| L’assedio 
 a E.M.Forster Aziz pedalò fino alla casa
  del dottor Goldenberg. Era molto presto, ma aprile era arrivato e il giorno portava
  una cappa di calore intollerabile: salire in bicicletta in cima alla collina
  sotto il sole incandescente non sarebbe stato possibile. Adesso, poco dopo
  l’alba, c’era ancora un po’ della frescura della notte. Di certo il dottore
  era già alzato: Aziz lavorava con lui da quattro anni e ne conosceva le
  abitudini. Aziz passò davanti alla
  casa e svoltò nel vicolo laterale. Frenò subito e scese dalla bici: preferiva
  portarla a mano perché il fondo era molto sconnesso e spesso c’erano detriti.
  Gli era accaduto due volte di forare una gomma.  Raggiunse infine la
  porticina laterale del muro di cinta. Mise una mano in tasca e ne tirò fuori
  la chiave che il dottore gli aveva dato. Aprì la porticina, introdusse la
  bici, l’appoggiò contro il muro e richiuse la porta a chiave. Il dottore era
  stato molto gentile a dargli la chiave, così Aziz poteva andare e venire
  liberamente e non doveva lasciare la bicicletta ai servitori, che lo
  guardavano con ostilità: erano induisti e non apprezzavano l’amicizia che
  legava il loro padrone al giovane chirurgo musulmano. Una volta avevano
  lasciato la bici vicino all’ingresso, senza sorvegliarla, ed era stata
  rubata. Dalla casa non proveniva
  nessun rumore, ma nelle stanze che si aprivano sul giardino viveva solo il
  dottore: la casa era divisa in due parti, che comunicavano solo attraverso
  una porta, e il giardino in cui si trovava Aziz non poteva essere raggiunto
  dall’edificio in cui stava la servitù. In origine le stanze in cui viveva il
  dottore e il giardino costituivano gli appartamenti
  femminili di una casa signorile. Il dottore aveva fatto effettuare molti
  lavori, ma aveva mantenuto la divisione della casa in due settori,
  comunicanti attraverso un’unica porta. Aziz avanzò verso lo
  studio del dottore. Guardò dalla finestra, ma Goldenberg
  non era lì. Possibile che stesse ancora riposando? Aziz costeggiò la parete
  fino alla camera successiva, dove dormiva il dottore. La porta era spalancata
  e attraverso la zanzariera si vedeva benissimo il grande letto dove
  Goldenberg dormiva, completamente nudo. Aziz avrebbe voluto
  fuggire, ma non riusciva a staccare lo sguardo dal corpo robusto che aveva
  visto tante volte coperto dagli abiti. Era la prima volta che lo vedeva nudo. Era un corpo possente, che
  gli anni avevano appesantito senza infiacchirlo. Lo sguardo di Aziz indugiò
  sul viso, sulla barba grigia, i capelli corti, che stavano diradandosi alle
  tempie. Poi scese al torace vigoroso, coperto da una peluria più fitta
  intorno ai capezzoli. Aziz avrebbe voluto voltarsi e andarsene o almeno impedire
  ai suoi occhi di proseguire il loro percorso, ma il ventre, anch’esso
  villoso, attrasse il suo sguardo, che poi scivolò ancora, fino all’uccello, e
  qui si fermò. Goldenberg ce l’aveva duro, una lama
  tesa. Niente di strano, un’erezione mattutina perfettamente normale in un
  uomo non più giovane, ma forte e sano. Aziz contemplò muto lo spettacolo che
  si offriva ai suoi occhi, mentre ogni altra cosa svaniva. Poi, di colpo, la vergogna
  lo sopraffece e si riscosse. Mentre stava per voltarsi e andarsene, i suoi
  occhi incrociarono quelli di Goldenberg, che ora erano aperti e lo fissavano. - Aziz! Aziz avrebbe
  voluto scomparire. - Scusi…
  dottore… mi scusi…
  io non sapevo… Goldenberg si era messo a
  sedere sul letto e aveva tirato il lenzuolo in modo da coprire il sesso.
  Sorrise e disse, in hindi: - Vieni dentro, Aziz. Non
  ti aspettavo. Il dottore parlava bene
  anche l’hindi e ad Aziz si rivolgeva soprattutto in quella lingua, anche se
  Aziz conosceva l’inglese.  Aziz non si mosse subito.
  Provava un desiderio violento di fuggire il più lontano possibile, ma sarebbe
  stato ancora peggio. Con un violento sforzo,
  entrò nella stanza, ma si fermò appena superata la soglia. Goldenberg sembrava
  perfettamente a suo agio. - Avanti, non ti mordo
  mica. Goldenberg rise. Aziz cercò di rimediare un
  sorriso, poco convinto. - Mi scusi,
  dottore. Non pensavo che dormisse ancora. Si rese conto che la sua
  osservazione sarebbe potuta apparire come un rimprovero e aggiunse: - Sono partito presto, per
  evitare il caldo, ma non mi sono reso conto dell’ora. - Ma no, hai fatto
  benissimo. Sono io che ieri sera non riuscivo a prendere sonno, così questa
  mattina ho dormito fino a tardi. È ora che mi alzi, in effetti. Ma dimmi
  perché sei venuto, Aziz. Il vero motivo della
  visita era semplicemente il desiderio di chiacchierare un po’ con il dottore:
  in ospedale non sempre era possibile e ad Aziz piaceva moltissimo conversare
  con Goldenberg. Ma naturalmente Aziz non avrebbe mai osato presentarsi a casa
  sua senza qualche motivazione legata al lavoro: Goldenberg era il suo
  superiore e non spettava certo ad Aziz autoinvitarsi. Il direttore
  dell’ospedale gli aveva detto di venire da lui liberamente e gli aveva
  persino dato la chiave della porticina laterale del giardino, ma l’invito
  andava inteso in relazione al lavoro. - È per lady Person, dottore.  Goldenberg annuì. - Meglio che mi alzi. Ne
  parliamo mentre faccio colazione. Tu l’hai già fatta? Mentre parlava il dottore
  si era alzato e nuovamente ad Aziz mancò il fiato. Gli sembrava davvero che
  l’aria non gli arrivasse ai polmoni. L’uccello di Goldenberg non era più
  teso, ma rimaneva piuttosto grosso. Il dottore si muoveva tranquillamente,
  senza mostrare il minimo imbarazzo, e non sembrava accorgersi del turbamento
  di Aziz. - Un attimo. Il dottore entrò nel
  bagno. Aziz guardava il letto disfatto e rivedeva nella mente ciò che aveva
  visto poco prima. Era completamente sconvolto, il cuore batteva
  freneticamente e gli sembrava di fare fatica a rimanere in piedi. Non
  riusciva a capacitarsi del proprio turbamento. Poco dopo il dottore
  riapparve sulla soglia.  - Vieni qui
  mentre mi faccio la doccia, così mi racconti. È meglio non parlare di fronte
  ai domestici. In realtà sarebbe bastato
  parlare in inglese, perché i domestici lo capivano pochissimo, ma Goldenberg
  era tanto attento a evitare di diffondere informazioni sui suoi pazienti
  quanto la servitù era pronta a coglierle e farle circolare. Aziz apprezzava
  la discrezione del dottore. Adesso però il problema
  era un altro. L’idea di rimanere vicino a Goldenberg mentre questi si lavava
  turbava profondamente Aziz. Ma come dire di no? E Aziz non era nemmeno sicuro
  di voler dire di no. Il corpo del dottore, che si offriva alla sua vista, lo
  attirava e gli confondeva le idee. Voleva guardarlo e nello stesso tempo voleva fuggirne lontano. Che cosa gli succedeva? Goldenberg era rientrato
  nel bagno e Aziz lo seguì. Nonostante l’enorme confusione che aveva in testa,
  pensò che nessun europeo a Chandrapore avrebbe mai
  fatto entrare un indiano nella stanza da bagno o in camera
  da letto, a parte naturalmente i servitori. Ma Goldenberg era del
  tutto diverso dagli altri inglesi, che frequentava pochissimo. Per qualunque
  altro europeo, un comportamento come il suo avrebbe comportato la completa
  esclusione dalla società anglo-indiana, ma
  Goldenberg aveva due carte vincenti: era un ottimo medico, di gran lunga il
  migliore di tutti quelli del circondario, ed era un eroe di guerra, decorato
  per il coraggio dimostrato in più occasioni per recuperare soldati feriti. La
  sua abilità di medico, le onorificenze ricevute e le due ferite gli
  permettevano di essere tollerato come un eccentrico, molto criticato, ma non
  ostracizzato. Il bagno di Goldenberg era
  quanto di più moderno si potesse immaginare a Chandrapore
  in quegli anni: probabilmente neanche il governatore aveva un bagno così
  attrezzato. Aziz osservò la stanza, finché non fu costretto a guardare
  Goldenberg, che gli stava parlando, mentre si lavava. Si sforzò di fissare la
  cicatrice sul torace, un lungo segno rossastro. - Allora, che cosa volevi
  dirmi di lady Person? Aziz cercò di concentrarsi
  su quanto aveva da dire. Poche cose, in verità, un dubbio sulla cura e
  soprattutto una richiesta di chiarimenti, perché si trattava di un caso
  anomalo. Goldenberg gli rispose, ma
  Aziz faceva fatica ad ascoltare. La sua mente era tutta nei suoi occhi, che
  divoravano il corpo nudo del dottore. Goldenberg sembrò accorgersi del
  turbamento di Aziz, perché chiese: - C’è qualche cosa che non
  va, Aziz?  - No…
  no… perché? - Mi sembri preoccupato.
