La valle del Nahr

 

 

- Partirò mercoledì per la valle del Nahr. Jean, tu verrai con me.

Tutti guardano Louis Valbois, ma nessuno osa parlare. Louis Valbois è un uomo collerico, di fronte a cui la moglie e i figli chinano il capo. Davanti al sovrintendente del barone, al sacerdote, al comandante della fortezza, Louis Valbois si prosterna: il potere va sempre rispettato. Ma in famiglia Louis è il potere e guai a chi si azzarda a metterlo in discussione. Nemmeno Jauffroy, che ha ventiquattro anni e lavora non meno del padre, osa contraddirlo.

Negli occhi di sua madre, Jean legge lo stesso sgomento che di certo è anche nei propri. Jean non ha mai lasciato il villaggio, che fa parte del feudo del conte Ferdinando, vassallo del re di Gerusalemme. Non è l’idea di trascorrere alcune settimane altrove a spaventarlo: Jean è un ragazzo curioso e gli piacerebbe conoscere nuove terre. Ma la valle del Nahr al-Litani, per quanto faccia parte dei domini del conte, rappresenta un rischio mortale: è troppo vicina al confine ed è spesso meta di incursioni degli Hashishiyya, gli ismailiti.

Il nome di questa misteriosa setta è sufficiente a incutere timore in tutti i coloni e negli stessi soldati. Quei maledetti possiedono diversi castelli in queste terre d’Oriente, da cui partono per le loro spedizioni. Ma più ancora delle incursioni, a suscitare il terrore è la loro capacità di arrivare a colpire anche là dove nessuno sospetterebbe la loro presenza: non esiste luogo in cui essi non possano raggiungere i loro nemici, né in terra cristiana, né tra i saraceni. Gli Hashishiyya non si fermano davanti a nulla: perfino il Saladino rischiò di essere ucciso da quei maledetti, benché fosse anche lui un infedele. Jean sa che, pur credendo in Maometto, essi non vanno d’accordo con gli altri musulmani. Jean sa molte cose, che pochi conoscono: a lui le ha raccontate il vecchio sacerdote, Roger, morto l’anno scorso. È lui che gli ha insegnato a leggere, anche se suo padre non era d’accordo e lo considerava tempo perso.

Il pensiero di cadere nelle mani degli Hashishiyya e di diventare schiavo dei musulmani fa paura a Jean. Sa che solo tre anni fa gli Hashishiyya hanno fatto un’incursione, uccidendo parecchi uomini e rapendo gli altri. Di loro non si hanno più notizie: di certo tutti sono divenuti schiavi e sono stati venduti. Alcuni sono morti nelle miniere o nelle navi, altri patiscono ancora sotto il giogo di un padrone.

Perciò nessuno vive nella valle del Nahr, benché essa sia fertile. I coloni franchi vi hanno piantato ulivi e periodicamente qualcuno di loro vi si reca per svolgere qualche lavoro. In inverno diversi contadini vi si trasferiscono per raccogliere le olive. Lasciano allora per qualche settimana la sicurezza del loro villaggio, arroccato sul versante occidentale dei monti del Libano e protetto dal castello San Michele, una fortezza dei cavalieri templari. Conoscono i rischi che corrono, ma alcuni sono servi del conte e non possono sottrarsi, altri sono attratti dalle possibilità di guadagno: il conte offre un compenso generoso. Alcuni dei suoi uomini accompagnano i lavoratori, ma il rischio rimane forte.

Il padre di Jean si recò nella valle una sola volta, scampando a fatica a un’incursione degli Hashishiyya. Da allora non vi ha mai fatto ritorno, ma per tre anni ha mandato Jauffroy, per intascare il compenso. Anche Jauffroy ha rischiato di essere catturato.

Jean è giovane e nella valle lavorano solo maschi adulti: il sovrintendente non vuole ragazzi o donne, che scatenerebbero tensioni tra gli uomini. Ma il sovrintendente non intende rimanere a digiuno anche lui, perciò ogni anno un ragazzo va nella valle. Lavora come gli adulti e poi la sera il sovrintendente se ne serve per soddisfare i propri appetiti.

Jean sa benissimo che suo padre lo ha venduto per intascare un po’ di soldi. Se potesse, suo padre lo manderebbe da solo, senza correre rischi, ma il sacerdote non accetterebbe che un ragazzo dell’età di Jean partisse senza il padre.

 

Jean sa che la sua sorte è segnata e che non ha nessuna possibilità di sfuggirle. Si sente umiliato all’idea che suo padre lo ha venduto e che dovrà soddisfare il sovrintendente.

Il pasto prosegue, in silenzio. La madre di Jean nasconde una lacrima. Jean ha in testa un turbinio di pensieri confusi. Può sfuggire alla sorte che lo attende? Dove? Queste terre d’Oriente, che i saraceni minacciano, non offrono molte possibilità per un ragazzo solo. Se venisse ripreso e ricondotto a casa, suo padre lo ammazzerebbe di botte. Se si allontanasse, rischierebbe di essere catturato dai saraceni.

Dopo cena, tutti vanno a dormire. Jean divide il giaciglio con i suoi due fratelli maggiori, ma questa notte il sonno non viene. A un certo punto della notte si alza senza far rumore. Fuori la luna sta comparendo, oltre la cresta montuosa oltre la valle. È una luna piena, un cerchio perfetto, la cui luce illumina quasi a giorno il villaggio ai suoi piedi: quella di Jean è una delle case più in alto, sul fianco della montagna. Jean ha voglia di piangere, ma ricaccia indietro le lacrime.

Pensa al sovrintendente, un uomo sui cinquanta, forte, di modi rudi, spesso brutale e aggressivo, di cui ricorda l’odore aspro di sudore e gli abiti sporchi. Quell’uomo lo prenderà.

Jean alza la testa verso la fortezza che incombe sulla loro casa, il castello San Michele, sede dei cavalieri del Tempio. Pensa a Guillaume di Hautlieu, il comandante della guarnigione, un uomo forte, che dev’essere vicino ai quaranta.

A ottobre lo ha visto al torrente, dove si bagnava. Guillaume si è accorto che Jean lo stava guardando e gli ha sorriso. Poi è uscito dall’acqua, senza nascondersi, e gli si è avvicinato, rivolgendogli la parola. Jean intuiva il desiderio di Guillaume: non era la prima volta che un uomo lo desiderava, ma ha avuto paura: non ha mai conosciuto né un uomo, né una donna. Alle sue domande ha riposto in modo evasivo e si è allontanato in fretta. Guillaume non lo ha seguito, non ha insistito. Ha sorriso e gli ha fatto un cenno di saluto. Poi si è voltato, ha preso i suoi abiti e si è rivestito. Nascosto tra i cespugli, Jean lo ha seguito fino a che è scomparso tra gli alberi.

Sulla soglia, Jean guarda la fortezza e si chiede se Guillaume di Hautlieu sarebbe disposto ad aiutarlo. In quanto capo militare della fortezza, che appartiene all’ordine dei Templari, egli non deve obbedienza neppure al conte Ferdinando, che d’altronde ben di rado si vede in queste valli e di certo non si preoccupa delle voglie del suo sovrintendente nel villaggio.

Se si rivolgerà a Guillaume di Hautlieu, questi gli offrirà la sua protezione? E se lo farà, gli chiederà come compenso di offrirgli il suo corpo? È probabile, ma mille volte meglio essere posseduto da Guillaume di Hautlieu che da François il Bastardo, come lo chiamano tutti nel villaggio, quando non è nelle vicinanze. L’idea di appartenere a Guillaume lo turba. Lo spaventa, ma sa anche di desiderarlo. La sua mano si appoggia sull’uccello, senza che Jean se ne renda conto. Domani cercherà di parlare con il comandante della fortezza. E poi accadrà quello che Dio vorrà.

 

Il giorno seguente Jean sale di buon mattino a castello San Michele e chiede al soldato di guardia all’ingresso di parlare con il comandante. L’uomo lo guarda, diffidente. È un gigante dai modi bruschi, ma non ostile.

- Che cosa vuoi dal comandante, ragazzo?

- Non posso dirlo a nessun altro.

- Ragazzo, il comandante non può essere disturbato per niente. Dimmi che cosa vuoi. Se non è una cosa importante, col cazzo che ti faccio parlare con lui.

Jean esita. È una cosa importante? Per lui sì, per Guillaume di Hautlieu certamente no: che cosa può importargli se un ragazzo è costretto a subire violenza?

Il soldato insiste:

- Allora?

- Posso parlare solo con il comandante.

Il soldato scuote la testa: non è convinto che questo ragazzo possa avere qualche cosa di importante da dire. Ma Guillaume di Hautlieu sta scendendo dalle mura, dove ha fatto il solito giro di perlustrazione mattutino. Jean lo vede e grida:

- Comandante!

Il soldato si arrabbia:

- Accidenti a te! Come ti permetti…

Ma un gesto di Guillaume lo interrompe. Il comandante ha riconosciuto Jean e si avvicina.

- Che vuoi, ragazzo?

Jean arrossisce. Non può parlare davanti al soldato.

- Ho bisogno di parlarvi, comandante.

Guillaume di Hautlieu annuisce.

- Vieni con me.

Guillaume si volta e si dirige verso il torrione. Jean lo segue, mentre il soldato lo fissa, irritato, e scuote la testa.

Guillaume introduce Jean in una piccola stanza. Si siede e ripete la domanda:

- Che cosa vuoi, ragazzo?

Parlare non è facile, neanche adesso che sono soli lui e il comandante. Jean non sa da che parte incominciare. Il comandante lo fissa, con un’espressione severa. Non è abituato a perdere tempo. Jean è ancora più in imbarazzo.

La voce del comandante è meno dura, ora:

- Allora? C’è qualche problema?

Jean annuisce.

- Dimmi, non aver paura.

Jean deglutisce e cerca il coraggio per parlare. Infine riesce a dire.

- Comandante, mio padre vuole che parta domani per la valle del Nahr.

- Ma sei troppo giovane; nella valle vanno soltanto gli uomini…

Il comandante si interrompe. Ha compreso. Riprende:

- E tu non vuoi andare. Capisco.

Jean annuisce. È grato al comandante che gli risparmia l’umiliazione di dover spiegare.

Il comandante rimane in silenzio un buon momento. Jean non osa guardarlo.

- Potrei parlare con tuo padre, ma se il sovrintendente lo ha pagato, non cambierà certo idea. Potrei ordinargli di non farti partire, ma devo dare una motivazione. L’unica cosa che posso fare è prenderti qui alla fortezza. Come servitore o come soldato. Questo è in mio potere. 

Ora Jean alza gli occhi. Guillaume prosegue:

- Ti va bene?

Jean annuisce. È più di quanto avesse sperato.

