Un ordine per Roccanova

 

immagine2.jpg

 

A Ersilio Amoroso (ogni promessa è debito)

 

Mi alzo e mi allontano un po’ in direzione della parete rocciosa. Mi metto contro una roccia e tiro fuori l’uccello. Incomincio a pisciare. Catanese arriva e si mette vicino a me. Si sbottona i pantaloni ed estrae anche lui l’uccello, la “minchia”, come dice lui. Succede spesso: se mi apparto per pisciare, lui si mette al mio fianco. Io sbircio dalla sua parte: Catanese ha un uccello formidabile, lungo e scuro. “Un cazzo da negro” ha detto una volta Selvatico. Catanese è piuttosto scuro di pelle, Giobatta dice che devessere figlio di un soldato italiano e una donna libica, ma credo che se lo sia inventato. Giobatta ne conta, di storie.

Lo conosciamo poco, Catanese. Si è unito a noi solo quindici giorni fa. La sua banda si stava ricostituendo dopo l’inverno quando è arrivato il fascio: li hanno ammazzati tutti, lui solo è riuscito a scappare e ci ha raggiunto.

In azione è bravo, quando abbiamo attaccato Trenda ha dimostrato di avere i coglioni. Ha un’ottima mira e ha fatto fuori parecchi fascisti: li abbatteva come birilli, con un solo colpo. E a ogni fascista che cadeva, sorrideva soddisfatto: gli piace uccidere, come a parecchi di noi, a partire dal Selvatico, che se c’è uno da fucilare sarebbe disposto a rinunciare al pane per essere lui a farlo secco. E poi a scavargli la fossa: per quello non ha concorrenti, nessuno ci tiene, ma a lui piace.

Catanese non mi guarda. Piscia tranquillo, poi se lo smena un po’ per far cadere le ultime gocce – in realtà per farlo diventare più grosso e farmelo vedere così - e solo allora, mentre se lo rinfila dentro, mi guarda e mi sorride. Mi verrebbe da chiedergli che cazzo vuole, ma ho l’impressione di saperlo. Quello che non so, è che cazzo voglio io. Questo è il problema.

Questa notte Catanese si è messo a dormire proprio di fianco a me. Potevo sentire il calore del suo corpo contro il mio. Non riuscivo a prendere sonno. Lui si è addormentato subito. Avrei voluto staccarmi, ma nella stalla stiamo stretti e dall’altra parte avevo Giobatta. Quando mi sono svegliato Catanese era appiccicato a me e aveva una mano sul mio culo (nel sonno mi ero girato in direzione di Giobatta). Poteva essere casuale, certo: siamo ammassati nella stalla, capita che uno finisca addosso a un altro, ma io ci scommetterei la testa che non era un caso.

Basterebbe fargli capire che non mi interessa, la cosa finirebbe lì. Ma non dico niente. Quando lui si mette a pisciare vicino a me, do sempre un’occhiata. Mi piace guardarglielo, così grosso, così scuro. Mi piace e a volte penso che vorrei prenderlo con la mano, sentirne la consistenza, vederlo crescere fino a che diventa duro. E poi? Non lo so, ho una grande confusione in testa. Avrei paura di andare oltre. Avrei paura e mi piacerebbe. Merda!

Le donne mi interessano poco. Sono andato due volte a puttane, quando ero militare, più che altro perché i compagni mi prendevano in giro, dato che non ci andavo mai. Mi è bastato. Non ho provato niente. Ho fatto quello che dovevo, ma senza nessuna soddisfazione.

Altro non ho combinato. Adesso vivo come un monaco, una sega ogni tanto (di rado), ascolto il gran parlare di sesso che si fa qui in brigata e va bene così. Andava bene così, finché non è arrivato Catanese. Adesso non va più bene così. Sono irrequieto, voglio e non voglio.

Catanese ha fiutato l’aria, come un segugio, e ha individuato subito quello che aveva le idee confuse e poteva starci. Ma io non so se voglio starci o no. Non ho mai combinato niente con un uomo. Mi piacerebbe strusciarmi contro un altro uomo, mi piace pensare che un maschio come Catanese mi stringa, ma l’idea che possa baciarmi mi fa senso. E poi, andare oltre… Una sega forse gliela potrei fare, quello sì. Ma altro… Non lo so. E finisce che lo lascio fare, un po’ gli do corda, un po’ mi tiro indietro. Ho voglia e ho paura.

- Sono stufo di stare fermo. Che ne dici, ci facciamo una passeggiata?

Ecco, basterebbe dire di sì. Ci allontaneremmo dalla base e poi… Lo guardo. Basterebbe dirgli di sì. Poi non ci sarebbe bisogno d’altro, perché anche se non volessi, una volta che fossimo nel bosco, lui mi prenderebbe, con la forza, se occorre. Non è tipo da farsi tanti scrupoli.

- No, adesso no. Magari più tardi.

Ritorno all’accampamento. Lui torna con me. Non se l’è presa. È sicuro che prima o poi otterrà quello che vuole.

Ci sediamo davanti alla stalla, con gli altri. Catanese è a torso nudo: dice che gli piace sentire il sole sulla pelle. Chiacchiera, spavaldo come sempre. Racconta di quando ha teso un agguato a un tenente fascista. Dice che gli ha sparato venti colpi, perché gli piaceva vedere il corpo che a ogni proiettile sussultava, anche se era già morto. Dice che poi gli ha pisciato addosso, in faccia e sul petto. 

Ho ucciso anch’io. Siamo in guerra. Ma non me ne vanto. In realtà vorrei non averlo dovuto fare. Vorrei essere ancora quello che ero prima, un maestro elementare alle prime armi, un bel rapporto con i bambini, una vita serena. L’esercito e poi la guerra partigiana mi hanno cambiato. E non parlo dello sporco, degli abiti laceri, della fame e di tutto quello che comporta questa vita da braccati. È cambiato il mio modo di parlare, di agire, di vedere il mondo. Ho fatto cose che non avrei mai pensato di fare. Mi sono scoperto più forte, più sicuro, ma anche più duro. Non mi piace come sono diventato. Mi sembra di essere sporco dentro. E mentre lo penso, capisco che non mi piace Catanese come persona. Come maschio sì, molto. Mi attira e credo che prima o poi gli lascerò fare quello che vuole. Ma come persona no. Se fosse diverso, forse avrei meno remore a lasciarmi andare.

 

Vediamo sbucare un uomo dal sentiero di Doga. Se la sentinella lo ha lasciato passare, è dei nostri. E in effetti quando è più vicino, riconosciamo Mino: è già venuto alcune volte, a portarci ordini dall’alto. Chiamiamo il nostro comandante, che esce dalla baita a riceverlo.

Mino ha due comunicazioni, che porge al comandante, ma solo una è per noi. L’altra la dovremo portare noi alla brigata che sta a Roccanova.

