Faccia da coglione

 

 

Quella sera camminavo ai bordi del parco della Colletta. Non stavo passeggiando: andavo a caccia, come facevo spesso. Pensavo che la serata si sarebbe conclusa come al solito: una scopata, più o meno soddisfacente, nel parco o a casa o magari in auto. Una serata come tante altre.

Vidi i due seduti in auto, con le portiere aperte. Non erano certo lì a prendere il fresco. Fare sesso in tre con gente che non conosci è poco prudente: non sai mai chi becchi ed è più difficile controllare la situazione. Puoi avere dei problemi anche con uno solo, ma io non avevo paura: 1 e 88 di statura, allenamento regolare in palestra, grande esperienza di diverse arti marziali (jujutsu e aikido) e lotta libera. Diciamo che non sono mai stato la vittima ideale e infatti nei miei anni di battuage non ho mai avuto problemi. L’unica volta che venni aggredito da due imbecilli mi divertii alquanto. Loro molto di meno e credo che almeno uno dei due sia finito all’ospedale.

L’auto era una Fiat Punto, certamente non nuova. Guardai la targa, ben illuminata dal lampione. Potrei dire che quella di osservare le auto e le loro targhe è una deformazione professionale: lavoro in un’officina e la targa ti dice subito qual è l’età della vettura. La gente di solito non ci bada, se non quando deve prendere i dati dopo un incidente.

La targa mi colpì perché era molto simile alla mia: doveva essere stata immatricolata negli stessi giorni. Le lettere iniziali erano uguali, come la H finale, che era preceduta da un’altra H, e il primo dei numeri, 3. La loro proseguiva con 5 e 7: 357, tre numeri dispari di seguito, facile da ricordare. Non sospettavo quanto questa strana coincidenza avrebbe cambiato la mia vita.

Dovevo passare davanti all’auto, per cui gettai un’occhiata. I due non mi piacquero, per niente: dovevano avere qualche anno in meno di me, probabilmente erano sui venticinque, e avevano un’aria strafottente che dava voglia di prenderli a schiaffi. Era evidente che pensavano di essere i padroni del mondo. Erano i classici fighetti, con abiti firmati in stile finto-povero. Ma davvero ricchi non dovevano essere, perché se lo fossero stati avrebbero già cambiato l’auto da tempo: un’auto di otto anni a me andava bene, perché non avevo bisogno di farmi vedere. La mia Renault Clio era un gioiello, tenuta con cura. Ma questi due avrebbero preferito almeno una Marea o, meglio, un’Alfa Romeo 156.

Avevo già superato l’auto quando sentii uno dei due dire all’altro:

- Che faccia da coglione!

L’espressione mi colpì, perché l’avevo sentita dodici anni prima. Era stato un mio compagno di scuola che aveva detto di me:

- Berto? Corpo da Ercole, cazzo da toro e faccia da perfetto coglione. Quello che è.

Io stavo entrando nello spogliatoio della palestra in quel momento e l’avevo sentito. Mi aveva ferito, allora avevo diciott’anni, stavo per mollare l’istituto tecnico a cui mi ero iscritto e dove avevo già ripetuto un anno. Era un periodo di merda, i miei si erano separati, dopo anni di litigi e botte e io mi stordivo di palestra e attività fisica. In classe mi ero isolato e non è che i miei compagni avessero fatto grandi sforzi per starmi vicino. Colpa mia, lo so, perché non sapevo chiedere, non riuscivo a confidarmi con nessuno. Gli anni di botte mi avevano segnato e non parlo del naso spaccato o di qualche cicatrice. Avevo dentro una grande rabbia e la palestra era stata il mio rifugio. Lì avevo imparato a difendermi e a un certo punto mio padre aveva smesso di picchiarmi. Capivo che ora era lui ad avere paura di me, come io per anni avevo avuto paura di lui. Fino al giorno in cui rientrai a casa e lui stava di nuovo menando mia madre. Gliene diedi tante che rischiai di ammazzarlo. Se mia madre non mi avesse fermato, non so come sarebbe finita. E dopo altre due settimane in cui in casa l’aria era irrespirabile, i miei si separarono. Due mesi dopo, quando era chiaro che non c’erano i soldi per farmi finire gli studi e io comunque avrei di nuovo perso l’anno, sentii quella frase del mio compagno, uno che credevo fosse un amico. “Faccia da coglione. Quello che è.” Merda!