- Che cosa preferiresti fare? Soldato o servitore?

Jean guarda il comandante, il viso forte, leale, il corpo robusto. Vorrebbe essere come quest’uomo.

- Soldato, mio signore.

- Non sono il tuo signore. Sei ancora molto giovane per diventare soldato, ma puoi essere addestrato e svolgere alcuni compiti. Va bene. Ora vai alla tua casa. Questa sera manderò i miei uomini a prenderti. Non occorre che tu dica nulla.

Jean si inchina. Senza riflettere prende una mano di Guillaume e la bacia. Poi si volta e corre via.

Alla porta della fortezza il soldato lo guarda.

- Vedo che il comandante non ti ha levato la pelle. Buon per te. Adesso scompari e non farti più vedere.

Jean scoppia a ridere.

- Mi vedrai presto, soldato.

E sempre ridendo corre verso casa.

 

La sera sua madre gli ha preparato le poche cose da portare con sé. Jean vede che è sul punto di mettersi a piangere, ma non dice nulla. Più volte nel corso della giornata si è chiesto se il comandante manterrà la sua parola. Jean si dice che lo farà, ma a tratti teme che possa aver cambiato idea.

Stanno mangiando, quando due soldati si presentano alla porta. Entrano senza chiedere, mentre tutti li osservano, intimoriti. Jean sente che il cuore gli batte forte.

- Jean Valbois.

- Sono io.

- Vieni con noi.

Suo padre interviene.

- Che succede? Che cosa ha combinato?

I soldati lo guardano. Nei loro occhi Jean legge il disprezzo che tanto spesso i soldati dimostrano nei confronti dei contadini.

- Il comandante lo chiama. Rimarrà alla fortezza.

- Ma… ma… domani dobbiamo partire per…

- Domani il ragazzo è alla fortezza. È un ordine del comandante. Hai capito?

C’è una minaccia nella voce del soldato. Il padre di Jean china la testa. I soldati si avviano. Jean li segue.

Mentre salgono alla fortezza, Jean si chiede se questa sera Guillaume lo prenderà. L’idea lo spaventa, ma non gli ripugna. C’è una parte di lui che lo desidera, Jean lo sa benissimo.

Al forte i due soldati lo accompagnano nella camerata dove dormono i soldati. Gli hanno preparato un giaciglio vicino a Roger de Villeneuve, un cavaliere che fa da braccio destro a Guillaume di Hautlieu: probabilmente il comandante vuole evitare che qualcuno faccia a Jean ciò che il sovrintendente gli avrebbe fatto domani. Vuole essere sicuro che nessuno lo precederà o vuole soltanto proteggerlo? Jean non lo sa.

Il giorno dopo Roger de Villeneuve gli impartisce alcune istruzioni: verrà addestrato come soldato, ma si occuperà anche di alcuni lavori nel castello. Da lui ci si attende obbedienza assoluta.

Ad addestrarlo è il soldato che il giorno prima era alla porta. Non fa commenti sulla presenza di Jean: si limita a fargli fare esercizio con una spada di legno e uno scudo. Dopo due ore Jean è in un lago di sudore e gli sembra di non essere in grado di reggere un minuto di più, ma il soldato continua, concedendogli solo brevi pause. Quando infine si fermano perché si avvicina l’ora di consumare il pasto, Jean è stravolto: eppure è abituato a faticare duramente.

Il soldato ride e dice:

- Vuoi diventare soldato, no? Te lo devi guadagnare.

Il tono è ironico, ma anche questa volta non c’è ostilità nella voce. Jean sorride.

Nel pomeriggio un altro soldato spiega a Jean come si svolge la vita nel castello e quali compiti deve essere in grado di svolgere.

Durante la giornata Jean vede appena Guillaume, che trascorre alcune ore fuori. Verso sera Guillaume lo fa chiamare. Avverrà ora?

Guillaume lo riceve in una stanza dove si trovano anche alcuni soldati.

- Allora, Jean, non sei pentito della tua scelta?

- No, comandante. Vi ringrazio.

- Va bene. Per qualunque cosa ti rivolgerai a Roger de Villeneuve, a cui ti ho affidato.

Guillaume congeda Jean, che torna nella camerata. C’è molta confusione nella sua testa. Jean è sollevato all’idea che Guillaume non gli abbia chiesto niente. Ma è anche dispiaciuto. Eppure è sicuro di aver letto nei suoi occhi il desiderio, l’altro giorno, al torrente.

 

Jean si abitua in fretta alla vita al forte. Quando può passa a trovare sua madre e i suoi fratelli. Qualche settimana dopo suo padre torna dalla valle di Nahr. C’è stato un attacco di una banda di infedeli e due uomini sono stati uccisi, ma tutti gli altri sono ritornati illesi. Jean vede bene la rabbia di suo padre, ma finché lavora al forte, non ha nulla da temere.

Al forte Jean ogni tanto legge nello sguardo di alcuni soldati il desiderio, ma ignora le occhiate fameliche, gli ammiccamenti, le battute. Nessuno va oltre: Roger de Villeneuve vigila su di lui. Il comandante non si occupa della nuova recluta, se non per chiedergli ogni tanto se va tutto bene, se non si è pentito della sua scelta. In qualche occasione Jean lo accompagna, insieme ad altri soldati, in brevi spostamenti. Per questo motivo Jean impara anche a cavalcare, un’abilità che non fa parte dell’addestramento di un fante. In nessuno di questi spostamenti Jean ha occasione di vedere Guillaume spogliarsi, ma il pensiero di quel giorno al torrente ritorna, sempre più spesso, come se il passare del tempo rafforzasse il ricordo invece di indebolirlo. E ogni qual volta Jean non è occupato nell’addestramento o in altri compiti, senza farsi notare osserva Guillaume di Hautlieu. Quest’uomo severo, che sorride di rado, lo attrae come non gli era mai successo.

Il desiderio cresce dentro di lui ed è pensando al comandante che Jean cerca sollievo alla tensione in qualche angolo al riparo dagli sguardi altrui o la notte, nel buio della camerata. Si pente di non aver lasciato che il comandante si avvicinasse, quel giorno. Ora vorrebbe esprimere il proprio desiderio, ma gli manca un’occasione per farlo: il comandante non è mai solo e Jean non oserebbe certo chiedergli un colloquio per questo.

Un giorno Guillaume esprime il desiderio di vederlo usare la spada. Dopo averlo osservato, Guillaume gli fornisce alcuni consigli, correggendo i suoi errori. Poi prende lui stesso una spada e gli insegna alcuni movimenti. Glieli fa ripetere più volte, fino a che il ragazzo non ha imparato. Jean si sforza di ricordare ogni movimento e quando Guillaume se ne va, prova diverse volte ciò che il comandante gli ha insegnato.

Jean si chiede se ora Guillaume lo manderà a chiamare, se infine potrà realizzare quello che è diventato il suo sogno, ma nulla cambia. Altre tre volte Guillaume gli dà lezioni, lo elogia perché ha imparato bene, gli fornisce alcune indicazioni per migliorare. Ma quando ha concluso, si congeda senza fornirgli nessun appiglio per andare oltre. Il desiderio cresce e ci sono notti in cui Jean arde di un fuoco che non lo lascia dormire. A tratti si chiede se non lasciare che uno dei soldati gli si avvicini: fino a ora li ha sempre tenuti a distanza, ma il desiderio è violento. Eppure non vuole darsi ad altri. Il pensiero di Guillaume sta diventando un’ossessione.

 

A primavera Jean scopre che Guillaume andrà a San Giovanni d’Afrin per alcuni giorni. Jean è smarrito: gli sembra di non poter rimanere a lungo lontano dal comandante. Man mano che la data della partenza si avvicina, Jean è sempre più in ansia.

Un giorno infine trova il coraggio di avvicinarsi al comandante e chiedergli:

- State per partire, comandante?

Guillaume lo guarda.

- Sì, ma starò via solo pochi giorni, al massimo una settimana.

- Andate a San Giacomo d’Afrin?

Se Guillaume è sorpreso dalla domanda, non lo lascia vedere.

- Sì.

Jean cerca un appiglio, che non trova.

- E com’è la città?

- Non è molto grande, non è certo Gerusalemme o Tripoli.

- Non so come sono.

- Non sei mai stato in una città? Non hai mai lasciato la valle?

Jean scuote la testa. Non riesce a parlare: una folle speranza si è accesa in lui. Guillaume sembra riflettere.

- Allora sarà bene che tu incominci a fare un po’ di esperienza del mondo. Verrai con noi.

Per un attimo la gioia che prova Jean è tanto forte che gli sembra di non riuscire più a respirare.

- Grazie, mio signore.

Guillaume scuote la testa:

- Non sono il tuo signore, te l’ho già detto.

- Grazie, comandante.

- Ne parlerò a Roger, in modo che provveda a farti avere tutto il necessario per il viaggio.

Guillaume saluta e se ne va.

Jean si sente felice, come gli pare di non essere mai stato in vita sua.

 

San Giacomo d’Afrin non è certo una grande città, ma l’animazione delle sue vie confonde Jean. Non ha mai visto case così alte, strade così affollate, mercati con così tante merci, gente vestita con abiti tanto diversi e tanto lussuosi. Gli sembra di essere entrato in un racconto di magia, come quelli che il vecchio Husan, lo schiavo saraceno che vive nel villaggio, a volte racconta. Se ora vedesse passare due uomini su un tappeto volante, forse Jean non si stupirebbe. Continua a guardare ora da una parte, ora dall’altra, quasi temesse di perdere un dettaglio di quella fantasmagoria.

Jean è a cavallo, come tutti gli uomini che seguono il comandante. Il cavallo sembra innervosirsi: forse sente che il suo cavaliere non lo conduce più. Un uomo afferra le redini e gli dice:

- Bel ragazzo, bada al tuo cavallo, che non combini guai.

Jean sussulta. L’uomo che ha preso le redini gli sorride, poi lo lascia andare.

Sentendo la voce, Guillaume si è voltato e fa un cenno di saluto all’uomo:

- Pierre, il tuo signore è già qui?

- Sì, comandante. Il duca è nel palazzo del conte.

- E come mai tu non sei al suo fianco?

- Mi ha affidato un compito.

Guillaume annuisce.

- Allora ci vedremo a palazzo.

 

Guillaume di Hautlieu viene ricevuto dal barone Renaud di Soissons, signore di San Giacomo d’Afrin. Nel palazzo del barone Jean è di nuovo senza parole: il castello in cui vive da molti mesi è una fortezza, non una residenza signorile come questa. Non ha mai visto gli arazzi alle pareti, i tappeti, i mobili pregiati, le sculture. Non ha mai visto gli abiti lussuosi che indossano il barone e gli uomini del suo seguito. Perfino i servitori gli appaiono meglio vestiti di Guillaume. Eppure preferisce il viso dai lineamenti forti di Guillaume e le sue vesti da guerriero, all’eleganza e alla raffinatezza della corte del barone.

