gavino lo stringeva a sé.
Aveva spogliato Eugenio e non si stancava di baciarlo, poi si era steso su di
lui, strofinandosi contro le sue cosce. Aveva aspettato il più a lungo
possibile, accarezzando Eugenio con calma, e poi si era spinto dentro di lui,
con tutta la delicatezza di cui era capace. Cercava di muoversi piano, ma non
ci riusciva, capiva che anche per Eugenio era troppo…
sembrava sull’orlo del delirio. Anche Gavino era sovreccitato, non aveva più
fiato. Eugenio si sentiva come aveva immaginato: lacerato. Ma provava anche
un desiderio incontenibile. All’improvviso Gavino aveva preso a muoversi con
più veemenza e a quel punto Eugenio credeva davvero di morire. Aveva smesso
di respirare, il cuore gli batteva all’impazzata, aveva la gola secca, le
labbra umide. Poi il fiato era ritornato a entrambi, lentamente. Gavino si
era fermato, aveva espirato con forza e si era abbandonato sul corpo di
Eugenio. C'era voluto il canto di
un gallo ritardatario e di seguito l'abbaiare dei cani a rendere nuovamente
reale la vita intorno a loro. L'imbarazzo di Eugenio e il sorriso sghembo di
Gavino: una miscela di eccitazione pronta a farli riesplodere. Rialzarsi dal
morbido letto di erba e paglia del giardino per finire nuovamente uno nelle
braccia dell'altro era stato un unico gesto. Per dirsi arrivederci pareva
loro che tutti i baci del mondo fossero insufficienti; lunghi e interminabili
baci ai quali Gavino aveva voluto aggiungere qualcosa di suo: una stretta
vigorosa alle natiche del giovane carabiniere e, per finire, un'occhiata
soddisfatta davanti alla sorpresa di Eugenio. Sparendo nel buio del
corridoio e uscendo dalla canonica un mare di pensieri già si accavallavano
rombando nella testa di Eugenio, ma ben presto sul suo volto teso si apriva
un ampio sorriso, spinto fuori dalle profondità del suo essere.
* Dopo il cenno fatto a
Gavino di lasciare quel posto così scoperto e davvero poco indicato per uno
scambio di messaggi personali, Eugenio si soffermava qualche minuto ancora,
presso il vano della finestra. Il tenente Carmine Augello che aveva lasciato
la sua postazione poco più di venti minuti prima, rientrando dentro l'ufficio
e non scorgendo il collega seduto dietro alla scrivania proprio di fronte
alla propria, si preparava ad accendersi l'ennesima sigaretta della
mattinata. Un colpo di tosse alle sue spalle e la figura non tanto alta ma
ben piazzata di Eugenio, nonché il cipiglio di rimprovero affilato come un
coltello, gli avevano subito fatto cambiare idea. Ma era già ora di pranzo e
Eugenio, ammorbidendo l'espressione e sorridendo fra sé per la reazione del
collega, si apprestava a lasciare la caserma per fare una visita in canonica
e quindi accertarsi sulle condizioni di salute di Attilio. Dopo la tensione
dei primi giorni, la preoccupazione per il cugino si andava piano piano attenuando. Non si poteva dire che il ragazzo
avesse ripreso appieno le proprie forze, ma la convalescenza procedeva
ottimamente. La caserma era un po'
discostata dal resto delle case del villaggio e per raggiungere la piazza
Eugenio si era concesso la libertà di procedere a passo lento. Voleva
sfruttare quel momento per raccogliere i pensieri: Annina,
Salvatore, Attilio. Ognuno di essi imponeva riflessioni che prendevano
direzioni diverse, ognuna di quelle strade portava con sé qualcosa di
tremendo. Per di più il sentimento d'amore che provava nei confronti di Gavino
a momenti, quando non lo estasiava, lo raggelava. La realtà per loro due
poteva diventare orribile: niente e nessuno avrebbe impedito a chiunque di
ucciderli, se solo quel sentimento fosse uscito allo scoperto. Tutti quei
pensieri messi insieme costringevano Eugenio a rabbrividire sotto l’uniforme
e ad aumentare il passo: la voglia di passeggiare gli era passata. Davanti a
don Pino poi il mondo intero gli crollava addosso: Attilio se n'era andato? Ma
andato dove? Non poteva credere che Gavino fosse stato così incosciente da metterlo al corrente della scomparsa di Annina. Ma prendersela con Gavino
non aveva senso e nemmeno con Bastiana o con il
prete. Mangiando del cibo alla buona seduto davanti al tavolo, Eugenio si era
chiuso in un silenzio che il religioso sapeva essere sacro, per cui lo aveva
lasciato da solo.
* Non era trascorsa nemmeno
mezz'ora dall’uscita di Eugenio dalla caserma, quando all'interno degli
uffici arrivarono i suoni tipici di una folla
agitata. Alle grida degli uomini e delle donne che avevano invaso
prima il cortile e immediatamente dopo il posto di guardia, il giovane tenente Augello raggiungeva
il collega, mentre quello, con evidente difficoltà, tentava di placare
l'eccitazione di quell'orda di persone.