È vero, non ho una bella faccia. Sono piuttosto brutto, lo riconosco, e guardandomi alcuni pensano che io debba essere stupido. Non sono un genio, ma non sono neanche scemo, anche se a lungo ho pensato di esserlo, di fronte ai miei fallimenti scolastici. Ho capito tardi che alle superiori il mio rendimento era in caduta libera perché era il mio mondo a precipitare in picchiata. E se non avessi incontrato Andrea, il padrone dell’officina che mi assunse, forse avrei continuato a considerarmi stupido. Lui mi insegnò il lavoro e capì benissimo la mia situazione: mi incoraggiava e mi lodava e io scoprii di non essere stupido come pensavo. Anche le arti marziali e la palestra mi resero un po’ di autostima: non ottieni certi risultati se puoi contare solo sulla forza.

Quel giorno a scuola, nello spogliatoio, non avevo detto niente. Ma quella sera al parco avevo dodici anni in più e non intendevo fargliela passare liscia a quei due stronzi. Mi voltai e ritornai indietro. Non avevo nessuna intenzione di attaccare briga, ma volevo spaventarli un po’: se assumo un’aria minacciosa, la gente si spaventa.

E in effetti quando ripassai davanti all’auto, li vidi tesi e chiaramente impauriti, anche se cercavano di nasconderlo. Mi fermai un momento, li fissai bene in faccia, ghignai e proseguii. Non dissero nulla.

Se non avessero parlato, non li avrei guardati bene e i loro tratti non mi sarebbero rimasti impressi nella memoria. Ma quella sera il caso – o il destino – sembrava curare ogni dettaglio: la targa illuminata dal lampione, la battuta che mi aveva spinto a ritornare indietro e fissarli e, più tardi, l’ultimo elemento decisivo.

 

Poco dopo incontrai un tipo che mi squadrò e mi sorrise. Doveva avere qualche anno in più di me, era più basso (come quasi tutti gli uomini che incontro) e aveva una bella faccia. Probabilmente fu colpito dal mio fisico imponente. Scambiammo due parole, ma non eravamo lì per fare conversazione, per cui passammo subito al dunque. Lui preferiva consumare sul posto. Non è che mi entusiasmasse, ma l’avevo già fatto altre volte e la cosa non mi preoccupava. Se fossimo andati a casa mia o a casa sua, la mia vita sarebbe stata diversa.

Ci isolammo in un’area dove la luce dei lampioni non arrivava e la vegetazione era più fitta. Me lo succhiò e poi se lo fece mettere in culo. Ordinaria amministrazione, ma piacevole.

Se ne andò rapidamente e io rimasi un momento nell’ombra. Avevo svuotato i coglioni, ma, come spesso mi succedeva, non ero contento. Sapevo di volere altro nella vita, ma ormai avevo rinunciato a cercarlo. E certamente non avrei potuto trovarlo al parco.

La mia storia con Sergio era durata quattro anni, poi ci eravamo lasciati. Non era stato un dramma, per nessuno dei due, ma un fallimento, che mi aveva tolto la voglia di riprovare. A trent’anni prendevo quel che passava il convento e non era il massimo, ma non mi lamentavo, perché c’erano tante cose che funzionavano: avevo un buon lavoro, che mi permetteva di campare dignitosamente; vivevo nel mio piccolo appartamento (in affitto), dotato di tutto il necessario; avevo alcuni amici. Scopavo quando ne avevo voglia, senza faticare per trovare qualcuno, e se non avevo una relazione stabile, non era la fine del mondo.