Guillaume saluta il barone, che risponde, mantenendo un certo distacco: tra i due uomini non c’è evidentemente un rapporto di amicizia.

Ben diversamente lo accoglie un uomo che ha più o meno l’età di Guillaume, anch’egli vestito con eleganza.

- Guillaume, fratello!

- Denis!

I due si abbracciano. Jean osserva l’uomo: ha i capelli di un castano rossiccio e gli occhi azzurri, un viso dai lineamenti irregolari, il naso leggermente storto. Non è un bell’uomo, di certo, non ha l’eleganza naturale e la bellezza virile di Guillaume di Hautlieu. Jean chiede sottovoce a uno dei soldati chi è e scopre che è il duca Denis di Rougegarde, uno dei feudatari più potenti del regno di Gerusalemme. Perfino Jean lo conosce di nome. Sa che i saraceni lo chiamano il Cane dagli occhi azzurri e lo temono più di ogni altro signore franco. Jean lo osserva con attenzione ed è contento di vedere che è molto legato a Guillaume.

Poco dopo arriva anche il conte Ferdinando, che Jean ha avuto modo di vedere alcune volte. È il suo signore, anche se il conte non sa neppure dell’esistenza di Jean.

Dopo che è giunto Ferdinando, i tre feudatari e i comandanti militari si riuniscono in una stanza, mentre gli uomini che li accompagnano rimangono fuori. Quasi tutti gli uomini al seguito dei nobili si conoscono e parlano tra di loro. Jean rimane in disparte: tra quegli uomini tutti più grandi di lui e abituati alle città e ai palazzi, si sente un pesce fuor d’acqua. Ma Jean ascolta con attenzione quello che si dice. Tutti commentano questo incontro, in cui si discuterà di strategie, si cercheranno accordi per arginare l’avanzata dei saraceni: San Giacomo d’Afrin è minacciata. E se la città cadesse, i saraceni potrebbero attaccare Rougegarde e poi i possedimenti del conte.

Altri incontri si tengono nei giorni successivi. E, dalle mezze parole che coglie e dalle espressioni del viso dei nobili e dei comandanti al termine di ogni incontro, capisce che vi sono forti divergenze tra di loro.

Il terzo giorno la piazza rigurgita di folla. Jean non capisce. Guillaume e i suoi uomini fanno fatica ad aprirsi un varco tra la gente per raggiungere il palazzo.

Il barone Renaud li accoglie sorridendo.

- Oggi ho il piacere di farvi assistere a uno spettacolo.

Il barone di Soissons, gli altri cavalieri e i comandanti si accomodano al balcone centrale. Le scorte si affacciano alle altre finestre, accalcandosi. Jean non vedrebbe nulla, ma un soldato lo fa mettere davanti a lui, in modo che possa assistere allo spettacolo. Jean guarda la folla che riempie la piazza: solo uno spazio davanti al palazzo è stato lasciato libero. Qui ci sono quattro cavalli. Jean si chiede se ci sarà una corsa di cavalli, ma lo spazio libero dalla folla gli sembra troppo piccolo. E poi i cavalli hanno tutti e quattro due stanghe di legno ai lati, unite dietro da un’altra stanga.

Solo quando da una porta del palazzo esce un gruppo di uomini che conducono un prigioniero con le mani legate dietro alla schiena, Jean capisce: sta per assistere a un’esecuzione. Jean è curioso, ma si sente a disagio.

Le guardie che accompagno il prigioniero lo spogliano. L’uomo è circonciso: si tratta di un musulmano o di un ebreo, quindi. I soldati gli slegano le mani e lo stendono a terra. Le caviglie e i polsi vengono bloccati da catene e legati alle stanghe dei quattro cavalli: l’uomo verrà squartato!

Jean vorrebbe ritrarsi e non guardare, ma tirarsi indietro non è possibile: gli altri uomini premono per vedere. Jean potrebbe chiudere gli occhi, ma non riesce a farlo. Fissa il prigioniero, che rimane in silenzio. Una guardia alza gli occhi verso la finestra a cui è affacciato il barone Renaud e a un suo cenno dà ordine agli uomini che tengono fermi i cavalli di farli muovere.

I cavalli si muovono in quattro direzioni opposte, sollevando da terra il corpo del condannato e tendendolo, finché gli arti non incominciano a cedere. Quando il sangue sgorga, Jean chiude gli occhi: non vuole vedere, non vuole vedere più nulla. Passa un buon momento, poi un urlo della folla gli fa di nuovo aprire gli occhi: la testa del giustiziato è stata issata su una picca.

Lo spettacolo è finito, tutti si ritirano.

Il soldato che ha fatto passare Jean davanti lo prende in giro:

- Sei pallido, ragazzo. Non ti è piaciuto lo spettacolo?

Jean scuote la testa. L’uomo prosegue:

- Quell’uomo ha avuto quel che si meritava: era una spia dei saraceni.

Jean annuisce: non riesce a parlare.

Qualcuno chiede:

- Con chi sei, ragazzo?

Risponde per lui uno dei templari che accompagnano Guillaume:

- Con Guillaume di Hautlieu.

Il soldato lo osserva e dice, rivolto a un compagno:

- Piacerebbe al conte, no, che ne dici, Baudouin?

Scoppia a ridere e l’altro soldato fa lo stesso, ma poi aggiunge:

- Un po’ troppo giovane, però.

 

Il giorno seguente, dopo un altro incontro, Guillaume di Hautlieu torna alla fortezza con il suo seguito e Jean riprende la vita di tutti i giorni.

I mesi passano e l’inverno è nuovamente alle porte: Jean è al forte da un anno ormai. C’è un viavai di cavalieri al forte. Grandi novità si annunciano, gli infedeli stanno preparando un attacco dall’Egitto e nel forte circola la voce che Guillaume di Hautlieu e una parte degli uomini partiranno presto per Ascalona. Nella fortezza rimarranno pochi soldati, con un nuovo comandante. La fortezza non è direttamente minacciata, per cui sarà la sua guarnigione a raggiungere il re che sta per muoversi per fronteggiare l’attacco del Saladino. 

La notizia riceve una conferma: fra tre giorni Guillaume di Hautlieu lascerà il comando del forte per guidare le truppe verso sud.

In serata Guillaume convoca Jean.

- Jean, come già saprai, io partirò tra tre giorni. Roger de Villeneuve verrà con me, come pure buona parte della guarnigione. Tu rimarrai qui.

Jean ha sperato fino all’ultimo che Guillaume lo portasse con sé, anche se la guerra lo spaventa. Sa bene di essere giovane per combattere come soldato, ma Denis d’Aguilard alla sua età già combatteva. E comunque Jean si è illuso di poter partire almeno come servitore. Ora si sente perduto. Gli sembra che il mondo gli crolli addosso. Ricaccia indietro le lacrime a fatica, mentre dice:

- Portatemi con voi, signor comandante.

- No, Jean. Tu non sei ancora un soldato, anche se hai imparato a combattere e a cavalcare. Sei troppo giovane.

Jean si morde il labbro inferiore.

- Vi prego, mi avete insegnato a combattere. Voi stesso mi avete detto che sono …

- No, Jean, ti metterei in pericolo per nulla.

- Il duca Denis d’Aguilard alla mia età già combatteva…

Guillaume lo interrompe:

- Il duca d’Aguilard ha incominciato a maneggiare le armi da bambino. E combatteva con suo padre.

Jean china la testa, per nascondere le lacrime.

La voce di Guillaume è molto dolce, ora:

- Non devi temere nulla, Jean. Ti affiderò al nuovo comandante, che veglierà su di te.

Jean non replica: non riesce a parlare.

Guillaume si alza e si avvicina a Jean.

- Che cosa c’è, Jean? Qual è il problema?

Jean guarda Guillaume e scuote la testa. Il comandante gli accarezza la guancia.

- Non piangere, Jean.

Jean prende la mano di Guillaume con la sinistra e la bacia.

- Jean! Che cosa fai?

Jean passa la destra sul viso del suo comandante. Trema e piange, incapace di controllarsi. Guillaume lo guarda, poi fa un passo in avanti e lo abbraccia. Gli fa appoggiare la testa sul suo petto e lo accarezza.

Jean si sente bene tra queste braccia forti che lo stringono, appoggiato contro questo corpo robusto. Le lacrime smettono di scorrere e Jean alza il capo. D’impulso si solleva sulle punte e bacia Guillaume sulla bocca.

Non ha mai baciato, Jean, non ha mai amato. Ma tutto il suo corpo desidera che Guillaume lo prenda e quel rapido contatto delle loro labbra sembra trasmettergli la febbre. Abbassa il viso, vergognandosi del suo gesto impulsivo.

Guillaume gli mette una mano sotto il mento e con delicatezza lo solleva. Ora si guardano negli occhi. Guillaume sa leggere nello sguardo di Jean e allora lo bacia, con delicatezza. Jean stringe il corpo forte di Guillaume tra le sue braccia. È il paradiso, un paradiso che ha a lungo desiderato e che ora la separazione imminente pare rendere possibile. Ma Jean non vuole pensare al fatto che dovranno separarsi presto, vuole solo poter stringere Guillaume tra le braccia, ricevere il suo bacio. Vuole amarlo.

Il bacio di Guillaume diventa ardente, la sua lingua si infila tra le labbra di Jean, che, sorpreso, apre la bocca. La lingua si fa strada, accarezza quella di Jean, ritorna indietro. E le mani di Guillaume percorrono la schiena di Jean, stringono i fianchi, sollevano un po’ la tunica che il ragazzo porta, poi, decise la tirano su. Jean alza le braccia, le bocche si separano e in un attimo Jean si ritrova nudo. Guillaume si stacca e lo guarda. Gli sorride:

- Sei bellissimo.

Jean ride, ma è intimidito. Desidera Guillaume e l’uccello che già alza la testa lo rivela chiaramente. Il vedersi guardato dal comandante solletica la sua vanità, ma nello stesso tempo lo imbarazza. Vorrebbe spogliare Guillaume, ma non osa. Si sente a disagio.

È Guillaume a prendere l’iniziativa. Lo abbraccia con forza, lo accarezza, gli stringe il culo con le mani vigorose, lo bacia, infila la lingua tra le sue labbra. Poi si stacca di nuovo da lui e gli dice, con una voce mutata:

- Spogliami, Jean.

Jean lo desidera, ma le sue mani si muovono incerte. Sfila gli indumenti, esitando di fronte alle brache, che infine cala. Contro il ventre di Guillaume batte, magnificamente teso, un grande uccello, con la cappella rossastra che sembra pulsare. Jean si sente la gola secca. Non riesce a distogliere lo sguardo. Guillaume sorride.