  Qualche problema? Posso aiutarti? - No, no. Va tutto bene. Aziz si sforzò di
  sorridere e in quel momento avvenne ciò che vagamente
  temeva. Sentì il sangue affluire all’uccello e il desiderio avvampare. - L’aspetto di là,
  dottore. Si voltò e passò nella camera da letto, barcollando. Guardò il letto disfatto,
  rivide con la mente il corpo del dottore disteso, l’uccello duro, e dovette
  appoggiarsi per non cadere. Il dottore entrò in quel momento. - Aziz, che ti succede? Tu
  stai male. Non era una domanda. Aziz
  scosse la testa, appoggiato al letto. Chiuse gli occhi, ma poteva sentire
  l’odore del dottore, il calore del suo corpo vicinissimo. Di colpo ebbe
  voglia di piangere. Cercò di frenare le lacrime, ma ci riuscì a fatica. Goldenberg gli mise un
  braccio sulle spalle. - Aziz, siediti. Lo forzò a sedersi sul
  letto. Aziz teneva gli occhi chiusi, come se temesse, aprendoli, che il mondo
  esplodesse o sprofondasse. Ma il dottore era vicino a lui e gli teneva un braccio sulle spalle, con una tenerezza
  quasi materna, che in Aziz suscitava ben altre sensazioni. - Aziz, tu stai male. Aziz incominciò a piangere
  disperatamente. Il dottore gli fece
  appoggiare la testa contro la spalla e lo lasciò piangere, in attesa che si
  calmasse. Dopo un po’ le lacrime
  smisero di scorrere. Aziz si sentiva esausto, completamente svuotato. Il
  dottore lo fece stendere sul letto. Aziz avrebbe voluto protestare, ma non ne
  aveva la forza. Il dottore rimase seduto
  un momento di fianco a lui, guardandolo e sorridendogli, poi si alzò, si infilò le mutande, i pantaloni e la camicia. - Aziz, che cosa ti è
  successo? Aziz scosse la testa. Si
  sentiva debolissimo e aveva paura di riprendere a piangere se avesse cercato
  di parlare. E dentro di sé sentiva crescere la vergogna per quanto era
  successo. Aveva fatto una figura terribile davanti al dottore. Goldenberg non
  poteva essersi accorto della sua erezione, ma come giustificare la crisi di
  pianto?  Il dottore si sedette di
  fianco a lui. Gli sorrise, senza dire niente.   - Rimani disteso, Aziz. Ti
  faccio preparare una tazza di tè. Va bene? Aziz annuì. Quando il
  dottore uscì, si disse che doveva scuotersi dal torpore che lo aveva invaso.
  Non poteva rimanere disteso sul letto. Il letto! Era sul letto di Goldenberg,
  sullo stesso letto su cui il dottore dormiva nudo. Aziz si alzò di scatto,
  come se avesse preso una scossa. Guardò il giardino. Provò
  l’impulso di andarsene, ma sarebbe stato infantile. Aveva fatto una pessima
  figura e scappando avrebbe solo peggiorato le cose. Doveva trovare una scusa
  plausibile. Adesso era questo l’importante. Poi avrebbe cercato di analizzare
  e di capire che cosa era successo. Ma che cosa poteva dire? Goldenberg entrò. - Adesso portano il tè, ma
  perché ti sei alzato? Aziz parlò, cercando di
  controllare la voce. - Sto bene, mi scusi
  dottore, non so neanch’io che cosa mi ha preso. Non
  ho quasi dormito nella notte, perciò sono arrivato così presto, sono teso in
  questo periodo, ho qualche problema, nulla di serio, non vale la pena di parlarne… Non voleva che il dottore
  gli chiedesse di che cosa si trattava, perché non voleva mentire. Fino a ora
  aveva detto qualche bugia, come quella di non aver
  dormito nella notte, ma nulla di grave. Aggiunse in fretta: - Mi sono reso conto di
  aver disturbato e di colpo… non so…
  tutto insieme… peggio di
  una crisi isterica. Non so che cosa penserà di me, dottore. Goldenberg lo guardava,
  molto serio. - Penso che tu non abbia
  voglia di parlare del problema che ti preoccupa e non voglio forzarti, ma ci
  tengo a dirti che se c’è qualche cosa che posso fare per te, qualsiasi cosa,
  se hai bisogno di un aiuto economico o di qualcuno con cui confidarti, io
  sono qui e puoi contare su di me. Aziz sentì di nuovo le
  lacrime salirgli agli occhi, ma le ricacciò indietro. - Grazie, dottore, lo so. Era vero, lo sapeva. Poteva
  davvero contare su Goldenberg per qualsiasi cosa. La crisi del mattino non
  avrebbe avuto conseguenze per il dottore. Ma Aziz sapeva benissimo
  che un problema c’era, qualche cosa che avrebbe dovuto affrontare con se
  stesso, questa sera, finita la giornata in ospedale. - Passiamo nello studio,
  Aziz. Si erano appena spostati
  quando arrivò il servitore con il tè. Aziz lo bevve volentieri. Gli sembrò di
  sentirsi davvero meglio. - Come va, ora? - Va bene, dottore. La lascio fare colazione. Io vado all’ospedale. - Aspettami. Lasci la
  bicicletta qui e andiamo insieme a piedi all’ospedale. La riprendi questa
  sera. In
  effetti l’ospedale
  era a due passi dalla casa del dottore e non c’era motivo per prendere la
  bicicletta: quando gli capitava di passare dal dottore prima di andare in
  ospedale, Aziz portava la bicicletta all’ospedale solo per non disturbare
  Goldenberg ripassando da lui in serata. In un altro momento, l’idea di
  ritornare con il dottore e parlare ancora un po’ con lui avrebbe illuminato
  la sua giornata, ma adesso si sentiva a disagio. Dire di no
  sarebbe stato scortese, per cui si limitò a ringraziare. Dopo colazione Goldenberg
  e Aziz raggiunsero l’ospedale. La mattinata trascorse tranquilla: non c’erano
  epidemie e i problemi erano quelli ordinari. * Verso le due dall’ospedale
  si cominciarono a sentire delle voci, sempre più forti, che provenivano dalla
  strada. Goldenberg era in India da cinque anni e sapeva benissimo che cosa
  significava il rumoreggiare della folla: era successo
  qualche cosa che aveva scaldato gli animi e la folla voleva vendetta. Chi era
  il bersaglio? I musulmani, minoranza consistente e invisa a molti? Gli
  inglesi, il cui dominio era sempre meno sopportato? Gli induisti stessi che,
  proprio perché maggioranza, con i loro comportamenti a volta provocavano
  esplosioni di rabbia tra la minoranza musulmana? Goldenberg uscì sulla
  porta. Aziz avrebbe voluto accompagnarlo, ma Goldenberg gli ordinò di restare
  dentro. C’erano stati altri disordini in città: quasi ogni anno, soprattutto
  in occasione delle cerimonie religiose musulmane del Mohurran,
  la tensione tra le due comunità religiose saliva e si verificano scontri.
  L’intervento delle truppe inglesi esasperava la situazione e i sentimenti
  antibritannici. C’erano stati alcuni morti e in due occasioni era intervenuto
  l’esercito. Goldenberg sapeva
  benissimo che Aziz, in quanto musulmano, sarebbe potuto diventare un
  bersaglio. Goldenberg vide
  avvicinarsi il maggiore Turton con suoi uomini.
  Accompagnavano tre feriti: un indiano sui quarant’anni, che era stato
  accoltellato allo stomaco, e due soldati, con ferite più leggere. I soldati
  cercavano di tenere a distanza una folla, che avanzava compatta dietro di
  loro, gridando. Goldenberg chiese: - Che cosa è successo? - Pare che un musulmano
  abbia insultato una donna. Il fratello della donna è intervenuto, c’è stata
  una rissa ed è stato ferito. Il bazar è diventato un campo di battaglia.
  Siamo intervenuti, ma non so come andrà a finire. Cerchi di salvarlo,
  dottore, perché se muore qui scoppia l’inferno. I tre feriti furono
  portati dentro. I due soldati, le cui condizioni non sembravano gravi, furono
  affidati ad Aziz e a un altro medico. Goldenberg si prese cura dell’uomo
  colpito nella rissa. Era necessario un intervento urgente. Goldenberg avrebbe
  voluto avere come assistente Aziz, che era il migliore tra i medici
  dell’ospedale, ma se il paziente fosse morto, qualcuno avrebbe detto che il
  medico musulmano l’aveva fatto morire apposta. L’intervento durò due ore.
  La situazione del ferito appariva critica, ma non disperata. Fuori la folla
  rumoreggiava. Goldenberg sapeva che sarebbe bastato poco, pochissimo, perché
  gli uomini che ora gridavano in strada si riversassero nell’ospedale,
  massacrando tutti i musulmani e chiunque cercasse di opporsi. Quando ebbe finito, fuori
  dalla sala operatoria trovò l’attendente di Turton. - Il maggiore ha chiesto
  di fargli avere notizie subito. È fuori.  Goldenberg uscì. Davanti
  all’ospedale c’era una grande folla, tenuta a bada da un cordone di soldati.