- “Calma,
calma, che cosa sta succedendo qui?” - Qualcuno aveva
spinto avanti un pastorello il quale, con lo sguardo basso, teneva
educatamente il berretto in mano. Giuseppe lungo la strada non aveva
resistito e, senza mai interrompere la corsa, aveva reso partecipe chiunque incontrasse dell'importante
notizia, compreso il povero Attilio che in quel momento stava per raggiungere
il luogo indicatogli. Al cospetto di quegli uomini in divisa, però la voce
del bambino sembrava non voler uscire. Dopo aver imposto il silenzio alla
folla che si era accalcata in quello spazio ristretto il tenente con lo
sguardo incoraggiava Giuseppe a parlare. - “Mio padre mi ha mandato a dirvi che ha
ritrovato il corpo della signorina che state cercando... Dovete salire a San
Rocco”. Il giovane in divisa,
emozionato per quella notizia, rientrava di filato nell'ufficio del
maresciallo. Dopo pochi minuti un drappello di carabinieri a cavallo si
preparava a lasciare la caserma per seguire le indicazioni. Al pastorello era
stato permesso di montare sul cavallo del tenente Augello e da dietro le
spalle dell'impettito carabiniere Giuseppe non smetteva di fare le boccacce
ai bambini del villaggio che per un tratto avevano rincorso le cavalcature:
correndo a piedi scalzi sul terreno ghiaioso quei monelli lo canzonavano,
deridendolo con fischi e schiamazzi d'allegria. Appena lasciato il villaggio
però anche Giuseppe, imitando la compostezza dei militari, era rimasto dritto
sulla sella mentre con il pensiero tornava allo strano episodio del giorno
precedente. * La sera in cui Isidoro
prendeva parte alle ricerche della giovane donna, Giuseppe aveva ricevuto il
compito di sorvegliare il bestiame. Le mucche pascolavano tranquille mentre
le caprette brucavano nella parte bassa del tancato,
poco distanti dall'ovile. Egli si era allontanato per raccogliere una fascina
di frasche che quella notte avrebbe messo ad ardere nel camino per
riscaldarsi dal freddo autunnale, ma al ritorno si era accorto subito che
mancava una capretta. Fischiando e gridando Giuseppe, spinto dalla
preoccupazione, dopo aver rovistato tra la macchia come un cinghiale e
proseguendo nella ricerca, si era allontanato sempre più dall'ovile. La sua voce si spandeva
lungo i sentieri e giungendo alla fine di un viottolo si era trovato al bordo
di un bosco sconosciuto, ai piedi di un costone roccioso. Della capretta non vedeva le tracce: disperato e ansioso di
ritrovare il sentiero stava per tornare indietro quando un rumore tra il
fogliame e i rami del sottobosco aveva attirato la sua attenzione. Urlando
ancora una volta il nome della capretta per spaventare gli animali nascosti
dalla vegetazione aveva tremato di paura quando di fronte a sé aveva visto
avanzare un uomo che ciondolando in avanti sbandava a ogni passo. Il coltello
nella cintura e il fucile sulla spalla facevano pensare a un pastore bandito
e Giuseppe non ci aveva messo troppo a capirlo. Non
sapeva però quali fossero le sue
intenzioni e pur non avendo nessuna voglia di scoprirlo, Giuseppe era rimasto comunque colpito da quella miserabile figura che
avanzava. A guardarlo infatti quel signore gli pareva ridotto piuttosto male, eppure non doveva essere tanto più
vecchio di suo fratello che di anni ne aveva già
ventitré. Forse l'espressione sul viso di Giuseppe e un movimento
impercettibile del suo corpo lasciavano trapelare l'intenzione di darsi alla
fuga, fatto sta che un richiamo urlato forte e con una tonalità di voce che
Giuseppe non credeva possibile potesse uscire da un corpo così male in
arnese, aveva inchiodato il bambino sul posto. -“Ohè ragazzino!”-. Giuseppe non si muoveva e aspettava
che l'altro gli arrivasse davanti. - “Ho fame, portami al tuo ovile e dammi da mangiare!”. Non sembrava a Giuseppe
una richiesta tanto strana; altre volte era capitato che all'ovile di suo
padre venissero ospitati personaggi non troppo raccomandabili: facce torve e
portamento bellicoso, se ne stavano seduti davanti al camino ad
arrostire pezzi di agnello, macellato in onore dell'ospitalità. Stavano muti, con il
berretto calato sugli occhi, il fucile
appoggiato contro il muro, il coltello bene in vista. Giuseppe li osservava
sempre con una certa curiosità mista a fascino, ma suo padre ogni volta gli
mollava certi calci al sedere da farlo correre fuori. Quella volta si rendeva
conto che l'essere di fronte a sé era un bandito “tutto suo” e toccava a lui fare da padrone di casa.
Nella speranza però che una volta terminato il cibo quello se ne andasse:
dover passare la notte in sua compagnia non gli garbava affatto. Ritrovata la strada e
raggiunto finalmente l'ovile per prima cosa Giuseppe riconosceva la capretta
che quel pomeriggio lo aveva fatto dannare: la vera responsabile di quel
sinistro incontro. Le avrebbe dato una pedata per rimproverarla, ma quella
continuava a strofinare il muso contro la sua gamba e Giuseppe, intenerito
dall'affetto che l'animale gli dimostrava, si inchinava ad accarezzarla,
dimenticandosi completamente dell'ospite. Salvatore, dopo essersi guardato
intorno, accertandosi che all'ovile non ci fosse nessun altro, aveva tirato
per un orecchio il povero pastorello costringendolo a rimettersi in piedi e
Giuseppe, una volta entrato dentro alla stanza che fungeva da cucina e
dormitorio, pronto a ubbidire ai comandi, si era subito dato da fare per
sfamarlo. Terminata la cena Giuseppe continuava ad osservare Salvatore di
sottecchi pensando al modo di liberarsene.
Salvatore dal canto suo
non pensava minimamente a Giuseppe. Terminato di mangiare era rimasto seduto
in terra, davanti al camino, e da una borraccia ingollava a più riprese il vino di
Isidoro. Il ricordo di quel che aveva fatto ad Annina
svaniva dentro ai fumi dell'alcool e sarebbe rimasto così, immobile, e in uno
stato di semi incoscienza se Giuseppe
strattonandolo non lo avesse convinto ad alzarsi. Il bambino era determinato
ad allontanarlo: quando il buio fosse arrivato non intendeva averlo ancora
accanto. Poco distante dall'ovile
si trovava la chiesa di San Rocco, sita nell’appezzamento di terreno che
portava lo stesso nome, come anche l'orrida spaccatura della roccia che in
seguito a una frana, in tempi antichi, aveva aperto una profonda voragine. A Giuseppe erano note le
leggende che gli anziani della famiglia amavano raccontare. La chiesa di San
Rocco, lui lo sapeva, da tempo ormai era stata abbandonata e sconsacrata e
dell'antico monastero dei frati cercanti era rimasta soltanto qualche pietra
di muro, almeno quelle che i contadini più sciagurati avevano lasciato. Tutto
il resto era stato preso di nascosto e utilizzato per chiudere le proprietà.