- Vuoi gustarlo?

Jean guarda negli occhi il comandante, d’improvviso impaurito. Poi annuisce, lentamente.

- Mettiti in ginocchio.

Jean ubbidisce. Ora di fronte ai suoi occhi è il cazzo di Guillaume, che gli appare magnifico e minaccioso. Jean sa che lo penetrerà. Lo desidera e lo teme.

Guillaume gli mette una mano sui capelli e gli avvicina il capo all’uccello. Jean può sentire l’odore del cazzo del comandante. Apre la bocca e inghiotte la cappella.

- Succhia, Jean.

Jean obbedisce. È una sensazione del tutto nuova, che in parte lo affascina, in parte gli ripugna. Ma la vaga sensazione di disgusto svanisce. Rimane solo il piacere che questo contatto gli trasmette.

Jean continuerebbe, senza smettere, ma è Guillaume a fermarlo.

- Ora basta, Jean. Voglio prenderti. Tu lo vuoi?

Jean lascia la presa, solleva lo sguardo su Guillaume e annuisce. Ha paura, ma il desiderio è più forte della paura.

- Alzati.

Guillaume lo bacia di nuovo. Poi lo fa passare nella cameretta attigua, dove dorme. È una camera spoglia, con un letto, una cassa e una sbarra a cui appendere gli abiti: nient’altro. È la camera di un guerriero, non di un nobile signore.

Guillaume abbraccia Jean, lo accarezza ancora, a lungo, accendendo il desiderio in lui. Poi lo guida a stendersi sul letto. Le sue mani scorrono lungo tutto il corpo di Jean, dal capo ai piedi, le sue dita afferrano e stringono, sfiorano e premono. E poi è la bocca di Guillaume a far ardere il corpo del ragazzo, la sua lingua che scorre tra i fianchi, i suoi denti che mordicchiano una spalla o il culo, le sue labbra che baciano.

Quando infine Guillaume si stende su Jean, questi non desidera altro che il tizzone ardente che sta per trapassarlo.

Guillaume entra con lentezza e Jean si abbandona completamente, felice di appartenere all’uomo che ama, di essere finalmente suo. Avverte appena un po’ di dolore. Ben più forte è il piacere che gli trasmettono le mani forti di Guillaume, il suo cazzo poderoso, la sua bocca che lo mordicchia, la sua lingua che gli passa sul collo, nell’orecchio, le sue labbra che lo baciano.

Guillaume arriva fino in fondo, fino a che le palle battono contro il culo di Jean. Si abbandona su di lui, lo accarezza. E poi, dopo che il corpo di Jean si è abituato a questa presenza, incomincia a muovere il culo, avanti e indietro, spingendo il cazzo fino in fondo e poi ritraendolo quasi completamente. Per due volte esce e poi ritorna. Jean sente che il piacere sale dentro di lui, dal culo diffondendosi in tutto il corpo, mentre il cazzo gli si tende spasmodicamente.

Guillaume lavora con lentezza e le sue mani stringono e accarezzano. Jean ha la sensazione di perdersi, di fluttuare in un vuoto dove esiste solo il corpo che lo stringe, lo possiede, lo infiamma.

E infine le spinte di Guillaume diventano ancora più vigorose e Jean non riesce a contenere un grido di piacere, mentre il seme si sparge e sente che anche Guillaume viene, versandogli nelle viscere il suo sborro.

Jean ha l’impressione di svenire. Chiude gli occhi. È stata la sensazione più forte della sua vita.

 

Tre giorni, tre notti. Tre giorni di attesa del momento in cui Guillaume lo chiamerà a sé, tre notti di delirio, in cui il piacere si rinnova continuamente.

Il tempo vola e la terza notte volge alla fine.

- Portatemi con voi, comandante.

Guillaume scuote la testa.

- No, Jean. Tu rimani qui. Ti ritroverò al mio ritorno o, se per qualche motivo non dovessi tornare qui, ti manderò a chiamare.

Guillaume non parla della possibilità di morire in battaglia: un rischio ben presente, visto che il Saladino ha radunato un grande esercito e re Baldovino non può contare su molti uomini. E non accenna agli altri rischi: ammalarsi, essere fatto prigioniero. Anche se non ha mai partecipato a spedizioni militari, Jean ha sentito troppe volte i discorsi degli altri soldati per non sapere che molti di coloro che partono per una spedizione non ritornano. La morte fa un raccolto abbondante e molti finiscono prigionieri, schiavi per sempre di un nemico implacabile. Per i cavalieri templari non c’è riscatto: l’ordine non paga per loro. Essere catturati significa la morte o una schiavitù a vita.

Jean non vuole che Guillaume parta, non senza di lui. Vorrebbe condividerne la sorte, foss’anche la morte in battaglia o per malattia o la prigionia.

Jean chiede ancora, ma Guillaume tronca ogni richiesta.

- Basta, Jean. Non chiedere più. Tu rimani qui, perché non sei ancora un soldato e non avrebbe senso esporre la tua vita ai rischi di una guerra. Ci ritroveremo.

 

Il nuovo comandante, che sostituirà Guillaume di Hautlieu durante la sua assenza, è un castigliano, un po’ più giovane. Dicono che sia il figlio bastardo di un nobile castigliano e di una principessa saracena e in effetti a vederlo lo si potrebbe prendere per arabo. È un uomo alto, massiccio, con un viso dai lineamenti forti.

Jorge da Toledo arriva il mattino e Guillaume parte. Jean li osserva, cercando di nascondere la sua disperazione. Jorge da Toledo è diversissimo da Guillaume di Hautlieu: sono entrambi guerrieri, ma l’uno ha un’eleganza naturale che manca completamente nell’altro.

Il nuovo comandante non ispira fiducia in Jean, che cerca di tenersi alla larga. Ma Jorge lo fa chiamare: Guillaume di Hautlieu gli ha parlato del ragazzo e Jorge è curioso di conoscerlo. Anche se Guillaume non ha fatto nessun riferimento al legame che lo unisce a Jean, Jorge sospetta la verità. Jorge non scopa da tempo: dopo alcune missioni coronate da successo ad Amman, ad Aleppo, a Damasco e in altri centri, si è trovato costretto a sospendere l’attività, perché ritornare tra i saraceni ora sarebbe troppo rischioso: diverse persone sarebbero in grado di riconoscerlo. Da diversi mesi vive a Santa Maria in Aqsa, dove si sente soffocare. L’offensiva del Saladino gli ha permesso di lasciare l’ambiente opprimente di Santa Maria, per sostituire Guillaume al forte. Jorge intende approfittare dell’occasione per scopare.

Jean si presenta davanti a lui, intimorito, a disagio. Jorge gli pone due domande e mentre Jorge gli parla, Jean legge negli occhi del nuovo comandante il desiderio. Di colpo ha paura. Guillaume è partito, Roger di Villeneuve lo ha accompagnato: Jean non ha nessuno su cui possa contare. Di certo non saranno i soldati a difenderlo dai desideri dell’uomo che gli sta di fronte.

- Va bene. Puoi andare. Verrai da me questa sera, ho ancora alcune cose da chiederti.

Jean sa benissimo che cosa significa questo. Per tutto il pomeriggio cerca disperatamente una via d’uscita. Nascondersi nel forte non è possibile: non è sufficientemente vasto e in ogni caso rimanderebbe soltanto il problema di un giorno. Andarsene significherebbe ritornare alla propria famiglia, affrontare l’ira di suo padre, rinunciare a diventare soldato, partire per la valle del Nahr, poiché l’epoca dev’essere vicina.

Jean si chiede se non lasciare il forte e cercare di raggiungere le truppe che sono partite in mattinata. Ma Guillaume lo rimanderebbe indietro. E se Jean raccontasse le sue paure? Guillaume non le prenderebbe come una scusa?

Mentre Jean pensa a questo, lo chiamano perché c’è bisogno di lui: al forte sono rimasti in pochi e devono dividersi tutti i lavori. Per tutto il pomeriggio Jean non ha un attimo di tregua. Quando si accorge che le porte del forte sono state chiuse, Jean si rende conto che ormai non è più possibile andarsene.

In serata un soldato viene a chiamare Jean. Qualche risata tra gli uomini gli conferma che i suoi timori sono fondati e che anche gli altri si sono accorti dell’interesse del nuovo comandante. Se potesse uscire dal forte, Jean fuggirebbe, ora. Si nasconderebbe nei boschi e cercherebbe di raggiungere le truppe di Guillaume: non possono certo essere molto lontano; non dev’essere difficile seguirli, chiedendo indicazioni nei villaggi dove sono passati. Ma è troppo tardi.

Jean guarda il soldato che lo accompagna, che è del tutto indifferente. Non potrà avere aiuto da nessuno, lo sa.

Jorge da Toledo congeda il soldato, poi chiude la porta. Sorride e a Jean pare il sorriso di una belva che è pronta a lanciarsi sulla preda, sapendo che non può sfuggire.

- Bene. Adesso mi fai vedere che cosa ti ha insegnato il comandante. Spogliati.

Jean scuote la testa. Non riesce a dire nulla. Arretra.

Jorge è abituato a prendersi ciò che desidera, non sarà certo un ragazzo, un servitore, a potersi opporre al suo volere.

Jorge si alza. Jean fa per aprire la porta, ma Jorge lo blocca.

- Non fare storie, troia. È meglio per te.

Jorge lo afferra, ma Jean si dibatte con tutte le sue forze. Jorge lo lascia, poi gli molla due ceffoni che lo stordiscono. Il sangue cola dal naso. Jean lotta ancora e nuovamente Jorge lo colpisce. Ora anche dal labbro inferiore scende un po’ di sangue. Jean si ritrova nudo, a terra, sotto Jorge che preme su di lui. Non è più in grado di resistere alla violenza, anche se ancora cerca di divincolarsi.

Jorge si inumidisce la cappella divarica le natiche di Jean e avanza il cazzo fino a che questo preme sul buco, poi spinge avanti. Jean sussulta. Rabbia, dolore, umiliazione accompagnano questa violenza.

Il cazzo entra dentro, fino in fondo. Jorge non ha nessun riguardo per questo servo riottoso. Entra come un padrone, fottendosene del dolore che provoca. Cerca il proprio piacere e lo avrà. Jorge spinge con forza, avanzando e ritraendosi. Jean è schiacciato sul pavimento dal corpo di Jorge. Il dolore della penetrazione è forte, ma è l’umiliazione ad annichilirlo. Jean si accorge di aver incominciato a piangere.

Jorge lavora ancora a lungo. Infine, quando Jean ormai non regge più, Jorge viene, con un grugnito. Esce immediatamente e si alza.