  Non appena il dottore uscì, ci fu un boato. Goldenberg alzò una mano a
  chiedere silenzio. La folla tacque. Il dottore era molto stimato,
  ma Goldenberg sapeva benissimo che questo non sarebbe bastato a
  salvarlo se la folla avesse deciso di attaccare. Goldenberg si rivolse alla
  folla e disse: - Ho operato il ferito.
  L’operazione è riuscita e spero che possa riprendersi presto. Goldenberg si chiese se
  invitare la gente ad andarsene. Sarebbe stato più sicuro per l’ospedale, ma
  se la folla si fosse allontanata in blocco, avrebbe potuto dirigersi verso
  qualche altro bersaglio. Meglio che rimanessero lì, almeno in parte. Goldenberg aggiunse: - Tornerò a dare notizie tra qualche ora. Qualcuno se ne sarebbe
  andato. Altri sarebbero rimasti per avere notizie.  Le parole del dottore
  sembravano aver calmato la folla. Il maggiore si avvicinò: - Goldenberg, devo
  ritirare una parte dei miei uomini. Non ci sono stati altri episodi di
  violenza, ma tutto può succedere: devo rinforzare i presidi ai ponti e al
  bazar e soprattutto proteggere i nostri concittadini. I ponti erano un punto
  critico, perché i musulmani vivevano soprattutto sull’isola e sulla riva
  opposta a quella su cui si trovava l’ospedale. Il bazar era il luogo
  d’incontro, un terreno neutro tra le due comunità, ma di certo adesso si era
  svuotato, come sempre avveniva in queste occasioni. - Va bene. Credo che qui
  possiamo farcela. Se il ferito non peggiora, è difficile che attacchino. Non si poteva mai dire,
  Goldenberg lo sapeva, come lo sapeva Turton. Bastava pochissimo, una falsa notizia, un’inezia,
  per scatenare una furia che niente avrebbe potuto fermare.  Turton ritirò una parte delle truppe.
  Inizialmente l’allontanarsi dei soldati non provocò nessuna reazione nella
  folla. Poi alcuni incominciarono a defluire. Goldenberg rientrò. Nel corso della giornata
  la folla andò diminuendo, fino a disperdersi completamente. Rimasero solo
  pochi parenti del ferito, che non appariva in pericolo di vita. Quando infine giunse l’ora
  di andarsene, lasciando solo i medici di guardia, davanti all’ospedale
  c’erano poche persone, parenti e amici del ferito. Goldenberg raccomandò di
  mandarlo subito a chiamare se ci fosse stato qualche assembramento o se il
  paziente fosse peggiorato. * Goldenberg uscì con Aziz
  da una porta laterale, per paura che qualcuno, vedendo il suo assistente
  musulmano, lo attaccasse. Raggiunsero la casa di Goldenberg. Il dottore ordinò al
  servitore di preparare la cena per due.  - Ma, dottore, non è il
  caso. Non voglio disturbare. Prendo la bici e… Goldenberg sbottò: - Che cazzo dici, Aziz?
  Sei impazzito? Si pentì subito di aver
  risposto d’impeto, ma l’idea di Aziz era folle: per rientrare a casa avrebbe
  dovuto attraversare l’intero quartiere induista sulla collina e sarebbe stato
  un bersaglio perfetto. Nessuno dei medici e degli infermieri musulmani
  sarebbe tornato a casa, quella notte: sarebbero rimasti tutti a dormire in
  ospedale o da amici. - Scusa, Aziz, ma non puoi
  pensare di tornare a casa in bici per le vie di Chandrapore
  come se fosse una serata qualunque. Vuoi farti ammazzare? Aziz chinò la testa. - Ha ragione,
  dottore. Mi scusi. Torno a dormire in ospedale. - No, Aziz, tu dormi qui.
  Voglio essere sicuro che non ti succeda niente. Aziz sembrava confuso. Goldenberg
  non ne capiva la ragione. In attesa della cena, Goldenberg chiese ad Aziz che
  cosa pensasse della situazione. Aziz sembrava sempre molto contento di
  parlare con il dottore inglese e Goldenberg ne apprezzava l’intelligenza e
  l’acutezza di giudizio, ma questa sera appariva confuso. Si limitò a
  rispondere qualche banalità. C’era evidentemente un problema che lo
  preoccupava. Goldenberg gli chiese ancora di che cosa si trattasse, ma Aziz
  disse che non se la sentiva di parlarne. Quando giunse l’ora di andare
  a dormire, Goldenberg disse: - Ho fatto
  cambiare le lenzuola. Tu dormirai nel mio letto. - Io, no! Ma perché?  - Io dormo nello studio. - Nello studio? Sul
  divano? E io nel suo letto? Non se ne parla neanche. - Aziz, ti ho detto io di
  fermarti e non ti faccio di certo dormire sul divano. - E vorrebbe dormirci lei?
  No, assolutamente no. Goldenberg rise. - Possiamo dormire tutti e
  due sul divano, se vuoi. Non si sta comodissimi in due… - No, dottore, lei dorme
  nel letto e io sul divano. Goldenberg sbuffò. - Sei ostinato come un
  mulo. Senti, non sappiamo che cosa succederà, se mi chiameranno nella notte,
  se ci sarà un attacco contro l’ospedale... Goldenberg non aggiunse “o
  contro la casa”, ma sapeva benissimo che era possibile. Se il ferito fosse
  morto, la rabbia della folla avrebbe potuto rivolgersi anche contro il
  dottore inglese che non l’aveva salvato. In questo caso Goldenberg avrebbe
  fatto scappare Aziz in qualche modo. Goldenberg riprese: - Non è il caso che passiamo la notte a discutere di precedenze. Dormiamo
  tutti e due nel letto, se la cosa non ti dà fastidio. Ci si potrebbe stare
  anche in tre. Per Goldenberg, che era
  stato in guerra per quattro anni, condividere il letto con un altro non era
  certo un problema. Ma non sapeva se per Aziz fosse una situazione
  accettabile. Lo vide impallidire e non capì l’intensità della reazione. - Che cosa c’è, Aziz? - Io non posso, dottore. No, no, vado a casa. Per la seconda volta nella
  giornata Goldenberg sbottò: - E che cazzo! Mi spieghi
  che cos’hai? Anche questa volta si
  pentì della propria irruenza. Ma la tensione del pomeriggio pesava su di lui.
  Era stanco, voleva dormire e gli sembrava che queste schermaglie tra lui e
  Aziz, che collaboravano da tre anni, fosse assurda.
  Ma Aziz aveva sempre un atteggiamento deferente, si rifiutava di dargli del
  tu, di chiamarlo per nome, tanto che Goldenberg stesso per un certo periodo
  aveva ripreso a usare il lei, suscitando le proteste di Aziz. Aveva oltre
  vent’anni in più del collega indiano, era il suo superiore, ma erano anche
  amici. Perché questo dover sempre tenere le distanze? Aziz aveva chinato la
  testa. Goldenberg si accorse che una lacrima gli stava colando sul viso.
  Allibito, gli mise una mano sulla guancia, in una carezza leggera - Aziz, perché non hai
  fiducia in me? Spiegami qual è il tuo problema. Aziz scosse il capo,
  piangendo in silenzio. Di fronte al dolore di Aziz, Goldenberg sentì svanire
  la sua rabbia. In un gesto impulsivo, abbracciò Aziz, ma lo sentì
  irrigidirsi. Si staccò subito. Non capiva, non riusciva a capire.
  C’era qualche cosa in Aziz che gli sfuggiva completamente. Era una situazione
  assurda, del tutto assurda. Per un momento pensò di
  tornare in ospedale a dormire. L’avrebbe fatto, in quelle circostanze, per poter affrontare un’emergenza. Solo la preoccupazione
  per Aziz lo aveva spinto a tornare a casa, per portarlo via dall’ospedale:
  gli sembrava meno rischioso che Aziz dormisse da
  lui. E comunque l’ospedale si raggiungeva in pochi minuti. - Come vuoi tu, Aziz. Goldenberg sentì la
  stanchezza invaderlo. Le tensioni della giornata, il calore soffocante, il
  comportamento incomprensibile di quello che considerava il suo migliore
  amico, tutto pesava su di lui.  Cenarono scambiando appena
  due parole per evitare che quel silenzio, innaturale tra di loro, pesasse
  troppo. Dopo cena, Goldenberg
  prese una vestaglia per Aziz. - Spogliati e metti da
  parte la biancheria da lavare. La do ai domestici, così domani sarà pulita. Con l’arrivo del caldo, la
  biancheria asciugava in fretta. Goldenberg passò nello
  studio e tirò fuori alcune carte, fingendo di studiarle. Non voleva rimanere
  con Aziz mentre lui si lavava e si spogliava. Aziz lo stava tenendo lontano e
  a Goldenberg spiaceva, ma non voleva imporsi. Quando Aziz fu pronto,
  Goldenberg si lavò e si preparò per la notte. Poi diede la biancheria ai
  servitori, con l’ordine di prepararla per il mattino dopo. Andò a coricarsi
  sul letto, amareggiato, mentre Aziz si stendeva sul divano. Steso sul lenzuolo,
  rimuginò a lungo. Si sentiva insoddisfatto. Aveva scelto di lavorare in
  India, perché dopo gli orrori a cui aveva assistito nella grande guerra non
  sopportava più l’Europa e l’Inghilterra: i suoi compatrioti e tutti gli
  europei, orgogliosi della propria civiltà, si erano rivelati dei macellai
  immondi. Aveva capito in fretta di aver fatto un errore: gli inglesi in India
  erano ancora peggio, completamente incapaci di
  comprendere la realtà in cui vivevano, pieni di orgoglio e disprezzo per gli
  altri. Goldenberg non li frequentava mai. Il suo lavoro gli dava molte
  soddisfazioni, ma avvertiva la solitudine. Aziz, questo musulmano non
  osservante, che aveva poca fede, ma molta
  intelligenza e sensibilità, gli era piaciuto fin dal primo momento. Ma adesso
  non riusciva a capirlo.  Anche Aziz, steso sul
  divano, non riusciva a prendere sonno. Si sforzava di pensare alla situazione
  della città, ai rischi che correva l’ospedale, a qualunque cosa che non fosse
  Goldenberg. Non voleva pensarci ora, con il dottore che dormiva nella stanza
  accanto. * Il maggiore Richard Turton entrò nella casa del dottor Goldenberg senza
  badare alle proteste del servitore: era appena l’alba, ma aveva bisogno di
  parlare subito con il dottore. Non aveva nessuna intenzione di perdere tempo
  con quella marmaglia. Era stato alcune volte nello studio del dottore e aprì
  la porta che collegava le due ali della casa, senza neppure bussare: aveva
  ben altre urgenze.  In salotto trovò il
  dottore indiano che dormiva sul divano. Probabilmente Goldenberg gli aveva
  detto di fermarsi da lui perché non dovesse attraversare la città. Turton scosse la testa. Goldenberg fraternizzava troppo
  con gli indiani. Che senso aveva far dormire un medico musulmano a casa
  propria? Avrebbe benissimo potuto dormire in ospedale. Ma Goldenberg era
  stravagante.  Il medico musulmano si era
  svegliato e lo guardava, stupito. Turton lo ignorò
  e si diresse nello studio, ma Goldenberg non era lì.