A Giuseppe non piaceva trovarsi nei pressi
del sagrato di quella chiesa. La penombra della sera ingigantiva le paure e
le storie delle donne vampiro e di altri esseri del genere gli avevano sempre
fatto impressione. Ma da qualche parte doveva accompagnarlo, quel bandito che
puzzava come un caprone, e quale posto migliore della
chiesa di San Rocco? Se poi durante il sonno gli spiriti dei morti, per
secoli seppelliti sotto al sagrato, fossero tornati per portarselo via, be', tanto peggio per lui. Vedendo che quello si dirigeva
verso l'ingresso della chiesa con l'intento di passarci la notte, Giuseppe aveva fatto qualche
passo indietro, prima lentamente poi, una volta girato il corpo verso la
direzione che lo riportava al suo ovile, di corsa, con il cuore che gli saltava
nel petto e la speranza che l'uomo non lo cercasse più. Salvatore aveva deciso di
rimanere soltanto per qualche ora al riparo tra le mura della chiesa: quel
posto gli trasmetteva brutti presentimenti. Gli era parso che calpestando il
sagrato della chiesa un vortice di aria fredda gli avvolgesse le gambe, con
una forza tale da tirarlo verso il basso. Liberandosi da quella stretta
invisibile e raggiungendo l'interno della chiesa il sudore aveva incominciato
a bagnargli la schiena e il volto. Non riuscendo a calmare il tremore si era
accucciato in un angolo e lì, come un animale vecchio e malato in attesa
della morte, era rimasto, del tutto inconsapevole del corpo di Annina, freddo e solitario, che giaceva abbandonato poco
distante.
*
Mentre i carabinieri
lasciavano la caserma con Giuseppe seduto alle spalle del tenente Augello,
Attilio raggiungeva la chiesa di San Rocco. Isidoro avrebbe dovuto farsi
trovare nei pressi del luogo dove aveva rinvenuto il corpo di Annina, ma il suo dovere egli sentiva di averlo già
compiuto: quella poverina era morta ormai, mentre le sue bestie, ancora vive
e vegete, necessitavano di cure. Giuseppe aveva parlato
della tanca, ma il territorio vasto apriva la mente di Attilio a ogni tipo di
congettura. Tutte tragiche, ripensando alle parole del pastorello.
Guardandosi attorno, oltre alla chiesa e a quelle file di pietre che
ricordavano le antiche mura, Attilio non sapeva dove soffermare lo sguardo.
In quella vastità di vegetazione bruciata e inaridita dal sole il corpo di Annina poteva trovarsi ovunque. Egli non conosceva quel
territorio e non si era ancora reso conto della spaccatura del terreno, che
si trovava proprio sulla sommità di quella montagna; così come Annina nella sua cieca corsa verso il baratro, non aveva avuto
percezione della chiesetta, posta più in basso e nascosta dalla macchia. Quel giorno grosse nuvole
nere erano tornate a coprire il cielo e dopo la pausa degli ultimi giorni un
vento da ponente rinfrescava l'aria. Attilio si riparava come meglio poteva,
tirando su il colletto della giacca. Non sapeva che cosa aspettarsi e il
tremore dentro e fuori il suo corpo non ne voleva sapere di fermarsi. A
tratti vampe di calore gli ricordavano che la sua convalescenza non era
affatto terminata e una ricaduta della malattia avrebbe di certo potuto
ucciderlo. Ma non se ne preoccupava, tutto il suo essere ora era concentrato
su ciò che lo circondava e la chiesa abbandonata sin dal primo momento in cui
l'aveva intravista così solitaria, maltrattata dal tempo e dagli uomini, lo
attirava a sé. I primi passi sul sagrato coperto da uno strato di foglie
essiccate avevano provocato uno scricchiolio e un piccolo animaletto dei
boschi, forse un roditore, era corso via, passandogli a poca distanza. Prima
di oltrepassare l’ingresso della chiesa Attilio si era guardato ancora una
volta attorno: percepiva il silenzio come fosse una inquietante entità e il
cuore aveva preso a battergli velocemente. L'interno della chiesa era vuoto
fatta eccezione per la presenza di una grande panca in muratura, posta al
centro della sala, sopra cui, si narrava, un tempo venivano adagiati i morti
di morte violenta per la benedizione, prima di essere sepolti. Oltre a quella
Attilio riconosceva solo terra e polvere e ragnatele, ma ad un tratto,
buttando l'occhio in direzione dell'angolo prossimo all'ingresso, proprio
mentre si apprestava ad oltrepassarne la soglia, veniva attratto da quello
che aveva tutta l'aria d'essere un fazzoletto da testa. Sudicio, ma di stoffa
buona e con ancora il ricordo di una fragranza delicata imprigionata tra le
trame. La reazione a quella scoperta aveva colpito Attilio come un pugno allo
stomaco: egli sapeva chi l'aveva posseduto. Quel fazzoletto apparteneva ad Annina, ne era certo. Non era passato poi tanto tempo dallo
scontro-incontro con la dolce Annina e davanti
all'immagine di quel viso di madonna incorniciato da quello stesso fazzoletto
Attilio si buttava in ginocchio, stringendolo tra le sue mani e lasciandosi
andare al pianto. Solo lo scalpiccio degli
zoccoli dei cavalli lo ridestarono dall'abbandono e uscendo come una furia
dalla costruzione poco c'era mancato che non finisse travolto dalle
cavalcature, che proprio in quell'istante transitavano lì davanti. Giuseppe,
smontando dalla cavalcatura con un agile balzo riconosceva nel giovane colui
che aveva fatto ruzzolare a terra e senza spiccicare parola, ma fissandolo
con insistenza negli occhi formulava in silenzio tra sé la domanda che lo
aveva tormentato per tutto il viaggio. Ma oltre la spalla di Attilio Giuseppe
non scorgeva nessuno: il bandito che aveva nascosto la sera prima era di
certo andato via, quindi era inutile farne cenno. Suo padre non lo avrebbe
approvato e perché prendersi le botte quando quello chissà dov'era? Aveva
portato i carabinieri dove gli era stato comandato, ma Isidoro non aveva
specificato il punto esatto del ritrovamento: cosa doveva fare ancora? La
cosa migliore per lui era quella di raggiungere l'ovile e avvisare il padre
dell'arrivo dei carabinieri. Nel frattempo il maresciallo
che guidava la truppa rivolgendosi ad Attilio ne chiedeva il nome e il motivo
della sua presenza in quel luogo. Insospettito dal fazzoletto che il ragazzo
ancora stringeva, nel momento in cui si abbassava per riceverlo nelle proprie
mani, con un gesto del capo segnalava al resto degli uomini di stare in
guardia. Ma l'aspetto dimesso di Attilio e l'intervento del tenente Augello
che riconosceva in lui il cugino di Eugenio Dasso
avevano fatto sì che il nervosismo per il momento si placasse. Attilio stava riprendendo
a poco a poco il controllo di sé e di certo vedersi circondato dai militari
influiva non poco sulle sue emozioni; non vedendo Eugenio tra loro però ne
rimaneva deluso. Il tenente Dasso avrebbe raggiunto
quel primo drappello di lì a poco, gli disse il tenente Augello, mentre si
dirigeva a ispezionare l'interno della chiesa, dietro ordine del maresciallo: essendo
partito con il secondo gruppo li dividevano ancora almeno quindici
minuti. Tranquillizzato, Attilio
si preparava a partecipare anch'egli alle ricerche quando uno sparo di
carabina riempiva l'aria attorno a loro. Al grido del maresciallo i cavalieri
smontavano dai cavalli per portarli sul lato della costruzione e per mettersi
al riparo essi stessi. Attilio, cui era stato ordinato di stare al coperto, seguiva i movimenti dei militari.