Anche Jean si rialza. Guarda Jorge. Lo odia, con tutto se stesso. Jorge gli vede le lacrime e ghigna. Jean gli sputa in faccia. Il ceffone che lo colpisce è tanto forte da mandarlo a terra. Jean batte la testa e rimane intontito.

Jorge ringhia:

- Stronzo! Me la pagherai.

Jorge fa uscire Jean, che si rifugia nella camerata, dove alcuni soldati stanno giocando ai dadi. Gli uomini lo guardano. I segni sul volto, il sangue rappreso sotto il naso e sul mento, tutto rivela che cosa è successo. I soldati non dicono nulla.

Jean si stende, ma non riesce a prendere sonno. Una rabbia feroce lo invade, un odio che non conosce limiti.

Domani mattina si metterà in marcia verso il sud. Raggiungerà le truppe e cercherà Guillaume di Hautlieu, l’uomo che ama. Combatterà con lui. Forse morirà con lui. Partirà presto, all’alba, quando si apriranno le porte del forte: d’altronde il nuovo comandante gli ha detto che deve andarsene.

L’indomani mattina Jean sta ancora dormendo quando uno dei soldati lo sveglia.

- Muoviti, Valbois.

Jean viene accompagnato in una cella. Jean non capisce. Il nuovo comandante lo ha fatto incarcerare per poterlo violare nuovamente? O per punirlo ha inventato qualche accusa?

Jean passa la giornata in una cella.

Il carceriere che gli porta da mangiare gli comunica che la guarnigione attende il conte Ferdinando: anche lui raggiungerà le truppe che muovono verso Sud, per affrontare il nemico. Il conte non ha signoria sul castello, che appartiene all’Ordine, ma è un ospite gradito e vi trascorrerà la notte, come è già successo altre volte.

Quando ormai è calata la notte, la porta della cella viene aperta. Un soldato porta una torcia, che infila in un anello alla parete. Dietro di lui entrano Jorge da Toledo e un uomo anche lui alto e forte, con un fisico più pesante e qualche anno in più del giovane comandante: è di certo il conte Ferdinando.

- Questo è il prigioniero, conte. È un ladruncolo, ma ha un bel culo. Lo abbiamo gustato il comandante Guillaume ed io. Spero che non vi dispiaccia arrivare terzo.

Ferdinando ride.

- Non è un torneo e se avete preparato bene la strada, tanto meglio per me.

Jean si sente gelare. Sa che ogni resistenza è inutile.

- Sa usare bene anche la bocca, ma con me non ha voluto farlo. Magari voi otterrete di più da lui.

Il conte Ferdinando guarda Jean.

- Se non vuole usare la bocca, posso accontentarmi del culo. Non ho tante pretese.

Poi ride.

Jorge da Toledo esce.

- Allora, ragazzo, ci divertiamo un po’?

Jean scuote la testa.

- Porcoddio, non fare il ritroso, tanto ti piace.

Di nuovo Jean fa segno di no, ma il conte non gli bada. Si avvicina e lo prende tra le braccia. Avvicina la bocca a quella di Jean, che volta il capo di lato. Ferdinando ride. Le sue mani gli sollevano la tunica, anche se Jean cerca di resistere. Ha mani forti, il conte Ferdinando.

Dopo aver spogliato Jean, Ferdinando si toglie gli abiti. Jean guarda il corpo possente che ora si offre al suo sguardo: le spalle larghe, le braccia robuste, il torace coperto da una fitta peluria nera, il ventre un po’ sporgente di chi ama il cibo e le bevande, il cazzo poderoso che già si erge. Jean ne ha sentito parlare, tutti nella contea sanno che Ferdinando ha un grande cazzo e appetiti brutali.

Jean scuote la testa. Ha paura, una paura violenta. Ma a Ferdinando poco importa.

Il conte lo afferra e lo forza a stendersi sul giaciglio. Jean grida.

- Piantala, stronzo! Nessuno verrà ad aiutarti.

Il conte gli stringe il culo con le mani, divarica le natiche e avvicina la cappella all’apertura. Ferdinando entra con cautela: sa che le dimensioni del suo cazzo lo rendono un’arma d’offesa e non vuole fare troppo male a questo ragazzo recalcitrante. Ferdinando si ferma un momento, lascia a Jean il tempo di abituarsi. Poi incomincia a lavorare. Non spinge a fondo, limitandosi a entrare solo in parte.

Ferdinando procede a lungo. Il dolore è forte, ma questa volta alla sofferenza si mescola anche una sensazione diversa, non spiacevole.

Man mano che Ferdinando procede, Jean si accorge che il suo corpo accetta questa invasione, anche se la sua mente la rifiuta.

Solo alla fine, quando, dopo un tempo che a Jean pare infinito, le spinte divengono più violente, il dolore ha il sopravvento e cancella ogni traccia di piacere.

Ferdinando viene dentro Jean, poi si ritrae, ma si stende accanto a lui.

- Hai un bel culo, ragazzo.

Ferdinando pensa che gli è piaciuto fottere questo ragazzo ritroso. Di solito preferisce uomini con qualche anno in più, ma Jean è davvero bello e c’è nella sua giovinezza qualche cosa che lo attrae. Il ragazzo ha voltato il viso dall’altra parte. Ferdinando posa la sua grande mano sul cazzo di Jean, lo stringe, lo accarezza con il palmo. Jean sente, con orrore, che il suo corpo reagisce. Non vuole, gli sembra di tradire Guillaume. Ma Ferdinando prosegue con la sua opera e Jean avverte il desiderio crescere e dilatarsi. È brutale, Ferdinando, le sue carezze fanno male e la sua stretta è una morsa. Quando gli stringe i coglioni, Jean geme. Ma non saprebbe dire se è un gemito di dolore o di piacere.

Jean chiude gli occhi e il piacere deborda, il seme prorompe e gli si sparge sul petto. Prova vergogna.

Ferdinando si alza. Jean lo guarda. Il conte ha di nuovo il cazzo duro.

- Adesso voglio gustare la tua bocca.

Jean scuote la testa.

- Porcoddio, ragazzo, sei un rompicoglioni. Ce l’ho duro. Adesso o mi prendo il culo, o mi prendo la bocca.

Jean non se la sente di essere nuovamente infilzato. Non può sfuggire, per cui china il capo, rassegnato.

- In ginocchio, muoviti.

Jean esegue. Il conte avvicina il cazzo alla bocca di Jean.

- Apri la bocca.

Jean fa quello che gli viene chiesto, ma non usa né le labbra, né la lingua. Allora il conte incomincia a fotterlo in bocca, muovendo ritmicamente il culo.

Quando infine viene, dice:

- Sei un disastro con la bocca. Ma hai davvero un bel culo.

Il conte si riveste e se ne va. Jean sprofonda nella vergogna.

 

Quando sorge il sole, Jorge da Toledo entra nella cella. Guarda Jean e gli dice:

- Ti è piaciuto farti scopare dal conte Ferdinando? Dicono che abbia uno dei cazzi più grossi di tutta la Terrasanta.

Jorge da Toledo ride. Jean rimane muto. La risata si spegne. C’è molta durezza ora nella voce del comandante:

- Domani lascerai il forte. Fino ad allora, rimarrai nella cella.

Jean vorrebbe potersene andare subito, per raggiungere Guillaume di Hautlieu prima che l’esercito abbia fatto troppa strada, ma non è nelle condizioni di camminare speditamente: il dolore al culo è troppo forte. Non capisce perché il comandante lo voglia tenere un altro giorno nel forte. Vuole offrirlo a qualcun altro?

Ma la giornata e la notte trascorrono senza che nessuno venga nella cella, a parte l’uomo che gli porta un po’ di pane e acqua.

Il mattino dopo un soldato viene a prendere Jean.

- Il comandante ha detto che te ne devi andare, ragazzo.

Jean annuisce. Prende le sue poche cose e segue il soldato.

Stanno aprendo solo ora il portone. Jean mette piede sul ponte levatoio e vede che c’è suo padre ad attenderlo. Jean non si aspettava che il nuovo comandante lo avvisasse.

- Eccoti di ritorno.

La frase è accompagnata da un violento ceffone, che fa cadere Jean a terra. Il sangue gli cola dal labbro. Jean si rialza, a testa china. Fuggirà nella notte o domani. Poco cambia. In qualche modo riuscirà a raggiungere il suo comandante.

Per tutto il giorno Jean lavora: c’è da risistemare un muro che la pioggia ha fatto crollare. Suo padre non gli toglie gli occhi di dosso un minuto. Rientrano in casa solo quando diventa buio. Mangiano e si coricano.

Quando è sicuro che tutti dormono, Jean si alza, raccoglie le sue cose e cerca di aprire la porta, ma scopre che è bloccata. Al buio non riesce a capire come fare per aprirla senza svegliare gli altri. Jean ritorna a letto: la fuga è solo rinviata, suo padre non può sorvegliarlo tutti i giorni ogni momento e prima o poi Jean riuscirà a fuggire.

Jean dorme e il cielo è ancora buio, quando suo padre lo sveglia.

- Alzati! Si parte.

Jean non capisce. Poi, di colpo, si rende conto: partiranno per la valle del Nahr. Un anno è passato da quando sarebbe dovuto partire. Non riuscirà a raggiungere Guillaume di Hautlieu. Dopo Jorge da Toledo e il conte, un altro uomo lo violenterà.

 

Il viaggio dura due giorni. Nel pomeriggio del secondo giorno raggiungono la valle del Nahr. Il sovrintendente e alcuni degli uomini compiono un giro di perlustrazione, per vedere come organizzare il lavoro nelle settimane seguenti. Gli altri uomini preparano la cena e la sistemazione per la notte. Il padre di Jean non lo perde di vista nemmeno per un momento.

Dopo aver mangiato, gli uomini si stendono per la notte.

Louis Valbois si rivolge a Jean.

- Vieni con me.

Jean non si alza. Sa che non può sfuggire a quello che lo attende, ma si rifiuta di obbedire. Suo padre gli afferra i capelli e tira con forza. Jean lancia un urlo di dolore, mentre si solleva rapidamente per sottrarsi al dolore lancinante.

- Muoviti, stronzo, perché ti ammazzo a bastonate, se non mi ubbidisci.

Un ceffone violento getta nuovamente a terra Jean, che si rialza.

Louis Valbois accompagna il figlio dal sovrintendente, che sorride, soddisfatto.

- L’anno scorso sei riuscito a non venire. Ma adesso recuperiamo anche per allora. Spogliati.