  Dormiva ancora. Lo vide uscire in quel momento dalla camera
  da letto, con indosso i pantaloni.  - Goldenberg, è bene che
  vada subito in ospedale. - Che cosa è successo? È
  morto il ferito? - No, no. Un branco di
  facinorosi si sta dirigendo verso l’ospedale. Vogliono massacrare medici,
  infermieri e pazienti musulmani. Questa notte c’è stato uno scontro vicino al
  fiume e c’è stato un morto, un induista.  - Mi vesto e vengo subito. - Bene. La città è sul
  punto di esplodere e adesso la plebaglia sale verso l’ospedale. Hanno già
  distrutto un piccolo santuario musulmano. Io vado all’ospedale. - La raggiungo tra pochi
  minuti. Turton uscì. La feccia indiana stava già
  arrivando: erano saliti più in fretta del previsto. Non erano in molti, era
  troppo presto, ma si preparavano ad attaccare l’ospedale per uccidere medici,
  infermieri e pazienti musulmani: ora che le truppe inglesi presidiavano i ponti,
  l’ospedale era uno dei pochissimi luoghi in cui era ancora possibile trovare
  qualche musulmano da sgozzare. I soldati aspettavano
  davanti alla casa, le armi in pugno, pronti a reagire. Gli indiani si erano
  fermati, vedendo i militari: non erano molto numerosi e questo li rendeva
  incerti di fronte ai soldati con le armi spianate, ma era solo questione di
  tempo. Ne sarebbero arrivati altri e avrebbero attaccato.  Turton fece due passi avanti. Forse sarebbe riuscito
  a convincerli ad andarsene. Erano vigliacchi, come tutti gli indiani, e la
  vista delle armi raffreddava i loro bollenti spiriti. - Che cosa volete? Gli uomini si guardarono,
  incerti. Molti di loro non conoscevano l’inglese e Turton
  parlava pochissimo l’hindi, per cui si era rivolto agli indiani nella propria
  lingua. Due uomini, che dovevano
  essere i capi del gruppo, avanzarono verso Turton.
  Li seguiva un terzo, molto corpulento, con un’espressione ebete sul viso:
  evidentemente un idiota. I tre si assomigliavano e probabilmente erano
  fratelli. Ognuno di loro aveva un grosso bastone. Turton ripeté: - Che cosa volete? Rispose il più anziano: - Vogliamo raggiungere
  l’ospedale. Ci sono medici musulmani che uccidono i pazienti induisti.
  Vogliamo interrogarli. Turton gli rise in faccia: - “Interrogarli”? E chi
  sei tu per interrogare qualcuno, coglione? Un giudice? Un poliziotto? L’uomo fece una smorfia.
  Poi disse, a disagio, senza guardare Turton in
  faccia: - Fingono di curarli e li
  uccidono. Turton si infuriò. Poco gli importava dei
  medici musulmani, ma l’idea che quel pezzente si arrogasse l’autorità di
  indagare e processare lo imbestialiva. - Ma piantala,
  stronzo! Turton diede uno spintone all’uomo,
  costringendolo ad arretrare. Fece un passo avanti. Poi proseguì: - Levati dai coglioni o ti
  faccio fucila… Non completò la frase.
  Senza che Turton se ne accorgesse, l’idiota aveva
  alzato la mazza e gliel’aveva calata sulla testa. Si sentì il rumore delle
  ossa spezzate e il sangue sgorgò dal capo, dal naso e dalla bocca di Turton, che si abbatté a terra senza un grido, mentre
  risuonava uno sparo: uno dei soldati aveva sparato all’assassino, nel
  tentativo di fermarlo. L’uomo, colpito al petto, emise un lamento, si avvitò
  su se stesso e crollò al suolo. Vedendo il maggiore
  crollare a terra, tutti i soldati puntarono i fucili sulla piccola folla, che
  era avanzata, avvicinandosi ai due corpi stesi a terra. Un attimo dopo i
  soldati avrebbero sparato e gli indiani si sarebbero
  scagliati su di loro. In quel momento si udì la
  voce di Goldenberg: - Fermi. Goldenberg era sulla porta
  di casa. Tutti si voltarono verso di lui. Il dottore uscì in strada,
  mettendosi tra i soldati e la folla. Un gesto temerario, perché se i soldati
  avessero sparato o gli indiani avessero attaccato, Goldenberg sarebbe stato
  sicuramente colpito.  Tutti si fermarono,
  incerti, e rimasero muti. Uno dei soldati sussurrò
  al vicino: - Certo che il dottore li ha, i coglioni. L’altro replicò: - Ne dubitavi? È stato
  decorato con la Victory Cross. Goldenberg si piegò su Turton, ma era evidente che non c’era più niente da fare:
  il maggiore aveva il cranio fracassato. Poi Goldenberg esaminò l’altro uomo,
  che era ancora vivo, ma si stava spegnendo rapidamente. Goldenberg si
  inginocchiò al suo fianco, gli sollevò la testa e la poggiò sulle proprie
  ginocchia. Nella via si era creato un silenzio irreale. Nessun sembrava in
  grado di parlare o di muoversi. Tutti osservavano il dottore. L’uomo girò il capo di
  lato e un po’ di sangue gli uscì dalla bocca. Poi rimase immobile. Goldenberg
  gli chiuse gli occhi. Goldenberg posò
  delicatamente la testa a terra e si alzò. Si rivolse agli indiani: - Prendetelo e portatelo
  via. Non avreste dovuto portarlo con voi. Non era in grado di capire che cosa
  stava facendo. Poi, senza aspettare una
  risposta, si voltò verso i soldati, dando le spalle agli indiani,
  perfettamente conscio che avrebbero potuto colpirlo. Disse: - È meglio che vi
  allontaniate. Raccogliete il corpo del maggiore e portatelo all’ospedale.
  Dovete avvisare i comandi che è morto. Ci fu ancora un momento di
  silenzio, poi gli indiani raccolsero il morto e si allontanarono. I soldati
  inglesi presero il cadavere di Turton e lo
  portarono all’ospedale. Goldenberg li guardò
  scomparire. Era andata bene. Aveva rischiato il tutto per tutto, ma era
  riuscito a fermarli, prima che ci fosse una carneficina e in città
  incominciasse un massacro. Sarebbero tornati, di questo Goldenberg era
  sicuro. Sarebbero tornati e questa volta non sarebbe stato così facile
  allontanarli. Ora doveva rientrare e
  tranquillizzare Aziz, che di certo stava attendendo in ansia. L’aveva
  convinto a rimanere nascosto dicendogli la verità:
  se si fosse fatto vedere, lo avrebbe messo in un pericolo mortale; la
  presenza di un medico musulmano avrebbe attizzato la furia degli induisti. Goldenberg rientrò in
  casa, chiedendosi che cosa sarebbe successo. In una situazione diversa,
  l’uccisione del comandante della guarnigione avrebbe facilmente scatenato una
  sommossa anti-britannica: ormai le proteste contro il dominio coloniale
  inglese erano in continua crescita. Ma nell’attuale clima di ostilità tra
  induisti e musulmani, era meno facile che questo accadesse. E gli induisti
  sapevano che una qualunque azione avrebbe reso più pesante l’inevitabile
  rappresaglia. Di certo l’esercito sarebbe intervenuto rapidamente, non appena
  la notizia della morte di Turton fosse giunta a
  Calcutta. Ma non sarebbe arrivato nessun rinforzo prima della sera del giorno
  successivo. E in due giorni poteva succedere di tutto. Un attacco all’ospedale
  era l’ipotesi più probabile. Un attacco contro le residenze britanniche non
  era da escludere. E di certo le truppe inglesi avrebbero pensato in primo
  luogo a difendere i loro connazionali. Un altro pensiero si fece strada nella testa di Goldenberg. Come evitare che Aziz
  corresse troppi rischi? Lasciandolo a casa? Se però i servitori avessero
  lasciato trapelare che c’era un dottore musulmano, gli induisti avrebbero
  attaccato. L’ospedale era comunque un bersaglio, per la presenza di medici,
  infermieri e pazienti musulmani, ma almeno Goldenberg avrebbe fatto quello
  che poteva per intervenire. Goldenberg avrebbe voluto che Aziz fosse a casa
  propria, dove non avrebbe corso rischi: difficilmente gli induisti avrebbero
  attaccato i vasti quartieri musulmani, più facilmente la loro furia si
  sarebbe sfogata al bazar o contro le famiglie musulmane isolate. Goldenberg entrò nelle
  proprie stanze e chiuse la porta dietro di sé. Aziz si alzò di scatto.