 

Camminai un momento nel parco. Forse sarei rimasto più a lungo, ma mi si avvicinò un tizio e sapevo che se avessi continuato a girare ne sarebbero arrivati altri: chi frequentava il parco a quell’ora non era lì per passeggiare. Perciò mi diressi verso la strada. Quando stavo per raggiungerla, vidi che la macchina dei due era ancora ferma al posto di prima, ma adesso c’era un uomo in piedi, che evidentemente stava parlando con loro. Il lampione lo illuminava bene. Mi fermai, perché ero curioso di vedere come sarebbe finita. Si concluse abbastanza rapidamente: il tizio salì in auto, quello al volante mise in moto e se ne andarono.  

Tornai a casa e non pensai più a loro.

 

Nel primo pomeriggio del giorno dopo però, guardando il telegiornale regionale, sentii la notizia: un artigiano ucciso in casa, probabilmente da qualcuno con cui aveva avuto un rapporto. Il tizio aveva un negozio e produceva carte veneziane, che usava per decorare scatole, rilegare libri e altri lavori di questo tipo. Non prestai molta attenzione: tenevo il televisore acceso mentre mangiavo, ma lo guardavo appena. A un certo punto però comparve la foto: era certamente l’uomo che avevo visto parlare con i due nel parco. Non avevo dubbi su questo: ho sempre avuto un’ottima memoria visiva. Probabilmente erano stati quei due a ucciderlo.

Decisi di andare alla polizia. Telefonai in officina e dissi che non sarei tornato alla solita ora e che speravo di arrivare più tardi. Non c’erano problemi: lavoravo lì da dieci anni ed era la prima volta che mi assentavo. Andrea si preoccupò alquanto, ma gli dissi che non era niente di grave e che gli avrei spiegato. 

Non sapevo chi si occupasse dell’omicidio, per cui provai a telefonare. Non fu facile ottenere l’informazione richiesta, ma alla fine ci riuscii. Il primo impatto in commissariato fu decisamente negativo, perché l’agente con cui mi fecero parlare era alquanto diffidente: a quanto pare in ogni caso di cronaca nera spuntano testimoni inattendibili, che fanno perdere un sacco di tempo, quando non portano l’inchiesta fuori strada.  

A un certo punto me ne sarei davvero andato, ma ormai non era più possibile. Infine l’agente si rese conto che forse avevo davvero una testimonianza da portare e andò a parlare con l’ispettore Greco che seguiva il caso. Poco dopo tornò e mi fece accomodare da lui.

L’ispettore mi colpì subito. In primo luogo era alto come me e non mi capita spesso di incontrare uomini di 1.88. Era alquanto ben piantato: di sicuro andava anche lui in palestra. Mi dissi che se avessi dovuto affrontarlo, non sarei stato sicuro di batterlo, tanto più che come ispettore doveva allenarsi regolarmente. La faccia era belloccia, non da coglione: non era un apollo, ma aveva un viso regolare, barba e capelli di un bel castano scuro, occhi chiari. Ci avrei provato volentieri, ma ovviamente né il posto né il momento erano adatti.

- L’agente mi dice che hai visto l’uomo ucciso ieri sera. È vero?

- Sì, al Parco della Colletta, verso mezzanotte.

- Perché eri lì?

Sapevo che la domanda sarebbe arrivata. Non intendevo inventare scuse poco verosimili. Lo guardai bene in faccia, mentre rispondevo:

- Andavo a caccia. A caccia di maschi. È una zona di incontri.

Non si mostrò né stupito, né scandalizzato. Si limitò ad annuire.

- Raccontami.

Incominciai a raccontare. Gli spiegai di aver visto i due fermi in auto.

- Sono passato davanti a loro e ho dato un’occhiata.

- Saresti in grado di riconoscerli?

- Certamente. Dopo li ho guardati bene.

- Dopo… dopo aver consumato?

Sorrise mentre lo diceva. Io risi.

- No, erano due stronzi, facce da schiaffi. Non mi sarebbe venuta proprio voglia.

- E allora?

- Mentre mi allontanavo, uno dei due ha detto: “Che faccia da coglione!” Mi ha dato fastidio e allora sono tornato indietro.

- Pensavi di menarli?

- No, ma di intimorirli. Sai com’è, mi vedi: diciamo che una certa impressione la faccio e quei due non erano certo come te.