Giuseppe che era corso anche lui al riparo, sapeva di
dover raggiungere l’ovile, ma la sua giovanissima età non disdegnava
quell’insolita avventura, per cui era rimasto fermo al suo posto. Allo sparo
non era seguita risposta alcuna e solo uno stormo di uccelli alzandosi in
volo dava movimento all'immagine di quel luogo, per il resto tutto restava
immobile.
*
La corsa sfrenata di Giuseppe, che per
raggiungere la caserma del villaggio non aveva badato
a ostacoli di sorta, non gli aveva di fatto impedito di gridare a tutti la notizia. Le donne e gli uomini, intenti
ad arare o a seminare la terra, in cui il
bambino si era imbattuto, erano stati tutti resi partecipi della notizia e
tra questi, oltre ad Attilio, anche Gavino, per un’assurda casualità, se lo era ritrovato sulla propria
strada. In groppa al suo cavallo,
dopo aver salutato Eugenio, egli si recava all’azienda agricola, mantenendo
un’andatura piuttosto lenta. Vedendo quel furetto andargli incontro si era
fermato ad aspettarlo. Era stato solo per soddisfare la sua curiosità: in
quel momento l'animo di Gavino era pervaso da un sentimento ricco di emozioni
che per la prima volta poteva chiamare amore e che lo stupiva alquanto, per
la potenza con cui si sentiva afferrare lo stomaco e dal quale non voleva
essere abbandonato. Potersi distrarre con le stravaganze di un bambino che
quasi certamente correva all'inseguimento di una qualche bestiola, lo
divertiva. Era pronto a bloccare Giuseppe afferrandolo per la collottola
della maglia quando con sua sorpresa quello scricciolo d’uomo aveva
rallentato il passo e, chissà per quale motivo, forse preso dalla foga di dare
al mondo intero la notizia di cui lui era l'unico messaggero, urlava a Gavino
che il corpo della signorina era stato trovato. Che suo padre l'aveva
trovato. A San Rocco. Gavino, che conosceva quel
territorio come le sue tasche era magari
anche più perspicace della maggior parte degli uomini ai quali era stata già
data la notizia, con il pensiero aveva raggiunto non solo la chiesa ma, visualizzando mentalmente tutto il
podere, ne individuava l’orrida ferita del terreno, fatale per chi si
avventurava senza meta o per chi fuggiva da qualcosa o qualcuno. E di sicuro Annina non si era arrischiata volontariamente sin lassù:
qualcuno l’aveva inseguita. E, lasciando al bambino la ripresa della salita,
Gavino con una pressione decisa dei talloni sul ventre del suo cavallo lo
aveva portato immediatamente al galoppo.
*
Gavino quindi aveva
preceduto di pochi minuti Attilio, raggiungendo per primo il luogo della
tragedia. Egli, dopo aver messo al sicuro la propria cavalcatura, si era
sporto sul ciglio del costone per guardare verso il basso. Annina era lì, dove anche Isidoro l’aveva vista. Gavino
pensava a un modo per riportarla in superficie ma da solo era impensabile:
rami forti e fronde robuste sbucavano dalla parete esterna della roccia e avrebbero
potuto facilitargli la discesa, ma risalire con il corpo della ragazza
avrebbe voluto dire rischiare la propria vita. Aveva bisogno dell’aiuto di
qualcuno, ma sapeva bene che presto i carabinieri avrebbero raggiunto
anch’essi quel luogo, avvisati dal pastorello, e a lui non restava che farsi
da parte. Mentre con lo sguardo faceva il punto della situazione una rabbia
acuta iniziava ad afferrargli la gola: Salvatore non era estraneo a ciò che
gli si parava davanti. Quella povera donna non era finita in fondo alla
voragine arrivandoci per proprio conto: qualcuno l’aveva spinta di sotto e
quel qualcuno era stato avvistato proprio in quei giorni, mentre si aggirava
per il villaggio. Non aveva prove che confermassero quei sospetti ma,
pensando ad Attilio, la morte della ragazza gli appariva come una coltellata
che di certo avrebbe frantumato orribilmente e definitivamente il cuore del
giovane. Un’ultima sfida che avrebbe deciso le sorti dei due fratelli, ma che
Gavino non avrebbe permesso. Attilio era inesperto e fisicamente provato
dalla recente malattia. Salvatore aveva dalla sua la crudeltà e l’assenza di
compassione. Quei mesi di latitanza inoltre, lo avevano reso un essere
mostruoso. Con in testa una girandola
di pensieri, mentre Gavino si rimetteva in piedi, risollevando entrambe le
ginocchia dal terreno, un rumore sordo di passi che avanzavano nella sua
direzione lo faceva irrigidire. In pochi
secondi il corpo di un uomo dalle fattezze robuste e dalla poca agilità gli
era già addosso, gravandogli sulle spalle con tutto il suo peso. La reazione di Gavino era stata immediata, ma non era
facile liberarsi da quell’abbraccio mortale. Il coltello nella mano
dell’assalitore gli aveva già provocato una ferita al braccio che iniziava a
sanguinare, ma Gavino non se ne curava affatto, preso com’era dal tentativo
di rendere lucidi e sicuri i movimenti che lo avrebbero salvato da una
seconda stilettata. Il viso dell’aggressore gli era ancora sconosciuto, ma
dopo un tira e molla di arti che si allacciavano e si scioglievano, tra il
ringhio e il respiro affannoso dei due lottatori, Gavino riusciva finalmente
a stringere nella morsa della sua mano il polso destro dell’altro, a prendere il coltello
e a lanciarlo lontano. A quel punto Gavino aveva potuto fissare l'uomo che aveva
davanti: Salvatore respirava a fatica, il viso congestionato e gli
occhi spiritati lo rendevano simile a un folle.