  Tremava. - Dottore! Quando ho
  sentito lo sparo… io… David annuì.  - Hanno ucciso Turton. Non so che cosa succederà. È meglio che andiamo
  subito all’ospedale. - Turton,
  morto!? Hanno sparato a lui? - No, una bastonata sulla
  testa, gli hanno spaccato il cranio. Turton era
  agitato, ha spintonato un indiano e un altro lo ha colpito, un povero idiota.
  Un soldato ha sparato e lo ha ucciso. Un casino. Adesso però andiamo. Non è
  il caso di perdere tempo a fare colazione. Goldenberg ordinò ai
  servitori di preparare una colazione che potessero
  consumare in ospedale e di portargliela appena pronta, poi uscì con Aziz. La strada era deserta.  * In ospedale Goldenberg si
  informò del ferito, le cui condizioni erano stazionarie. Poi convocò i medici
  e gli infermieri musulmani. Spiegò loro che cosa era successo e i propri
  timori. - Se ritenete di riuscire
  a raggiungere un posto sicuro senza correre rischi, vi consiglio di farlo. La
  mia opinione è che l’ospedale sarà attaccato e preferirei sapervi al sicuro. Sul versante della collina
  opposto a quello in cui si estendeva la città, vi era una zona poco popolata,
  di campi e boschi, in cui forse sarebbe stato più facile passare inosservati. Uno degli infermieri
  rispose: - Dottore, non è facile
  allontanarsi e in ogni caso non potremmo portare con noi i pazienti: alcuni
  non possono essere spostati. Ognuno sceglierà di fare ciò che vuole, ma io
  rimango. - Badate, correte un
  rischio molto grave. - Quanto lei dottore, ma
  lei è qui. Poteva starsene a casa o raggiungere il
  quartiere britannico. Parlarono ancora un
  momento. Qualcuno aveva dei dubbi, ma tutti decisero di rimanere. Goldenberg si occupò
  personalmente di preparare la difesa. Fece chiudere e barricare le porte
  dell’ospedale e le finestre, che avevano tutte solide inferriate al piano
  terra. Non erano in grado di resistere a lungo: non avevano armi. Ma
  probabilmente anche gli attaccanti non avrebbero avuto molte armi da fuoco.  Se fossero riusciti a
  impedire agli attaccanti di entrare, il problema più serio sarebbe stato
  quello del fuoco. Goldenberg fece preparare molti secchi d’acqua, in modo da
  poter spegnere subito eventuali principi di incendio. In ogni caso l’edificio
  era in muratura, solido, e non avrebbe preso fuoco facilmente. Goldenberg fece portare
  anche viveri e acqua da bere: in questo modo avrebbero potuto reggere a un
  assedio per quarantott’ore. Quando fosse arrivato
  l’esercito, l’assedio sarebbe finito. Poi il dottore parlò con
  il personale induista: se qualcuno preferiva andare a casa, poteva farlo.
  All’ospedale tutti avrebbero corso gravi rischi, indipendentemente dalla
  religione: nel momento in cui l’ospedale fosse stato invaso, chiunque sarebbe
  potuto essere ucciso. Nessuno lasciò l’ospedale. Goldenberg predispose dei
  turni di guardia con persone in cui aveva piena fiducia: i rapporti tra i
  medici e gli infermieri delle diverse confessioni erano molto buoni, ma di
  fronte a una minaccia esterna molto grave, c’era il rischio che, per paura o
  per odio, qualcuno favorisse l’ingresso nell’ospedale degli assedianti. I preparativi avevano
  creato parecchia agitazione. Molti speravano che il dottore si sbagliasse,
  anche se in fondo quasi tutti sapevano che aveva ragione ad aspettarsi il
  peggio.  Goldenberg riprese a
  occuparsi dei malati, come se fosse stato un giorno qualsiasi. Il clima
  ritornò quello di sempre, a parte la mancanza di nuovi arrivi all’ospedale:
  non si presentò nessuno a chiedere un ricovero o a visitare un parente e
  questo era chiaramente un indizio che anche fuori dall’ospedale ci si
  aspettava un attacco. Trascorse quasi tutta la
  mattinata e molti incominciarono a pensare che le preoccupazioni del dottore
  fossero infondate. Coloro che arrivavano dalla città dicevano che pareva
  essersi svuotata: il bazar era deserto, per le strade si incontravano
  pochissime persone. Verso mezzogiorno però
  arrivò di corsa uno degli infermieri che era tornato a casa dopo il turno di
  notte. - Vogliono attaccare
  l’ospedale. Si stanno organizzando. Vogliono uccidere tutti i musulmani. Goldenberg ripeté l’invito
  ad andarsene, ma nessuno lo accolse. Anche l’infermiere che aveva portato la
  notizia decise di restare, benché non fosse il suo turno di lavoro, e dopo di
  lui arrivarono altri tre infermieri e due medici induisti, tutti decisi a
  difendere l’ospedale. Uno dei medici, Rohit Deshpande, aveva due pistole. Alcuni dei pazienti
  induisti dissero che se ne volevano andare. Goldenberg li dimise, dando loro
  alcune indicazioni. In due casi sconsigliò di lasciare l’ospedale, ma uno dei
  due era troppo spaventato e si allontanò, anche se si reggeva a malapena in
  piedi.  Presto sentirono le grida
  della folla che si avvicinava. Da una delle finestre del primo piano,
  Goldenberg studiò la situazione. La massa cha avanzava compatta riempiva per
  intero la strada principale che saliva fino all’ospedale. Se avessero deciso
  di attaccare, non sarebbe stato possibile fermarli: erano
  troppo numerosi. Che cosa era possibile
  fare? Avviare una trattativa? E che cosa avrebbe potuto offrire Goldenberg?
  Avrebbe offerto la sua vita, senza esitare, ma la sua vita non aveva nessun
  interesse per gli esaltati che si avvicinavano: era al massimo un ostacolo da
  eliminare per raggiungere l’obiettivo che si ponevano. * Aziz osservava il dottore.
  Non si era avvicinato alla finestra, obbedendo all’ordine dato da Goldenberg:
  nessun musulmano doveva farsi vedere, per evitare di provocare la reazione
  della folla e scatenare un attacco. In mattinata l’attività in ospedale era
  stata frenetica e Aziz aveva evitato di riflettere a ciò che era successo il
  giorno prima. Ma adesso, osservando il dottore, la verità si formulò da sola
  nella sua mente: amava il dottore. Lo amava e lo desiderava. Era sempre stato
  conscio del profondo affetto che provava per lui, anche se lo aveva sempre
  chiamato amicizia e non amore. Non aveva capito di amarlo e di desiderarlo,
  ma il vederlo nudo aveva tolto il velo che gli copriva gli occhi e ora
  sapeva. L’angoscia lo avvolse, un
  desiderio di morire, di annullarsi. Forse oggi sarebbe morto, portando il suo
  segreto con sé. Sì, era meglio che morisse. Morire cercando di salvare
  Goldenberg. Immaginò di gettarsi davanti a lui mentre gli
  sparavano, di cadere morente tra le braccia del dottore che lo
  sostenevano. Sì, che cosa poteva desiderare di meglio? Salvare la vita
  all’uomo che amava e morire tra le sue braccia, leggergli in viso l’affetto
  che provava, la riconoscenza. Lasciare un ricordo puro. Goldenberg si affacciò
  alla finestra del primo piano. Accanto a lui si misero un medico e un
  infermiere induisti. Attesero. Il rumore della folla in arrivo andava
  crescendo. Poi, quando furono davanti all’ospedale, ci fu un momento di
  silenzio. Goldenberg parlò: - Che cosa volete? Ci furono grida ed
  esclamazioni. Aziz sentì un “Morte ai musulmani” e la
  parola “morte” venne ripetuta più volte. Il dottore fece un gesto
  con il braccio. Il rumore si acquietò un momento. - Qui non ci sono
  musulmani o induisti o jainisti, sikh o cristiani. Qui ci sono solo medici e infermieri
  che curano i malati e i feriti. Lo hanno sempre fatto e lo faranno
  finché ci sarà questo ospedale. Se volete distruggerlo,
  nessuno verrà più curato. Si fece avanti
  uno degli uomini che avevano parlato con Turton
  in mattinata. - Non vogliamo distruggere
  l’ospedale. Dateci i musulmani e non succederà niente all’ospedale. La folla sottolineò la
  richiesta con grida e minacce. Goldenberg attese che le
  voci si calmassero, ma trascorse un buon momento prima che gli fosse
  possibile farsi sentire. - Gli uomini e le donne
  che sono qui sono venuti per farsi curare o per curare.