Gli davo del tu, come lui lo dava a me. Non ero sicuro che gli andasse bene, ma non me importava molto. Non lo rimarcò. All’ultima frase sorrise. Mi piaceva vederlo sorridere.

Proseguii nel racconto, dicendo che li avevo osservati bene e poi me ne ero andato.

- E l’uomo che è stato ucciso?

- Una ventina di minuti dopo, forse mezz’ora, stavo tornando alla mia auto, dopo aver fatto… quello che ero venuto a fare.

L’ispettore sorrise di nuovo. Mi piaceva quando sorrideva. Mi piaceva anche quando non sorrideva. Io proseguii:

- Vidi che vicino alla loro auto era fermo un uomo, che stava parlando con loro. È quello di cui hanno fatto vedere la foto al telegiornale.

- Sei sicuro?

- Assolutamente.

Fornii tutte le informazioni in mio possesso, compresa una descrizione dettagliata dei due tizi.

- Verificheremo tutte le informazioni. Ti ringrazio per essersi presentato e ti chiedo di non parlare con nessuno di quello che hai visto.

Gli risposi che me lo sarei tenuto per me.

Tornai in officina, con due ore di ritardo. Spiegai brevemente ad Andrea la faccenda, senza entrare nei dettagli. Avrei voluto recuperare le due ore la sera stessa, ma Andrea mi disse di tornare a casa alla solita ora, minacciando di prendermi a calci in culo, se non l’avessi fatto.

Il giorno dopo era sabato e seppi dal telegiornale che la polizia aveva fermato due giovani per l’omicidio, grazie alla testimonianza di un uomo che li aveva visti con la vittima.

Fui chiamato per un confronto. Ritrovai l’ispettore, che mi ringraziò ancora e poi mi fece riconoscere i due, tra altri della stessa età. Non ebbi nessuna difficoltà a identificarli, anche se avevano perso la loro aria strafottente.

Poi l’ispettore mi fece passare nel suo ufficio.

- Noi non abbiamo dato a nessuno il tuo nome e spero che i giornalisti non arrivino a te, non subito, almeno. Sono peggio dei mastini, quelli.

- Sì, non dev’essere piacevole averci a che fare.

- Su un delitto di questo tipo, poi… meglio se riusciamo a tenerti fuori il più possibile.

Mi stupii che si preoccupasse per me. Mi faceva piacere.

- Sì, mi immagino già… il parco della Colletta, sesso vicino al cimitero, gay per di più…

- Esatto. Ma, se i diversi elementi raccolti confermeranno la colpevolezza dei due, la tua testimonianza passerà in secondo piano.

- Avete trovato tracce…

Mi interruppi, perché mi resi conto che non potevo porre domande. L’ispettore rispose sorridendo:

- Non posso dirti niente, per il momento.

Nei giorni seguenti appresi dai giornali i diversi dettagli. Dal numero di targa dell’auto la polizia era risalita facilmente al proprietario dell’auto e al suo amico, che lui aveva cercato di usare come alibi, senza rendersi conto di incastrarlo. I due erano proprio coglioni, perché non avevano pensato di cancellare tutte le impronte nella casa di quello che avevano ammazzato, ma solo quelle sulla statuetta di bronzo con cui gli avevano spaccato la testa. Oltre alle impronte, trovarono il loro DNA sui bicchieri a casa del morto, che gli aveva offerto da bere. Non avevano neppure gettato via gli abiti insanguinati, probabilmente perché non si aspettavano di essere arrestati: trovarono sangue del morto sulla camicia e sui pantaloni di uno e sui pantaloni e sulle scarpe dell’altro. Insomma: erano completamente fottuti. Finirono per confessare l’omicidio, sostenendo che l’uomo li aveva aggrediti e loro si erano difesi.

Il caso era stato risolto in tempi record, senza aver fatto in tempo a suscitare grande curiosità, per cui venne rapidamente accantonato. Nessuno venne a cercarmi, ma sapevo che avrei dovuto testimoniare al processo, anche se ormai, di fronte alle prove schiaccianti, la mia testimonianza era del tutto irrilevante.

