Estate
Trascorrevo le vacanze estive a Casalforte, nella cascina dove era nato mio padre. Ci andavo tutte le estati, appena finita la scuola, rimanendoci oltre due mesi: nella seconda metà di giugno e a luglio stavo con i miei nonni, che preferivano non rimanere a Milano quando arrivava il caldo; ad agosto loro andavano al mare e arrivavano invece i miei genitori. La casa, una vecchia costruzione in parte ristrutturata, era isolata, ma vicino a una borgata, a venti minuti di cammino dal paese. Ci si arrivava a piedi, ma c’era anche una strada sterrata, che finiva alla borgata. Io godevo di una libertà assoluta: non essendoci pericoli, ero libero di rimanere fuori tutto il giorno e anche la sera, tornando a casa solo per i pasti. Con gli amici giocavamo nei boschi e nei prati, ci bagnavamo nel laghetto, scendevamo in paese. Mia nonna morì quando io avevo dodici anni e mio nonno l’anno seguente. I miei avevano un negozio, che gestivano insieme. Per evitare di tenermi a Milano tutto il mese di luglio, si organizzarono per fare i turni: all’inizio di luglio mio padre mi accompagnava a Casalforte una decina di giorni e riapriva casa, di solito con l’aiuto del suo amico Beppe, che stava in paese; poi arrivava mia madre e dava il cambio a mio padre per il resto del mese. Una cugina dava una mano in negozio il mattino, nell’orario in cui i clienti erano più numerosi. Ad agosto chiudevano il negozio e stavano tutti e due nella cascina. A me piaceva molto rimanere da solo con mio padre: un po’ perché quando mia madre non c’era si stabiliva tra di noi una grande complicità, dato che lui mi trattava “da grande”, un po’ perché godevo di una libertà sconfinata. Lui aveva sempre molti lavori da fare, perché la casa rimaneva chiusa a lungo, ma anche perché gli piaceva apportare migliorie. Quando lavorava preferiva non avermi tra i piedi e me lo diceva direttamente: “Adesso fuori dai coglioni”. Non usava queste espressioni in presenza di mia madre, che l’avrebbe rimproverato, ma “tra uomini” andavano benissimo. Inoltre mio padre non era ansioso, a differenza di mia madre: la sua filosofia era che, entro certi limiti, se volevo farmi male, ero liberissimo di farlo, avrei imparato a mie spese. Io passavo le mie giornate fuori, a giocare con i coetanei o in brevi escursioni. Dopo cena spesso giocavo ancora con gli amici e poi rientravo a casa. Prima di andare a letto, io e mio padre parlavamo a lungo: gli chiedevo dei lavori che aveva fatto e lui mi faceva vedere gli interventi e mi spiegava perché aveva usato un certo materiale o strumento invece di un altro; io gli raccontavo ciò che mi era successo, quando avevo fatto qualche scoperta o c’era stato qualche problema di cui avevo voglia di parlare con lui; altre volte discutevamo di un film visto in televisione (o con il videoregistratore). Spesso da un argomento passavamo a un altro. Tra di noi si creava una grande intimità e io adoravo queste serate sul divano con mio padre. Finiva che non di rado andavamo a dormire molto tardi. Io mi infilavo nel lettone con lui: l’avevo fatto la prima volta che eravamo tornati nella casa dopo la morte dei miei nonni, perché non me la sentivo di dormire da solo, anche se ormai avevo tredici anni. Mio padre mi lasciava dormire con lui e a volte continuavamo ancora a parlare. Mio padre dormiva nudo, ma io ero abituato a vederlo senza abiti e questo non mi turbava. Il mattino io poltrivo nel letto, soprattutto se avevamo fatto tardi la sera, e lui si alzava presto come al solito. Spesso era il rumore del martello o del trapano a svegliarmi. Allora mi alzavo e lo raggiungevo. - Ma, cazzo!, non potresti incominciare un po’ dopo i tuoi lavori? “Cazzo” era un termine che potevo usare con mio padre, ma di certo non davanti a mia madre. Capivo che mio padre era contento di sentirmi parlare come un uomo, per cui spesso ero molto sboccato con lui. - Eccolo qua, il bello addormentato nel bosco. Hai una faccia… Serata da leoni, mattino da coglioni. La colazione è pronta. Ci prendevamo per il culo tranquillamente. A quindici anni ero piuttosto basso e mi sentivo ancora bambino: ero più piccolo dei miei coetanei, mentre fino a dodici anni ero stato tra i più alti, e anche mentalmente non ero cresciuto come gli altri. Io avrei ancora giocato come facevamo da bambini e quando si parlava di ragazze e di sesso, andavo a rimorchio: quei discorsi mi mettevano a disagio, anche se cercavo di nasconderlo, e non mi coinvolgevano davvero. Conoscevo gli amici di Casalforte da quando eravamo bambini e tra di noi c’era un legame molto forte, ma li sentivo distanti. Compii quindici anni a settembre e fu come se fosse suonata una sveglia. Nei sei mesi seguenti crebbi a un ritmo rapidissimo: ciò che mi andava bene a settembre, non mi entrava più a gennaio. Mia madre era desolata all’idea di dover dare via scarpe e pantaloni nuovi, ma non c’era nulla da fare. E accanto alla crescita fisica, si scatenarono tempeste di sensazioni ed emozioni che provocarono un’immensa confusione dentro di me. Qualche cosa si era risvegliato, qualche cosa che mi mozzava il respiro. Non capivo, ma gli uomini mi sembravano avere un alone torbido che mi attraeva. Non sapevo che cosa volevo, ma lo volevo con tutte le mie forze. Anche con i miei genitori incominciarono a esserci problemi, soprattutto con mio padre: gli rispondevo spesso in modo brusco, cosa che non mi capitava prima. Mi rendevo conto che lo provocavo. Mio padre non era manesco, ma una volta mi rispose che se avessi continuato così, prima o poi mi avrebbe mollato due ceffoni. Anche i miei genitori erano spesso tesi e non di rado litigavano tra di loro. Io attribuivo parte di quelle tensioni al mio nervosismo: probabilmente non volevo vedere ciò che stava succedendo. Ero diventato piuttosto magro e finii l’anno molto affaticato. Alla fattoria di Casalforte c’erano diversi lavori da fare, perché mio padre voleva risistemare un’ala della casa che contava di affittare al suo amico Beppe. Non mi chiesi perché di quei lavori si dovesse occupare lui e non Beppe, che era falegname e viveva a Casalforte. Mio padre decise che saremmo partiti il dodici giugno, appena finite le lezioni. Saremmo rimasti insieme un mese e mezzo, fino alla fine di luglio: lui avrebbe svolto i diversi lavori insieme a Beppe. In negozio con mia madre avrebbe lavorato la cugina. Ero contento di andare a Casalforte: avevo bisogno di allontanarmi da Milano, dalla scuola, da una situazione confusa. Capivo che la confusione era dentro di me, che me la sarei portata dietro, ma pensavo che in qualche modo stare in campagna, con mio padre e gli amici, mi avrebbe aiutato a fare chiarezza o almeno a non sentirmi tanto teso. Arrivammo la sera. Mia madre e mio padre erano venuti la domenica precedente a pulire, per cui sistemammo i bagagli, poi ci preparammo per andare a dormire. Ricordo che mio padre preparò il letto, dando per scontato che dormissi con lui, poi ebbe un ripensamento e chiese: - Preferisci dormire da solo? Ormai sei grande… Sorrise, ma la domanda mi infastidì. Dissi, piuttosto seccamente: - Non vuoi più parlare con me la sera? Mio padre scosse la testa. - Fa quel che cazzo ti pare. Lo disse tranquillo: non se l’era presa. Finì di preparare il letto, si spogliò completamente e andò in bagno a pisciare. Io lo guardavo, fermo sulla porta. Mio padre era un uomo vigoroso e io ne avevo sempre ammirato la forza. Guardai il suo corpo, la peluria più densa sulle gambe e sul ventre, meno sulle braccia e sul culo. Guardai il suo cazzo. E mi sentii la gola secca. Mi voltai e andai a sedermi sul letto. Mio padre rientrò e si stese. Aspettò che io andassi in bagno e mi coricassi al suo fianco. Poi spense la luce e disse: - Non ti preoccupare, Ste’. Ci siamo passati tutti e ne siamo usciti vivi. Magari un po’ ammaccati, ma vivi. Non sapevo che cosa dire, per cui mi limitai ad augurargli la buona notte, ma non mi addormentai subito. Lo sentii scivolare nel sonno: mio padre si addormentava sempre immediatamente. A Casalforte c’erano pochi degli amici che frequentavo abitualmente, perché quasi tutti venivano solo a luglio o ad agosto. Con quelli che vivevano lì ci si trovava quasi solo la sera, perché di giorno aiutavano i genitori nei lavori dei campi, anche se magari durante l’anno studiavano e non intendevano diventare contadini: da bambini avevano molto più tempo libero, ma ormai dovevano dare una mano in casa. Ogni giorno passavo un po’ di tempo con qualche amico, ma non riuscivo ad aprirmi con loro: non c’erano quelli a cui ero più legato e in ogni caso io avevo le idee troppo confuse per riuscire a parlare del mio stato d’animo. Mio padre lavorava con Beppe. Beppe era suo coetaneo e viveva nel paese, pur recandosi spesso a Pavia e anche a Milano per il suo lavoro di falegname. Aveva modi bruschi e appariva un po’ selvatico, ma con lui mi trovavo bene: lo conoscevo fin da bambino e c’era una grande confidenza tra di noi. Mio padre mi avvertì di non circolare nell’ala in cui loro lavoravano, perché avevano creato un piccolo cantiere e rischiavo farmi male. Io ci andavo a vedere come procedevano i lavori, ma solo alla fine della giornata. Non mi venne mai in testa di offrirmi per dare una mano: da mio padre avevo imparato a svolgere parecchi lavori, ma in qualche modo Casalforte era per me sinonimo di libertà assoluta. Dopo qualche giorno, mi rilassai. Rispetto agli anni precedenti passavo più tempo da solo, in attesa che arrivassero gli amici a cui ero più legato. Le tensioni che c’erano state con mio padre si stavano dissolvendo e la sera parlavamo come negli anni precedenti. Ma la sua nudità, a cui ero abituato, ora mi turbava. Per quanto mi sentissi più sereno, percepivo che dentro di me c’erano tensioni che non si scioglievano. Avevo la sensazione di un magma che ribolliva in profondità e che cercava una via di uscita. Eravamo arrivati da una settimana, quando Manolo, che viveva nel paese, mi disse che c’era lo zingaro. Secondo Manolo lo chiamavano lo zingaro perché sua madre lo aveva avuto da un rom, che l’aveva stuprata. Manolo raccontava i dettagli, dicendo che l’uomo aveva sorpreso la ragazza una sera mentre rientrava a casa, l’aveva buttata su un covone di fieno e l’aveva violentata tre volte, davanti, di dietro e in bocca. Aggiungeva anche che gli uomini del paese avevano scovato il rom giù al torrente, dove si nascondeva, l’avevano picchiato selvaggiamente, gli avevano spaccato i coglioni e poi lo avevano finito con i forconi. Ma sapevo benissimo che Manolo si inventava almeno la metà di quello che diceva. Avevo chiesto a mio padre, ma lui non aveva mai sentito nulla del genere: all’epoca dei fatti era un ragazzino, ma se davvero fosse successo quello che diceva Manolo, lui e gli altri ragazzi del paese ne sarebbero venuti a conoscenza. In realtà, pare che nessuno sapesse chi era davvero il padre. Probabilmente l’uomo era chiamato così per l’aspetto da zingaro e soprattutto perché