  Nessuno di loro… Goldenberg non riuscì a
  finire la frase. Il suo interlocutore gridò:  - Se non ci date quei
  porci, ce li prenderemo. Altre voci si levarono
  dalla folla: - Verremo a prenderli. - Li staneremo tutti,
  anche se si nascondono. - Dateceli o bruceremo
  l’ospedale. L’uomo che aveva parlato
  brandiva una torcia. - Se incendierete
  l’ospedale, moriranno moltissimi dei vostri fratelli.  Questo era vero e la folla
  lo sapeva, ma non era sufficiente. - Dateceli o verremo a
  prenderceli. Anche il medico di fianco
  a Goldenberg cercò di convincere la folla ad andarsene, a non uccidere, ma fu
  interrotto quasi subito. Qualcuno tirò un sasso e mancò Goldenberg di poco.
  Il dottore si ritrasse e la finestra venne chiusa. Che cosa avrebbe fatto la
  folla? Avrebbe attaccato subito? Avrebbe atteso? Di certo quegli uomini non
  se ne sarebbero andati. Alcuni si avvicinarono
  alla porta e si diedero a battere, urlando di aprire, ma sapevano tutti che
  nessuno avrebbe aperto la porta spontaneamente. Allora la folla cercò di
  sfondarla, ma era una porta spessa ed era stata barricata in modo che non
  cedesse. Ci fu un momento di
  incertezza. Qualcuno propose di dare fuoco all’ospedale,
  ma anche questo non era facile: l’edificio aveva solo gli infissi e le
  imposte in legno. All’interno dell’ospedale
  Goldenberg girava a controllare la situazione. Tutti erano vigili al loro
  posto.  Aziz guardò attraverso le
  fessure delle imposte. C’era una grande folla davanti all’ospedale, tanta che
  lo spiazzo non era sufficiente a contenerla. Sembravano attendere. Che cosa? Ci fu un clamore. Stava arrivando qualcuno o qualche cosa che la folla
  attendeva. E in effetti Aziz vide avanzare tra la
  folla tre uomini armati di spranghe e picconi: speravano di abbattere la
  porta. Gli uomini si avvicinarono all’ingresso e il primo menò un colpo
  deciso contro uno dei battenti. In quel momento risuonò uno sparo: da una
  finestra del primo piano Deshpande, il medico che
  aveva le pistole, aveva sparato un colpo. - Questo l’ho tirato in aria, ma se dai ancora un colpo alla porta,
  sparo a te. L’uomo con il piccone
  guardò il medico che lo teneva sotto tiro. La distanza era troppo ridotta
  perché il dottore sbagliasse il colpo, per poco che
  sapesse usare un’arma. La folla gridava, ma i tre uomini si ritrassero.
  Incominciò una discussione tra i tre e quelli che sembravano i capi della
  folla vociante. Due caporioni strapparono dalle mani dei tre una sbarra e il
  piccone e si scagliarono contro la porta. L’imposta al primo piano si aprì
  appena e risuonò un nuovo sparo: questa volta il proiettile colpì al braccio
  l’uomo che cercava di scardinare la porta. Questi lanciò un urlo. Deshpande disse forte: - Il prossimo che ci prova
  se lo becca nella testa. Deshpande si ritrasse. La folla urlava,
  inferocita, ma quelli che erano più vicino alla
  porta si allontanarono. Goldenberg e Deshpande
  parlarono a lungo. Goldenberg aveva molte remore a usare la forza contro gli
  attaccanti, ma si rendeva conto che non c’era altra via. D’altronde, se gli
  assedianti fossero entrati nell’ospedale, sarebbe avvenuto un massacro. Le
  due pistole erano un buon deterrente per tenere la folla lontano dalla porta,
  ma per quanto tempo? E che sarebbe successo nella notte? Aziz guardava Deshpande e Goldenberg parlare.
  Si sentiva a disagio. Avrebbe voluto avere anche lui
  le pistole, poter contribuire a difendere l’ospedale. Per un momento si perse
  in piani insensati per procurarsi una pistola, ma non c’era certamente modo
  di lasciare l’ospedale e rientrare, né avrebbe saputo dove cercare un’arma,
  che non sarebbe stato in grado di usare. Assurdo,
  del tutto assurdo. Ma il dialogo tra Goldenberg e Deshpande lo metteva a disagio. Capì d’un tratto: era
  geloso, semplicemente geloso dell’attenzione che il
  dottore riservava a Deshpande. A questo era
  arrivato? Un senso di nausea lo assalì. Si augurò di morire presto, di
  mettere fine a quel tormento, prima di dire o fare qualche stupidaggine.
  Goldenberg continuava a parlare, ma lo stava guardando. Aziz si allontanò.
  Entrò in una stanzetta che serviva come segreteria e si sedette su una sedia. Pochi minuti dopo
  Goldenberg lo raggiunse. - Aziz, che cosa succede? - Niente, dottore, niente.
  Questa situazione assurda, l’odio… mi chiedo perché… Si fermò. Nella situazione
  di sensibilità esasperata di quel momento, il pensiero dell’odio della folla
  nei confronti suoi e di tutti gli altri musulmani era troppo doloroso. Sentì
  di nuovo le lacrime agli occhi. - Aziz, questo angoscia
  tutti noi. Ma tu hai qualche altro rovello, da ieri mattina, ben prima che
  venisse fuori questo casino. Non vuoi provare a parlarmene? Aziz scosse la testa.
  Aveva paura di mettersi a piangere. Goldenberg non si arrese: - Aziz, mi fa male vederti
  soffrire così. Vorrei che tu ti confidassi. Aziz si rese conto che stava
  per scoppiare in lacrime. Si alzò di scatto e uscì dalla stanza. Sarebbe
  voluto uscire anche dall’ospedale, offrendosi alla furia della folla, ma
  sapeva che glielo avrebbero impedito. Non riusciva più a reggere l’angoscia
  che aveva dentro. Non sapeva dove rifugiarsi. Salì all’ultimo piano e si mise
  in un angolo, al fondo di un corridoio. Sentì i passi avvicinarsi.
  Sapeva che era Goldenberg. Il dottore non disse nulla. Lo abbracciò, stretto.
  Aziz sussultò, incapace di dire una sola parola, paralizzato da quel
  contatto. - Voglio solo dirti che
  sono con te, qualunque cosa sia. Non devi spiegarmi niente. Il dottore continuava a
  stringerlo e Aziz incominciò a piangere. Lasciò che le lacrime scorressero,
  ma le braccia che lo stringevano erano il paradiso. Tutto quello che avrebbe
  avuto di paradiso nella vita, ma quel momento gli sembrava abbastanza. * La folla continuava a
  gridare, ma nessuno si avvicinò alla porta. Qualcuno girò intorno
  all’ospedale, alla ricerca di altre vie d’ingresso, ma anche le due porte
  laterali erano sbarrate e barricate. Molti finirono per sedersi a terra, in
  attesa che la situazione si sbloccasse. L’ospedale era sotto assedio. Per il
  momento l’attacco era stato respinto, ma la folla non aveva rinunciato.