Il comandante legge la comunicazione, con la fronte corrugata. Ci lancia un’occhiata che non promette niente di buono. Fa accomodare Mino nella baita e parla un momento con lui.

- Cazzo ci sarà in quell’ordine?

- Marca male.

- Sa anche a me. Qualche missione difficile, forse.

- Speriamo… potrebbe essere peggio.

- Merda.

Il comandante appare sulla porta.

- Pino, Selvatico, venite qui.

I due si alzano. Il comandante dice qualche cosa a voce bassa. Selvatico sorride. Mi dico che c’è qualcuno da ammazzare.

Il comandante si avvicina a noi, seguito da Pino e dal Selvatico.

- Catanese, alzati.

Catanese sembra impallidire, anche se con quella carnagione scura non è possibile dirlo con certezza. Obbedisce.

- Sei un bandito e nient’altro. Hai rapinato con i tuoi complici una villa, avete stuprato la figlia dei proprietari e ammazzato lei e il custode solo perché vi avevano visto e potevano riconoscervi.

Catanese si morde il labbro. Sa benissimo che è inutile replicare. Vero o falso che sia, ciò che è scritto nell’ordine è Vangelo. Si limita a dire:

- Erano fascisti.

Il comandante scuote la testa.

- Al muro.

Catanese si lascia accompagnare fino al muro della baita in rovina, quello che abbiamo già usato una volta per fucilare una spia. Si guarda intorno. Sa che non troverà solidarietà: non è uno di qui, non parla il dialetto, non è uno di noi. Io vorrei fare qualche cosa per fermare l’esecuzione, non perché il condannato è Catanese, ma perché queste fucilazioni senza nemmeno un processo mi sembrano orrende, ma la volta che ci ho provato, mi sono ritrovato in punizione, come nell’esercito.

Selvatico prende lo Sten. Ghigna. Ci scommetterei che lui ce l’ha duro. Catanese lo guarda senza battere ciglio. Ha fegato.

Noi ci mettiamo tutt’intorno. Nessuno vuole perdersi lo spettacolo. Mi chiedo come siamo ridotti se anche la morte di un uomo diventa uno spettacolo. Ma è sempre stato così: le grandi esecuzioni pubbliche attiravano folle immense. Io vorrei allontanarmi, ma non posso. Guardo Catanese e penso cose di cui mi vergogno.

Selvatico si prende il suo tempo. Vuole assaporare il momento. Qualcuno lo guarda con invidia. Catanese non perde la sua aria spavalda. Sta diritto, a torso nudo, le braccia abbandonate lungo il corpo. Sembra offrire il suo petto ai colpi.

Selvatico alza lo Sten e spara la raffica. È a due metri di distanza, forse meno. I colpi aprono il torace di Catanese da destra a sinistra, poi il ventre. Catanese viene scaraventato contro il muro. Il suo corpo si agita per l’impatto dei proiettili, poi crolla a terra. Ci avviciniamo a guardarlo. Il corpo si è piegato, la testa e il torace contro il muro, il culo e le gambe a terra.

Sulla pelle nuda si vedono tutti i fori delle pallottole, da cui esce ancora sangue.

Selvatico lo prende per un braccio e incomincia a trascinarlo verso il prato, dove scaverà la fossa. Il corpo sobbalza per le rocce e i pantaloni si abbassano e le mutande si lacerano. Viene fuori il cazzo di Catanese. È duro. Ho sentito dire che qualche volta succede con quelli morti ammazzati. Non mi era mai capitato di vederne uno. Quando Selvatico arriva al posto dove scaverà la fossa, Catanese è nudo, i pantaloni arrotolati alle caviglie. Ci avviciniamo a guardare. Diego gli toglie gli stivali e i pantaloni: possono servire.

Io fisso il grosso cazzo, teso come una lama. Mi sembra assurdo. Qualcuno ride.

- Questo pisciava sui cadaveri, no?

È stato Galletto a parlare. Si sbottona i pantaloni e piscia in faccia al morto. A me sembra orribile. Con quest’uomo abbiamo combattuto, a Trenda si è dimostrato valoroso. Non è una spia, un nemico. Certo, è un bandito, ma ha pagato per questo.

Intanto anche altri imitano Galletto. Quando Selvatico, che è andato a prendere la pala, torna, si incazza:

- Porco d’un dio, nella fossa lo gettate voi, adesso. Di certo non mi sporco le mani.

- Lo mandi giù a calci.

Il Selvatico incomincia a scavare. Ogni tanto guarda il cadavere. Io gli leggo negli occhi la soddisfazione. Mi allontano. Non ho voglia di stare con gli altri. Ma sento la voce del comandante.

- Piccolo, vieni qui.

Mi chiamano Piccolo (accidenti a mio padre e ai suoi 1,60. Io sono 1,63): non me lo sono scelto io il soprannome, ma per tutti sono Piccolo.

- C’è da portare quest’ordine a Roccanova. Parti domani prima dell’alba. Se non incontri il fascio o i tedeschi, a sera sei arrivato.

Il messaggio probabilmente contiene un’altra condanna a morte e in questo momento non mi va proprio l’idea di essere io a portarla. Ma l’idea di passare due giorni a camminare da solo non mi dispiace per niente. Cammino veloce, per questo il comandante manda spesso me se c’è da portare qualche messaggio. Va bene, ho bisogno di stare un po’ da solo.

 

*

 

Parto prima dell’alba, dopo colazione. Cammino spedito. Roccanova è in alto e di qui a là è tutto un saliscendi. Nove ore all’andata e sette-otto al ritorno. I rischi di incontrare fascisti e tedeschi non sono molti. Diciamo che il problema può porsi in Valgrande, sopra Bronzago.

Per un po’ mi godo la mattinata: il cinguettio degli uccelli, il vento tra i rami dei pini, le nuvole che si muovono lente in cielo, il sole che mi scalda quando cammino fuori dal bosco.

Poi ripenso a Catanese. Lo hanno ammazzato. Era un bandito. Gli piaceva uccidere. Ma non è quello il problema. Mi piaceva. Mi piaceva il suo corpo. Mi piaceva il suo cazzo. Avevo voglia di provare. Voglia e paura. Se non l’avessero ammazzato, prima o poi… Forse. Forse sarebbe successo questa stessa notte che è appena finita. O la prossima. Forse è meglio così.

Ripenso al suo corpo nudo, agli altri che gli pisciavano addosso. Riusciremo a scrollarci di dosso tutta la merda che questa guerra ha depositato su di noi? Torneremo a essere persone civili? So benissimo che alcuni dei miei compagni non lo erano già prima. La vita che conducevano, la miseria, la fame, l’ignoranza li avevano induriti. Non tutti sono stati fortunati come me, che ho potuto studiare, che non ho mai conosciuto la fame, prima di questi ultimi anni.

Quando incomincio a scendere verso Bronzago, scaccio ogni pensiero e mi concentro sul percorso. È il tratto più rischioso.