* Dopo un’ennesima notte di
non sonno, ancora prima dell’alba, Salvatore aveva deciso di lasciare
l’interno della chiesetta. Quella costruzione mezzo diroccata rappresentava
una trappola dentro la quale gli uomini che gli davano la caccia lo avrebbero
inchiodato. Non si era allontanato di molto però. Aveva fame e pensava di
fare visita a uno dei tanti ovili della zona. Gli era ritornato alla mente il
pastorello della sera innanzi, ma aveva già rischiato troppo fermandosi in
quel nascondiglio, meglio non sfidare ulteriormente la sorte. Avvicinarsi
agli altri ovili significava rischiare oltremodo, ma la fame era impellente e
soprattutto la sete. Doveva bere. Procedeva cauto
spostandosi da una roccia all’altra quando il calpestio degli zoccoli di un
cavallo lo avevano messo in allarme. Acquattandosi tra i cespugli grande era
stata la sua sorpresa quando aveva riconosciuto il cavaliere che cavalcava
serio e impettito sulla sella. Mai avrebbe sperato di poter cogliere di
sorpresa quell’uomo, dopo Attilio, suo immenso cruccio. In quel preciso
istante Gavino rappresentava l’origine di tutti i suoi guai, a partire dal
giorno in cui, nella cucina di suo padre, era stato accusato di aver rubato e
macellato quella dannata pecora. Sì – pensava pieno di orgoglio Salvatore –
era stato lui, ma lo avrebbe negato sino alla morte e sarebbe stato pronto a
sacrificare uno qualunque dei suoi compari per sgravarsi da quell’accusa. Non
era stato Gavino a tradirlo, Salvatore lo sapeva benissimo, Gavino era solito
combattere le proprie battaglie a viso aperto, ma quell’uomo lo aveva
comunque reso ridicolo, sbeffeggiandolo davanti al resto della sua banda, e
quell’affronto non lo poteva dimenticare. Aveva quindi seguito Gavino, sino a
che quello non era balzato di sella e a piedi aveva raggiunto il ciglio del
costone. Non si era soffermato a pensare a un piano. Raramente egli si
fermava a riflettere e mentre l’ignaro sembrava
osservare il panorama, accovacciato sulle ginocchia, Salvatore come un
orso, pesante e sgraziato, gli si era buttato sopra. Se fosse stato scaltro
sarebbe arrivato alle spalle dell’uomo in punta di piedi e poi gli avrebbe
piantato il coltello nella schiena, ma a tenere in vita Salvatore sino a quel
giorno non era stata di certo la sua furbizia, bensì una forte dose di
fortuna e qualche compare che, non senza ricevere niente in cambio, gli
guardava le spalle. Gavino invece, ripresosi dalla sorpresa, sapeva bene come
affrontare un uomo, sebbene armato di coltello e pronto ad ucciderlo. Con una mossa fulminea
Gavino modificava la
presa iniziale e a quel punto, con uno sforzo sovrumano, riconoscendo il suo
aggressore, acceso da una rabbia bestiale, tenendo l’uomo per i capelli e
premendogli la faccia contro il terreno sassoso e dalla rada e spinosa
vegetazione, con tutto il peso del suo corpo andava a gravargli completamente
sulla schiena. Il giovane, urlando per il gran dolore, sentiva la pelle del
volto aprirsi in sottili ferite e sanguinare. -
“ Hai fatto tu questo?” –. Salvatore in un primo
momento, gli occhi bagnati dalle lacrime e dal sangue che gli colava dalla
fronte, non capiva a cosa l’altro facesse riferimento, ma continuava a
contorcere il busto e le gambe nel tentativo, illusorio, di strattonarsi e
liberarsi. Le braccia incrociate e tenute ferme dietro la schiena a ogni suo
movimento si tendevano sempre di più e il dolore alle spalle diventava
insopportabile. - “ Salvato’, te lo ripeto per l’ultima
volta: questa è opera tua?” –. A quel punto Salvatore,
con la testa e parte del busto spinti oltre il ciglio del costone roccioso,
per un attimo si concentrava verso la profondità della voragine. Non poteva
credere a ciò che vedeva. Quel corpo scomposto e senza vita era di Annina, lo riconosceva, ma sapeva bene di non essere
stato lui a ridurlo così. E gli tornava alla mente la violenza che aveva
inflitto alla povera ragazza, a quel corpo rigido che poi aveva lasciato
inerme nel sottobosco, piuttosto distante da lì. La ragazza di certo aveva
perso il controllo, era fuggita via, da lui, dal villaggio, dal mondo intero:
nessuno avrebbe avuto pietà di lei, nessun uomo l’avrebbe mai più rispettata.
Era ciò che aveva desiderato avvenisse, no? La giovinetta era scappata per
andare incontro alla morte. La morte l’aveva salvata dalla vergogna e ora il corpo era lì, proprio davanti ai suoi occhi. Salvatore giaceva sotto il
peso di Gavino che ancora lo strattonava inveendogli contro per tutto il male
di cui era stato la causa. Salvatore, costretto a guardare verso il fondo
della sua stessa coscienza per non averla più dinnanzi stringeva gli occhi
con forza, fino ad avere le vertigini, mentre un lamento, forse un pianto gli
risaliva dalla gola, arsa dalla polvere. Poi
d’improvviso aveva sentito uno sparo e il corpo inerme di Gavino che gli
gravava ancora addosso e che lo imbrattava di viscido sangue scarlatto.