  Probabilmente gli assalitori aspettavano la notte, quando, nel buio, per i
  difensori sarebbe stato più difficile colpire un bersaglio. Goldenberg si dedicò
  ancora ai pazienti, poi tornò a controllare la situazione dalle finestre. Ma
  il pensiero andava spesso ad Aziz. Che cosa aveva il suo amico? Perché era
  così turbato? Che cosa era successo? Goldenberg considerava
  Aziz il suo migliore amico, gli era molto affezionato. Ora era preoccupato
  per lui, perché lo vedeva soffrire. Aziz era disperato. Perché? Non era di certo
  l’assedio dell’ospedale a turbarlo, la faccenda era incominciata prima, il
  mattino precedente. Il tempo passava lento:
  sembrava che le ore non scorressero mai. Nonostante il calore terribile, la
  folla rimaneva al suo posto, in attesa. “Fiutano il sangue”, pensò
  Goldenberg. Pensò di nuovo ad Aziz: come si poteva voler uccidere un uomo
  come lui, che si prodigava per tutti i malati, senza fare nessuna
  distinzione? Il dottore sentiva una rabbia sorda crescere contro quella
  folla. Avrebbe voluto prendere una delle pistole di Deshpande e sparare. Con una lentezza
  incredibile, il pomeriggio passò e arrivò l’ora del pasto serale. Goldenberg
  osservò che alcuni tra gli assedianti se ne andavano. Sarebbero tornati più
  tardi, con ogni probabilità. All’interno dell’ospedale
  la cena venne distribuita. Il dottore girava, muovendosi a passo tranquillo:
  sapeva che tutti avevano bisogno di vederlo e che cercavano di leggergli in
  viso il suo stato d’animo. Non gli era difficile mostrarsi sereno: quattro
  anni di guerra lo avevano abituato a tutte le emergenze. Lo angosciava l’idea
  che coloro che avevano fiducia in lui potessero rischiare la vita. E il
  pensiero di Aziz era un chiodo fisso da cui non riusciva a staccarsi.  Aziz faceva il suo dovere
  con il massimo scrupolo, come sempre. Cercava di concentrarsi nel lavoro e di
  evitare il dottor Goldenberg. Ma quando non era occupato, ripensava a
  quell’abbraccio, il raggio di sole della sua vita. * Goldenberg stabilì turni
  di sorveglianza e turni di sonno. Molti avrebbero voluto rimanere svegli, per essere pronti in
  caso di necessità, ma il dottore impose di riposare: dovevano essere tutti
  lucidi e in forze per affrontare un eventuale attacco e per assistere i
  pazienti. Il buio era sceso. C’erano
  le stelle, ma la luna non era ancora apparsa e lo spiazzo davanti
  all’ospedale era immerso nell’oscurità. Dietro la finestra
  Goldenberg ascoltava il brusio proveniente dalla folla. Si stava preparando
  qualche cosa, questo era sicuro. L’attacco era ormai imminente. Rohit Deshpande era
  di fianco a lui, con le pistole. Rohit si stava
  esponendo: se fossero riusciti a difendere l’ospedale e a salvarsi, i
  fanatici induisti lo avrebbero accusato di essersi schierato con i musulmani. Il colpo risuonò violento,
  improvviso. Qualche cosa era stato sbattuto contro
  la porta, cercavano di sfondarla. Rohit sparò di
  nuovo in aria e urlò: - Il prossimo colpo è per
  chi si avvicina alla porta. Gli uomini non si
  fermarono. Si udì un nuovo colpo violento, poi lo
  sparo e un urlo. Ci furono altre grida, un brusio, poi qualcuno arrivò con
  una torcia. Alla luce della fiamma poterono vedere un capannello di uomini
  intorno a un corpo a terra, coperto di sangue.  Dalla folla si levarono
  grida di “Assassini”, “Maledetti”. Ma uno degli uomini vicino al ferito si
  alzò di scatto e gridò, rivolto verso le finestre. - Dottor Goldenberg, mio
  fratello sta morendo. Salvatelo! Ci fu un silenzio
  improvviso. L’appello aveva colto tutti di sorpresa, il personale
  dell’ospedale come la folla vociante. Goldenberg non esitò. Forse la sua
  scelta era folle. Aprì la finestra e disse, rivolto all’uomo che aveva
  parlato: - Portatelo alla porta
  laterale dell’ospedale. Lasciatelo lì davanti e allontanatevi tutti dal
  vicolo. Uno solo di voi rimanga all’ingresso del vicolo con una torcia.
  Porteremo dentro il ferito e lo cureremo. Nella folla si levò un
  brusio, ci fu una discussione concitata, poi l’uomo che aveva parlato alzò le
  mani e disse: - Silenzio! Si rivolse a Goldenberg: - Faremo quello che ci
  chiedete. Goldenberg chiuse la
  finestra e si preparò a uscire dalla porta laterale per raccogliere il
  ferito, insieme a un infermiere. Rohit lo guardava, perplesso: - Non pensa che… Goldenberg lo interruppe. - No. Quell’uomo è ferito
  e devo cercare di salvarlo. Prima di uscire controllò da
  una delle finestre del vicolo: c’erano solo il ferito e l’uomo che aveva
  parlato.  Goldenberg fece aprire la
  porta. Con l’infermiere raccolse il ferito. Era uno degli uomini che aveva
  avuto lo scontro con Turton in
  mattinata. E l’altro era il fratello. Questi disse: - Ho già perso un fratello
  oggi… lo salvi. Goldenberg lo guardò. - Farò tutto quello che
  posso. Come ho sempre fatto. L’uomo chinò la testa. - Aspetterò qui. Mi dica
  qualche cosa. - Cerca di tenere calmi
  tutti o ce ne saranno altri, di feriti e di morti. Rientrarono con il ferito.
  Mentre la porta veniva nuovamente barricata, il ferito venne
  trasportato in sala operatoria. L’uomo stava perdendo
  molto sangue e la situazione appariva grave, ma non disperata. Goldenberg era
  convinto di poterlo salvare, se l’operazione fosse riuscita e non ci fossero
  state complicazioni. L’intervento richiese due ore, ma non ci furono
  imprevisti. Il ferito se la sarebbe cavata. Goldenberg tornò alla
  finestra sul vicolo. C’erano alcuni uomini accovacciati a terra, ombre appena
  visibili alla debole luce della luna che era spuntata da poco.  Goldenberg aprì la
  finestra. - Chi è il fratello del
  ferito? Un uomo si alzò di scatto. - Tuo fratello se la
  caverà. - Non lo dite solo perché
  non attacchiamo? Goldenberg rispose, con
  una voce dura: - Non sono abituato a
  raccontare storie. - Fatemelo vedere. Goldenberg esitò un
  attimo. Forse era un’altra follia. E se fosse stato armato? - Va bene, ma gli altri
  devono andarsene dal vicolo. Le ombre si allontanarono
  tutte, senza bisogno che nessuno aggiungesse altro. Goldenberg fece aprire la
  porta. - Solo due minuti. Portò l’uomo nella camera
  dove il fratello riposava. - Non è in pericolo di
  vita. L’uomo annuì, senza
  distogliere gli occhi dal fratello. - Ora devi andare. Domani mattina
  ti permetteremo di entrare, ma non ci deve essere
  nessun altro. L’uomo annuì di nuovo,
  sempre in silenzio. Goldenberg richiuse la finestra. Il resto della notte
  trascorse senza che ci fossero segni di agitazione davanti all’ospedale. La
  folla si era diradata, rimanevano alcune decine di persone. Goldenberg non si coricò:
  era troppo teso. Controllò la situazione del ferito, che appariva
  stazionaria. Si recò da Aziz, che era sdraiato, anche lui insonne, nello
  stanzone adibito a camerata per medici e infermieri. Goldenberg si limitò a
  stringergli la mano. La tenne un buon momento nella propria, poi gli
  accarezzò la fronte e uscì. L’indomani mattina davanti
  all’ospedale c’erano non più di venti persone.  Goldenberg fece nuovamente
  entrare il fratello del ferito. Il paziente si era risvegliato. L’uomo strinse una mano
  del ferito. Poi si rivolse a Goldenberg: - Grazie, dottore. Posso
  rimanere? - Solo dieci minuti. Tuo
  fratello deve riposare. L’uomo se ne andò quando
  il tempo fu scaduto.  In giornata non ci furono altri tentativi
  di attacco. Arrivarono alcuni pazienti nuovi e altri in cura si presentarono
  per il controllo periodico: non erano molti, assai meno del solito, ma era un
  chiaro indizio che nessuno si aspettava più un attacco.  Goldenberg fece entrare e
  uscire tutti dalla porta laterale. Solo a sera, all’arrivo delle truppe
  inglesi da Calcutta, le porte furono sgombrate.  Il fratello del ferito
  tornò in visita. Goldenberg avrebbe potuto farlo arrestare, accusandolo di
  aver guidato l’attacco, ma non disse nulla. Gli altri medici e gli infermieri
  tacquero: se Goldenberg riteneva che andasse bene così, nessuno intendeva
  comportarsi in modo diverso. La sera un contingente
  rimase a difesa dell’ospedale, anche se era una precauzione inutile: ormai,
  con l’esercito inglese in città, non ci sarebbero più stati attacchi.  Quasi tutti i dottori e
  gli infermieri musulmani ritornarono alle loro famiglie, accompagnati dai
  soldati: volevano avere notizie dei loro parenti, assicurarsi che non fosse
  successo nulla durante la loro assenza. Goldenberg chiese ad Aziz
  di fermarsi e il giovane acconsentì: non aveva nessun parente stretto in
  città. La sera dormirono entrambi in ospedale. * La sera successiva,
  Goldenberg decise di tornare a casa. Disse ad Aziz di accompagnarlo.  Aziz non avrebbe voluto,
  ma si sentiva esausto e non se la sentiva di
  opporsi. Mangiarono insieme.
  Goldenberg non aveva più parlato ad Aziz di quanto era successo. Contava di
  farlo l’indomani mattina, dopo una buona notte di sonno. Lasciò che Aziz si stendesse
  sul divano e si mise a letto. Nonostante la stanchezza,
  Goldenberg si rigirò a lungo nel letto. Non riusciva a prendere sonno. Il
  caldo e la tensione lo tenevano sveglio. Dopo un’ora si alzò, si rivestì e
  uscì dalla porta sul retro. Raggiunse l’ospedale e si informò sulla
  situazione. Tutto era tranquillo. Goldenberg tornò a casa e si stese
  nuovamente sul letto. Quando Goldenberg rientrò,
  Aziz sentì il rumore. Si sollevò a sedere sul divano. Vide il dottore che
  attraversava il giardino per rientrare in camera. Era uscito? Probabilmente
  era andato in ospedale per controllare la situazione. Adesso di certo si
  stava spogliando in camera sua. Aziz si rese conto che il suo corpo reagiva
  violentemente: di nuovo un’erezione violenta e il desiderio che si accendeva.
  Non era possibile, non poteva rimanere nella casa del dottore. Era notte.