Jean scuote la testa, anche se sa che è inutile. È François a spogliarlo, con pochi gesti brutali. Lui non si spoglia nemmeno. Forza Jean a stendersi sul ventre, si solleva un po’ la tunica, allarga le gambe del ragazzo, con le mani divarica le natiche e avvicina il cazzo al buco che gli si offre. Entra senza cautele, facendo gemere Jean. Spinge a fondo. Jean stringe i denti. Per la terza volta viene violentato.

Jean può sentire l’alito fetido del Bastardo. Prova disgusto, più che dolore.

François fa in fretta: con poche spinte, viene dentro di lui.

- Ti fermi qui, questa notte, che domani mattina me lo gusto di nuovo, il tuo culo.

Jean si addormenta tardi. Gli sembra di essersi appena abbandonato al sonno, quando François lo sveglia, girandolo sul ventre. Di nuovo lo prende e anche questa volta è tutto molto rapido: pochi minuti.

Quando ha finito, François si volta sulla schiena e gli dice:

- Ora levati dai coglioni.

È ancora notte, ma tra non molto sarà l’alba. Il padre di Jean dorme in un riparo poco lontano. Jean si chiede se non fuggire ora, ma la notte è buia, non conosce il territorio e rischierebbe di finire nelle mani dei saraceni o di essere ritrovato dal Bastardo. Meglio attendere qualche giorno e capire com’è fatta la valle e come può fare per allontanarsi. Questo significa subire ancora l’umiliazione di essere violentato dal Bastardo. Ma Jean non vuole giocarsi le poche possibilità che ha di scappare.

Suo padre sta russando, ma quando Jean si stende su un fianco vicino a lui, si muove sul giaciglio. Louis Valbois si dev’essere svegliato, ma non dice nulla. Si avvicina a Jean, che gli dà la schiena, e si appoggia contro di lui. Jean si sposta un po’, per allontanarsi. Suo padre respira pesantemente, come se stesse dormendo, ma Jean sa che sta fingendo. Di nuovo il corpo di Louis Valbois aderisce a quello del figlio. Louis Valbois emette qualche suono inarticolato, come se stesse sognando, e la sua mano passa intorno alla vita di Jean, bloccandolo.

Suo padre non sta dormendo, non sta sognando. Jean ha capito le sue intenzioni: vuole strusciarsi contro di lui fino a venire. Louis si muove, sempre emettendo una specie di gemito. Con una mano solleva la tunica di Jean, che ora sente contro il proprio culo il cazzo del padre. Louis si sposta, in modo da mettersi in posizione. Suo padre non vuole solo strusciarsi contro di lui, vuole prenderlo, come lo hanno preso gli altri. Jean cerca di liberarsi dalla stretta, ma suo padre non lo lascia e ora Jean sente il cazzo di suo padre che preme contro l’apertura ed entra. Jean è stato posseduto due volte, nella notte: l’apertura è ben lubrificata e il cazzo entra senza difficoltà. Jean stringe i denti. Sa che è inutile gridare: suo padre non si interromperebbe, gli direbbe che dopo averlo dato al Bastardo, può darlo anche a lui.

Louis Valbois spinge con forza e poco dopo Jean sente il seme riversarglisi nelle viscere. Louis si stacca. Non ha detto niente. Finge di dormire. Come se avesse preso Jean mentre sognava. Jean piange in silenzio.

 

Le giornate successive si svolgono tutte allo stesso modo: Jean lavora come gli altri, senza potersi allontanare se non per i propri bisogni. Suo padre lo sorveglia strettamente. La notte si muove solo per passare dal giaciglio del Bastardo a quello del padre, che lo prende senza dire nulla, fingendo di dormire.

Ma la luna sta crescendo. Tra tre o quattro notti sarà piena e allora Jean cercherà di fuggire. Meglio rischiare la morte che rimanere nella valle a soddisfare le voglie del Bastardo e di suo padre.

Jean sta dormendo, quando una bestemmia di suo padre lo sveglia. Il cielo incomincia appena a schiarirsi, ma la luce è sufficiente per vedere due guerrieri saraceni che li minacciano con le lance. Li fanno alzare, gli legano le mani davanti. Anche gli altri uomini sono stati catturati, in un’azione tanto rapida quanto silenziosa. Nessuno ha avuto il tempo di capire, di difendersi.

I saraceni si muovono in fretta. Attaccano le corde che legano gli uomini alle selle dei loro cavalli e si avviano al passo. I prigionieri sono costretti a seguirli.

Jean sa che non potrà fuggire, che non rivedrà mai più Guillaume di Hautlieu.

Jean si lascia cadere in ginocchio e si copre il viso con le mani. È solo un attimo: lo strattone violento lo fa crollare a terra.

Jean non si rialza, non vuole sollevarsi. Vuole solo morire. Ma l’uomo che conduce il cavallo si ferma e lo forza a rialzarsi.

 

Al castello degli Hashishiyya, Jean viene messo in cella con suo padre, il Bastardo e altri sei uomini.

La sera, quando viene chiusa la porta, la cella sprofonda nel buio: c’è un’unica apertura, da cui si può vedere un rettangolo di cielo scuro. Nella notte il Bastardo gli si avvicina.

- Lasciami.

- Non fare tante storie, stronzo!

Uno degli uomini parla. È Hélinant.

- Che cazzo succede? Non potete lasciarci dormire in pace?

François dice:

- Fatti i cazzi tuoi. Dio bastardo, sta’ fermo.

Hélinant interviene di nuovo:

- E se non vuole, lascialo! Louis, ma perché lasci che il Bastardo se lo prenda? Tanto ormai anche questo pezzo di merda è uno schiavo come tutti noi.

Louis Valbois risponde:

- Fatti i cazzi tuoi, Hélinant.

François aggiunge:

- Me lo prendo come me lo sono preso tutte le notti.

Risuona un’altra voce: è Conon.

- Va bene, poi ce lo prendiamo anche noi, visto che è a disposizione. Così godiamo un’altra volta: magari è l’ultima, domani potrebbero anche castrarci.

Gli altri sembrano d’accordo:

- È una buona idea.

- Perché no?

Jean rabbrividisce.

Louis Valbois replica:

- Voi ve ne state alla larga.

- Ah sì, pensi di impedircelo tu?

Conon scoppia a ridere.

- La vedremo.

Anche se gli occhi si sono abituati al buio, nella cella si vede poco o nulla. La lotta è rapida. Gli uomini riempiono di pugni il Bastardo. Louis Valbois non prova neppure a intervenire.

Poi prendono Jean. Jean si dibatte, ma lo tengono fermo mentre, uno dopo l’altro, lo inculano.

Nello stato di prostrazione profonda, l’unico sentimento che Jean prova ancora è l’odio, un odio sconfinato.

 

*

 

Due giorni dopo vengono condotti ad Aleppo, dove sono messi in vendita al mercato degli schiavi.

Diversi clienti si avvicinano, attratti dalla bellezza di Jean. Jean li sente parlare con il venditore, ma non capisce nulla di ciò che dicono: il vecchio Husan gli ha insegnato qualche parola di arabo, ma il giovane non è certo in grado di seguire le contrattazioni. I clienti discutono un momento con il mercante, poi se ne vanno, uno dopo l’altro: forse il venditore chiede una cifra troppo alta. Qualcuno però ripassa più tardi, parla ancora con il venditore, lancia un’offerta, che viene respinta.

Nel corso della mattinata François il Bastardo e tutti gli uomini più giovani vengono venduti. Rimangono Jean, suo padre e Loret, un uomo sui cinquanta, che chiamano lo Zoppo. Un altro possibile acquirente si avvicina a Jean, lo osserva con cura e poi lancia un’offerta. Ne segue una discussione animata, ma alla fine il cliente se ne va. Loret allora dice a Jean:

- Il mercante chiede un sacco di soldi per te. Quattro volte il prezzo a cui ha venduto il Bastardo.

Jean chiede, stupito:

- Capisci l’arabo?

- Sono stato loro schiavo. Sono stati loro ad azzopparmi. Si vede che era destino che morissi schiavo dei saraceni.

Interviene Louis Valbois:

- Perché nessuno mi compra?

- Preferiscono gli uomini giovani: possono lavorare di più.

Un altro possibile acquirente si avvicina, ma non guarda Jean: osserva Louis Valbois e Loret. Poi parla con il venditore e guarda di nuovo Loret. Intanto arrivano altri uomini. Loret sibila qualche cosa all’acquirente che lo sta osservando. L’uomo sussulta e lo guarda con astio. Poi si rivolge al mercante, paga e fa segno a Louis Valbois di seguirlo. Louis Valbois esita e il venditore fa schioccare la frusta. Louis Valbois china la testa e si rassegna.

Jean guarda suo padre allontanarsi. Spera di non rivederlo mai più. Si rivolge a Loret:

- Che cosa hai detto a quel tipo?

- Il suo padrone ha bisogno di un eunuco da mettere a guardia delle sue mogli, ma non ci sono eunuchi sul mercato oggi. Per cui quel figlio di puttana voleva prendere me e farmi il trattamento. Gli ho detto che dopo un po’ di tempo avrei raccontato al suo padrone che lui scopava con una delle sue donne. Allora ha preferito prendere tuo padre.

Jean rabbrividisce al pensiero di suo padre che segue quell’uomo senza sapere che cosa lo aspetta. Loret prosegue:

- Non ne ho per molto, lo so bene: creperò presto di fatica e stenti. Ma voglio morire con le mie palle.

Passa altro tempo. A un certo punto si avvicina un uomo che sembrerebbe un mercante cristiano. Non è molto alto ed è piuttosto grasso, con un viso rotondo. Si rivolge al mercante in arabo, ma poi chiede a Jean:

- Da dove vieni, ragazzo?

In Jean si accende una speranza folle. L’uomo è davvero un franco, come lui, quindi un cristiano. Lo comprerà per liberarlo, magari tenendolo al suo servizio? Lo riporterà nelle terre dei franchi? Non tutto è perduto, allora. Forse riuscirà a ritrovare Guillaume di Hautlieu. La Chiesa non vede di buon occhio che i cristiani siano schiavi di altri cristiani. Di certo l’uomo lo libererà o almeno accetterà che venga riscattato. E Guillaume in qualche modo lo riscatterà.

- Da Beauvoir, vicino al castello San Michele, dei Templari. Mi hanno catturato gli Hashishiyya, nella valle del Nahr.

L’uomo annuisce, poi riprende la contrattazione.

La discussione si fa animata e Jean teme che il mercante cristiano rinunci all’acquisto. Cerca disperatamente di seguire che cosa si dicono i due, ma capisce solo qualche numero. Chiede a Loret, che gli conferma le sue impressioni: l’uomo sembra davvero intenzionato a comprare Jean e ha offerto più di quanto abbiano fatto gli altri fino a ora. Infine il mercante cristiano fa un’altra offerta: il tono fa capire chiaramente che è l’ultima. Jean ha l’impressione che gli manchi il fiato. Il mercante storce la bocca, ma anche Jean intuisce che ha ceduto e che la protesta è solo pro forma.