E in effetti quando arrivo sopra Bronzago, vedo dall’alto una colonna di camion militari sulla strada e nel paese. Merda! Se procedo rischio di finire nel bel mezzo di un rastrellamento. Devo stare più in alto, parecchio più in alto, il che vorrà dire camminare sulla neve. E dovrò fare parecchia attenzione.

Aggiro Bronzago, tenendomi bene alla larga, e non faccio cattivi incontri, ma le nove ore previste, dieci con le soste, sono diventate dodici. Sono esausto e ormai il sole sta tramontando. Devo trovare un rifugio per la notte: domani mattina raggiungerò la brigata a Roccanova e consegnerò l’ordine.

Mi guardo intorno. Andrebbe bene qualsiasi cosa: un fienile, una baita, un ricovero per gli animali. E dire che sono passato vicino a diverse borgate e ho visto tante case isolate, dove a questa stagione non c’è ancora nessuno, ma ora che ne avrei bisogno, si direbbe che non ci sia più una costruzione neanche a pagarla a peso d’oro.

Conosco poco questa fottuta valle in cui mi sono addentrato: è un’area isolata, in culo ai lupi molto lontana dalle strade. I rischi che qui arrivino i crucchi sono pochi, anche se non si può mai sapere.

Potrei anche dormire fuori: è primavera e non è più così freddo da rischiare l’assideramento, ma i nuvoloni che hanno coperto il cielo non lasciano presagire niente di buono. Pioverà, presto, e ho bisogno di un riparo, anche solo una cavità naturale.

Uscendo da una macchia d’alberi vedo quel che resta di un edificio. Doveva essere molto grande, ma è completamente in rovina: rimane solo qualche tratto di muro. Provo ad avvicinarmi: in fondo mi basta trovare qualche cosa che mi ripari dalla pioggia, non ho bisogno d’altro, anche se darei una gamba per poter mangiare un boccone: sono stato un coglione a portarmi poco da mangiare, pensando di raggiungere la brigata a sera. E adesso non ci vedo dalla fame.

Ho quasi raggiunto l’edificio.

Su un lato c’è una parte ancora in piedi. Probabilmente è un’unica stanza, ma va benissimo, è perfetta come rifugio per una notte. Mi dirigo a passo sicuro verso la porta, ma dalla finestrella mi pare di vedere una luce. Mi blocco. C’è qualcuno, allora. Merda!

Esito. Il sole è scomparso, tra poco sarà buio, le gambe non mi reggono più. Che cazzo posso fare?

Le prime gocce di pioggia mi danno una risposta. Poi c’è un fulmine, che illumina a giorno la valle, seguito da un tuono assordante, e dal cielo una valanga d’acqua si abbatte sulla terra, una pioggia torrenziale. Non mi do il tempo di pensare: a dormire all’aperto tutto fradicio rischio di rimanerci. Quel che non hanno fatto fascisti e tedeschi in un anno e mezzo, lo faranno freddo e pioggia. Quando arrivo alla porta della casa, pochi metri, sono bagnato fradicio.

Sibilo:

- Merda!

Guardo dalla finestrella, ma non c’è nessuno. Arrivo alla porta e la vedo socchiusa. La spingo e silenziosamente entro. La camera non è molto grande, ma contiene un letto, un armadio, un tavolo apparecchiato per una persona, tre sedie e un camino, in cui arde un fuoco. È una scena irreale, da fiaba. La casetta nel bosco…

E mentre lo penso, sento la pressione di una canna di pistola contro la schiena e una voce che mi intima:

- Alza le mani.

Merda! Non ho nessuna scelta. Se sono i fascisti, sono fottuto, mi fucileranno subito o, peggio, mi porteranno a valle per torturarmi ed estorcermi informazioni, prima di ammazzarmi, come hanno fatto con il Rosso e tanti altri.

La pressione contro la schiena non diminuisce, ma una mano mi sta passando intorno alla vita, trova la pistola e la sfila. La mano scompare e ritorna per completare la perquisizione.

- Sei un partigiano?

Inutile negare. Ho – avevo – una pistola e una lettera del comando.

- Sì.

- Va bene. Nessun problema, qui sei al sicuro. Sto dalla vostra parte, ma la pistola te la rendo solo quando te ne vai.

Se è davvero così, mi è andata bene.

- Puoi abbassare le mani e voltarti.

La pressione contro la schiena svanisce, la porta viene chiusa. Mi volto.

L’uomo che ho di fronte è molto alto e ha una corporatura robusta. Io lo guardo dal basso in alto (accidenti ai 160 cm. di mio padre).

- Hai fame?

Annuisco, mentre una folle speranza si accende dentro di me.

- Sei arrivato al momento giusto. Stavo per mettermi a tavola.

Questo si chiama culo!

- Siediti mentre metto via le pistole. Sistemati dalla parte del camino, che ti asciughi un po’, altrimenti ti becchi un accidenti.

Ho incontrato un buon samaritano? Un gigante che mi punta una pistola addosso, ma si preoccupa di darmi ciò di cui ho bisogno? Mi sembra un sogno.

Mi abbandono su una sedia davanti al fuoco. Sono frastornato, non capisco bene la situazione, ma una sedia, il calore del camino, se c’è pure da mangiare è praticamente il paradiso, chiunque sia questo colosso che mi ha disarmato ma dice di stare dalla mia parte.

L’uomo è scomparso. Voltando la testa, vedo che una porta è stata aperta. C’è un’altra stanza?

L’uomo rientra. Mette un tagliere sul tavolo, toglie dal fuoco un paiolo e rovescia la polenta. Poi prende dall’armadio un piatto, un bicchiere e le posate e mi porge il tutto. Dopo aver tagliato la polenta, me ne dà una bella porzione e mette in tavola una forma di formaggio.

- Prenditi quello che vuoi. Ce n’è.

Sono senza parole. Posso davvero mangiare quanto voglio? Mi sembra che la fame di tutto l’inverno si risvegli in me. Mentre prendo un po’ di polenta, rischiando di ustionarmi, e assaggio il formaggio (formaggio vero, non croste rinsecchite), mi chiedo come sia possibile. La casa è un rudere, ma questa stanza è arredata, il camino funzionante, ci sono posate, piatti e bicchieri, il cibo è abbondante, anche se la guerra infuria, e il letto sembra pure avere le lenzuola pulite. Di nuovo questa impressione di vivere in un sogno o in una favola. Non è che mi hanno ammazzato i fascisti senza che me ne rendessi conto e che adesso sono in paradiso? O magari all’inferno e tra un minuto la casa sarà scoperchiata, la polenta si rivelerà merda e questo gigante prenderà a menarmi?

- Non sei muto, vero? Prima hai detto un “sì”.

Mastico e ricambio il sorriso dell’uomo. Non so bene da che parte incominciare. Butto lì:

- Mi chiamo Piero.

- Io Ettore.