sembrava non avere un lavoro, arrivava e partiva spesso, senza che nessuno sapesse niente di lui, e viveva praticamente accampato nella casa cadente che era appartenuta a sua madre: senza luce, acqua, riscaldamento, niente. Appena un tetto per ripararsi dalla pioggia. In paese lo si vedeva poco e con gli altri non aveva quasi rapporti. Era sempre da solo. Stava vicino al torrente, al bosco di sotto. Là non c'era sentiero e lui spesso si bagnava, benché l’acqua fosse piuttosto fredda anche d’estate, e poi rimaneva a prendere il sole nudo. A raccontarlo era stato Gino, due anni prima: lo aveva visto steso su una pietra, senza neanche uno straccio per coprirsi. Gino, Manolo e alcuni altri avevano deciso di andarlo a guardare, ma io non ero andato con loro. L’idea di spiarlo mi infastidiva. Quelli che erano andati tornarono dicendo che era peloso come una scimmia, aveva un cazzo enorme e diversi tatuaggi. Allora i tatuaggi non erano ancora diffusi e molti li consideravano prerogativa dei marinai o dei criminali. In ogni caso sapevo benissimo che occorreva fare la tara su quello che dicevano i miei amici. Le rare volte che passava davanti a casa lo guardavo incuriosito. Aveva un volto abbronzato, due piccole cicatrici sulla guancia destra e una più grande sul braccio sinistro, un orecchino d'oro che allora in paese destava scandalo, due occhi grigi e una gran massa di capelli neri e ricci. Non avrei saputo dire quanti anni avesse, credo trenta, ma il suo viso aveva qualche cosa di molto giovanile: avrei potuto pensare che avesse vent’anni. Sulle braccia non aveva tatuaggi e non appariva neppure particolarmente peloso. Quando Manolo mi disse dello zingaro, feci finta di niente, ma pensai subito a quello che dicevano di lui: che prendeva il sole nudo al torrente. Quello stesso pomeriggio scesi al torrente e mi avventurai nel bosco di sotto. Non ci andavamo mai, perché non c’era un sentiero e non era curato. Era un posto alquanto selvaggio, ma il bosco non era molto grande e non c’era il rischio di perdersi. Arrivai al torrente e con molta cautela cominciai a seguirlo. Dopo alcuni minuti lo vidi. Era steso su una roccia, immobile. Mi infilai nel bosco e mi avvicinai, fino a che la paura di essere visto fu più forte del desiderio di vedere. Mi distesi sotto un cespuglio e di lì lo fissai. Era molto snello, con una peluria abbastanza abbondante sul petto e sul ventre, più leggera sulle braccia e sulle gambe. I tatuaggi erano pochi e non così vistosi come avevano detto i miei amici. Il cazzo era grosso, ma non “da cavallo”. Era fermo e io lo ero altrettanto, ma dentro di me si stava facendo strada un pensiero preciso, mentre fissavo il corpo scuro e gli occhi scendevano ogni volta lungo il torace e il ventre fino al cazzo: quell'uomo era la risposta alla domanda che non sapevo formulare. A un certo punto mi parve che il suo cazzo si ingrandisse. Per un attimo pensai che fosse autosuggestione, ma presto mi resi conto che non mi sbagliavo. Stava avendo un'erezione. Si portò una mano sul cazzo e lo accarezzò a lungo, con lentezza: non sembrava avere nessuna fretta di venire. Io, quando mi facevo una sega, ero rapido, come se il mio obiettivo fosse stato venire il più velocemente possibile. Lo zingaro cercava il piacere con un ritmo lentissimo, fermandosi ogni tanto. La sua mano a volte scivolava ai coglioni, li stringeva, li accarezzava. Poi scendeva ancora dietro, per ritornare infine al cazzo. Mi sentivo il sangue alla testa, il respiro mi mancava. Quasi venni, senza toccarmi, mentre guardavo con la gola secca il suo lentissimo procedere. Quando infine venne, fissai abbagliato il getto che sgorgava e raggiungeva la barba e il torace. Rimase ancora disteso a lungo, mentre lo sborro si asciugava sul suo ventre e la mano ancora accarezzava il cazzo. Si alzò, fece pochi passi e si gettò in acqua, immergendosi completamente in un punto in cui il torrente formava una pozza profonda: di solito l’acqua arrivava solo fino al ginocchio. Sguazzò un buon momento, poi uscì, grondante, e ritornò alla sua roccia, distendendosi. Il freddo dell’acqua aveva ridotto la dimensione del suo cazzo. Lo guardai ancora un buon momento, poi mi allontanai silenziosamente. Il giorno dopo scesi di nuovo al torrente, ma lo zingaro non c’era. Parlando con Manolo feci in modo che la conversazione cadesse “casualmente” su di lui. Manolo mi disse che era partito la sera prima: la sua auto, una vecchia 127, non c’era più. Lo zingaro era così: arrivava, spariva, senza che nessuno potesse prevedere i suoi spostamenti. Poteva tornare dopo qualche ora, qualche giorno, qualche mese o qualche anno. Due giorni dopo ci fu un incidente in paese: un’auto sbandò e finì contro la vetrina dell’unico negozio. Nulla di grave, ma per un piccolo centro come quello era la novità del giorno. Perciò mi diressi verso casa, appena un’ora dopo essere uscito, per raccontarla a mio padre. Giunto a casa, feci per aprire la porta dell’ala in cui lui lavorava con Beppe, ma la trovai chiusa. Rimasi interdetto: a quell’ora dovevano essere al lavoro tutti e due. C’era un’altra porta, che metteva in comunicazione la parte della cascina dove vivevamo noi con quella in corso di ristrutturazione. Entrai in casa e provai a passare di là, ma anche quella porta era stata chiusa. Mi misi in ascolto, ma non si sentivano rumori. Eppure l’auto di Beppe, che abitava in paese, era nel cortile. Pensai di chiamare, ma non lo feci. Mi venne in mente che una delle finestre sul retro non aveva più i serramenti: erano stati tolti perché dovevano essere sostituiti. Feci il giro e la raggiunsi. In effetti c’era solo un telo di plastica. Sbirciai dentro e vidi che non c’era nessuno. Spostai un po’ il telo, scavalcai il davanzale e mi introdussi nella stanza. Mio padre e Beppe stavano certo lavorando in quel locale, perché c’erano la scala e diversi attrezzi, ma loro due non c’erano. Passai nella seconda stanza, muovendomi furtivamente. Non so perché lo facessi. In qualche modo contavo di sorprendere mio padre. Mancò poco che fosse lui a sorprendere me: sentii la sua voce provenire dall’ultima stanza, quella in cui erano stati accatastati i mobili tolti dalle altre camere. - Ora di metterci al lavoro, adesso. Rapidamente ritornai indietro e uscii dalla finestra. Sbirciai e li vidi rientrare nella stanza. Beppe aveva la camicia del tutto aperta e se la stava abbottonando. Mio padre si chiudeva la fibbia della cintura. Pensai che si fossero distesi un momento per riposare sul letto. Mi dissi che sarei tornato il giorno dopo: se li avessi sorpresi a dormicchiare invece di lavorare, appena un’ora dopo aver incominciato, avrei preso per il culo mio padre per un mese. Ero davvero convinto che avessero schiacciato un sonnellino invece di lavorare, ma mi ricordo che quella sera ero irrequieto e continuavo a pensare al giorno dopo. L’idea originaria era stata quella di fingere di andarmene, poi tornare, assicurarmi che non fossero al lavoro ed entrare dalla finestra. Ma ripensandoci mi dissi che avrei anche potuto nascondermi nella camera dove erano accatastati i mobili, nel vecchio guardaroba. Sarei potuto saltare fuori e sorprenderli mentre dormivano invece di lavorare. Era un’idea assurda: sarei dovuto rimanere un’ora o due in attesa. Ma entrando più tardi rischiavo di farmi scoprire. L’indomani misi in atto il piano. Mi alzai presto e quando Beppe arrivò, dissi che me ne andavo. Uscii, ma poi rientrai dalla porta interna e raggiunsi la camera dove erano stati ammassati i mobili. Le ante delle finestre erano chiuse e la stanza era immersa nella penombra. Il grande armadio era vuoto e io ci entrai. Lasciai la porta socchiusa, bloccandola con un pezzo di legno. Potevo vedere la porta e il grande letto, coperto da un vecchio lenzuolo per proteggerlo dalla polvere. Sentii arrivare mio padre e Beppe. Mi dissi che ero proprio un idiota, ma ormai avrei avuto molta difficoltà ad andarmene senza che loro si accorgessero di me. Non dovetti attendere molto: forse un quarto d’ora. Sentii mio padre che diceva: - Chiudo le porte. Beppe entrò nella stanza e si tolse la camicia. La posò su un cassettone, poi tolse il lenzuolo che copriva il letto per proteggerlo dalla povere. Arrivò anche mio padre. Beppe si girò verso di lui. Mio padre si era sbottonato la camicia. Strinse Beppe tra le braccia e si baciarono sulla bocca. Era un bacio intensissimo, appassionato, il bacio di due che si desiderano. Ebbi la sensazione che mi mancasse l’aria. Non riuscivo a respirare. Mio padre infilò le mani nei jeans di Beppe, stringendogli il culo, mentre Beppe gli slacciava la fibbia della cintura e gli calava i pantaloni. Mio padre si sfilò le scarpe e si calò gli slip. Vidi che aveva il cazzo già mezzo duro. Beppe intanto si era spogliato anche lui e adesso erano tutti e due nudi, uno di fronte all’altro, che si guardavano sorridenti. Si baciarono ancora, mentre le mani dell’uno percorrevano avidamente il corpo dell’altro. Poi Beppe si inginocchiò e prese in bocca il cazzo di mio padre. Credo che se non fossi stato seduto, appoggiato alla parete interna dell’armadio, sarei crollato. Sapevo che cos’era quello che stavo vedendo: di gay si parlava, era il 1979 e gli omosessuali avevano smesso da qualche tempo di essere invisibili. Anche un mio compagno era gay e mi aveva fatto capire che gli piacevo. Ma l’uomo a cui un altro maschio stava succhiando il cazzo era mio padre. - Sul letto, Beppe, che facciamo un bel 69. Beppe si staccò, sorrise e si stese sul letto. Mio padre si stese su Beppe, in modo che il suo cazzo sovrastasse il viso di Beppe, che lo prese in bocca. Mio padre passò la lingua due volte sul cazzo di Beppe e poi lo inghiottì. Si girarono di lato. Non vedevo più i loro cazzi, ma la schiena di mio padre, le sue spalle larghe, la sua testa con i capelli corti, il culo ombreggiato dalla leggera peluria e una mano di Beppe che accarezzava e stringeva, poi un dito che scivolava lungo il solco e si infilava dentro, facendo sussultare mio padre. Chiusi gli occhi. Poi li riaprii. Non era un sogno: mio padre stava succhiando il cazzo a un altro uomo, che gli aveva infilato un dito in culo. Sentivo i loro gemiti e qualche commento osceno, quando uno dei due interrompeva quello che stava facendo. E in tutto ciò che vedevo e sentivo, avvertivo l’ardore di un desiderio violento. Vennero quasi contemporaneamente. Mio padre si girò e si distesero sulla schiena, uno di fianco all’altro. Beppe teneva una mano sul ventre di mio padre, che con la destra gli accarezzava con delicatezza il petto. Non c’era traccia di seme sui loro corpi: avevano inghiottito tutto. Rimasero un buon momento distesi, poi mio padre si girò e baciò Beppe sulla bocca. Si alzò e disse: - Avanti, pigrone, al lavoro. Beppe non se lo fece ripetere. Si rivestirono in fretta, si baciarono ancora una volta e poi uscirono. Poco dopo sentii il rumore del martello che batteva. Rimasi a lungo nell’armadio, incapace