 

L’ispettore Greco mi mandò a chiamare qualche giorno dopo. Gli avevo detto che preferivo non assentarmi dal lavoro, per cui scelse un orario serale. Avevo detto tutto quello che sapevo, per cui non capii il motivo della chiamata, ma mi presentai puntuale.

Greco voleva rivedere la mia testimonianza, precisando alcuni dettagli, come l’orario del primo incontro con i due giovani e quello del colloquio tra loro e la vittima. Piccole cose, che preferiva definire prima che passasse molto tempo e io dimenticassi.

Alla fine del colloquio mi fece firmare il verbale, congedò l’agente e mi disse:

- Mariani, che ne diresti se ti invitassi a cena? C’è un posto tranquillo qui vicino, dove possiamo chiacchierare in pace.

La proposta mi prese del tutto di sorpresa. Incominciai subito a fantasticare di un dopocena appassionato, mentre rispondevo:

- Non mi aspettavo un invito, ma mi fa molto piacere. Purché non parliamo del caso.

- Non ne ho nessuna intenzione.

Andammo a piedi in un locale non molto lontano. Greco mi disse che a pranzo era molto affollato, perché ci veniva la gente che lavorava negli uffici della zona, ma la sera si stava benissimo.

Al momento di sederci, lui mi disse:

- Io mi chiamo Giovanni.

- Io Roberto, Berto per gli amici. Ma lo sai già.

Giovanni non ci girò intorno. Mi disse subito:

- Ti ho invitato perché vorrei conoscerti meglio. Ho molto apprezzato la tua testimonianza, senza reticenze.

- E allora mi vuoi sottoporre a un interrogatorio.

Giovanni rise. Aveva una bella risata, non rumorosa, ma allegra.

- No, fuori dal mio ufficio non mi permetterei mai. Non c’è nessuno che verbalizza.

Risi anch’io, ma ero guardingo. Lo conoscevo appena e non ero sicuro di voler soddisfare la sua curiosità, soprattutto se riguardava gli anni della mia giovinezza.

In realtà si rivelò molto discreto. Mi chiese del mio lavoro e dei motivi per cui ero diventato meccanico. Mi ascoltava con attenzione e se gli chiedevo qualche cosa, mi rispondeva, parlando di sé e del suo passato. Finii per raccontargli  anche della mia famiglia. Stavo bene con lui.

Verso la fine della cena mi disse:

- Posso chiederti alcune cose sulla tua vita sessuale? Sono sfacciato, lo so, ma mi sembri un uomo intelligente e sensibile e certe domande mi vengono. Se non ti va, lasciamo perdere.

- Va bene, chiedi.

- Se non vuoi rispondere, non farlo.

- Sono così terribili le tue domande?

- Non lo so, lo deciderai tu. Essenzialmente quello che vorrei capire è perché uno come te va a caccia di maschi in zone come la Colletta.

Ironizzai:

- Conosci delle zone migliori?

Giovanni rise.

- Io preferisco frequentare alcuni bar. Non mi piacciono neanche quelli, ma quando il desiderio preme… cerco di soddisfarlo. In un bar parli un po’ con uno, prima di andarci a letto.

A sorprendermi non fu il fatto che fosse gay e lo dicesse tranquillamente a me, un perfetto sconosciuto: all’inizio del terzo millennio anche un ispettore di polizia poteva essere apertamente gay e infatti, come scoprii in seguito, il commissario gli aveva affidato il caso perché aveva pensato che potesse essere la persona più adatta per indagare su un delitto di quel genere. Mi colpì che mi parlasse di quello che faceva abitualmente lui, per trovare un compagno per una notte.

Lo guardai e gli risposi onestamente, ma in modo un po’ brusco.

- Ho rinunciato da tempo a… qualche cosa di più. Ho bisogno di svuotare i coglioni, lo faccio, al parco, in auto o dove capita. Non ho voglia di farmi le seghe come se fossi un ragazzino.

Fino a quel momento nella nostra conversazione, per quanto personale, non avevamo mai usato un linguaggio brutale. Giovanni capì benissimo che la domanda mi aveva infastidito e disse:

- Scusami, Berto. Non volevo irritarti.