Continuiamo a mangiare, senza dire altro. Incomincio a rilassarmi. Non è un sogno, posso davvero mangiare a sazietà. Se sono morto senza accorgermene, devo davvero essere andato in paradiso. Quando abbiamo finito con la polenta, Ettore tira fuori due mele e me ne porge una.

- Grazie.

Mi guardo intorno mentre addenta la mela.

- Ma

Mi blocco. Non sono ben sicuro, non so se posso chiedere.

- Che c’è?

- Com’è che questa stanza è ben sistemata, c’è tutto… il resto è una rovina e siamo lontani dai paesi.

- Questa un tempo era la casa che i miei bisnonni si erano fatti costruire. È crollata molto tempo fa, ma questa stanza è rimasta in piedi. L’ho risistemata io, perché sapevo che avrei avuto bisogno di un posto tranquillo in cui stare. L’ho attrezzata di tutto l’occorrente e due giorni fa mi ci sono trasferito.

Lo guardo. Poi chiedo, a bruciapelo:

- Perché hai bisogno di un posto in cui stare?

- Perché se mi beccano quelli che vorrebbero beccare anche te, finisco come finisci tu. Il podestà di Bersi ha pure promesso di tagliarmi le palle prima di farmi fucilare. E adesso che gli americani stanno per arrivare, vuole mantenere le promesse.

- Ma tu non sei un partigiano.

Non è una domanda. Sono sicuro che non lo è.

- No, sono un medico. Ma le mie idee le conoscono tutti, sanno che ho curato anche partigiani feriti e aspettavano solo un pretesto per farmi la pelle. Ho preferito filarmela prima che il podestà possa attuare i suoi propositi. Avevo preparato tutto per questa evenienza.

- Non pensi che possano venirti a cercare qui?

- No, tutti credono che della casa rimangano solo più macerie e da basso non si vede questa camera. E se si avvicinano fascisti o tedeschi, i pastori mi avvisano.

Annuisco. Ettore riprende:

- E tu?

- Un incarico da parte del comando.

- Per la brigata che sta a Roccanova?

Annuisco. Posso dirlo senza timore: non è un segreto che la brigata operi in quell’area. Ogni tanto i fascisti cercano di stanarla e allora la brigata si sposta, ma poi ritorna.

Ettore riprende:

- Ne ho curati diversi di loro. E l’ultima volta qualcuno mi ha visto e ha fatto la spia. Tra i proprietari della bassa vallata non sono popolare, anche se quando stanno male vengono da me.

- Conti di rimanere qui a lungo?

- Spero che gli americani arrivino presto fin qui, allora potrò tornare in paese. Se torno adesso, finisco al muro. Qui c’è tutto l’occorrente e posso contare sull’appoggio di tanti.

Sappiamo tutti che gli americani si preparano all’ultima offensiva, la guerra è agli sgoccioli, ma non sappiamo se è questione di giorni o di mesi.

- I tedeschi possono arrivare. Erano a Bronzago.

- Lo so, me l’hanno detto. Se si avvicinano verranno a dirmelo. Possiamo dormire tranquilli.

Ettore volta la testa verso il letto.

- Dovrai accontentarti di un terzo del letto: io occupo il resto.

Ettore sorride e aggiunge:

- Mi spiace, ma sono piuttosto grosso.

- Un terzo di letto è molto di più di quanto mi sarei mai sognato per questa notte. È molto di più di quanto ho avuto negli ultimi mesi.

Ettore ride. Ha una bella risata. Si alza, lava i piatti e riordina. Io lo lascio fare e mi guardo intorno, notando nuove cose: lo scaffale con qualche libro, la lampada, gli utensili. Questa camera è perfettamente attrezzata.

- Hai preparato tu tutto? La stanza, i mobili, intendo.

- Sì, mi piace lavorare con le mani.

- Perché mi hai preso la pistola?

- Perché non sapevo che tipo eri. Tra i partigiani c’è di tutto, alcuni che si spacciano per partigiani ma sono solo banditi e altri che sono teste di cazzo.

Sorrido. So che Ettore ha ragione.

Quando Ettore ha sistemato tutto, la camera è quasi completamente al buio, perché il fuoco nel camino si sta spegnendo. Ettore dice:

- Io mi metto a dormire. Preferisco coricarmi presto. Ma se vuoi rimanere sveglio, accendo la lampada.

- No, anch’io ho bisogno di un buon sonno.

Ettore si avvicina al letto e si spoglia, rimanendo in mutande. Sono abituato a vivere gomito a gomito con altri uomini, in un’intimità forzata, ma vedere il corpo di Ettore, così vigoroso, mi trasmette una sensazione strana. Mi sembra di avere la gola secca.

Mi spoglio anch’io, tenendo canottiera e mutande. Quel che rimane di canottiera e mutande. Logore e sporche.

È splendido stendersi su un letto, con un materasso, tra le lenzuola. Una sensazione fantastica.

Mi addormento subito, un sonno profondo che mi inghiotte completamente.

 

Dalla finestrella si vede un vago chiarore: l’alba non è lontana. La camera è immersa nell’oscurità. A svegliarmi è Ettore, che si alza e piscia in un vaso da notte, poi torna a letto. Io lo imito. La stanza è fredda, mentre sotto la coperta, di fianco a Ettore, si sta bene. Nessuno di noi due parla.

Tra poco sarà bene alzarsi e andare, ma si sta così bene a letto e in ogni caso sarà opportuno fare colazione prima di affrontare altre ore di marcia: devo aspettare che Ettore si alzi.

Ora che sono sveglio, avverto il calore del corpo di Ettore al mio fianco: mi ha tenuto caldo lui più della coperta. Giro la testa verso di lui e gli sorrido. Il viso di Ettore è a una spanna. Ettore ha gli occhi aperti e mi sta guardando. Nell’oscurità che ancora avvolge la stanza lo posso appena vedere, ma c’è qualche cosa di inquietante nel modo in cui mi fissa. Forse è solo un effetto del buio. Preferisco voltarmi su un fianco, dando la schiena a Ettore.

Ettore si muove e si avvicina a me.

Il suo corpo quasi aderisce al mio e mi sento mancare il fiato.

Mi sposto rapidamente e scendo dal letto.

- È ora che vada.

Sono turbato, anche se cerco di nasconderlo.

Anche Ettore scende dal letto.

- Va bene, preparo la colazione. Non è proprio il caso che tu ti metta in strada senza aver mangiato. Ci sono almeno sei ore per raggiungere Roccanova.

Sorrido, cercando di scacciare i pensieri che mi infastidiscono.

- Grazie.

Ettore si infila i pantaloni, poi accende il fuoco, si lava e si asciuga.

- Vuoi lavarti?

- Grazie.

Ettore esce e butta via l’acqua che ha usato per lavarsi. Ne prende altra per riempire la bacinella.

Mentre mi lavo, lui mette a scaldare del latte.