di muovermi. Poi mi alzai, uscii e, muovendomi in perfetto silenzio, raggiunsi la porta che immetteva nel corpo principale della casa. Per tutto il giorno rimasi frastornato. A pranzo consumavamo un pasto rapido. Mio padre e Beppe chiacchieravano tranquilli, come sempre. Ciò che era successo quel giorno non doveva essere niente di nuovo, perché non davano segno di essere turbati o euforici. Mi chiesi se scopassero ogni giorno. Probabilmente era così. - Che hai, Ste’? La domanda di mio padre mi prese alla sprovvista. - Come, che ho? - Hai una faccia stranita. Ti è successo qualche cosa? - No, niente, niente. Appena finito di mangiare mi alzai e uscii. Mi diressi verso il bosco e mi sedetti a terra appoggiando la schiena contro il tronco di un albero. Non avevo voglia di vedere gli amici, non me la sentivo di vedere nessuno, di parlare con nessuno. La sera dissimulai il disagio. Ma quando si spogliò davanti a me, rividi mentalmente la scena a cui avevo assistito. Quando ero nell’armadio il mio corpo non aveva reagito, ma ora sentii il sangue affluire all’uccello. Mio padre non sembrò accorgersi di niente. Io mi spogliai mentre lui era al cesso e mi infilai sotto le coperte. Mio padre venne a stendersi e spese la luce. L’avvertire la sua presenza vicino a me, aumentò la tensione del mio corpo. - Tutto bene, Ste’? Oggi mi sembri turbato. - No, no, niente. Mio padre cercò ancora di parlare, poi, rendendosi conto che non ero dell’umore giusto, tacque. Non riuscivo a prendere sonno. Ero eccitato e mi vergognavo della mia erezione. Ma il pensiero andava in continuazione alla scena a cui avevo assistito e questo aggiungeva legna all’incendio che mi divorava. Dopo una mezz’ora mio padre disse: - Ste’, so che sei sveglio. È successo qualche cosa. Non negare. Non vuoi parlarne? Scossi la testa, anche se al buio lui non poteva vedermi. - Niente. Non ho voglia di parlarne. - Come vuoi, Ste’. Dopo un po’ lui si addormentò. Rimasi sveglio ancora un po’ e mi ripromisi che nei giorni seguenti mi sarei tenuto alla larga dall’ala in cui mio padre lavorava e avrei cercato di dimenticare quello che avevo visto. Infine riuscii a prendere sonno. Il mattino dopo sentii mio padre alzarsi, ma finsi di dormire. Solo quando fu uscito dalla stanza, mi alzai anch’io. Avrei potuto rimanere a letto, fare colazione più tardi e uscire di casa quando mio padre e Beppe fossero stati nell’ala in cui lavoravano. Ma feci colazione presto, poi salutai mio padre e uscii. Feci pochi passi e mi fermai. Volevo andarmene, sottrarmi alla tentazione di ritornare nell’armadio e spiarli ancora, ma non riuscivo a muovermi. Fu l’arrivo di Beppe a scuotermi: quando sentii il rumore del motore della sua auto, rientrai in casa e, badando a non farmi vedere da mio padre, ritornai nella camera. Quando vidi il letto, provai ancora l’impulso di fuggire, ma mi infilai di nuovo nell’armadio, sistemai l’anta in modo da poter guardare e rimasi in attesa. Non dovetti aspettare molto: evidentemente mio padre e Beppe scopavano prima di mettersi a lavorare. Sentii la voce di mio padre che diceva: - Vado a controllare che anche l’altra porta sia chiusa. Beppe intanto entrò nella stanza e incominciò a spogliarsi. Non era un bell’uomo: aveva un corpo forte e snello, ma un viso dai lineamenti troppo duri e per i miei gusti era troppo peloso. Gli guardai il cazzo. Pensavo che mio padre l’aveva succhiato. Mi accorsi, sgomento, che al solo pensiero di quello che stava per accadere il sangue affluiva al mio uccello. Quando mio padre rientrò, Beppe era già nudo. Si avvicinò a mio padre e incominciò a spogliarlo, con gesti lenti. Gli sbottonò la camicia e la fece scivolare a terra. Gli slacciò la fibbia della cintura e gli abbassò la cerniera, calandogli i pantaloni. Con una mano afferrò il cazzo di mio padre attraverso la stoffa dello slip, mentre con l’altra gli accarezzava la schiena. Poi si baciarono. Quando si staccarono, Beppe teneva ancora la sua preda in mano e strinse più forte, facendo sussultare mio padre. - Ahi! Beppe lo baciò di nuovo sulla bocca, gli infilò la lingua fino in fondo, poi si staccò e si stese sul letto a pancia in giù, divaricando bene le gambe. Mio padre sorrise e si calò gli slip. Aveva il cazzo duro. Anch’io ormai ero eccitato. Mio padre salì sul letto, si mise in ginocchio tra le gambe divaricate di Beppe, sputò sull’apertura e con due dita sparse la saliva. Ripeté l’operazione, poi si distese. Guardai il suo cazzo avvicinarsi all’apertura, forzarla ed entrare, fino a scomparire. Mio padre si mise a muovere il culo avanti e indietro con vigore, mentre Beppe gemeva. Io mi afferrai l’uccello e venni quasi subito. Mi parve di svenire, tanto fu forte il piacere che provai. Stordito dal piacere rimasi a guardare mio padre che fotteva Beppe, dandoci dentro con grande energia. Infine lo vidi sollevare il capo, emettere un grugnito sordo e accasciarsi su Beppe dopo una serie di spinte più rapide. Beppe disse qualche cosa che non capii. Mio padre scosse la testa. Poi si girò in modo da rimanere sotto Beppe, senza uscire da lui. Ora potevo vedere bene Beppe e la mano di mio padre che gli faceva una sega. Vidi il viso di Beppe tendersi e infine il getto di seme schizzare verso l’alto e ricadergli sul ventre e sul torace. Rimasero un buon momento fermi. Mio padre accarezzava Beppe. Le sue dita raccolsero un po’ di sborro e lo portarono alle labbra di Beppe, che succhiò le dita, ridendo. Mio padre ripeté l’operazione due volte. Quando si alzarono, mio padre disse: - Domani me lo metti in culo tu. - Puoi contarci. Li guardai uscire, ma non mi mossi. Non ne ero capace. Non riuscivo a scrollarmi di dosso il senso di spossatezza che mi aveva assalito. Non so quanto tempo rimasi nell’armadio, senza riuscire a muovermi. Lentamente mi ripresi. Mi pulii con cura, mi sistemai e, con estrema cautela sgattaiolai fuori dall’armadio. Sentii Beppe e mio padre ridere nella stanza dove lavoravano, poi incominciarono a fare un baccano infernale battendo con il martello e ne approfittai per uscire. Non avevo voglia di vedere nessuno, ma non avevo nemmeno intenzione di rimanere a casa, per cui uscii e andai nel bosco. Mi sedetti ai piedi di un albero e chiusi gli occhi. Rivedevo la scena a cui avevo assistito, risentivo le ultime parole di mio padre. E di nuovo l’eccitazione crebbe. Mi dicevo che non sarei mai più tornato nella camera, ma sapevo benissimo che l’indomani mattina sarei di nuovo stato lì: volevo vederli scopare ancora, volevo vedere mio padre inculato da Beppe. L’idea mi disgustava e mi eccitava. Passai tutto il giorno in uno stato di confusione mentale, senza riuscire a dare ordine ai miei pensieri. Ogni tentativo di dedicarmi ad altro falliva miseramente. Leggevo due pagine e mi scoprivo a ripensare a quanto avevo visto, a quello che avrei visto il giorno dopo. Nel pomeriggio raggiunsi gli amici, che mi trovarono alquanto strano. Dissi loro che non mi sentivo molto bene. La sera anche mio padre si accorse del mio turbamento. Cercò di farmi parlare, ma io mi trincerai dietro un muro di dinieghi. Capiva benissimo che c’era qualche problema, ma io non gli fornivo nessun appiglio. Alla fine ci rinunciò, ma avevo la certezza che sarebbe tornato alla carica. La sera quando ci coricammo ebbi di nuovo un’erezione: ormai vedere mio padre nudo me lo faceva diventare duro, perché mi ritornavano in mente le scene a cui avevo assistito. Mio padre finse di non accorgersene e non disse nulla. Mi diede la buonanotte e si mise a dormire. Anch’io mi addormentai presto: ero stanco, per la tensione della giornata e il sonno insufficiente della sera prima. L’indomani mattina non esitai: raggiunsi la mia postazione appena possibile. Mio padre arrivò e si mise a lavorare nella stanza a lato di quella in cui ero io. Incominciava sempre con Beppe. Perché il suo amico non era ancora arrivato? Perché lui aveva incominciato senza attenderlo? Sapeva che sarebbe stato in ritardo? Mi venne il sospetto che Beppe non venisse. Magari lo aveva detto a mio padre il giorno prima. Però mio padre gli aveva detto quella frase, inequivocabile: “Domani me lo metti in culo tu”. E se Beppe non fosse venuto? Poteva esserci stato qualche contrattempo. O magari Beppe aveva preso un impegno il giorno prima, aveva avvisato mio padre mentre io ero fuori e oggi non sarebbe venuto. Man mano che il tempo passava, diventato sempre più nervoso. Mi sembrava di soffocare nello spazio angusto dell’armadio. Ma non volevo andarmene. Volevo prima essere sicuro che Beppe non sarebbe venuto. Infine sentii il rumore dell’auto di Beppe. Poco dopo mi arrivarono le loro voci dalla stanza di fianco. - Fatto tutto? - Sì, non c’è neanche voluto molto. Tu hai già incominciato a lavorare, vedo. - Sì, ma adesso facciamo una pausa. Sono un po’ sudato, ma non credo che ti dispiaccia. - Sai che mi piacciono i maiali. Li sentii ridere. Ci fu una pausa, poi Beppe entrò e mio padre andò a chiudere le porte. Beppe si spogliò subito, con movimenti rapidi: doveva essere impaziente. Poi, rimasto nudo, si fermò e restò immobile. Lo guardai, ammaliato. Fissai il corpo vigoroso, il pelame rigoglioso che lo copriva, il cazzo che già si tendeva. Beppe sorrideva. Mio padre arrivò in quel momento dietro di lui, lo cinse con le braccia e lo baciò sulla nuca, poi poggiò il mento sull’incavo della spalla e rimase così. Le mani di Beppe scivolarono indietro, posandosi sui fianchi di mio padre. Mio padre abbassò una mano e afferrò il cazzo di Beppe. Strinse forte e Beppe sollevò la testa, chiudendo gli occhi. Il cazzo ora era una sbarra di ferro e io guardai affascinato la cappella di un rosso cupo che svettava contro la peluria fitta del ventre. Beppe afferrò la mano di mio padre e l’allontanò. La sua voce era roca mentre diceva: - Spogliati. Mio padre si staccò e con pochi gesti sicuri si spogliò. Anche il suo cazzo non era a riposo. - Stenditi. Mio padre si stese sul letto, ma sulla schiena. Non capii, finché non vidi Beppe afferrargli le gambe e mettersi i piedi di mio padre sulle spalle. Poi si inginocchiò sul letto, mentre le gambe di mio padre scivolavano sulla sua schiena. Ora mio padre aveva il culo sollevato e le ginocchia sulle spalle di Beppe. Beppe inumidì bene il buco del culo di mio padre, spargendo la saliva, ma poi entrò con un movimento deciso, che fece sussultare mio padre. Gli vidi la faccia contrarsi in una smorfia di dolore. Beppe incominciò a spingere. Sul viso di mio padre leggevo una forte tensione. Beppe gli stava facendo male, ma il cazzo gli si stava tendendo. Anche il mio stava diventando duro, ma io me ne accorsi appena: ero troppo concentrato nello sforzo di non lasciarmi sfuggire nulla di ciò che stava succedendo. Beppe ci dava dentro, emettendo una serie di suoni gutturali. Poi, dopo una lunga cavalcata, accelerò il ritmo e venne con una specie di grugnito. Senza uscire da mio padre, gli afferrò il cazzo, ormai duro, e lo strinse muovendo