- Scusami tu, Giovanni. Mi rendo conto di aver risposto male. Non è colpa tua.

Esitai un momento e poi gli dissi:

- Ho avuto una storia. È durata quattro anni. Vivevamo ognuno a casa propria, ma ci incontravamo più volte a settimana, non solo per scopare. È finita tre anni fa, ma in realtà non era mai stata… quello che avrei voluto.

- Perché?

Mi sentivo a disagio e Giovanni se ne accorse.

- Scusami, non dovevo chiedertelo. Ti avevo promesso di non fare un interrogatorio e invece… Sono un ficcanaso.

Io guardai fuori dalla vetrata, sulla strada illuminata dai lampioni. Poi mi voltai, fissai Giovanni in faccia e gli dissi:

- Scopavamo, facevamo alcune cose insieme, ma eravamo più due amici che altro…. Oh, merda! Ci ho rinunciato, capisci, Giovanni? Ci ho rinunciato.

Avevo alzato la voce ed ero furibondo con me stesso per averlo fatto, per aver rovinato la serata, che era andata benissimo fino a poco prima.

Giovanni tacque e io mi alzai.

- È meglio che vada.

Lui mi prese una mano con la sua, sorrise e disse:

- Non puoi fermarti ancora un momento? Prometto che non farò più il ficcanaso.

Lo guardai e senza sedermi gli dissi:

- Mi hai guardato, Giovanni? Ho una faccia da coglione. E lo sono.

Lui scosse la testa, sorridendo.

- Non credo proprio, anzi: lo escludo. Fin dal primo momento, quando sei venuto a testimoniare, mi hai colpito. Eri venuto spontaneamente, sapevi quello che stavi facendo, conoscevi i rischi che correvi, eri preciso e sicuro nella tua testimonianza. Mi sei piaciuto un casino.

Lo guardai. Lui sorrise.

- Siediti, Berto. Solo un momento. Poi ti lascio andare. Non intendo trascinarti in un angolo buio e cercare di stuprarti. Temo che potrei avere la peggio.

Sorrisi anch’io e mi sedetti.

- Non so. La prima volta che ti ho visto, mi sono detto che dovevi essere un avversario molto forte e che se avessi dovuto affrontarti non so come sarebbe finita.

Poi aggiunsi, sempre sorridendo:

- Comunque non credo che opporrei una grande resistenza. Di solito sono io che faccio il servizio, ma sono versatile.

Il sorriso di Giovanni si spense. Mi fissò e disse:

- Berto, ti ho invitato perché mi avevi colpito e, sì, avevo anche in testa che la cena potesse avere un seguito a casa tua o a casa mia, ma non era l’obiettivo principale. Non lo è neanche adesso. Vorrei davvero conoscerti meglio.

- Andare a letto con qualcuno può servire a conoscere meglio, no?

Lui sorrise e disse:

- Credo che tu stia scappando, ma ricordati che sono un poliziotto e non è facile sfuggirmi. Sì, possiamo provare a letto, più che altro perché ormai ce l’ho duro e non vorrei andare alla Colletta a cercare compagnia.

- Ci sono anche i bar, no?

- Stronzo!

Ridemmo tutti e due. Ci alzammo, Giovanni pagò e io lo ringraziai. Stava a venti minuti a piedi dal commissariato. Ci dirigemmo a casa sua. Ero euforico e nello stesso tempo preoccupato. Intuivo che con Giovanni non sarebbe stato come con gli altri. Mi sembrava di sognare e avevo paura di svegliarmi.

 

La casa di Giovanni non era grande: un salottino con una biblioteca molto piena, una camera con un comodo letto matrimoniale, una cucina abitabile e un bagno spazioso, con una grande doccia.

Appena entrati, Giovanni mi spinse contro la porta, mi prese la testa tra le mani e mi baciò. Seguì tutto il resto, come altre volte, solo che fu tutto più dolce, più intenso, più forte, più appagante. Mi sembrava di essere in paradiso.

Infine, esausti, stanchi e sudati, ci facemmo la doccia insieme, baciandoci ancora.