La colazione è costituita da pane, burro e miele, con il latte. La migliore colazione che abbia fatto negli ultimi mesi. Mi viene da pensare che Ettore deve essere ricco: in tempo di guerra sembra che non gli manchi nulla. Dico:

- Tra un po’ salta fuori anche il cioccolato.

Ettore ride.

- No, il cioccolato no. Di quello che producono da queste parti, ho di tutto, ma niente cioccolato. Non ho contatti con gli americani.

Mangio in fretta. Quando ho finito, Ettore scompare nell’altra stanza e torna con la mia pistola. Me la rende.

- Grazie, Ettore.

- Buon viaggio, Piero. Magari ci vedremo dopo la fine della guerra, se saremo tutti e due ancora vivi.

- Mi farebbe piacere. Passerò da Bersi per offrirti un caffè.

- D’accordo. Ti aspetto. Se invece il podestà mi ha beccato, mi porti un fiore al camposanto.

Lo dice sorridendo, ma non scherza: sa benissimo che potrebbe capitargli. Lo ha messo in conto.

- Saremo noi a beccare lui.

Saluto Ettore e mi rimetto in marcia. Il terreno è ancora bagnato per la pioggia della notte, ma il cielo è sereno. Procedo spedito: un buon sonno e una buona colazione sono un eccellente carburante.

Poco dopo mezzogiorno arrivo in vista di Roccanova. Tutto appare tranquillo. Consegno il messaggio al comandante, che lo legge e se lo mette in tasca, con un generico “Va bene.” Non deve trattarsi dell’ordine di fucilare qualcuno e questo mi fa piacere. Non avrei voglia di assistere a un’altra esecuzione.

Mi offrono da mangiare (dopo il pasto di ieri sera e la colazione mi sembra davvero una miseria, ma non è peggio della nostra dieta quotidiana). Mi chiedono se voglio fermarmi per la notte, ma anche se partissi domani prestissimo non riuscirei ad arrivare a destinazione in giornata: probabile che a Bronzago ci siano ancora i fascisti, per cui dovrò girare alla larga. Allora tanto vale che parta adesso, così mi fermo per strada e domani sera sarò con i miei compagni.

Mi danno un po’ di pane e mi rimetto in marcia. Mi sono riposato un’oretta e mi sento in forze. Vediamo fin dove arriverò. E mentre lo dico, mi rispondo che so benissimo dove voglio arrivare. A casa di Ettore. Per dormire un’altra notte in un letto, mangiare abbondantemente e parlare un po’ con lui. Solo questo? Mi fermo. Ho la sensazione di aver ricevuto una mazzata. Mi siedo. Che cazzo mi sta succedendo? Questa mattina non c’è stato niente. Io ho guardato dalla sua parte, lui si è avvicinato, il letto è stretto per due, basta muoversi un po’ per finire addosso all’altro. Io mi sono alzato e tutto è finito lì. E adesso? Che cazzo voglio adesso? Intendo ripetere con lui l’esperienza con Catanese, i miei voglio, no, non voglio?

Mi rialzo, incazzato. Mi sembra di essere del tutto stupido. Non passerò da Ettore, mi cercherò un rifugio da qualche altra parte. Procedo a passo spedito, ma non riesco a recuperare la tranquillità. Per un bel pezzo rimango nervoso, insoddisfatto. Solo dopo qualche ora il nervosismo svanisce e ritorno sereno.

Quando il sole tramonta sono di nuovo dalle parti di Ettore. Ero intenzionato a proseguire e cercare un rifugio più a valle, ma adesso mi sembra stupido. Mi dirigo verso la sua casa. Non c’è luce all’interno. Busso alla porta, ma nessuno mi risponde. La porta è chiusa. Provo a chiamarlo, ma non ricevo risposta. La cosa più sensata sarebbe scendere e cercare un altro rifugio, ma ho voglia di rivedere Ettore, di parlare un po’ con lui. Mi siedo sulla porta. Il cielo non minaccia pioggia, mal che vada posso dormire qui vicino, così se Ettore arriva, lo sento. Sto per tirare fuori un po’ di pane, quando lo vedo arrivare. Ha una sacca sulle spalle.

- Ciao, Piero. Mi hanno detto che eri qui.

- Chi te l’ha detto?

- Uno dei pastori. Tengono d’occhio la zona e mi hanno avvisato che c’era qualcuno davanti alla porta. Ho pensato che fossi tu.

Lo dice con la massima naturalezza, come se si aspettasse che io ripassassi.

Ettore apre la porta e mi fa entrare.

- Devo darti la pistola?

Ettore sorride.

- No, non è necessario: sei una vecchia conoscenza.

Accende il fuoco nel camino e intanto mi chiede com’è andata.

- Tutto bene. Non ho fatto cattivi incontri e domani sera conto di essere rientrato alla base.

- E io questa sera ti offro volentieri una buona cenetta.

Dal sacco che ha portato con sé tira fuori della carne. Gli chiedo, ironico:

- Sei andato a fare la spesa?

- No, è il pagamento per una visita.

- Chi era il paziente?

- Biancona, una bella vacca.

Rimango un momento spiazzato.

- Ma… non mi avevi detto che sei un dottore? Sei un veterinario?

Ettore ride di nuovo, mentre si mette a preparare da mangiare.

- Mio padre è veterinario. Voleva che lo diventassi anch’io e mi portava sempre con lui quando non dovevo studiare. Ho passato intere estati a girare per le fattorie e gli alpeggi assistendolo. Quando avevo diciott’anni mi disse che ormai ne sapevo più di lui e che avrei potuto superare gli esami e laurearmi in metà del tempo. Io allora gli rivelai che intendevo iscrivermi a medicina.

- Come la prese?

- Malissimo, soprattutto all’inizio. Mi minacciò di non pagarmi gli studi. Mi disse che facevo male, che le bestie erano molto meglio degli uomini. Poi si rassegnò. Ma ho continuato ad accompagnarlo per diversi anni e adesso non è raro che i pastori si rivolgano a me. Oggi mi hanno chiamato per un parto difficile.

- Certo che sai fare di tutto: medico, veterinario e pure cuoco.

Ettore si rabbuia, ma è solo un attimo. La sua voce cambia, ogni traccia di allegria è scomparsa.

- Mia madre morì quando avevo tredici anni. Avevamo una domestica per le pulizie, ma a cucinare non era brava e comunque mio padre non voleva una donna per casa. La domestica veniva il mattino, puliva, lavava e preparava pranzo, ma poi scompariva. Io incominciai a occuparmi della cena. Pian piano ho imparato almeno l’essenziale.

- Cucini ancora per tuo padre?

Ettore scuote la testa.

- No, lui si risposò, quando io ero all’università. E quando ritornai, andai a vivere per conto mio. Lo accompagno ancora qualche volta nelle sue visite, se ho tempo. Ma…

Non completa la frase e io non chiedo. C’è un momento di silenzio. Poi la domanda di Ettore mi sorprende:

- E tu che fai di bello? Che facevi, intendo, come civile. Hai studiato, vero?