la mano verso il basso e verso l’alto finché anche mio padre non venne. Lo vidi chiudere gli occhi, mentre lo sborro schizzava in alto e gli ricadeva sul ventre. Beppe uscì da mio padre, si chinò in avanti e con la bocca raccolse lo sperma. Poi succhiò un momento il cazzo di mio padre, che alla fine gli prese il viso e lo allontanò. Beppe si stese di fianco a mio padre. Rimasero un momento così. Poi Beppe disse: - Cazzo, se penso che sarà così tutti i giorni… Mio padre sorrise, poi si alzò e si rivestì. - Vado al cesso. Tu incomincia pure a lavorare, che poi ti raggiungo. - Comodo! - Questa mattina sei arrivato due ore dopo. Te le tolgo dalla paga. - Stronzo! Risero tutti e due. Io aspettai che mio padre fosse ritornato e avesse ripreso a lavorare, per uscire. La porta che collegava quell’ala al resto della casa era ancora chiusa a chiave. Probabilmente mio padre si era dimenticato di aprirla, perché era andato al cesso. C’era la chiave nella toppa e la girai. Non avrei potuto chiuderla nuovamente dal lato esterno, ma con ogni probabilità mio padre non si sarebbe accorto di nulla. Uscii senza farmi vedere e mi allontanai rapidamente. Mi sembrava di essere meno turbato del giorno prima. Era avvenuto quanto mi aspettavo. Tutto sommato, non era stato così sconvolgente. La scena mi aveva eccitato, ma non ero venuto. Girai da solo, tenendomi lontano dai posti in cui avrei potuto incontrare qualche amico. Quando però si avvicinò l’ora di pranzo, mi resi conto che non me la sentivo di mangiare con mio padre e Beppe. Tornai rapidamente a casa. Loro stavano ancora lavorando. Lasciai in cucina un biglietto dicendo che avrei mangiato da un amico: ogni tanto succedeva. Nel pomeriggio scesi al laghetto dove spesso ci bagnavamo, io e alcuni altri amici. Mi sedetti in un posto isolato, seminascosto dalla vegetazione. Pensai che quest’anno non sarebbe stato facile spogliarsi davanti agli altri. E l’immagine di Beppe che inculava mio padre riemerse con chiarezza. L’erezione fu violenta e immediata. Mi stesi, perché provavo un vago senso di nausea. Ma il desiderio premeva e fui sul punto di infilare la mano negli slip e farmi una sega. Non so perché non lo feci. Mi alzai di scatto, barcollai e ricaddi a terra, incapace di sostenermi. Mi pareva di stare male. Rimasi sdraiato e a un certo punto mi addormentai. Mi svegliai qualche ora dopo. Avevo parecchia fame: avevo saltato il pranzo ed ero stato tanto sciocco da non portarmi dietro neanche un po’ di pane con salame o formaggio. Rimasi steso sull’erba. Sapevo che sarei dovuto rientrare, ma non ne avevo voglia. Vidi che il sole si stava abbassando. Controllai l’orologio: erano quasi le sette e mio padre mi aspettava. Con fatica mi alzai e mi diressi verso casa. Trovai mio padre che fumava nella stanza che usavamo come salotto. Mio padre fumava pochissimo e mai in casa, ma quella sera aveva fumato già quattro o cinque sigarette: nel posacenere c’erano diversi mozziconi. Mi guardò, senza dire nulla. Io sentii che mi mancavano le forze. Mi sedetti su una poltrona, senza distogliere lo sguardo da mio padre, senza aprire bocca. Mio padre spense la sigaretta nel posacenere, anche se l’aveva appena incominciata. Poi mi fissò e disse: - Ci hai spiato. Martedì, ieri e oggi. Non dissi nulla: non ero in grado di parlare. Mi limitai ad annuire. Mio padre scosse la testa. - Cazzo! Ci fu un momento di silenzio. Poi mio padre riprese: - Per quello eri così turbato. Ste’… Voleva dire qualche cosa, ma lo interruppi: - Voglio tornare a Milano. Non so perché lo dissi. Non lo avevo mai pensato in quei giorni. In realtà volevo solo sfuggire a una situazione di forte disagio. Non me la sentivo di rimanere lì, di fronte a mio padre che mi parlava. Mio padre annuì: - Se è questo che vuoi, Ste’, va bene. Domani ti riporto a Milano. Non lo volevo, mentre lui lo diceva mi rendevo conto che non lo volevo per niente. Scattai, rabbioso, come mi era già accaduto altre volte quell’anno: - Vuoi liberarti di me, eh? Così puoi fare i tuoi porci comodi. Mio padre mi guardò, senza scomporsi. - Me l’hai chiesto tu, Ste’. Io non ho nessuna intenzione di mandarti via. Mi piacerebbe riuscire a parlarti, a spiegarti. - Che cazzo c’è da spiegare? Tu e Beppe scopate. Lui… Non completai la frase: avrei voluto rinfacciargli che Beppe glielo metteva in culo, ma non me la sentii. Mio padre rimase calmo. - E allora? - Come: “E allora”? Che cazzo vuoi dire con “E allora”? - Io e Beppe siamo due adulti, siamo sempre stati attratti l’uno dall’altro, fin da quando avevamo la tua età. Ci vogliamo bene. - Ma tu sei mio padre. Sei un uomo sposato. Tradisci tua moglie con un uomo. E non usi nemmeno un preservativo. Potresti contagiare la mamma. Non so come mi fosse venuto in mente. Nell’inverno a scuola erano venuti quelli dell’AIED, per un corso di educazione sessuale, e avevano molto insistito sulla necessità di usare il preservativo per evitare le gravidanze e le malattie veneree come la sifilide e la gonorrea. Di AIDS ancora non si parlava: stava per arrivare, ma nessuno poteva sospettarlo. Mio padre prese un’altra sigaretta dal pacchetto e l’accese. Poi la posò sul portacenere, dove rimase a consumarsi. Guardò un momento in alto, poi aggiunse: - Ste’, tanto vale che te lo dica: da parecchio tempo tua madre e io non abbiamo più rapporti e… Mio padre si interruppe. Intuii quello che era stato sul punto di aggiungere: stavano per separarsi. Ma in qualche modo il mio cervello si rifiutò di riconoscere quello che aveva colto. Mio padre riprese: - Con Beppe non usiamo mai precauzioni, ma se ci succede di scopare con qualcun altro, allora di solito usiamo il preservativo. - Con qualcun altro?! Ma allora te lo fai mettere in culo da tutti! Pensavo che questa volta mio padre mi avrebbe dato il ceffone promesso in altre occasioni, ma non si arrabbiò. Invece rise. - No, da tutti proprio no. Da Beppe sì. E, molto di rado, da qualcun altro. - Ma allora perché ti sei sposato? Mio padre alzò le spalle. - Un po’ perché mi piacciono sia la carne, sia il pesce, anche se con il passare del tempo ho capito di preferire il pesce. Un po’ perché pensavo di farmi una famiglia. E poi c’eri tu in arrivo. Sapevo che i miei si erano sposati quando mia madre era già incinta: io ero nato nemmeno sei mesi dopo il matrimonio. Era però la prima volta che mio padre lo diceva direttamente. Mio padre riprese: - Feci un errore, lo so. Non valutai le conseguenze. Ma sono contento che tu ci sia. Ci fu un momento di silenzio. La sigaretta accesa e non fumata si era trasformata in cenere. Non sapevo che cosa dire. Ero frastornato. Ancora una volta fu mio padre a parlare: - Ste’, avrei preferito parlartene e l’avrei fatto prima di tornare a Milano. Ma – e qui mio padre sorrise – hai scelto di spiarci. Avevo preso le mie precauzioni, ma non pensavo che tu entrassi prima di noi e ti nascondessi nell’armadio. Rimasi pietrificato. - Come cazzo hai fatto a scoprirlo? - Come cazzo ho fatto? Ci sono le impronte delle tue suole nell’armadio. Quando ho visto che la porta non era chiusa a chiave, e sapevo benissimo che io l’avevo chiusa, ho capito subito che cosa era successo e perché da due giorni eri così strano. Sono andato a controllare. E dato che a quasi sedici anni non hai ancora imparato a pulirti le scarpe quando entri in casa… – feci per parlare, ma mi bloccò con un gesto – non decentemente, almeno, te l’ho detto: nell’armadio c’erano le tue impronte. Io annuii: - Credevo che vi metteste a dormire, invece di lavorare. Volevo sorprendervi. - E ci hai sorpreso. Eccome. In flagranza di reato. Mio padre rise, poi disse: - È difficile accettarlo, Ste’? Io scossi la testa. Non sapevo se fosse difficile o meno. La confusione che avevo in testa non era diminuita, tutt’altro. Ma non ero più teso come prima. Riuscire a parlarne con mio padre mi faceva sentire meglio. - Adesso ceniamo, poi ne riparliamo. Quando mi parlò di cena, mi resi conto di avere una fame da lupo e accettai subito la proposta. Dopo cena, seduti sul divano, mio padre mi invitò a chiedergli quello che volevo. Le mie domande erano confuse, ma le sue risposte erano precise. Scoprii che le prime esperienze di mio padre erano state proprio con Beppe, che c’era stato solo un periodo, dopo il matrimonio, in cui si erano allontanati e che poi erano ritornati a essere amanti. Mio padre mi parlò della difficoltà di essere gay in un paese e della necessità di nascondersi. Molto di ciò che diceva era anche un invito alla confidenza, ma solo alla fine mi disse: - Tu non hai mai avuto rapporti, vero, Ste’? - No. Ho solo quindici anni. - Sedici tra tre mesi. L’età in cui io e Beppe ci amammo la prima volta. Dopo una pausa, mio padre aggiunse: - Sai se ti piacciono gli uomini o le donne? O tutt’e due? Chinai il capo. - Non lo so. Non era vero. Lo sapevo, ormai mi era chiaro. Mio padre sorrise: aveva capito benissimo. - Se ti accetti, non è così difficile. Oggi è più facile di quindici anni fa. E a Milano… direi che è il posto migliore, per l’Italia, almeno. Era molto tardi quando andammo a dormire. Mio padre si spogliò come al solito, senza nascondersi. E nuovamente ebbi un’erezione. Questa volta mio padre non finse di non accorgersene. - Non vergognarti, Ste’. Sono tuo padre. E oltre tutto mi hai visto scopare. Ma se preferisci dormire in un altro letto o se vuoi che mi tenga gli slip, non c’è problema. Scossi la testa, ma non osavo spogliarmi. Mio padre andò in bagno e io incominciai a togliermi gli indumenti. Mio padre si coricò e poi mi stesi anch’io. - Ste’, domani mattina Beppe verrà come al solito, a meno che io non gli telefoni. Mio padre fece una pausa e aggiunse: - Ste’, domani mattina, o al massimo dopodomani, Beppe ed io scoperemo ancora: siamo tutti e due piuttosto attivi, sessualmente intendo. Vorrei che tu non ci spiassi. Ormai ci hai visto. Se vuoi vederci ancora, va bene. Ma non farlo di nascosto. È brutto spiare qualcun altro. Le parole di mio padre mi sorpresero. - Davvero saresti disposto a lasciare che io ti guardi mentre scopi? - Sì, Ste’. Ormai l’hai fatto. Se mi avessi chiesto prima, credo che ti avrei detto di no. Non lo so, in realtà. Ma adesso, che senso ha? Se mio figlio è un guardone, meglio che guardi me invece di un altro. Almeno non corre rischi. E impara qualche cosa. Mio padre rise. Ed io mi resi conto che il cazzo, già abbastanza duro, si tendeva ancora di più. - E Beppe? Beppe sarebbe d’accordo? - Di sicuro. L’idea che tu lo avessi visto gli piaceva. Lui è un po’ esibizionista, tu sei un guardone, siete fatti uno per l’altro. - E tu? Tu che cosa sei? Un esibizionista o un guardone? Mio padre rise di nuovo. - Forse un po’ di tutt’e due. Non sapevo se mi sarei sentito di guardarli. L’idea di vederli ancora mi tentava, ma ero sicuro che sarei stato mortalmente imbarazzato. Poco dopo mio padre mise la sua mano sulla mia, la strinse e mi disse: - Buona notte, Ste’. L’indomani mattina mi svegliai quando mio padre