Il mercante franco paga e Jean vorrebbe urlare per la gioia. Tornerà tra i cristiani, otterrà la libertà, ritroverà l’uomo che ama.

Sorridente, si rivolge a Loret:

- Ti auguro buona fortuna.

L’uomo gli risponde, cupo:

- Ne hai bisogno tu più di me.

Jean non capisce, ma intanto il mercante si rivolge a lui:

- Adesso vieni con me.

Jean gli dice:

- Grazie, signore.

Il mercante lo guarda. Sorride, ma non dice nulla. Jean lo segue.

Jean fa conoscenza con un altro schiavo cristiano, Guiot. Da lui apprende il nome del suo padrone, Roland di Chartres. Jean cerca di sapere qualche cosa di più sul suo padrone e sulle sue intenzioni. Guiot gli dice solo che il suo padrone intende raggiungere la terra tra i due fiumi, spingendosi fino a Bagdad, una città di cui Jean ha sentito molto parlare. Non torneranno tanto presto in territorio cristiano. Ma Roland di Chartres sta a San Giacomo d’Afrin, non lontano dal villaggio di Jean. Jean si dice che in qualche modo recupererà la sua libertà.

 

La sera, dopo cena, il mercante lo fa chiamare.

- Bene, ragazzo, adesso voglio vedere se ho fatto un buon acquisto. Spogliati.

A Jean sembra che il mondo gli crolli di nuovo addosso. Per questo il mercante lo ha comprato? Lo attende una nuova violenza?

Jean vorrebbe dire di no, ma sa che sarebbe inutile e non vuole contrariare il suo padrone. Spera ancora che il mercante possa liberarlo o almeno accettare il pagamento di un riscatto.

Jean si spoglia.

- In ginocchio, ragazzo.

Jean obbedisce. Il mercante si spoglia anche lui.

- Datti da fare, ragazzo, con la bocca.

Jean esita un attimo, ma sa di non avere scelta. Se vuole avere qualche speranza di recuperare la libertà, non deve irritare il suo padrone. Prende in bocca il cazzo del mercante, che incomincia a crescere di volume e ad acquistare consistenza. Jean lavora con la lingua e le labbra.

Si aspetta che il padrone gli dica di smettere e di offrirgli il culo, ma Roland di Chartres non lo interrompe. Jean continua a succhiare e leccare, finché sente la scarica del seme. Fa per ritrarsi, ma una mano di Roland gli afferra i capelli e gli impedisce di sottrarsi.

- Bevi, stronzetto, bevi, che è buono…

Roland ride. Jean inghiotte.

- Avevo proprio bisogno di un bello schiavo che mi succhiasse il cazzo. Da quando quel coglione di Michel ha cercato di scappare e l’ho mandato a lavorare in miniera, non ho più gustato una bocca decente.

La frase del padrone turba Jean. Sa benissimo che non l’ha detta a caso. Lo sta avvisando di non cercare di scappare, di non illudersi di godere di un trattamento di favore solo perché il padrone scopa con lui.

- Adesso puoi andare.

Jean va a dormire con gli altri schiavi.

Il giorno dopo Roland riparte verso est. Dopo qualche giorno raggiungono l’Eufrate e lungo il corso del fiume scendono fino a Bagdad.

Di giorno Jean lavora con gli uomini al servizio del mercante, che sono in maggioranza arabi. Jean si fa insegnare la loro lingua: se dovesse cercare di scappare, potrà servirgli. Impara in fretta: come gli dicevano sia Husan, sia padre Roger, è un ragazzo sveglio. Ma le settimane passano e la distanza che lo separa dall’uomo che ama cresce ogni giorno. Jean non sa neppure se Guillaume è ancora vivo. Potrebbe essere morto in battaglia. Allora Jean preferirebbe morire.

Si chiede se non tentare la fuga, ma sarebbe una follia: come riuscire a tornare nei territori franchi? Non possiede nulla e non padroneggia abbastanza la lingua per muoversi da solo. Finirebbe nelle mani di qualche altro padrone, con ogni probabilità un saraceno, e non riuscirebbe mai più a ritornare nel regno di Gerusalemme.

Infine, dopo otto mesi, il mercante si dirige verso i territori dei franchi. Jean si mostra obbediente, perché il mercante non diffidi di lui, ma ha intenzione di fuggire quando arriveranno tra i cristiani.

Roland di Chartres abita a San Giacomo d’Afrin: Jean ritorna così nell’unica città che ha conosciuto prima della prigionia. Ma ora che ha visto Aleppo, Damasco e Bagdad, San Giacomo d’Afrin non gli appare più così splendida come era nella sua memoria. È una cittadina che non regge il confronto con le capitali saracene: tutt’al più può paragonarsi con qualche centro minore, come Jabal al-Jadid, da cui sono passati lungo la via del ritorno.

A San Giacomo d’Afrin Jean ritrova la speranza. Ha capito benissimo che il suo padrone non lo libererà, neanche ora che sono in territorio cristiano. Ma non si trova più tra nemici e, se riesce ad allontanarsi, potrà cercare di ritrovare Guillaume di Hautlieu. Jean ha saputo che la battaglia contro il Saladino si è conclusa con una grande vittoria dei cristiani, che hanno subito pochissime perdite: conta che Guillaume sia ancora vivo. Ma quando pensa a lui, Jean si sente intimorito. È passato molto tempo. Il comandante lo vorrà ancora? Jean sa benissimo che Guillaume, anche se non lo volesse più, lo aiuterebbe comunque a trovare una sistemazione: è un uomo generoso e su di lui Jean sa di poter contare. Ma il pensiero che Guillaume possa non desiderarlo più lo fa soffrire. Non vuole pensarci: è un’idea troppo angosciosa.

Roland ha intuito le intenzioni di Jean o forse è soltanto diffidente per natura: nella casa di San Giacomo d’Afrin, lascia a Jean poca libertà. Durante il giorno Jean esce soltanto con il padrone; la notte, quando non viene chiamato da Roland, lui e due altri schiavi cristiani dormono in un locale che viene chiuso dall’esterno.

La prima notte, dopo che la porta è stata sbarrata, uno dei due uomini dice:

- Sei un bel ragazzo. Adesso vediamo che cosa sai fare.

L’uomo ride. Jean ha un brivido, ma l’altro uomo interviene.

- Non dire cazzate, Tobie. E soprattutto non farle. Il culo del ragazzo se lo gusta solo il padrone e la bocca pure.

- Va bene, Huguet. Diciamo che almeno mi fa una sega.

Tobie ride di nuovo. Ma Huguet dice:

- Sai benissimo che se lo racconta al padrone, ti trovi la schiena a strisce. O magari vai in miniera.

Tobie storce la bocca.

- Ragazzo, non hai voglia di divertirti un po’ con noi?

Jean scuote la testa.

- Va bene. Ma ti avviso: prima o poi il padrone si stuferà di te. Nessuno dura più di un anno o due. E allora ci prenderemo quello che adesso non ci hai voluto dare. E ti pentirai di averci detto di no quando potevi scegliere.

Jean sa che Tobie non mente. Si è già accorto che Roland di Chartres non lo manda a chiamare con la stessa frequenza di prima: scopano di meno. Lo schiavo Jibril gli ha detto che sulla via del ritorno, a Damasco, il padrone ha fatto un lungo giro per il mercato degli schiavi e ha contrattato per un ragazzo più giovane di Jean: ha rinunciato solo perché il venditore chiedeva troppo. L’idea di subire violenze dagli altri servitori angoscia Jean.

Deve riuscire a fuggire: la casa è ben sorvegliata, ma non è una prigione; avendo una certa libertà di movimento all’interno, prima o poi troverà l’occasione per eludere la sorveglianza, tanto più che nessuno sospetta le sue intenzioni. Jean è attento a mostrarsi sempre remissivo e rassegnato alla schiavitù.

Dopo un mese dall’arrivo a San Giacomo, Roland ordina a Huguet di portare un carico di merci da un altro mercante ed esce per i suoi affari. Il carico si rivela troppo ingombrante per essere portato da una persona sola. Huguet lo divide in due parti e chiede a Jean di accompagnarlo, anche se il padrone non l’ha ordinato. Jean acconsente, fingendo di farlo controvoglia.

Durante il tragitto cammina dietro Huguet, ma a un certo punto si infila in una strada secondaria, butta a terra il suo fardello e si mette a correre, scomparendo in fretta. Huguet se ne accorge dopo pochi minuti, ma non può abbandonare il carico per inseguirlo. Recupera ciò che Jean ha gettato a terra e maledice la propria ingenuità, che gli costerà cara.

Jean ha giocato il tutto per tutto, ma la sua situazione è disperata. Non conosce nessuno nella città: ha visto il barone, un anno fa, ma di certo non può rivolgersi a lui. Non sa a chi chiedere aiuto, ma non può pensare di cavarsela da solo. Cercare di allontanarsi dalla città presenta molti rischi: il padrone lo farà cercare e di sicuro i suoi uomini batteranno anche la campagna per trovarlo; prima che Jean abbia raggiunto Rougegarde o un’altra città, rischia di essere catturato. Deve trovare qualcuno che lo nasconda. Se ci fosse una casa dei Templari, Jean farebbe il nome di Guillaume e probabilmente otterrebbe aiuto. Prova a chiedere, ma gli viene risposto che i templari non hanno una loro casa in città. Decide allora di chiedere aiuto in una chiesa.

Jean evita di entrare nella prima chiesa che incontra, perché è ancora troppo vicino alla casa di Roland: ha paura che conoscano il suo padrone, che lo riportino indietro. Raggiunge invece la cattedrale. Ci sono alcuni fedeli in preghiera, ma non c’è un sacerdote. Jean va a cercarlo e lo trova intento a sistemare gli arredi sacri.

È un uomo sui quaranta, alto.

- Padre, posso parlarvi? Ho bisogno di aiuto.

L’uomo lo guarda, un po’ diffidente.

- Dimmi.

Jean racconta brevemente la sua cattura ad opera dei saraceni e l’acquisto da parte del mercante cristiano. Jean accenna anche, in modo velato, alle pratiche a cui si trova costretto: si è chiesto se farlo o meno, ma ha concluso che può essere un altro motivo perché il prete sia spinto ad aiutarlo. Il prete lo ascolta con attenzione. Poi gli chiede:

- E chi è il tuo padrone?

- Roland di Chartres.

Il sacerdote riflette un attimo, poi dice:

- Rimani qui, nella sacrestia. Nessuno ti verrà a cercare. Io vado a parlare con il vescovo: è qui da ieri. Devo sentire il suo parere.