Era ormai ora di andare. Speravo che ci fossero altre volte, tante altre volte. Avrei voluto rimanere con Giovanni, ma non volevo impormi. Non sapevo se aveva impegni, se aveva voglia di stare ancora con me. Di solito gli uomini che incontravo al parco dopo la scopata tendevano a scomparire rapidamente o, se avevamo consumato a casa loro, a congedarmi in fretta. Perciò dissi:

- Adesso vado.

- Te ne vai? Devi lavorare domani?

- No, è che…

- Non hai voglia di dormire qui? Domani mattina possiamo fare il bis. E in ogni caso a me farebbe piacere dormire con te.

Lo desideravo anch’io, per cui non feci resistenza: mi sembrava assurdo farmi pregare. Chiesi:

- Dormi sempre con quelli che ti porti a letto?

Non so perché lo dissi. Credo che mi stessi difendendo, non da lui, ma da me stesso, dai sogni che stavano comparendo nella mia testa. Avevo paura del risveglio.

Giovanni scosse il capo.

- No, quasi mai. Solo quando qualcuno mi piace davvero molto.

Fu un colpo basso. Mi sentii sciogliere e non replicai, perché ero sopraffatto dall’emozione.

Quella notte tra le braccia di Giovanni fu una delle cose più belle che la vita mi avesse regalato, più ancora della superlativa scopata della sera, più di quella del mattino successivo. Se mi avessero chiesto come immaginavo il paradiso, avrei detto che per me era quello: dormire nell’abbraccio di Giovanni. 

Il mattino facemmo un bis della sera prima. Dopo colazione, quando stavo studiando come congedarmi, alquanto a malincuore, Giovanni disse:

- Che ne dici se andiamo a fare una passeggiata alla Mandria? Il mattino non c’è tanta gente. Entriamo dall’ingresso di Druento.

Guardai Giovanni. Avevo paura, una paura che non riuscivo a controllare. Ero salito su un’auto che prendeva sempre più velocità e non potevo raggiungere i comandi. Ero sicuro che mi sarei schiantato, ma non avevo nessuna intenzione di scendere.

Sorrisi e dissi:

- Molto volentieri.

Dopo la passeggiata tornammo a casa di Giovanni, dove mangiamo un boccone. Giovanni propose un giro in montagna per il giorno dopo e a quel punto fu chiaro che non ci saremmo separati fino alla domenica sera. Giovanni mi accompagnò a casa a prendere l’occorrente. Dalla gita tornammo presto: Giovanni detestava le code del rientro la domenica pomeriggio.

A casa sua ci facemmo la doccia insieme. Finì com’era prevedibile, come desideravamo entrambi.

 

Giunse infine il momento della separazione. Giovanni chiese:

- Quando ci rivediamo, Berto? Se hai voglia di rivedermi, naturalmente.

Avevo una voglia dannata di rivederlo: già il separarmi da lui mi faceva stare male.

- Sabato prossimo. O venerdì sera.

- Prima proprio non puoi?

Non mi aspettavo la sua richiesta. Annuii e dissi:

- Mercoledì sera, se sei così impaziente.

- Sono impaziente. Ma pazienterò fino a mercoledì.

Tornai a casa euforico e spaventato. Ero euforico perché avevo vissuto un fine settimana splendido, perché Giovanni mi piaceva moltissimo, perché mi aveva detto che voleva rivedermi senza aspettare il sabato successivo. Ero spaventato per gli stessi motivi: intuivo che mi stavo innamorando ed era qualcosa che non sapevo come gestire. Era stato tutto troppo rapido. Avevo perso immediatamente il controllo della situazione.

 

Confesso che quando, il mercoledì sera, uscii dall’officina e vidi Giovanni seduto in auto poco lontano, ebbi la tentazione di fuggire, di andare nella direzione opposta. Giovanni avrebbe capito e forse non si sarebbe più fatto vivo. La sua casa non sarebbe diventata la nostra casa e noi non saremmo una coppia da oltre vent’anni.

Ci fu un attimo in cui davvero fui sul punto di scappare, poi mi diressi verso la sua auto: avrò anche la faccia da coglione, ma non sono completamente coglione.

 

                           

 

2023

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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