si alzò. Aveva un’erezione e non si nascose. Mi sorrise e disse: - Come vedi, il signore reclama un po’ d’attenzione, ma dovrà chinare la testa e aspettare l’arrivo di Beppe. Andò in bagno, si vestì e passò in cucina per preparare la colazione. Io mi alzai con comodo e lo raggiunsi. Parlammo ancora delle sue esperienze, ma non disse più nulla su quello che sarebbe successo in giornata. Beppe arrivò alla solita ora. Entrò in casa e ci trovò tutti e due rilassati e sorridenti. - Benvenuto, Beppe. - Grazie. Tutto a posto? - Sì, Ste’ ed io abbiamo parlato un po’. Direi che tutto è a posto. Sei d’accordo, Ste’? Annuii e poi mi sforzai di dire: - Sì. Beppe sorrise. Anche lui era contento che il problema si fosse risolto. Mio padre aggiunse: - Ste’ non ci spierà più, ma gli ho detto che al massimo, se proprio vuole, può venire a guardarci. - Insomma, spettacolo porno gratis, in prima fila e senza neppure pagare il biglietto. Credo di essere arrossito, ma dissi, cercando di nascondere l’imbarazzo sotto l’impertinenza: - Tanto ti piace essere guardato. Beppe rise, forte. - Puoi giurarci. Fosse per me lo farei pure sul palcoscenico, mentre un’intera platea di maschi arrapati mi guarda. Mio padre scosse la testa. Beppe mi strizzò l’occhio e disse: - Allora facciamo che andare di là e vediamo che effetto ti fa lo spettacolo visto da vicino? Guardarli ancora, senza nascondermi, era un’idea che in qualche modo avevo accarezzato dopo che mio padre l’aveva detto, ma non l’avevo presa davvero sul serio. Anche il discorso di mio padre aveva un senso diverso, era più un dirmi che non dovevo spiare, che era importante essere franchi, che tra noi non dovevano esserci sotterfugi. Infatti lui intervenne, dicendo: - Non ha mica detto che lo farà adesso. Se gli verrà voglia, magari. - Ma se ce l’ha già duro. Era vero: le parole di Beppe avevano dato forma precisa a un’eccitazione che il suo arrivo aveva provocato. I pantaloni non lo nascondevano abbastanza. Mio padre mi guardò, preso in contropiede. Poi sorrise e disse: - Ste’, non mi rimangio quello che ti ho detto, ma non lasciare che qualcun altro decida per te. Io mi vergognavo e cercai una scappatoia. - Un’altra volta, magari. Mio padre colse la palla al balzo: - Va bene. Un’altra volta. E adesso al lavoro, scansafatiche! Beppe scosse la testa, poco convinto, ma non disse niente. Mio padre trascinò Beppe verso l’ala della casa dove lavoravano. Prima di entrare nell’altra stanza, Beppe si voltò e mi strizzò l’occhio, sorridendo. Io uscii e mi diressi verso il boschetto, che in questi ultimi giorni era diventato il mio rifugio. Per quanto mi dispiacesse aver rinunciato, mi sentivo sollevato all’idea di non assistere: mi sarei sentito in un imbarazzo mortale. Adesso però l’idea che loro due stavano scopando mi eccitava e rivedevo nella mia testa le scene a cui avevo assistito nei giorni precedenti. Volevo farmi una sega, ma il bosco non era fitto e temevo di essere visto. Avrei dovuto scendere al torrente, dove avevo visto lo zingaro. Pensai di tornare a casa, ma sapevo che mio padre e Beppe dovevano essere a letto. Mi alzai di scatto e mi diressi verso il paese, sperando di incontrare qualcuno di mia conoscenza, che mi aiutasse a distrarmi. A pranzo avrei voluto chiedere se avevano scopato, ma non osavo. Beppe sembrava divertirsi del mio imbarazzo e ogni tanto mi guardava ghignando. Per due giorni me ne andai in giro come facevo abitualmente, ma la mia testa ritornava sempre a quello che mio padre e Beppe dovevano aver fatto – o stavano facendo. Il terzo giorno, Beppe mi chiese a bruciapelo: - Ma insomma, vieni a vederci sì o sì? Ne hai voglia, ma non ti decidi. Mio padre scosse la testa: - Piantala, maiale. Beppe rise. - Senti chi parla. Poi continuò, rivolgendosi a me: - In quanto a maiali, tuo padre non è secondo a nessuno, Ste’. Mio padre scosse di nuovo la testa, ma sorrideva. Beppe concluse: - Allora, ti decidi ad assistere allo spettacolo? Io mi lanciai, vincendo la vergogna che provavo: - Assisto volentieri. Pensavo davvero che avrei soltanto assistito, come uno spettatore che ha pagato un biglietto in una sala? Forse. Forse non mi ero posto la domanda. O forse era proprio la risposta che mi ero dato a spingermi a dire di sì. Mio padre mi guardò, poi scosse ancora una volta la testa. Si alzò e disse: - Andiamo. Seguii mio padre e Beppe nella camera in cui erano accatastati i mobili. Beppe si voltò e mi disse: - Adesso spogli tuo padre. Mio padre lo guardò di traverso: - Beppe, Ste’ fa quello che cazzo vuole, non quello che vuoi tu. - È quello che vuole, Davide. Vero, Ste’? Non avevo la più pallida idea di quello che volevo. Forse, più di tutto, in quel momento volevo fuggire via, ma non me ne sarei potuto andare neanche se avessi saputo che la casa stava per esplodere. Sorrisi, sforzandomi di apparire disinvolto. Ma non me la sentivo di spogliare mio padre, per cui dissi: - Magari spoglio te. - Molto volentieri. Mi avvicinai a Beppe e, con le mani che mi tremavano un po’, gli sbottonai i jeans e abbassai la lampo. Lui alzò le braccia e si sfilò la maglietta, rimanendo a torso nudo. - Dai, continua. Mi feci forza e gli calai i pantaloni. Indossava un paio di mutande e il gonfiore non lasciava dubbi sulla sua eccitazione. Beppe si chinò, si slacciò le scarpe e se le tolse, poi sollevò le gambe e rimase in mutande. - Forza, l’ultimo pezzo. Io lo guardavo. Il desiderio era violentissimo, ma non osavo. Fu mio padre ad arrivare dietro Beppe, infilargli le mani nelle mutande e calarle con un gesto brusco, mettendo in mostra il cazzo di Beppe, teso come una lama. L’avevo già visto, ma non così vicino, tanto vicino che sarebbe bastato allungare la mano per toccarlo. Però non lo feci, non me la sentivo. Lo guardavo e avevo la gola secca. Mio padre teneva le mani sul culo di Beppe, che disse: - Adesso spogliamo tuo padre, eh? Si girò, baciò mio padre sulla bocca, poi passò dietro di lui. Io guardai mio padre e provai l’impulso di fuggire via. Lui sorrise e disse: - Non ascoltare quello che ti dice ‘sto porco, Ste’. Fa’ soltanto quello che hai voglia di fare. Anche niente. Intervenne Beppe: - Come, niente? Spettacolo gratis, eh?! - Sei tu che dovresti pagare, dato che ti piace tanto essere guardato. Beppe mi strizzò l’occhio. - Ti va bene che sei il figlio di uno dei protagonisti dello spettacolo. E mentre lo diceva passò due mani sotto la maglia di mio padre e gliela sfilò, mentre mio padre alzava le braccia per permettergli di toglierla. - Dai, Ste’, ti ho fatto vedere come si fa. Slacciagli ‘sto cazzo di cintura. Mio padre indossava la cintura. Io slacciai la fibbia, ma non osavo andare oltre. Allora tirai la cintura, sfilandogliela. La lasciai cadere a terra, dove si stavano accumulando i diversi indumenti. Beppe mi prese una mano e la guidò fino al bottone dei jeans di mio padre. Feci quello che dovevo. Sforzandomi di celare il mio imbarazzo, abbassai la lampo. Anche mio padre ce l’aveva duro. Beppe fece scivolare a terra i jeans di mio padre, poi si chinò ai suoi piedi e gli tolse le scarpe. - Io metto una mano qui… E infilò le dita sotto lo slip di mio padre, sul lato destro, con il palmo della mano rivolto verso l’esterno e risalì fino a che le sue dita non superarono l’elastico. - …e tu la metti dall’altra parte. Lo feci. Potevo sentire contro il dorso della mano il calore della pelle di mio padre. Ero talmente eccitato che temevo di venire. - E adesso tutti e due caliamo e scopriamo la sorpresa. Beppe piegò le dita in modo da afferrare l’elastico e mosse lentamente la mano verso il basso. Io lo imitai. Ma quando il cazzo di mio padre emerse, grande e duro, la cappella rossastra che svettava, mi mancò il fiato e non riuscii a proseguire. Beppe finì da solo. Mio padre mi stava guardando. Io lo fissai per un momento, ma non riuscivo a leggere nei suoi occhi. Mio padre si scosse e mi sorrise. - Adesso, Ste’, direi che è meglio se ti siedi e ritorni spettatore. Beppe intervenne: - Secondo me l’angioletto vuole continuare. Mio padre continuò a sorridermi, mentre rispondeva a Beppe. - Se vorrà continuare, lo farà. Ma decide lui, non tu. Io feci un passo indietro, senza dire nulla. Mio padre si voltò verso Beppe e disse: - ‘Sta boccaccia del cazzo! E senza lasciargli il tempo di replicare, gli afferrò il viso con le mani e lo baciò. Beppe lo strinse vigorosamente, gli appoggiò le mani sul culo e abbrancò le natiche. Quando mio padre si staccò, Beppe si inginocchiò davanti a lui, sempre tenendogli le mani sul culo, e avvicinò la bocca al cazzo di mio padre. Percorse l’asta con la lingua due volte, poi inghiottì un coglione, lo lasciò, inghiottì l’altro e nuovamente passò la lingua, inghiottendo questa volta la cappella. Allora si fermò, mollò la presa, mi guardò e mi disse: - ‘Ste, è meglio se ti spogli anche tu. Altrimenti poi ti devi lavare le mutande. Se ne sei capace. Io sorrisi. Non sapevo che cosa fare, ma mi sembrava assurdo rimanere lì, completamente vestito, mentre loro due scopavano. Avrei dovuto lasciarli soli e andarmene oppure spogliarmi anch’io. Ma di andarmene non si parlava proprio, per cui mi tolsi la maglia, poi le scarpe, i pantaloni e infine gli slip. Beppe sorrise e disse: - Bravo! Mio padre si voltò, mi guardò e mi sorrise. Beppe gli mordicchiò il cazzo e mio padre sussultò. Si voltò verso di lui e gli diede un buffetto. Beppe ne approfittò per farmi segno di avvicinarmi. Mi rendevo conto che lui mi stava trasformando in attore, ma, per quanto fossi confuso e imbarazzato, non mi sottraevo, perché lo desideravo anch’io. Mi accostai. Ora eravamo tutti e tre vicinissimi, nudi e con il cazzo in tiro, Beppe in ginocchio e mio padre ed io in piedi. Il cuore mi batteva forte. Beppe si limitò a spostarsi leggermente e, prima che me ne rendessi conto, sentii il calore della sua bocca intorno al mio cazzo, mentre le sue mani scorrevano lungo i miei fianchi. Ebbi l’impressione di non riuscire più a respirare. Beppe lavorò un momento con la bocca. Io chiusi gli occhi. Mi sentivo mancare. Poi la tensione diventò intollerabile e venni. Beppe bevve ogni goccia, poi ripulì con cura e disse: - Direi che abbiamo rotto il ghiaccio. Beppe mi accarezzò delicatamente, poi mi strinse con vigore il culo e si alzò. Non guardai mio padre. Mi vergognavo, per quanto fosse assurdo. Lui si avvicinò e mi passò una mano tra i capelli, senza dire niente. Io lo guardai. Mi sorrise. - Ste’, puoi rimanere o andartene, senza dover spiegare niente né a me, né a quella testa di cazzo di Beppe. Beppe scosse la testa, fingendosi offeso, ma gli si leggeva in faccia che la faccenda lo divertiva. Poi, ignorando ostentatamente mio padre, si rivolse a me per dirmi: - Adesso, mentre lo spettatore recupera le forze e si prepara per il secondo round, lo spettacolo prosegue. Qualche preferenza? Scossi la testa, un po’ imbarazzato. Mio padre intervenne: - Te lo metterei volentieri in quella boccaccia del cazzo, Beppe. Così almeno