*
Da settimane ormai Nicolò
si era allontanato dal nascondiglio che lo aveva visto al servizio di un uomo
con cui si era ritrovato a condividerne la
latitanza. Lui non apparteneva a quel territorio: arrivava da una zona
dell’isola più interna e inospitale. Le persone dalle quali si nascondeva
avevano la triste nomea di essere tra i sicari più sanguinari. Anche
Salvatore non aveva scrupoli ad uccidere chicchessia, ma dopo
l’accoltellamento e quindi dopo averlo visto in fin di vita, Nicolò, poco più
giovane di lui, animato da un moto di altruismo, si era prodigato nelle cure,
strappando il compare da morte certa. Le dosi massicce di alcool ingollato
però avevano creato dipendenza e il giovane
bandito, in piena crisi di astinenza, aveva iniziato a dare segni di pazzia e
a elargirgli una quotidiana dose di botte se non rientrava al nascondiglio
con provviste di vino e cibo. Nicolò non aveva timore di Salvatore, più che
altro si era stufato di sopportare quella violenza gratuita e così aveva
deciso che per qualche tempo lo avrebbe lasciato cuocere nel proprio brodo. Due guardie da
tempo seguivano i suoi spostamenti, perdendone le tracce ogni qualvolta il
ragazzo, simile a una capra di montagna, si inerpicava sulle rocce,
penetrando tra gli anfratti rocciosi. Dopo qualche giorno di vagabondaggi, lo
sorpresero mentre si bagnava sulla riva del lago. Mentre veniva scortato a piedi verso la
caserma, una delle due guardie, quella che gli aveva legato le mani con una
catena, aveva compiuto l’imprudenza di sonnecchiare con le spalle contro una
roccia, mentre il collega si era accovacciato poco distante per liberare
l’intestino. Nicolò ne aveva approfittato per strappare la carabina dalla
mano del suo guardiano e, dopo aver svoltato per un viottolo, si era messo a
correre verso la campagna. La guardia aveva gridato con quanto fiato aveva in
gola, ma Nicolò pareva un capriolo e presto aveva raggiunto la montagna. Si
era cacciato in un folto cespuglio e lì era rimasto per tre giorni e tre
notti, riuscendo a liberarsi dalla catena. Trascorso quel periodo di tempo aveva
deciso di tornare al nascondiglio. Aveva pensato a Salvatore e pur senza
provare emozione alcuna nei suoi confronti, ma pervaso da un’arida curiosità,
più guardingo del solito aveva ripercorso i sentieri angusti a lui ben noti.
Salvatore però non era all’interno della grotta. Nicolò era rimasto incerto
sul da farsi poi si era convinto che il ragazzo non sarebbe tornato a breve e
la necessità di sfamarsi lo aveva riportato in pianura. La notizia della scomparsa
di Annina aveva ormai raggiunto tutti i villaggi
sparsi nella zona. I boschi e le campagne pullulavano di carabinieri e Nicolò
faticava a trovare punti sicuri in cui nascondersi. Ma ecco che nel suo
vagabondare sospettoso e con gli occhi sempre ben aperti, nel pomeriggio del
giorno precedente, anche Nicolò si era imbattuto in quel pastorello che,
simile a uno strillone, urlava ai quattro venti il ritrovamento del corpo
della povera Annina, nella tanca di San Rocco.
Quella notizia avrebbe dovuto portare Nicolò da tutt’altra parte, ma essendo
egli poco distante da quel podere e non avendo niente di meglio da fare si
era spinto proprio nella zona più infestata dalle guardie e dai soldati,
attraversando i campi di erba alta, con la carabina a tracolla sulla spalla e
con la schiena sempre piegata in avanti.
Nicolò si ricordava bene
della chiesetta abbandonata, nascosta dalla vegetazione, ma una volta sul
luogo si era tenuto distante da essa, sbirciando attraverso i cespugli e
assicurandosi che non vi fosse anima viva. Qualcosa di vitale però colpiva i
suoi sensi e mentre si muoveva guardingo cercava di stabilirne la
provenienza. Spostandosi di diversi metri non aveva tardato a scorgere i due
uomini che lottavano proprio sul ciglio del precipizio. La decisione di
sparare contro Gavino non era stata indotta da un motivo personale, infatti
egli non lo aveva mai visto, ma riconoscere Salvatore e vederlo soggiogato dalla
forza di quell’individuo aveva innescato una forma di difesa nei confronti
del compare che di fatto faceva sparire tutte le precauzioni per proteggere
la propria incolumità, adottate sino a quel
momento. Una rosa di pallottole
avevano centrato Gavino alla schiena. Gli occhi dell’uomo erano rimasti
spalancati, ma vitrei perché la vita lo aveva abbandonato in quello stesso
istante, senza che potesse vedere il volto del suo assassino. Moriva così Gavino Biosa: per mano di un giovane, un ladro di galline a lui
sconosciuto, e con il quale non aveva mai avuto a che fare. Non era la fine
che aveva immaginato per sé e se avesse avuto il tempo per un’ultima boccata
di ossigeno di questo egli si sarebbe
rammaricato. L’ultimo respiro lo avrebbe speso per chiedere perdono a
Eugenio, gridandogli tutto il suo amore. Quel grido avrebbe scosso il suo
corpo mortale per un’ultima volta e lacrime di gioia, abbandonando quegli
occhi azzurri ormai senza più profondità, sarebbero state accolte dalla
terra, custode dei più recenti e amati ricordi, per sempre.
* Quando il secondo gruppo
di carabinieri aveva raggiunto il luogo segnalato,
Eugenio e i suoi avevano ricevuto l’ordine
di scendere da cavallo e di proseguire a piedi attraverso l’intrico di alberi
e di folta vegetazione. I primi militari arrivati
erano già tutti posizionati e aprendosi a ventaglio, l’arma pronta a sparare,
avanzavano verso quella che sembrava essere una spianata di pietre e bassi
cespugli. Seguendo lo sbuffo di fumo che per pochi istanti aveva disegnato una spirale portata via dal vento, gli
uomini si erano bloccati quando a poca distanza avevano individuato il corpo
di Gavino, crivellato dalle pallottole e riverso a terra, in una pozza di
sangue. Poco più indietro Eugenio
e gli altri militari procedevano, anche loro con lo sguardo puntato verso la
piattaforma granitica. Eugenio vedeva i colleghi davanti a sé, ma il
maresciallo che era con loro dava ordine di allargare il proprio cerchio e
garantire più protezione. Eugenio quindi puntava il suo sguardo verso la
macchia nel tentativo di sorprendere chiunque si fosse nascosto in mezzo ad
essa. Il secondo sparo non sorprese il suo gruppo: il tenente Migheli, addentrandosi nella boscaglia, aveva percepito
un movimento alla sua destra e si era fermato, facendo cenno di acquattarsi.