Annuisco.

- Ero maestro, ma ormai è una vita che non insegno.

- Tornerai presto a insegnare. Ed è un bellissimo lavoro.

- Non so se sarò ancora in grado… dopo questa guerra…

Non so come spiegare, ma Ettore ha capito perfettamente:

- Riprenderai a farlo e lo farai ancora meglio. Hai dovuto tirar fuori anche la parte peggiore di te, ma quando potrai riprendere una vita normale, te ne sbarazzerai. E l’esperienza di questi anni ti aiuterà a capire meglio e a insegnare meglio.

Mi chiedo come abbia fatto a cogliere quello che provo: non ho avuto modo di formularlo. Ma lui l’ha capito e mi dice che non devo preoccuparmi. E in qualche modo mi pare di potermi fidare delle parole di questo sconosciuto che mi ha visto due volte in tutta la sua vita.

Continuiamo a parlare. Ci raccontiamo episodi della nostra vita prima e durante la guerra. Dopo aver cenato, rimaniamo seduti sulle sedie. La stanza sprofonda nel buio e a me sembra di non essere mai stato così bene. Erano anni che non riuscivo a parlare con qualcuno come ho fatto con Ettore.

- È tardi. Ci mettiamo a dormire? Prometto di non invadere il tuo terzo di letto.

È l’unica allusione a quanto è successo in mattinata. Io ironizzo:

- Già ti prendi i due terzi…

- Lazzarone, il letto è mio. Smontato e rimontato con le mie mani. Potrei farti dormire sullo scendiletto, se ci fosse.

Ci stendiamo e mi addormento subito.

 

Mi sveglio con le prime luci dell’alba. Ettore è già sveglio. Come ieri, si alza per pisciare, poi ritorna sotto le coperte. Io faccio lo stesso. Dovrei alzarmi e andare, ma mi piace stare disteso accanto a lui.

- Dormito bene?

- Benissimo.

Mi giro verso Ettore. Come ieri notte, si è messo a dormire a torso nudo e posso vedere la peluria su quella parte del torace che sporge dalle coperte. Gli sorrido. Anche lui sorride e il suo sorriso mi turba. Mi rendo conto che lo desidero, un desiderio violento. Basterebbe che mi alzassi per spezzare la tensione che avverto, ma rimango disteso a guardarlo. Basterebbe che allungassi una mano perché ciò che desidero si realizzi, ma non muovo un dito.

- Che c’è, Piero?

Scuoto la testa. Non so che cosa dire. Lui riprende:

- Mi sembra che tu non sappia bene quello che vuoi.

Anche questa volta ha azzeccato.

Gli rispondo, con la voce che mi trema:

- Tu lo sai? Quello che voglio io?

- Quando mi guardi così un’idea ce l’ho.

- E sarebbe?

- Se ti volti dall’altra parte te lo spiego.

Dovrei ridere e alzarmi. La faccenda finirebbe lì. Ma mi volto. Ettore si avvicina a me, fino a che il suo corpo aderisce al mio, il suo braccio sinistro mi cinge la vita e la sua destra mi cala le mutande con un gesto rapido.

Paralizzato, chiedo:

- Che cazzo fai?

Ma la mia voce è spenta, l’ho detto come se gli avessi chiesto l’ora. Sono frastornato. Ettore non risponde. La mano che mi ha calato le mutande ora mi afferra il cazzo e i coglioni in una stretta forte, ma che mi piace. Mi agito un po’, cercando di liberarmi, senza convinzione, ma Ettore è molto più forte e mi impedisce di sfuggire alla presa. Lo sento ridere.

- Non mi sfuggi.

Il corpo di Ettore aderisce al mio e contro il culo posso sentire la pressione del suo cazzo, rigido e teso, mentre la sua mano continua a stringere e stuzzicare il mio. E d’improvviso mi assale la paura, una paura selvaggia. Nessun uomo mi ha mai preso. Il braccio di Ettore mi blocca e mi impedisce di liberarmi. I movimenti della sua mano accendono il mio desiderio, ma la paura è più forte di tutto. Urlo:

- No, no!

Ettore mi lascia immediatamente. Si stacca e si alza. Si infila i pantaloni e poi si lava, senza dire nulla.

Mi alzo anch’io. Ettore sta già preparando la colazione. Non ha detto una parola.

- Scusami, Ettore. Io… non me la sento.

- Scusami tu, Piero. Mi sembrava che lo volessi davvero, anche se eri incerto. Non volevo proprio spaventarti.

Si volta e mi sorride.

- Sono perdonato?

- Non hai niente da farti perdonare.

Sono io che mi vergogno. L’ho provocato e poi mi sono tirato indietro.

Ettore mette in tavola la colazione. Mangiamo e lui mi sorride. Mi fa bene il suo sorriso. Quando mi congedo, mi dice:

- Se ne usciremo vivi e verrai a trovarmi a Bersi, magari avremo modo di parlarne serenamente.

- Grazie Ettore.

Non è un grazie solo per il cibo e il letto. È molto di più e credo che lui l’abbia capito benissimo. Ettore sa cogliere al volo. Ci stringiamo la mano e me ne vado.

Camminando penso a Ettore. Mi spiace di aver reagito in quel modo, sono stato stupido. Voglio, no, non voglio. Come con Catanese. Ho fatto la figura del coglione. Ma ho l’impressione che lui non se la sia presa, che mi abbia capito. E di colpo ho voglia di tornare da lui, di gettarmi tra le sue braccia. Vorrei che lui mi abbracciasse, mi baciasse. Sì, ho voglia di farmi baciare da lui. Da Catanese no, non avrei voluto. Ma da Ettore sì. Sono stato proprio un coglione.

Se ne usciremo vivi, andrò davvero a trovarlo a Bersi.

Dopo quattro ore di cammino, arrivo nell’area più pericolosa. Ho evitato Bronzago, ma i fascisti potrebbero essersi spinti fin qui. Perciò mi muovo con cautela e raggiungo un punto da cui posso avere una visione d’insieme della valle dove dovrei scendere.

Vedo immediatamente una pattuglia di fascisti non molto lontano da me. E più avanti, sull’altro versante, parecchi soldati. Merda! Sono finito in pieno rastrellamento. Di scendere di qui non si parla neanche. Di passare da Bronzago, non è proprio il caso. Non posso procedere. Devo tornare indietro. Posso raggiungere la brigata di Roccanova e rimanere con loro finché il rastrellamento finisce. C’è un’altra idea, naturalmente, ma la scarto. Non me la sento di tornare da Ettore dopo la scena di questa mattina.

 

A metà pomeriggio sono a mezz’ora dal rifugio di Ettore. Se salgo direttamente verso il passo, come la volta scorsa, ci passo davanti. Preferisco scendere: risalirò più avanti. Passando in basso, mi imbatto in diverse case. Forse sono stato poco prudente a tenermi così in basso. Decido di risalire un po’.