stai zitto per cinque minuti. - Bene, così facciamo un confronto tra padre e figlio. - Piantala, Beppe. Lascialo un po’ in pace. Ora mio padre era irritato e Beppe lo colse. - Non dico più niente, lo prometto. Almeno per i prossimi cinque minuti… Mio padre scosse la testa, ma non replicò. Beppe fu di parola. In silenzio si inginocchiò davanti a mio padre e fece scorrere la lingua sul cazzo, dai coglioni alla cappella e poi in senso inverso. Quando arrivò nuovamente ai coglioni, passò dietro, mentre anche le sue mani lavoravano sul culo di mio padre. La lingua ritornò davanti e le labbra inghiottirono la cappella di mio padre. Beppe incominciò a succhiare, con molta lentezza. Mio padre rovesciò la testa all’indietro e chiuse gli occhi. Beppe allora staccò un attimo la testa, la girò verso di me e mi fece l’occhiolino, poi riprese subito a lavorare come se niente fosse. Mio padre gli accarezzava i capelli. Beppe proseguì nella sua azione e io lo guardavo affascinato. Dopo aver lavorato un buon momento, Beppe staccò di nuovo la testa e aprì la bocca per dire qualche cosa, ma si beccò un colpo in testa da mio padre. Beppe protestò: - Ehi, i cinque minuti sono passati. Avevi detto che dovevo stare zitto cinque minuti. - Appoggiati al letto, gambe aperte! E ringrazia che non ti metto la museruola. Beppe si mise come richiesto. Mio padre passò dietro di lui. Inumidì due dita con la saliva, le passò intorno all’apertura, piegò un po’ le gambe e poi inculò Beppe con una spinta decisa, che di certo gli fece male, perché Beppe sussultò. - Cazzo! Sono innocente! Mi appello alla Convenzione di Ginevra. Non puoi trattarmi così! - Posso trattarti molto peggio. Adesso ti faccio vedere. Ste’, passami la cinghia. Io presi la cinghia dei pantaloni, mentre mio padre assestava qualche spinta decisa a Beppe. Quando gli diedi la cintura, mio padre l’avvolse intorno alla mano e poi incominciò a sferzare il culo di Beppe, da una parte e dall’altra, con colpi decisi, che lasciavano segni rossi. Io sentivo l’eccitazione crescere. Il mio cazzo stava nuovamente rizzando la testa. Beppe non diceva niente. Gli vedevo il viso stravolto in una smorfia di dolore e piacere. Sudava e a un certo punto chiuse gli occhi, mordendosi un labbro. Mio padre smise di sferzarlo. Si chinò su di lui, lo baciò sulla nuca e poi lo strinse tra le braccia, sempre continuando a spingere con decisione, finché non emise un gemito e venne. Poi mio padre si stese sul letto. Beppe si stese perpendicolarmente a lui, appoggiandogli il capo sul ventre. Mio padre mi guardò, mi sorrise e tese una mano. Mi avvicinai. Mio padre mi guidò a stendermi di fianco a Beppe, la testa poggiata sul suo petto. Rimanemmo un buon momento distesi. Mio padre mi teneva una mano sul capo e ogni tanto mi accarezzava la testa. Io sentivo il calore del suo corpo. Stavo bene. Poi Beppe poggiò una mano sul mio cazzo e la tenne lì, senza però muoverla. Fu un momento bellissimo. Più tardi mio padre intimò: - E adesso al lavoro! - Ma Ste’ vuole ancora… Mio padre mollò una sberla a Beppe. - Ste’ vuole andare a fare un giro, mentre Beppe si mette al lavoro. Muoviti! - E va bene! Beppe finse di tenere il muso, ma non ci riuscì per nemmeno un minuto e mentre ci rivestivamo scoppiò a ridere. Me ne andai in giro. Mi sentivo bene, un po’ euforico, come quella volta che avevo bevuto di nascosto tre birre. Avevo le idee confuse e per la testa passavano strani pensieri. A pranzo né mio padre, né Beppe parlarono di quanto accaduto. Io mi stupii: ero sicuro che Beppe mi avrebbe stuzzicato. Sicuramente mio padre lo aveva catechizzato. A me andava bene così: mi evitava di trovarmi in imbarazzo. La sera mio padre mi sembrò assorto nei suoi pensieri. A cena parlammo della giornata, ma senza fare riferimento alla scopata a tre. Quando però ci coricammo, dopo aver spento la luce mio padre affrontò il discorso: - Ste’, ho pensato a quello che abbiamo fatto questa mattina. Te lo devo dire francamente: questa faccenda non mi convince. Mi sembra che non vada bene. Non è perché sei mio figlio, è che sei molto giovane... Io lo interruppi: - L'età in cui tu e Beppe incominciaste a scopare, no? Ero sicuro che stesse sorridendo, anche se nel buio non potevo vederlo. - Sì, ma eravamo tutti e due ragazzi, coetanei, ed esploravamo. Invece adesso io e Beppe siamo due adulti e tu un ragazzo. Mio padre era chiaramente in difficoltà. Capivo che ciò che avevamo fatto lo metteva a disagio, ma non sapeva lui stesso spiegare il perché. Proseguì: - Mi sembra che in qualche modo ti stiamo facendo bruciare le tappe. Ne ho parlato a lungo con Beppe, questa mattina. Anche se scherza sempre, sa affrontare seriamente un argomento. Lui dice che ho delle remore perché sono tuo padre e che quando avevamo la tua età saremmo stati ben felici se qualcuno ci avesse guidati alla scoperta del sesso. Ste', non lo so, te lo dico onestamente: ho le idee confuse. Non è che io avessi le idee più chiare di lui. Quello che avevamo fatto mi era piaciuto, molto, e non mi sembrava che facessimo niente di male, anche se ero in imbarazzo. Non ne avrei parlato con nessun altro, ma non mi sentivo in colpa e non capivo i motivi per cui mio padre fosse così incerto. Lui concluse: - Ste', preferirei che per qualche giorno tu evitassi di venire quando io e Beppe scopiamo. Ho bisogno di un po' di tempo per riflettere. Ma vorrei sapere che cosa ne pensi tu, Ste'. - Mi sembra che non ci sia niente di male. A me è piaciuto. Ma se preferisci che per qualche giorno io giri al largo, non è un problema. Mio padre mi sorrise: - Grazie, Ste'. Non ero così sicuro che non fosse un problema per me. Avevo quasi sedici anni e avevo appena scoperto il piacere. La mia testa poteva accettare l'idea di un periodo di astinenza, ma il mio corpo non era per niente d'accordo. Nei giorni successivi quando vedevo mio padre e Beppe entrare nell'ala della casa in cui lavoravano provavo una certa invidia. E andando in giro per il paese, mi rendevo conto di guardare gli uomini con altri occhi. Incontrando uomini che conoscevo fin da quando ero bambino, mi capitava di chiedermi se avevano rapporti con altri maschi, se gli sarebbe piaciuto scopare con me e se a me sarebbe piaciuto avere farlo con loro. Qualche giorno dopo il nostro rapporto a tre passai vicino a un campo dove Gino, che aveva due anni più di me, lavorava con suo fratello Menico e suo padre. Erano tutti e tre a torso nudo. A quella vista, tutt'altro che rara in campagna, il mio corpo reagì con un'intensità che mi spaventò. Scambiai due parole con Gino, cercando di far finta di niente, ma non riuscivo a staccare gli occhi da suo fratello, che aveva otto anni in più di lui. Menico era un uomo forte, con spalle larghe e braccia robuste. Stava lavorando alacremente e sul petto gli scorrevano rivoli di sudore. Menico si accorse che lo stavo fissando e per un attimo i nostri occhi si incrociarono. Non li distolsi subito. Menico riprese a lavorare, il padre richiamò Gino e io mi allontanai. Ma negli occhi mi rimase l'immagine di Menico. Il giorno dopo ripassai nel campo dove Gino lavorava con Menico e il loro padre, ma non erano più lì. Li trovai invece in un altro campo, non lontano. Passai a salutarli e scambiai due parole con Gino: lui però mi disse che non poteva fermarsi a lungo perché suo padre non voleva che lui interrompesse il lavoro. Sapevo che il padre di Gino era autoritario e violento, per cui non insistetti e mi allontanai. Lanciai un'ultima occhiata a Menico e di nuovo i nostri sguardi si incrociarono. Per il resto della giornata mi sentii alquanto turbato. Nel pomeriggio incrociai Menico vicino a casa mia. Non mi era mai capitato. Menico mi salutò e si fermò, sorridente. Anche questo era anomalo: eravamo piuttosto lontani come età, per cui non ci eravamo mai frequentati molto. Se ci incrociavamo, ci limitavamo a salutarci. Pensai subito che Menico non si trovasse a passare di lì per caso e intuii dove voleva arrivare. Il cuore mi batteva forte e avevo le idee confuse. - Sei venuto presto a Casalforte, quest'anno, Stefano. - Sì, mio padre voleva lavorare alla casa e io ero ben contento di venire via da Milano. - Già, per te stare in campagna significa vacanza. - E per te significa lavoro. Menico annuì. - Esatto, ma ogni tanto un momento libero me lo prendo anch'io. Mio padre mi farebbe schiattare. Oggi è dovuto scendere a Bardate. Questa sera mi romperà i coglioni perché il lavoro non è stato finito come voleva lui, ma chi se ne fotte? Menico sorrise. A me sembrò un sorriso da lupo, che mi spaventava e mi attraeva. Disse ancora: - Hai voglia di fare un bagno? Sapevo benissimo che cosa significava questo invito. Risposi: - Sì, volentieri. Avevo risposto senza esitare, ma ero molto agitato. Menico si diresse rapidamente al torrente, ma invece di fermarsi vicino al laghetto a monte del ponte, dove spesso ci si ritrovava in gruppo per bagnarsi, mi guidò lungo un sentiero nel bosco fino a un punto in cui la vegetazione, piuttosto fitta, offriva una buona protezione dagli sguardi. - Qui va bene, no? Annuii, incapace di parlare. Menico incominciò a spogliarsi. Non lo persi di vista nemmeno un attimo, mentre anch'io mi toglievo gli abiti. Avevo paura, in quel momento, una paura forte. Avevo voglia di scappare via. Quando si calò le mutande, mi bloccai, fissandolo. Aveva un bel cazzo, già proteso in avanti. Avevo la gola secca. Deglutii. Lui sorrise. - Ti piace, eh? Annuii. - Dai, succhiamelo un po'. Non l'avevo mai fatto, la mia unica esperienza era stata quella con Beppe, quando lui mi aveva fatto un pompino. Ma il desiderio di provare era forte, più della paura, e il cazzo di Menico mi attraeva. Non mi ero ancora tolto le mutande, d’improvviso intimorito. Mi misi in ginocchio davanti a lui. Menico sorrise. - Datti da fare. Non sapevo bene da che parte incominciare, ma mi feci forza e avvicinai le labbra alla cappella. La presi in bocca e mi misi a succhiare. Non so quanto Menico fosse abituato a farselo succhiare, ma non sembrò accorgersi della mia inesperienza. Era la prima volta che prendevo in bocca un cazzo, ma mi piacque, parecchio, anche se mi faceva un po’ senso. Il cazzo si irrigidiva, crescendo di volume, e ora mi sembrava enorme. Menico emise una specie di grugnito di soddisfazione e disse: - Adesso mettiti a quattro zampe, che te lo metto in culo. Mollai la preda, mi alzai e respirai a fondo. Avevo voglia di provare, ma al sentirglielo dire così provai paura, una paura irrazionale e violenta. Guardai quel cazzo minaccioso, umido di saliva. Scossi la testa. - No, Menico, non me la sento. Non gli dissi che non l’avevo mai fatto. Mi vergognavo. Menico scoppiò a ridere. - Eddai, troietta, è quello che vuoi, no? No, non me la sentivo. Menico mi attraeva, molto. Ma i suoi modi spicci e un po’ brutali mi spaventavano: sapevo che non sarebbe stato attento a me e temevo che mi avrebbe fatto male. La paura era troppo forte. Feci un cenno di diniego. - No, in