Poco distante Nicolò cercava di caricare l’arma ed era quasi pronto a sparare
se il militare non fosse stato più reattivo e bene addestrato. Dopo lo sparo
il fucile era saltato dalle mani del giovane ragazzo e il corpo si era accasciato
a terra. Raggiunto dal resto della squadra il tenente Migheli indicava loro un uomo seduto con la schiena
appoggiata contro un grosso albero. Se ne stava immobile, con gli occhi
chiusi, le braccia di fianco al corpo e con le palme delle mani rivolte verso
l’alto. La testa, senza berretto, era incrostata di sangue e terra ed era leggermente
reclinata di lato: pareva morto, ma non lo era. Respirava lentamente e
bisbigliava parole incomprensibili. Attilio aveva obbedito
agli ordini e per tutto il tempo era rimasto al riparo delle mura dell’antica
costruzione, insieme a un militare della sua stessa età e con i nervi a fior
di pelle. Entrambi avevano richiamato più volte Giuseppe che sbirciava oltre
l’angolo di pietre, nella speranza di vedere cosa succedeva. Non avevano
potuto vedere il passaggio di Eugenio e degli altri carabinieri perché quelli
avevano percorso un sentiero discosto dalla chiesa. Quando il tenente Migheli aveva fatto fuoco contro Nicolò, Giuseppe, sorpreso da quello sparo, aveva fatto
un balzo indietro scivolando nelle braccia di Attilio, pronto a sorreggerlo
per evitare che finisse per terra. Il
giovane militare, preso da un attacco d’ansia, continuava a guardarsi intorno
e tra sé pregava che tutto finisse al più presto. E realmente tutto era
finito, ma egli non poteva saperlo.
*
Tirare su Salvatore era
stata un’impresa faticosa che aveva impegnato diversi uomini. Sorreggerlo era
stato ancora più arduo. Qualcuno dei militari di certo, dentro di sé, pensava
che avrebbero fatto meglio a sparargli, ma
avrebbe voluto dire commettere un omicidio volontario. Qualcun altro lo
guardava spazientito e avrebbe voluto scuoterlo per
farlo tornare alla realtà, ma Salvatore era ben lontano dalla realtà. Egli
sembrava meritarsi l’appellativo di pazzo. Tuttavia, non appena aveva
smesso di strattonare, divincolarsi e urlare frasi sconnesse, Salvatore si
era lasciato trascinare dagli uomini in divisa, senza più opporre resistenza.
Un sorriso ebete era rimasto a distorcere la sua bocca dalle labbra
screpolate e spaccate, da dove stillavano ancora gocce di sangue miste alla
saliva. Eugenio non aveva mai
conosciuto di persona suo cugino Salvatore, ma lo riconobbe ugualmente dato
che in caserma campeggiava una bacheca con esposte le fotografie dei
latitanti, tra queste anche quella di Salvatore. L’aveva fornita suo padre,
per ordine del Capitano. Di certo ora era molto diverso dall’immagine di quel
ragazzo dall’aria torva, da duro, e con le guance coperte dai brufoli,
ritagliata dal gruppo familiare. Mentre lo guardava Eugenio pensava ad
Attilio e a quanto enorme era stata la sorpresa nel saperlo a pochi metri da
lì. Doveva fare in modo di stargli accanto: Salvatore sembrava innocuo, ma
Eugenio temeva lo stesso un gesto inconsulto, nel momento in cui si fosse
trovato davanti suo fratello. Accelerando il passo egli percorreva il tratto
in declivio per avviarsi sicuro verso la chiesa, dove gli avevano detto si
trovasse suo cugino. Nel mentre diversi
carabinieri si stavano prodigando affinché il corpo di Annina venisse recuperato.
C’era molta animazione in quella piazzuola di roccia e Eugenio, incuriosito
anche lui da tutta quell’agitazione decideva di spendere pochi secondi prima
di raggiungere Attilio, per avvicinarsi a vedere. Non era morbosità la sua,
egli si sentiva attratto da una forza che a mano a mano che si avvicinava lo
calamitava verso quel punto. Solo dopo essersi ritrovato in
ginocchio, con la testa di Gavino sulle sue cosce, si era reso conto di aver
percorso gli ultimi metri di terreno di corsa. L’urlo che gli scaturiva dalla
gola non aveva più niente di composto e di razionale. Anche lui, come
Salvatore, stava perdendo il lume della ragione e lo desiderava, dio come lo
avrebbe desiderato. Invece, dopo alcuni minuti di angoscia pura, la coscienza
gli aveva imposto di riappropriarsi di tutto il suo autocontrollo perché il
maresciallo, il capitano, tutti i suoi colleghi, gli si erano fatti intorno e
lo osservavano increduli. Ricacciando indietro le lacrime, ma soffrendo
dentro di sé sino a sentire un acuto dolore
al petto, Eugenio chiudeva gli occhi del suo uomo e delicatamente ne poggiava
la bella testa sulla terra, rossa del suo stesso sangue, evitando di posare
lo sguardo sul quel petto crivellato dai colpi. Asciugando poi i propri occhi
fiammeggianti, Eugenio si voltava a incontrare lo sguardo sgomento di Attilio
il quale, raggelato dalle urla rauche di Eugenio, con passo lento e tremante,
avanzava tra due ali di militari e di decine di persone che dai villaggi e
dalle campagne limitrofe sopraggiungevano in
quel luogo di morte. Dietro Attilio, coperto da quell’esile e triste figura,
Giuseppe osservava il viso di Eugenio, reso irriconoscibile dal dolore, e viveva
quella scena assorbendone tutta l’immensa tragicità. Alla loro destra il
passaggio di Salvatore con i polsi trattenuti da una catena ne aveva
richiamato gli sguardi. Attilio, avvicinandosi a quella misera figura si
sforzava di riconoscere i tratti del fratello e lo fissava cercando di
ingoiare quel po’ di saliva che a stento riusciva a inumidirgli l’interno
della bocca. Nel momento in cui i due si trovarono uno di fronte all’altro
Salvatore aveva sollevato gli occhi che
immediatamente si erano accesi per la sorpresa. In quei pochi secondi
Salvatore rimaneva immobile, le guardie al suo fianco pronte a
bloccare ogni suo gesto. Attilio sosteneva lo sguardo, la mente vuota, il
respiro regolare: “ Che sia fatta la volontà di dio”,
era tutto ciò che gli veniva da pensare.
* Il giorno dell’esecuzione
Attilio non era presente. Accanto a Salvatore, nella piazza del patibolo
nella città dove sorgeva il Castello, solo il prete e il boia. Nel suo villaggio, davanti
al portone della chiesetta, in una tarda mattinata invernale, ad attendere il
carretto con sopra disteso il corpo senza vita di Salvatore, c’erano i
genitori e qualche parente. Attilio era lontano da lì. Immerso nei suoi pensieri
lanciava sassi sul pelo dell’acqua placida di un torrente. Ogni tanto si
voltava a osservare Eugenio. Questi, seduto sull’erba umida e fangosa, aveva
seguito suo cugino senza fiatare e ora osservava attento i cerchi che quei
sassi creavano nell’acqua. Improvvisamente un brivido di freddo gli aveva
percorso il corpo e Attilio lo aveva raggiunto solerte per abbracciarlo e
sussurrargli parole di conforto. Poi, vincendo la timidezza, il ragazzo si
infilava la mano nella tasca del pantalone per offrire a Eugenio quel tesoro
che aveva a lungo tenuto nascosto. Nel vedere il sasso di forma triangolare,
reso ancora più liscio dagli anni in cui era stato sfregato dal tessuto, Eugenio cedeva alla commozione, ricambiando la
stretta di Attilio. Epilogo L’uomo, vestito con abiti
eleganti e a capo scoperto, varca l’ingresso dell’antico camposanto del
paese, delimitato, su tre lati, da una bassa recinzione in ferro arrugginito.