Me li trovo di fronte di colpo a una svolta del sentiero, a pochi metri di distanza: quattro soldati in divisa. Merda!

- Fermati!

Se avessi la minima possibilità di fuggire, ci proverei: se mi fermano sono fottuto. Ma sono troppo vicini, prima che riesca a sparire tra gli alberi, mi avranno riempito di piombo. Cosa che comunque faranno un po’ più tardi.

I quattro si avvicinano, tenendomi sotto tiro. Uno mi perquisisce e trova la pistola.

- E questa? Sei un bandito.

Qualunque cosa io dica, non cambierà nulla, ma ci provo lo stesso:

- No, sono sfollato, mi sono procurato quest’arma perché so che ci sono tanti banditi in giro.

Mi colpisce con il calcio del fucile allo stomaco. Non è un colpo violento, per fortuna, ma mi piego in due.

- Piantala, stronzo, lo spiegherai al comando.

Un altro soldato interviene:

- Se lo portiamo al comando, non riusciamo più ad arrivare al Trucco. Fuciliamolo subito.

Discutono un momento. Discutono se ammazzarmi subito o dopo, come se io non fossi presente, come potrebbero discutere se mangiare pane e salame o pane e formaggio. Ma uno mi tiene sotto tiro, senza abbassare la guardia, e un altro mi lega le mani dietro la schiena.

Infine decidono di portarmi alla “villa”. Non so che cosa sia questa villa. Non deve essere molto lontana, per cui potranno lasciarmi là e riprendere la loro strada e arrivare alla borgata dove sono diretti.

Magari riuscirò a scappare. So benissimo che non è vero, ma mi serve illudermi.

Scendiamo, due davanti a me e due dietro. Nessuna via di fuga.

La villa è proprio una costruzione elegante, con due soldati davanti alla porta.

- Avete pescato un altro pesce?

- Sì, un pesciolino con pistola.

- Potevate fucilarlo subito.

- Lo mettiamo con l’altro, poi il podestà decide che cosa farne.

Entriamo nella villa e mi fanno scendere una rampa di scala: intendono chiudermi in cantina. Al fondo delle scale ci sono due porte. Aprono quella di destra e mi spingono in una stanza spoglia, immersa nella penombra. Contro il muro è seduto un uomo. Faccio fatica a non urlare il suo nome: è Ettore.

Richiudono la porta dietro di me.

Ettore si avvicina, scuotendo la testa.

- Hanno catturato anche te. No!

Sembra disperato. Aggiunge:

- Ti credevo lontano.

- Ho dovuto tornare indietro. C’è un rastrellamento in corso. Mi sono fatto prendere come un coglione. Ma tu? Sono arrivati alla casa?

Ettore scuote la testa.

- No, sono sceso per un uomo che si è ferito tagliando la legna. Poi mi hanno chiamato per un altro malato. Troppo in basso, troppe persone che mi hanno visto. Una terza chiamata era un tranello e mi hanno beccato. Questa è la villa del podestà di Bersi. Questa sera si diverte con me. Poi mi fa fuori.

Rabbrividisco. Non voglio che facciano del male a Ettore. Ma non posso certo impedirlo.

Ettore mi chiede:

- Sei legato?

- Sì.

- Aspetta, magari riesco a sciogliere il nodo.

Ettore ha le mani libere e non fa fatica a slegarmi.

Poi torna a sedersi. Io mi siedo accanto a lui.

- Mi spiace, Piero. Speravo proprio che tu fossi con i tuoi compagni.

Io sono annichilito all’idea che Ettore venga torturato e ucciso.

- Ettore, sei un medico, non possono ucciderti, non hai fatto niente…

Ettore mi interrompe.

- Ho curato diversi partigiani. Lo sanno benissimo.

- Ma adesso che la guerra sta finendo… Ucciderti senza un processo significa firmare una condanna a morte.

- Il podestà di Bersi l’ha già firmata la propria condanna a morte, lo sa benissimo, con tutto quello che ha combinato durante la guerra. Adesso vuole solo ammazzare quelli che considera i suoi nemici, prima di essere ammazzato lui o magari di scappare seguendo i tedeschi in ritirata.

Non riesco ad accettare l’idea che Ettore muoia.

- No, non è possibile, no!

Ettore mette la sua mano sulla mia.

- Calmati, Piero. Tu avevi la pistola, vero?

- Sì.

- Che cosa gli hai detto?

- Che ero uno sfollato, ma non è che mi hanno interrogato. Avevano altro per la testa. L’hanno capito che sono un partigiano.

Ettore annuisce.

- Spero che ti portino giù a Bersi. Magari ti scambieranno con qualche fascista prigioniero.

È una possibilità, ma molto remota: i miei compagni non hanno modo di sapere che sono prigioniero.

La stanza è quasi completamente al buio: fuori sta calando la sera.

Penso che morirò presto e che Ettore morirà prima di me. Non posso reggere l’idea della sua morte. Guardo la finestrella: piccola, chiusa da un’inferriata.

Mi alzo e mi dirigo alla porta. Troppo spessa, impossibile sfondarla. E anche se ci riuscissimo, ci sentirebbero.

- No, no!

Ettore è dietro di me. Mi mette una mano sulla spalla.

- Calmati, Piero. Ce la puoi fare. Magari riuscirai a fuggire mentre ti portano a Bersi. O…

Lo interrompo:

- Ettore, non voglio che tu muoia.

La mano sulla mia spalla stringe un po’.

- Ho accettato di correre dei rischi, Piero. Va bene così.

Mi volto di scatto, le lacrime agli occhi.

- No, non va bene così.

- Piero…

Lo guardo. Riesco appena a vederlo, nel buio della stanza. Mi avvicino a lui, gli prendo la testa tra le mani, guidandola verso il basso, in modo che le nostre labbra si incontrino. È la prima volta che bacio un uomo ed è bellissimo. Quando mi immaginavo di baciare Catanese, mi faceva senso, ma baciare Ettore è la cosa più bella di questo mondo.

Ci baciamo tre volte, poi Ettore apre la bocca e la sua lingua preme contro le mie labbra, si apre la strada, passa tra i denti. Rimango senza fiato. Lascio che per due volte la sua lingua entri nella mia bocca e ne esca, poi spingo la mia nella sua bocca.

Ettore mi sussurra:

- Vuoi?

- Sì, sì!

Lo vorrei urlare. Non posso morire, non posso vedere Ettore morire, senza che ci siamo amati.

- Non ci possiamo spogliare, possono arrivare in qualsiasi momento.

Ettore mi bacia ancora, poi le sue mani incominciano a percorrere il mio corpo e sono due tizzoni al cui contatto brucio.