culo no. Menico non si aspettava un rifiuto. Per un momento lo vidi incerto. Mi chiesi se non intendesse prendermi con la forza. Probabilmente l’idea di farlo lo tentava, ma temeva le conseguenze. Si rassegnò: - E va bene, allora finisci con la bocca. Annuii. Mi inginocchiai di nuovo e avvolsi con le labbra il cazzo e mi rimisi al lavoro. Poco dopo sentii la scarica e per la prima volta gustai il seme di un uomo. Succhiargli il cazzo mi era piaciuto, inghiottire lo sborro mi diede una leggera sensazione di disgusto. In parte ero pentito di quello che avevo fatto. Menico lasciò che io lo pulissi ancora con la lingua, poi si ritrasse. - Mica male, ci sai fare. Ma la prossima volta te lo metto in culo. Lo guardai negli occhi e gli dissi. - Non so, Menico. Io… non… Lui mi guardava divertito. Credo che avesse capito che sarebbe stata la prima volta. E l’idea di sverginarmi gli piaceva. Sospettavo che sarebbe passato ancora vicino a casa mia, quando ne avesse avuto la possibilità. L’episodio mi turbò molto. Mio padre se ne accorse. Scelse di affrontare l’argomento solo in serata. Dopo che fummo tutti e due coricati, spense la luce e chiese: - Che cosa ti è successo, oggi, Ste’? Tacqui. Desideravo parlargliene, ma mi vergognavo. - Qual è il problema? - Io… oggi… ho incontrato Menico… Non continuai, ma mio padre aveva capito. - Hai scopato con lui? - Io… lui… Capivo che la mia vergogna era assurda. Avevo fatto a Menico quello che Beppe aveva fatto a me in presenza di mio padre, ma ero comunque in imbarazzo. - Ste’, qualunque cosa tu abbia fatto con lui, non devi vergognarti. Mi farebbe piacere che tu me ne parlassi, perché vorrei poterti dare una mano. So per esperienza che non è facile, all’inizio. Che cosa avete fatto? Gli raccontai, usando giri di parole che io stesso giudicavo assurdi, visto che pochi giorni prima io e lui avevamo scopato con Beppe. Ma una cosa erano i discorsi che si facevano tra ragazzi, a cui io comunque fino all’anno prima partecipavo pochissimo; un’altra cosa era parlarne con mio padre. Quando ebbi finito, lui concluse: - E la cosa ti ha turbato. - Sì, non so… Non lo so, papà, non lo so. Cazzo! Che casino! - La vita è sostanzialmente un casino, Ste’, credo che tu stia incominciando a capirlo. E da noi il sesso è una delle principali fonti di casini, come se non bastassero i sentimenti e il lavoro. Comunque mi sembra di capire che un po’ ti è piaciuto e un po’ no. - Più o meno. Un po’ più o un po’ meno. Mi venne da sorridere, mentre lo dicevo. - C’è una cosa a cui devi fare attenzione, Ste’. - Che cosa? - Bada alle persone con cui lo fai. Se lo facessi con qualcuno che poi lo dice in giro… Casalforte è un paese, tutti si conoscono. Menico non è un coglione, credo che starà zitto: lui ha dieci anni in più di te e sa che potrebbe avere qualche guaio. Non gli conviene. Ma ce ne sono tanti che lo andrebbero a raccontare. Gente come Piero, quello che sta su alla fontana, e Berto, ad esempio. Quelli lo farebbero volentieri e poi non si porrebbero problemi a dire in giro che ti hanno fottuto in bocca o in culo. E tu ti troveresti in una bruttissima situazione. A questo aspetto non avevo pensato. Se gli amici avessero saputo... con che faccia mi sarei presentato a loro? D’improvviso fui preso dal panico. - Pensi che Menico potrebbe sputtanarmi? Mio padre mi aveva già detto che non era probabile. Ma io avevo bisogno di una conferma. Lui lo capì. - No, lo escludo. Quelli sono prudenti, evitano di correre rischi. Mi dissi che non avrei mai più provato. Non a Casalforte, almeno. Mi chiesi come fosse possibile che non avessi pensato a questo. Ma non mi era proprio passato per la mente. - Spero che tu abbia ragione. Mio padre mi strinse una mano. - Tranquillo, Ste’. In realtà mio padre non era così sicuro che Menico non avrebbe parlato, per cui elaborò con Beppe un piano di alta strategia. Due giorni dopo a pranzo mio padre mi disse: - Ieri ho parlato a Beppe del problema di Menico. Anche se è una testa di cazzo, Beppe intendo, non Menico, talvolta è in grado di usare la testa e non solo il cazzo. Beppe si finse offeso a morte e commentò: - Non dico che cosa penso di te, perché non voglio che questo povero innocente, che già ha la disgrazia di trovarsi un padre come te, scopra tutta la verità. Poi si rivolse a me: - Ieri sera al bar c’era anche Menico. Ho parlato dei lavori che stiamo facendo. Poi, in un momento in cui eravamo solo in quattro, ho buttato lì che tu ti eri fatto un bel ragazzo e che ti avrei volentieri fatto assaggiare qualche cosa, se non fosse per tuo padre, che non mi avrebbe più affittato la casa e mi avrebbe pure denunciato. - Non potrei denunciarti: dopo i quattordici non è reato, se il minorenne è consenziente. E poi non ti denuncerei: ti sparerei. Beppe rise, poi rispose: - Menico non ha la più pallida idea di com’è la legge. E puoi giurarci che starà zitto. Mi sentivo enormemente sollevato. - Grazie, Beppe. Sei un angelo. Mio padre sbottò, ridendo: - Questa, poi! Un angelo, lui? Ste’, ti sei bevuto il cervello. Quel pomeriggio stesso, subito dopo pranzo, feci un lungo giro e arrivai al sentiero che portava vicino alla casa dello zingaro. Ci passavo abbastanza spesso, nella vana speranza di vedere di nuovo la sua 127. Quel giorno c’era. Scesi immediatamente al torrente, con il cuore in gola. Muovendomi con molta cautela raggiunsi il posto dove lo avevo visto la volta precedente, ma non era lì. Percorsi un tratto del bosco lungo il torrente, ma non vidi traccia dello zingaro. Mi allontanai, ma dopo due ore ritornai. Neanche questa volta c’era. Il giorno dopo, in mattinata, ripassai vicino alla casa. La macchina c’era ancora. Non ero molto lontano quando vidi lo zingaro uscire dalla casa e scendere verso il torrente. Mi fermai, perché se lo avessi seguito se ne sarebbe potuto accorgere. Mi sedetti a terra e attesi una mezz’ora, poi scesi anch’io verso il torrente. Era disteso nello stesso posto in cui l’avevo visto la volta precedente. Con grande cautela mi avvicinai e raggiunsi il posto d’osservazione da cui lo avevo spiato la volta prima. Ce l’avevo già duro. Rimasi in osservazione a lungo, contando di poter assistere nuovamente alla scena dell’altra volta, ma lo zingaro rimaneva immobile. A un certo punto si girò sulla pancia. Guardai il suo culo e per la prima volta capii che cosa significava desiderare il culo di un uomo. Non so quanto tempo fosse passato: forse un’ora. Lo zingaro si era passato una mano sul petto e si era grattato un po’ i coglioni, ma non aveva fatto altro. La mia eccitazione era svanita ed ero deluso, ma vederlo nudo era comunque un gran bello spettacolo. A un certo punto si mise a sedere e si passò le mani su tutto il corpo, dal collo ai piedi, stiracchiandosi. Si accarezzò il cazzo, che aumentò un po’ di volume. Il mio si irrigidì immediatamente. Poi si alzò e si immerse nuovamente nella pozza, ma senza mettere sotto anche la testa. Riemerse grondante e cominciò a camminare nell’acqua. Ebbi una paura folle che si avvicinasse, che mi vedesse. Il cespuglio mi copriva davanti, ma di lato ero visibile. Lo vidi proseguire lungo il torrente, voltandomi la schiena. Fissavo il corpo asciutto e muscoloso, i fianchi stretti, alcuni tatuaggi sulla schiena e sul culo. Poi si voltò e venne verso di me. Non so quando mi vide: non ci fu nessun cambiamento nel suo atteggiamento. Soltanto uscì dall’acqua e risalì fino al cespuglio sotto il quale mi ero disteso. Ora era di fianco a me. Io lo guardavo da sotto, paralizzato. Ero imbarazzato e spaventato. - Cosa vuoi, ragazzo? Non sapevo che cosa rispondere. Sapevo di essere ridicolo in quella posizione assurda, ma non potevo alzarmi. Ce l'avevo di nuovo duro da scoppiare. - Alzati. Ubbidii, sentendo di non avere scelta, e in quel momento la vergogna mi sopraffece. Scattai per fuggire, ma mi bloccò il polso. - Un attimo, c'è un prezzo per lo spettacolo. Mi attirò a sé e mi baciò sulla bocca. Un bacio breve, leggero. - Ora puoi andare. Non mi mossi. Non avrei potuto. Le gambe non mi reggevano. Non riuscivo a stare in piedi. Gli scivolai addosso. Lui corrugò la fronte, fissandomi. - Non stai bene? Mi appoggiai con le mani sul suo petto. Non mi accorsi neppure di stringere. La sensazione di quella peluria leggera sotto le dita mi stordiva. Mi sfilò la maglietta e mi fece togliere i pantaloni e le mutande. Mi condusse poco oltre, in un angolo molto riparato. Si sdraiò sul dorso e mi fece sdraiare su di lui. Io lo lasciai fare, incapace di opporre resistenza. Non avevo più una volontà. Ora sentivo il suo cazzo contro il mio culo. Lo sentii irrigidirsi. Avevo paura, ma non ero in grado di oppormi, non lo volevo. Mi passò una mano sul torace e sul ventre, mi sfiorò appena il cazzo teso, per scendere ai coglioni e stringerli delicatamente. Poi le sue mani risalirono sul mio petto, mi afferrarono i capezzoli e li strinsero. Sentire il calore del suo corpo, su cui poggiavo, era bellissimo. Contro il culo vibrava il suo cazzo rigido. Non sapevo che cosa sarebbe avvenuto, ma non mi sarei sottratto. Le sue mani ritornarono ad accarezzarmi il ventre, poi una strinse con delicatezza i coglioni, mentre l’altra mi accarezzava il cazzo. Sentii l’ondata del piacere, intensissima. Chiusi gli occhi, gemendo, mentre venivo. Rimasi disteso su di lui. Era bellissimo stare così. Dopo un momento, lui disse: - Ora vai. Mi alzai. Avrei voluto ringraziarlo, ma non lo feci. Ora mi vergognavo. Mi lavai alla bell’e meglio al torrente e mi rivestii. Lo guardai, per salutarlo. Aveva ancora il cazzo duro. Le parole mi morirono sulle labbra. Fu lui a parlare. Disse: - Non tornare. Domani mi prenderei la mia parte. Annuii e me ne andai senza dire niente. Avevo bisogno di stare da solo e mi rifugiai sotto un albero lontano dalle case. Ciò che avevo provato con lo zingaro andava molto oltre le sensazioni che avevo provato con Menico. Era stato bellissimo e lui si era dimostrato molto attento a me. Non mi ero sentito minacciato, mi sembrava di potermi fidare pienamente. Mi chiesi se sarei tornato il giorno dopo. Sapevo benissimo che l’avrei fatto, ma fingevo con me stesso di prendere una decisione ponderata e di non lasciarmi guidare esclusivamente dal desiderio. Non c’era il rischio che lo zingaro parlasse in giro: era molto isolato e non andava a raccontare i fatti suoi agli altri, tanto che nessuno sapeva alcunché della sua vita. Da quel lato mi sentivo tranquillo. C’era il rischio che mi facesse male, ma mio padre e Beppe se lo prendevano tranquillamente in culo e doveva essere solo una questione di abitudine. Lo zingaro era ben dotato, ma non certo come lo avevano descritto Gino e Manolo. Ed ero sicuro che si sarebbe mosso con la cautela necessaria. C’era il rischio che mi trasmettesse qualche malattia, ma di AIDS non si parlava ancora, per cui le altre che conoscevo erano curabili, purché affrontate per tempo. Per un momento pensai anche di proporgli di usare un preservativo, ma