Camminando lungo il terreno invaso dall’erba alta e dalle margherite, con le
mani gira e rigira la falda del cappello e intanto osserva assorto il
susseguirsi di lastre di marmo e croci annerite dalla muffa del tempo.
Leggendo tra i nomi e le date scolpite ogni tanto si ferma, lasciando che i
minuti scorrano lenti. Il cimitero è piccolo e lui con lo sguardo può
abbracciarlo per intero, ma ci impiega lo stesso una buona mezz’ora prima di
raggiungere la tomba che cerca, proprio in fondo a quel quadrato di terra. La
lastra che poggia sul muro di confine contiene quattro fotografie, ognuna
racchiusa dentro una cornice di gesso e protetta da un vetro sottile. Non ci
sono date su quella lapide, solo i nomi e l’età dei defunti. Guardando quelle
fotografie l’uomo non riesce a trattenere l’emozione: sebbene diversi anni
siano ormai trascorsi, egli non ha mai smesso di rivivere nella sua mente i
ricordi del passato. Ora che ha deciso di ritornare
nella malinconica terra natia è un uomo fatto, ma le lacrime bagnano il suo
viso dalla pelle ancora tesa. Egli non ha perso quell’aria un po’ ingenua e
scanzonata del ragazzino che durante le feste si lasciava trasportare dal
cerchio della danza: leggero, ondeggiante, intenso e frenetico. Porta un paio
di occhialini dalla montatura rotonda che durante gli anni di studio hanno
contribuito ad attirare gli sguardi sfrontati delle signorine. Sulle lenti
bianche e sempre lucide si possono immaginare i riflessi della tastiera della
macchina per scrivere, a lui ormai così famigliare. Il suo mestiere di
scrittore lo ha spinto a viaggiare o forse è meglio dire che il suo desiderio
di viaggiare ad un tratto lo ha spinto a scrivere. Attilio fissa assorto la
fotografia e rivede Eugenio lì, davanti a sé. Lo rivede in quel lungo periodo
di depressione, seguito alla morte di Gavino, durante il quale gli era stato
vicino, facendogli decidere di abitare nella sua stessa casa. Con lui Eugenio non si era
mai aperto completamente, ma era bastato poco; in fondo erano bastate
pochissime frasi e il luccichio nei suoi occhi; l’emozione che interrompeva
la voce; nonché il tremore a entrambe le mani che non lo aveva mai più
abbandonato, fino al compimento della sua stessa vita; il corpo tutto di
Eugenio di fronte ad Attilio rappresentava di per sé una verità talmente
profonda e evidente, da rendergli inutili le più ovvie domande. Essere
testimone di quella sofferenza che in sua presenza Eugenio non si curava di nascondere
era abbastanza per lui che, per quanto gli era stato possibile, aveva
sorretto e consolato. Poi, quando per Attilio era arrivato il momento di
partire, seppur a malincuore, ma incoraggiato da padre Pino e dalla fermezza
dello stesso Eugenio a non rimandare oltre, aveva dovuto dirgli addio.
* A Eugenio la fedeltà nei
confronti dell’arma non era mai venuta meno, casomai la sua dedizione era
cresciuta ulteriormente. Nessuno però riusciva a spiegarsi il perché
improvviso di quelle sue alzate di testa. Nessuno poteva saperlo perché
nessuno era a conoscenza dello struggimento che provava dentro di sé e che
non trovava consolazione alcuna. Doveva tenersi tutto dentro Eugenio e
sfogare la propria frustrazione e rabbia nelle azioni sul campo, nella caccia
ai delinquenti. A dispetto di ciò che aveva predicato a suo tempo ad Attilio
il suo carattere si era trasformato: era diventato cinico, spietato e
impavido, spesso mettendo in pericolo i suoi stessi colleghi e la buona
riuscita delle operazioni. Più di una volta il capitano lo aveva minacciato
di prendere provvedimenti seri nei suoi confronti, ma lui non se ne
preoccupava e dopo un periodo di riposo forzato, riprendeva come prima.
Eugenio sfidava la morte, semplicemente. E la morte aveva dunque accettato la
sfida e l’aveva anche vinta. La mano era stata quella
del Serpente; l’arma un fucile. Al grido: “Compagni coraggio”, Eugenio,
durante un appostamento, si apprestava a raggiungere l’interno di una
capanna, dentro la quale si era nascosto un ricercato. Con la furia di un
gatto selvatico il bandito si era lanciato fuori con il fucile in faccia,
scaricando prima una delle canne a destra e poi l’altra a sinistra. Il
carabiniere Eugenio Dasso era stramazzato al suolo.
Gli altri, i compagni, si erano mossi istintivamente, come per scansare il
colpo, e il bandito era saltato come un capriolo in mezzo agli aggressori.
Gettato a terra il fucile scarico aveva impugnato le pistole correndo a
capofitto verso il ciglione del monte, riuscendo a nascondersi.
* La notizia della morte di
Eugenio aveva raggiunto Attilio in Australia, molti mesi più tardi. Il
mittente della triste missiva aveva cercato le parole più dolci per
raggiungere il cuore del ragazzo. Un cuore che egli aveva conosciuto bene e
che aveva aiutato a crescere. La lettera conteneva i ragguagli dell’episodio
perché padre Pino sapeva di non dover nascondere niente. Preso da un moto
d’affetto aveva poi affidato alla penna il desiderio di riabbracciarlo, un
giorno. Infine, quasi a riprendersi per l’euforia di quello slancio, aveva
deposto tutte le speranze nelle mani del suo dio,
invocandolo con quelle poche parole che in tanti momenti della sua vita gli
erano affiorate sulle labbra: “ – Se dio
vuole, ragazzo mio; solo se dio lo vorrà! -”. E il suo dio in questo è stato clemente, permettendo ad
Attilio di fare ritorno nella sua terra e di poterne raccontare le storie. 2016 |