  Avrebbe potuto prendere la bici e attraversare la città. Non c’era gente in
  giro a quest’ora, al massimo qualche pattuglia, ma
  avrebbe spiegato e l’avrebbero lasciato passare: lo conoscevano. Aziz sapeva
  benissimo che nei momenti di forte tensione non c’erano solo le truppe
  inglesi, c’erano squadre formate da induisti e altre da musulmani, che
  pattugliavano i propri quartieri per difenderli. E se gli induisti lo
  avessero sorpreso di notte, lo avrebbero accusato di macchinare qualche
  attacco e lo avrebbero ucciso. E le pattuglie inglesi potevano essere
  costituite da soldati provenienti da Calcutta, che non conoscevano Aziz e
  avrebbero potuto arrestarlo o, peggio, sparargli scambiandolo per un
  provocatore. Ma Aziz cercò di cancellare il pensiero.  Doveva andarsene. Non
  aveva la biancheria, che il dottore aveva dato da lavare, ma non era un
  problema: poteva pedalare a torso nudo. Si rivestì lentamente, ma
  non uscì subito. Goldenberg poteva essere ancora sveglio e lo avrebbe
  sentito. Attese, in silenzio, fissando le ombre che la luce lunare proiettava
  sulla parete. Cercò di svuotare completamente la mente da ogni pensiero,
  soprattutto dall’immagine, che ritornava ossessiva, del corpo del dottore. Il
  desiderio lo tormentava, violento, e non riusciva a soffocarlo. Non poteva
  aspettare oltre. Si alzò, scostò la zanzariera che il dottore aveva fatto
  mettere alla porta e uscì. Il giardino era perfettamente illuminato. Aziz
  evitò di guardare in direzione della camera del dottore. Si diresse alla
  bicicletta. La prese e si avviò verso la porticina che immetteva nel vicolo. - Che cazzo fai, Aziz? Sei
  impazzito? Aziz si voltò per
  rispondere al dottore, ma quando lo vide nudo alla luce lunare, le parole gli
  morirono sulle labbra. Non riusciva a parlare, si sentiva la gola secca.
  Deglutì. Sentì il tendersi dell’uccello. - Dove cazzo pensi di andare? Vuoi farti ammazzare? Vuoi che ti
  stuprino e ti castrino prima di ammazzarti? Cazzo, Aziz!? Il dottore era furente,
  anche se parlava a voce bassa, per non farsi sentire dai servitori. Aziz si voltò e fece per
  dirigersi verso la porta, senza dire nulla: non avrebbe potuto rispondere,
  non se la sentiva di parlare. Sapeva di non poter garantire delle proprie
  azioni se fosse rimasto un solo istante in più. Prima che potesse infilare
  la chiave nella toppa, il dottore gli si parò davanti. Aziz cercò di aprire
  lo stesso, ma Goldenberg lo bloccò, afferrandolo. - Fermati, imbecille! I loro corpi aderivano e
  Aziz si sentì perduto. La sua mente non era più in grado di controllare il
  suo corpo. Guardò il viso di Goldenberg a una spanna dal suo e provò
  l’impulso di baciarlo, ma per un momento riuscì a controllarsi. Una mano però
  si posò sul viso del dottore e il calore che le sue dita gli trasmisero lo
  inebriò. Allora sporse il viso in avanti e baciò il dottore. Ci fu un attimo in cui il
  dottore rimase immobile, stupefatto, poi le sue braccia si strinsero intorno
  ad Aziz e il bacio divenne più intenso. La bicicletta cadde a terra,
  Goldenberg spinse Aziz contro il muro e i loro corpi aderirono, in un
  abbraccio appassionato, mentre la lingua del dottore si faceva
  strada tra le labbra di Aziz. Aziz aveva l’impressione
  di non riuscire a reggersi in piedi. Gli sembrava che se non fosse stato
  appoggiato al muro e sostenuto dalle braccia del dottore, sarebbe caduto a
  terra. Le mani di Goldenberg ora gli accarezzavano il petto, lo stringevano,
  scendevano fino alla cintura. E contro il ventre Aziz
  poteva sentire, inquietante e splendido, l’uccello del dottore gonfio di
  sangue. - È per questo, Aziz? Il dottore scosse la
  testa, senza aspettare una risposta. Si staccò da lui e, tenendolo per mano
  come un bambino, lo condusse nella propria camera. Aziz si lasciò guidare:
  non era in grado di opporsi, non riusciva a pensare. Il bacio di Goldenberg
  lo aveva privato di ogni volontà, spalancandogli un abisso in cui desiderava
  solo precipitare. Il dottore lo baciò di
  nuovo, poi si inginocchiò davanti a lui e gli calò i
  pantaloni, sfilandoglieli. Rimase fermo, fissando l’uccello di Aziz, ormai
  teso. Poi avvicinò la bocca e baciò la cappella. Le sue labbra l’avvolsero e
  Aziz sussultò. Goldenberg incominciò a leccare e succhiare, mentre le sue
  dita stringevano le palle di Aziz e stuzzicavano l’area dietro lo scroto. Aziz chiuse gli occhi. Non
  gli era mai successo, non aveva mai fatto l’amore con un uomo, nessuno, né uomo, né donna, gli aveva mai preso in bocca l’uccello e
  adesso Aziz si sentiva del tutto perso, incapace di agire. Sentiva il piacere
  salire dentro di sé, un piacere violento, che
  penetrava in ogni fibra del suo corpo, che gli impediva di pensare.
  Desiderava soltanto che non finisse mai, che il mondo si fermasse in quel
  momento. Le sue mani accarezzarono la testa del dottore e per la prima volta
  pronunciò il suo nome: - David! David Goldenberg gli mise
  le mani sul culo e strinse con forza, mentre la sua bocca proseguiva nel
  lavoro. Il piacere si dilatò ancora, crescendo oltre ogni limite e infine
  debordò. Aziz sentì il seme percorrere l’asta tesa e proiettarsi nella bocca
  di David. Vacillò. David bevve ogni goccia, poi passò le mani sotto il culo
  di Aziz e lo sollevò in alto. Lo depose sul letto e si stese su di lui. Aziz sentiva il peso del
  corpo del dottore che lo schiacciava. Era una sensazione bellissima, come
  quella delle mani che percorrevano il suo corpo,
  della bocca che lo baciava sul collo, sulla guancia, sugli occhi, fino a
  incontrare la bocca di Aziz in un bacio ardente. Aziz voleva solo questo:
  rimanere tra le braccia del dottore, schiacciato sotto di lui, sentire la sua
  bocca sulla sua pelle e sulle sue labbra. Contro il ventre avvertiva la
  pressione dell’uccello di David, teso e rigido. Dalle labbra gli sfuggì: - Prendimi,
  David. Non era mai stato
  posseduto, gli faceva paura l’idea, ma con tutto se stesso voleva che il
  dottore lo prendesse, lo facesse suo. David lo baciò ancora, più e più volte,
  si sollevò sulle ginocchia e percorse il suo corpo con le mani e con la
  bocca, in baci e carezze che strappavano ad Aziz gemiti e fecero
  nuovamente affluire il sangue all’uccello. Poi David lo baciò sulla
  bocca e lo voltò. Aziz sentì la lingua di David scorrere lungo la sua
  schiena, i piccoli morsi al culo, le carezze ruvide, le dita che gli
  stringevano le natiche. E poi di nuovo la lingua, che scorreva lungo il
  solco, e poi una mano che premeva, un dito che si infilava con cautela
  dentro. Aziz ebbe paura, una paura violenta, ma il desiderio che David lo prendesse era più forte di tutto. Voleva appartenere al
  dottore, voleva che questi lasciasse su di lui il
  suo marchio, dentro di lui il suo seme. Avrebbe davvero voluto che il dottore
  lo marchiasse a fuoco. E dentro di lui il
  desiderio cresceva di nuovo, l’uccello si tendeva e tutto il suo corpo era
  percorso da un fremito. Sentì di nuovo la lingua
  di David lungo il solco, l’avvertì premere contro l’apertura, poi un dito
  tornare a infilarsi, seguito da un altro. E infine avvertì la pressione
  dell’uccello del dottore che forzava l’apertura e si infilava, molto
  lentamente. L’ingresso era doloroso,
  ma nonostante questo Aziz sentì un’ondata di piacere invaderlo: il dottore lo
  stava prendendo, stava diventando suo, suo.
  Goldenberg si muoveva con grande cautela. Uscì, inumidì di nuovo l’apertura e
  rientrò, questa volta avanzando di più. Aziz gemette. Il dolore era presente,
  ma lontano. Più forte del dolore era una sensazione del tutto nuova, una resa
  completa del suo corpo, un aprirsi senza remore, un desiderio fortissimo che
  questa avanzata proseguisse. Goldenberg si spinse ancora in avanti e poi
  prese ad arretrare e avanzare ritmicamente. Era una sensazione bellissima, in
  cui la sofferenza non aveva importanza o forse era essa stessa parte di un
  piacere più grande di tutto. Il dottore si muoveva con
  cautela, forse timoroso di fargli male. Aziz avrebbe accettato tutto, ma
  c’era una tale dolcezza in questa lenta cavalcata, che non avrebbe potuto
  sognare nulla di più bello. Goldenberg andò avanti a lungo e Aziz sentì il
  contatto con la realtà perdersi lentamente. Il mondo si dissolveva ed
  esisteva solo più l’uccello di David che lo penetrava, spingendosi a fondo, e
  poi arretrava. Esistevano solo più le mani di David che lo accarezzavano e lo
  stringevano. Esistevano solo più le labbra di David che lo baciavano, gli
  sussurravano parole dolcissime e oscene, i denti di David che lo mordevano.
  Esisteva solo più il corpo di David sul suo. E quando infine David
  venne, dentro di lui, con una successione di spinte più violente, anche il
  dolore, intenso, divenne parte del piacere che lo avvolse, mentre il suo seme
  si spargeva sul letto. 2014 |