sapevo benissimo che non avrei avuto il coraggio di farlo. Se avessi avvertito dei sintomi, ne avrei parlato a mio padre: sarebbe stato un po’ imbarazzante, ma potevo farlo. Così, dopo ponderata riflessione, decisi che avrei fatto ciò che fin dall’inizio avevo deciso di fare. Mi sembrava che le ore non passassero mai e a un certo punto pensai di scendere nuovamente al torrente. Perché rimandare a domani quello che si può fare oggi? Mia madre me lo diceva sempre per i compiti. Eravamo appena a metà del pomeriggio. C’era ancora tempo per provare qualche cosa di nuovo. Mi mossi in quella direzione, ma poi mi vergognai. Raggiunsi il paese e trovai due amici, con cui passai quel che restava del pomeriggio. La sera ero euforico, ma anche un po’ spaventato. A mio padre non dissi niente. Lui si accorse di qualche cosa: lo capii da come mi guardava, ma non chiese nulla. Sapeva essere molto discreto e percepiva, correttamente, che ero agitato, ma non avevo grossi problemi. Si limitò a chiedermi se andava tutto bene. Gli dissi di sì. Avrei voluto chiedergli qualche cosa sulle sue prime esperienze, ma mi mancò il coraggio. Quando ci coricammo, nel buio della stanza, mi chiesi se non parlargli dello zingaro, ma poi decisi di non farlo. Pensavo che l’indomani mi sarei svegliato prestissimo, perché ero molto agitato, ma dormii fino alla solita ora. Dopo colazione scesi al torrente, ma lo zingaro non era lì. Risalii verso la sua casa ed ebbi un tuffo al cuore quando mi accorsi che la sua auto non c’era. Se n’era andato? Non era possibile! Sapevo che era possibilissimo. Magari non sarebbe più tornato fino alla prossima estate. Una volta era stato via tre anni, senza che nessuno ne sapesse niente. Gironzolai un po’ e in mattinata feci in modo di ripassare da casa sua due volte, benché fosse un giro abbastanza lungo. Nessuna traccia né dello zingaro, né della sua auto. Ripassai nel pomeriggio, subito dopo pranzo, senza nessun risultato, ma al secondo tentativo vidi la sua auto. Mi sembrò che mi mancasse il fiato. Non avendo più visto la 127, la mia principale preoccupazione era stata che se ne fosse andato. Ora che sapevo che c’era, si risvegliò la paura per ciò che speravo succedesse: per quanto lo desiderassi, ero spaventato. Mi avvicinai alla casa e lo zingaro apparve sulla porta quando io ero a pochi passi. Indossava solo i pantaloni e un paio di vecchie scarpe. Mi guardò, senza sorridere. Di colpo mi vergognai e sarei voluto scappare via, ma mi sarebbe sembrato di fare una figura ancora peggiore. Lui mi guardò fisso, poi disse: - Vuoi entrare? Sapevo benissimo che cosa significava quella domanda. Annuii. Lui si voltò ed entrò in casa, senza dire nulla. Rimasi un momento a guardare la porta aperta, poi entrai anch’io. La stanza era piccola e conteneva poche cose: un pagliericcio su cui era stato buttato un sacco a pelo; un tavolo e due sedie; un mobiletto basso con un fornello da campeggio. C’era una porta che conduceva nell’altra stanza, ma era chiusa e pensai che l’altro locale non fosse abitato. Lo zingaro mi guardava. Ora mi sembrava che sorridesse, un sorriso appena accennato. Con gesti tranquilli, chiuse la porta, si sfilò le scarpe e si calò i pantaloni. Non portava niente sotto. Poi andò a distendersi sul sacco a pelo. Non mi rendeva le cose più facili. Se si fosse avvicinato, mi avesse stretto, tutto sarebbe stato semplice. Avrei lasciato che lui mi guidasse. Rimasi immobile, mentre lui mi osservava, tranquillo. Non c’era sfida nei suoi occhi. Sembrava dire: “Se mi vuoi, sono qui; se non mi vuoi, puoi uscire come sei entrato.” Mi avvicinai a lui. Guardai il suo corpo. Cercando di controllare il tremito delle mani mi spogliai. Esitai al momento di abbassarmi le mutande, ma poi lo feci. Allora lo zingaro mi tese un braccio. Gli porsi la mano. Lui l’afferrò e mi tirò verso di sé. Mi stesi su di lui e ci baciammo di nuovo. Fu bellissimo. Dopo avermi baciato più volte, infilò la sua lingua tra i miei denti. Aprii la bocca, confuso, e la sua lingua si spinse fino a incontrare la mia. Sapevo che esisteva il bacio “francese”, come lo chiamavano alcuni di noi, ma provarlo mi trasmise una sensazione inattesa, molto forte. Spinsi anch’io la lingua nella sua bocca. Intanto le sue mani mi accarezzavano la schiena e stringevano forte il culo. Una scivolò lungo il solco e sentii un dito premere contro il buco. Mi irrigidii, ma il dito indugiò solo un momento, poi andò oltre. Ritornò poco dopo e questa volta lo lasciai fare. Non mi spiacque la sensazione di questo dito che premeva, con un movimento circolare. Andammo avanti un buon momento a baciarci e abbracciarci. Inizialmente non presi nessuna iniziativa: lasciavo che fosse lui a stabilire i tempi, ma le sue carezze e i suoi baci fugarono i miei timori e il desiderio crebbe rapidamente. Lui mi stese sulla schiena e incominciò a percorrere il mio corpo con la bocca: mi baciò sugli occhi e sulle labbra, passò la lingua sul collo, morse i capezzoli e poi li succhiò, scese con la lingua fino all’ombelico e infine giunse al cazzo, ormai perfettamente teso e desideroso di accogliere la visitatrice. Ma lo zingaro non lo sfiorò neppure. Le sue mani risalirono lungo il petto fino al collo, mi accarezzarono una guancia, mi scompigliarono i capelli, poi scesero, mi tormentarono i capezzoli e solo alla fine di questo percorso strinsero con delicatezza i coglioni. Mentre la destra stringeva, la sinistra si appoggiò con il palmo aperto sul mio cazzo e si mosse, tracciando una specie di circolo, senza mai perdere il contatto con il cazzo che ardeva. Lo zingaro ripeté l’operazione più volte e io sentivo ondate di piacere salire dai miei coglioni e dal mio cazzo. Lo zingaro mi guardava, un sorriso tranquillo sulle sue labbra. Mi sembrava che fosse distante, infinitamente distante, in un mondo in cui io non potevo arrivare. Ma le sue mani erano con me e a un certo punto sentii che non potevo più contenere il piacere, che debordò. Mi mancò il fiato, mentre mi sembrava che tutto il mio corpo venisse attraversato da una successione di scariche. Chiusi gli occhi. Lui mi accarezzò ancora con dolcezza, poi raccolse il mio seme con uno straccio e mi voltò. Non chiese, non disse nulla. Sapevo che ora mi avrebbe posseduto, ma non provavo davvero paura. Sentii la sua lingua scorrere sul solco. Lo fece più volte ed era bellissimo. Gemetti di piacere. Lui continuò. Ogni tanto si interrompeva e mi mordicchiava con delicatezza il culo. Poi riprendeva a far passare la lingua e intanto le sue mani mi accarezzavano, dalla schiena al culo. Ora la sua lingua indugiava sul buco, pareva volerlo forzare. Io gemetti di nuovo: era troppo forte, troppo bello. Sentii il suo peso su di me e quasi senza che me ne rendessi conto, fu dentro di me. Non mi fece male, solo un po’ di fastidio, ma la sensazione era piacevole. Le sue mani mi accarezzavano la nuca, su cui deponeva dei baci. Poi mi morsicchiò una spalla e prese a muoversi avanti e indietro. Ora che aveva incominciato a spingere, a tratti era un po’ doloroso, ma era anche bello. Mi piaceva sentirlo dentro di me, mi piaceva il movimento deciso con cui avanzava e poi si ritraeva. Lentamente mi parve che tutto ciò che avevo intorno perdesse realtà e rimanesse solo il suo cazzo dentro di me, che avanzava fino in fondo e poi tornava indietro, per lanciarsi nuovamente in avanti. Non so per quanto tempo continuò. Arrivò infine il momento in cui prese a spingere con più vigore, accelerando il ritmo, e infine venne dentro di me con un gemito. Poi si girò sulla schiena e rimanemmo distesi, lui sotto di me, io appoggiato su di lui, il suo cazzo ancora in culo. Rimanemmo così per un tempo che mi parve infinito. Come ebbi modo di verificare quell’estate, lo zingaro sembrava non dare importanza al tempo. Il suo cazzo rimase una presenza piuttosto ingombrante nel mio culo, anche se non era più rigido e grande come prima. A un certo punto lo sentii uscire. Ogni tanto lui mi accarezzava il petto e il ventre, poi giocherellava un po’ con il mio cazzo, che stava rialzando la testa. Non ero abituato a rimanere inattivo, ma mi piaceva starmene disteso così. Dopo un po’, lui mi girò nuovamente sulla pancia e si stese su di me. Sentii di nuovo la lingua scorrere sul solco, poi mi prese, come prima. Questa volta però la sensazione fu diversa. Mi sembrava che a ogni sua spinta qualche cosa dentro di me rispondesse. E quando infine lui venne per la seconda volta, venni anch’io, con un gemito più forte. Tornò a voltarsi sulla schiena. Vide il sacco a pelo bagnato, ma non ci badò. Mi prese tra le braccia e mi tenne così. Stavo bene stretto a lui. Dopo un po’ però pensai che doveva essere abbastanza tardi e io dovevo tornare a casa. Glielo dissi: - Devo andare. Lui mi lasciò. Mi rivestii. Lui rimase disteso a guardarmi. Pensavo che si sarebbe alzato, che mi avrebbe dato un bacio di saluto, ma non si mosse. Vincendo la vergogna, gli chiesi: - Posso tornare domani? - Se ci sono, certo. Mi voltai per uscire, ma mi girai di nuovo e gli chiesi: - Come ti chiami? - Ismaele. E tu? - Stefano. - Arrivederci Stefano. - Arrivederci, Ismaele. Avvertivo un benessere profondo. Mi sembrava di stare benissimo. Arrivai a casa che era quasi l’ora di cena. Mio padre capì subito che mi era successo qualche cosa di bello. - Che hai, Ste’? Hai vinto la lotteria? Quando lo disse, mi sentii avvampare. Chinai il capo. Poi alzai lo sguardo su di lui, sorrisi e gli dissi: - Più o meno. - Direi che il primo premio dev’essere stato un bel cazzo o un bel culo. Mi vergognavo, ma annuii. - Tutto a posto? Non c’è stato nessun problema? - No, nessuno. È bellissimo. - Sì, lo è. E il giorno in cui lo farai con qualcuno che ami, scoprirai che è ancora più bello. Ismaele fu il primo uomo che mi prese e quell’estate mi accompagnò alla scoperta della mia sessualità. Mi prese molte volte, ma mi guidò anche a possederlo, offrendosi senza remore. Come sempre, anche quell’estate Ismaele andò via da Casalforte e vi tornò più volte, ma non rimase mai lontano a lungo e solitamente mi avvertiva prima di andarsene. Il nostro era un legame basato esclusivamente sul sesso, ma per me era splendido e credo che fosse molto bello anche per lui. Ismaele parlava molto poco. Non gli interessava né conoscermi, né farsi conoscere da me. I nostri dialoghi furono sempre ridotti al minimo, ma passavamo ore abbracciati. Per nulla al mondo avrei rinunciato a Ismaele. Quando gli amici incominciarono ad arrivare, dovetti inventare tutta una serie di scuse per poterlo raggiungere. Mio padre mi copriva, dicendo che ormai ero grande e che ogni tanto dovevo lavorare anch’io in casa. Nei giorni in cui Ismaele era via, passavo tutto il tempo con gli amici. Quando c’era, ricavavo sempre qualche ora da trascorrere con lui. Fu il mio apprendistato della sessualità. Non dell’amore. Quello venne più tardi e non fu altrettanto sereno. Ma di Ismaele conservo un ricordo luminoso. 2016 |