Anche le mie mani lo accarezzano, si infilano sotto la maglia e la camicia, poi, con un coraggio che non pensavo di avere, scivolano in basso e attraverso i pantaloni stringono il cazzo di Ettore, già teso e gonfio di sangue. Lo voglio dentro di me, voglio che mi prenda, voglio essere suo.

Ci baciamo e ci accarezziamo ancora. Poi Ettore mi guida ad appoggiarmi al muro, le gambe divaricate, le sue mani mi abbassano i pantaloni e mi stringono con forza il culo. Si china, sempre tenendo le mani sul mio culo. Sento un po’ d’umido sul solco: Ettore ha sputato e ora la destra si stacca e sparge la saliva, premendo contro l’apertura. Lo ripete tre volte.

- Se ti faccio male, dimmelo.

Ettore tira un po’ indietro il culo, poi la sua destra mi stringe i coglioni e il cazzo, anch’esso rigido. Sento la pressione della cappella contro il buco. Si muove pianissimo e io dico:

- Sì, Ettore, sì.

Avanza. Mi fa male e mi tendo. Lui se ne accorge e si ritrae. Aspetta un momento prima di riprovare e le sue labbra mi baciano sul collo. Una seconda volta avanza un po’ e si ritrae. Il dolore è più forte. Ho paura. Lo voglio, ma ho paura. Poi mi morde con decisione il lobo di un orecchio e mentre lo fa entra dentro di me. Distratto dal morso, quasi non me ne sono accorto e non mi sono teso: mi ha fatto meno male di prima e ora sono contento di sentirlo dentro di me, grande e caldo.

Mi cinge la vita con le braccia, mi bacia ancora e, dopo avermi lasciato il tempo di abituarmi, avanza ancora. È doloroso ed è bellissimo, fa male, ma è quello che desidero.

- Vuoi che esca, Piero?

- No, no. Rimani.

C’è una pausa, poi Ettore incomincia a muovere il culo avanti e indietro, spingendo il suo cazzo a fondo nel mio culo e poi ritraendolo quasi completamente. Va avanti così a lungo e la sua destra mi accarezza i coglioni, mi stringe il cazzo, mi scivola sulla bocca. Sento che il piacere sale dentro di me, al ritmo incalzante di questo cazzo che mi trafigge.

Le spinte di Ettore diventano più violente e io sento il suo seme rovesciarsi nelle mie viscere, mentre il mio si spande contro il muro.

Non credevo che si potesse provare un piacere così forte.

Sono intontito. Lui mi bacia ancora sul collo e mi sussurra:

- Grazie.

Scuoto la testa. Sono io che vorrei ringraziarlo.

Ettore mi aiuta a rivestirmi e si rassetta. Poi si avvicina al muro e sento – perché ormai non si vede più nulla – che sta pisciando.

- Per coprire l’odore. Non voglio fargli venire strane idee.

Sì, se capissero che abbiamo scopato, potrebbero decidere di violentarmi o violentare Ettore. E mentre lo penso, mi rendo contro che non potrei accettarlo. L’idea che possano stuprarlo mi annichilisce. E non voglio che qualcuno mi prenda, dopo che sono stato di Ettore.

Piscio anch’io contro il muro, poi ci mettiamo contro la parete opposta.

Ettore mi prende la mano e la stringe.

Riprendiamo a parlare. Ci raccontiamo cose del nostro passato, ma tutti e due tendiamo l’orecchio ai rumori che possono provenire da fuori.

Dopo un po’, Ettore appoggia la mano sulla patta dei miei pantaloni. Io faccio lo stesso con lui.

A un certo punto sentiamo il rumore di un’auto.

Ettore sussurra:

- Il podestà.

Il rumore si avvicina e l’auto di ferma davanti alla villa.

Ettore mi prende una mano, la porta alla bocca e la bacia.

- Addio, Piero. Addio, amore.

E mentre sento le lacrime salirmi agli occhi, l’inferno si scatena, senza nessun preavviso. Una raffica di mitra, urli, colpi isolati, altre grida, nuove raffiche.

Rimaniamo muti, senza osare neppure respirare, ponendoci mille domande a cui nessuno dei due può rispondere.

Ancora spari, grida, dentro la casa, ora. Poi rumori di passi. Qualcuno scende le scale. Ci alziamo. Ettore lascia la mia mano. La porta viene aperta, la luce accesa. Davanti a me il comandante della brigata di Roccanova, Morsi.

- Felice di trovarla, dottore. E felice di trovare anche te, Piccolo. Sapevo che avevano catturato un partigiano, ma non riuscivo a capire chi fosse.

Ettore e io siamo tutti e due muti, incapaci di parlare. Ettore è il primo a ritrovare la parola.

- Comandante, come…

Morsi risponde alla domanda non formulata:

- Avevamo ordine di giustiziare quella carogna del podestà.

Si interrompe e mi guarda:

- È l’ordine che hai portato tu, Piccolo.

Morsi si volta verso Ettore e riprende:

- Volevamo scendere a Bersi questa sera per farlo fuori, ma abbiamo scoperto che sarebbe salito alla villa, perché i suoi avevano catturato il dottore. Ottimo: una buona occasione per ucciderlo senza avere subito addosso tutta la guarnigione e per di più la possibilità di liberare anche il dottore. Due piccioni con una fava. Poi ci hanno detto del partigiano.

Ettore sorride e dice:

- Tre piccioni con una fava…

Anche Morsi sorride e annuisce.

- E adesso andiamocene.

Usciamo dalla cella. In cima alla scala c’è il corpo di un soldato. Fuori ce ne sono altri e la jeep del podestà, il cui cadavere giace a terra.

Morsi si rivolge a Ettore:

- Dottore, che intende fare?

- Torno al mio rifugio. È un posto sicuro e i pastori mi avvisano se ci sono movimenti di truppe.

Morsi poi chiede a me:

- E tu, Piccolo? Non puoi ancora tornare alla tua brigata, il rastrellamento è in corso. Rischi di farti beccare di nuovo e questa volta non è detto che qualcuno arrivi a liberarti.

Prima che io apra bocca, Ettore si rivolge a me:

- Potresti venire da me. Puoi aspettare là che il rastrellamento sia finito.

Sorrido, mentre il cuore va a mille. Morsi osserva:

- Mi sembra una buona soluzione, Piccolo, ma tocca a te scegliere.

- Farò così. Grazie. Grazie, comandante. Le dobbiamo la pelle.

Gli uomini di Morsi si stanno radunando. Alcuni hanno dei fagotti: hanno certamente razziato la dispensa.

Ettore e io ci avviamo verso il rifugio: ci vogliono oltre due ore di marcia alla luce incerta di una mezza luna che a tratti le nuvole coprono. Non ce ne importa niente. Nei tratti più bui i nostri corpi si sfiorano, le nostre mani si stringono. Ogni tanto, all’ombra di un albero, ci abbracciamo e ci baciamo, una felicità folle in cuore.

 

2014

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Area aperta

Storie

Gallerie

Indice