Jean annuisce. Rimane seduto nella stanza. Attende a lungo. Si sta bene nella penombra di quel locale, lontano dal calore della strada. Se lo aiuteranno, potrà ritrovare Guillaume, tornare al castello, diventare soldato a fianco del suo comandante. Jean sa che non deve farsi troppe illusioni, ma si abbandona volentieri un momento ai sogni.

Il tempo passa. Non sa da quanto si trova nella sacrestia. Adesso ha sete e vorrebbe bere un po’ d’acqua, ma preferisce non muoversi: non vuole che qualcuno lo veda. Può attendere, la sete non è un problema.

La porta si apre. Roland di Chartres è sulla soglia. Dietro di lui il sacerdote. Jean impallidisce: ha capito. La sua fuga è finita e non avrà più nessuna possibilità.

Roland non dice nulla, fa solo un cenno. Jean si alza e lo segue: se ci fosse un’altra uscita, Jean cercherebbe di fuggire. Sarebbe un tentativo del tutto inutile, ma proverebbe. Roland si sta già allontanando lungo il corridoio.

Mentre esce, Jean guarda il sacerdote, che sussurra:

- Mi spiace, il vescovo ha deciso così.

Al fondo del corridoio ci sono Tobie e uno degli schiavi saraceni. Gli legano le mani e poi, tenendo un’estremità della corda, lo riconducono alla casa di Roland di Chartres.

Quando entrano nel cortile, il padrone lo fa spogliare e legare a un palo di sostegno del porticato. Poi dà ordine di prendere la frusta. Il suo sguardo è gelido e mentre assiste alla fustigazione Roland sorride, soddisfatto.

Jean subisce in silenzio. Il dolore cresce, diviene intollerabile, ma Jean vorrebbe che le frustate non finissero mai: vorrebbe la morte. La sua vita è finita. Non è rimasto nulla delle speranze, dei sogni, delle illusioni. Solo l’odio, infinito.

Tre notti dopo, quando Jean si è ripreso dalla fustigazione, Roland lo fa chiamare e si fa succhiare il cazzo. Poi gli sputa in faccia e lo rimanda tra gli schiavi.

 

Passa un altro mese. Roland di Chartres conta di ripartire in viaggio tra pochi giorni e dice a Jean che dovrà accompagnarlo. Quel pomeriggio stesso, Jean ha modo di parlare con Jibril, lo schiavo arabo con cui è più in confidenza.

- Non credevo che il padrone mi avrebbe portato con sé. Dopo che ho cercato di fuggire, sembra odiarmi.

- Proprio per quello ti porta con sé. Roland di Chartres non può accettare che uno dei suoi schiavi cerchi di fuggire. Vuole vendicarsi, Jean, come si è vendicato di Michel, il ragazzo che ti ha preceduto.

Jean ricorda questo nome: è stato il padrone stesso a parlargliene, tempo fa. Ora a sentirlo nominare si sente sgomento.

- Il padrone l’ha mandato a lavorare in miniera, vero?

- Sì. L’ha venduto a un saraceno che cercava uomini per il lavoro in miniera.

- Farà lo stesso anche con me?

- Può fare di tutto, Jean. E di sicuro farà quanto di peggio può fare. Si comprerà un altro ragazzo e ti venderà, ma si assicurerà che tu soffra il più possibile.

Jean china la testa.

- Che cosa posso fare?

Jibril non dice niente. Jean sa qual è la risposta: provare di nuovo a fuggire, anche se ora è molto più difficile di prima.

Jean sa che Jibril non si sbaglia: il suo padrone si sbarazzerà di lui presto. La sua unica speranza è riuscire a fuggire durante il viaggio, anche a costo di rischiare la vita. Ma ciò che lo aspetta non sarebbe vita. Non lo è neppure la sua esistenza attuale. Quando ha veramente vissuto? Tre giorni al castello, a fianco di Guillaume.

 

La situazione si modifica improvvisamente in modo del tutto imprevisto.

Due giorni prima della partenza, Roland di Chartres torna a casa con un giovane schiavo musulmano, che ha acquistato da un mercante di Santa Maria in Aqsa. È un ragazzo, forse ancora più giovane di com’era Jean quando fu venduto. Appare spaventato e Jean prova pena per lui.

Jean si pone domande. Adesso che ha un nuovo schiavo per le sue notti, il padrone lo porterà ugualmente con sé? O invece lo venderà qui, a San Giacomo d’Afrin?

Roland di Chartres esce nuovamente: ha molte cose da preparare per il viaggio e tornerà solo a sera. A un certo punto della giornata Jean si avvicina al nuovo schiavo e gli si rivolge in arabo:

- Come ti chiami?

- Rabi. E tu?

- Jean.

Il ragazzo sembra deluso.

- Non sei arabo?

- No, sono franco, vengo da un villaggio sui monti. Ma puoi fidarti di me.

- Come mai sei schiavo, se sei cristiano?

- Sono stato catturato e venduto al mercato di Aleppo.

Rabi china il capo.

- Anch’io sono stato catturato. Mio padre pagherebbe il riscatto, io l’ho detto al mercante che mi ha venduto, ma lui voleva i soldi in fretta, voleva ripartire per Aqsa il prima possibile. Pensi che il padrone accetterà che mio padre mi riscatti?

Jean rimane un momento in silenzio. La verità è un’altra, ma in ogni caso Rabi la scoprirà questa sera.

- Forse sì, ma non subito. Prima…

- Prima, che cosa?

- Prima ti porterà a letto.

Rabi spalanca gli occhi e incomincia a tremare. Non deve avere mai avuto rapporti con un uomo. Jean vorrebbe aiutarlo, ma che cosa può fare?

- Non è vero! Stai scherzando per prenderti gioco di me! Sei cattivo a dirmi queste cose.

Ma Rabi ha capito benissimo che è la verità.

- Mi spiace, ma è per questo che il padrone compra giovani schiavi.

Le lacrime appaiono negli occhi di Rabi.

- Temevo… non capivo che cosa dicevano lui e il mercante, ma da come mi guardava… mi ha anche palpato.

Rabi sta cercando di non piangere. Jean non dice nulla.

- Anche tu… anche tu…

- Sì, mi ha comprato per questo. Dopo che si sarà stancato di te, accetterà che tuo padre paghi il riscatto.

- Non voglio! Non voglio! Io…

Rabi incomincia a piangere, silenziosamente. Jean distoglie lo sguardo: quel dolore lo fa stare troppo male.

Dopo un momento Rabi parla di nuovo. Si è asciugato le lacrime:

- Jean, non si può fuggire?

Jean scuote la testa. Solleva la tunica e si volta, facendo vedere a Rabi la schiena, in cui sono ancora ben visibili i segni delle frustate.

- Io ho provato, Rabi. E sono cristiano e parlo la lingua dei franchi. Mi spiace, ma non vedo proprio come potresti fuggire.

In quel momento Jean sente urlare il suo nome: è lo schiavo Tobie che lo chiama per i lavori che devono fare. Jean stringe il braccio di Rabi e senza dire nulla si allontana.

 

La sera, quando la porta della stanza in cui Jean dorme viene chiusa, Huguet dice:

- Ho visto il nuovo schiavo e credo proprio che tra poco ti faremo gustare i nostri cazzi. Ti consiglio di incominciare questa sera, così saremo più gentili con te.

Jean sa benissimo che Huguet dice la verità: il padrone non lo chiamerà più e non interverrà se gli altri schiavi lo fotteranno. Jean si sente nuovamente sommergere dall’odio, un odio feroce, contro il padrone, il sacerdote che l’ha tradito, il vescovo, gli schiavi cristiani e l’intera città. 

Non dice nulla. Rimane in silenzio.

- Te ne pentirai, ragazzo, Ti assicuro che te ne pentirai. E ti farò pentire anche delle dieci frustate che mi sono beccato per colpa tua, quando hai cercato di fuggire, stronzo!.

Jean tace, ma si accorge di tremare. Non di paura: di rabbia.

Mezz’ora dopo la porta viene aperta. Jean si chiede come mai.

- Il padrone ti vuole, Jean. Muoviti.

Jean si alza. Come mai Roland di Chartres lo chiama? Ora ha un nuovo schiavo per le sue notti.

La stanza del padrone è illuminata dalla luce di una lanterna. Rabi giace a terra, nudo, in lacrime. Dal naso e dal labbro gli cola un po’ di sangue. Per terra ci sono i suoi abiti, lacerati.

Roland si rivolge a Jean:

- Adesso tu mi succhi il cazzo, così questo stronzetto vede come si fa. E se non mi ubbidisce, lo strozzo con le mie mani. Non me ne fotte un cazzo se ci rimetto i soldi che l’ho pagato.

Il padrone sembra furibondo. Jean nota che la mano destra è fasciata e la benda è macchiata di sangue. Rabi deve averlo morso.

Rabi urla, tra le lacrime:

- Mai, mai!

Roland di Chartres conosce l’arabo. Si avvicina a Rabi, lo prende per i capelli, lo solleva e lo schiaffeggia con forza. Rabi geme e grida ancora:

- Mai! Mai!

Il grido di Rabi esaspera Roland. Jean non sa che cosa sia successo prima che il padrone lo facesse chiamare, ma non ha mai visto Roland di Chartres tanto infuriato, neppure quando lui ha cercato di scappare. Allora la sua era una rabbia fredda, ora invece è una furia in cui Roland pare perdere ogni controllo.

- Va bene, figlio di puttana, l’hai voluto tu!

Roland mette le mani intorno al collo di Rabi e incomincia a stringere. Rabi cerca di allontanare le mani, ma l’uomo è molto più forte e le sue dita premono sul collo, togliendo il fiato a Rabi. Il ragazzo capisce che è finita.

In quel momento la stretta si allenta e Roland di Chartres cade addosso a Rabi.

Jean non saprebbe dire perché l’ha fatto. Ha capito che Roland avrebbe strozzato Rabi. Ha preso il primo oggetto che ha trovato a portata di mano, uno sgabello, e ha vibrato un colpo con tutta la sua forza. È forte Jean: si è addestrato come soldato e poi come schiavo ha fatto spesso lavori pesanti, oltre a soddisfare il padrone. Roland di Chartres giace supino al suolo e Jean sa che non si rialzerà più. Dalla sua bocca cola del sangue.

Rabi si è alzato. Guarda l’uomo al suolo. Ha capito anche lui che è morto. Si getta ai piedi di Jean che ha ancora in mano lo sgabello, gli prende la mano e gliela bacia.

- Grazie!

Jean scuote la testa. Rabi non ha nulla di cui ringraziarlo: morirà domani mattina, come Jean, anche se Jean si accollerà tutta la colpa. Jean rabbrividisce. Ha sentito parlare di tormenti orrendi inflitti agli schiavi che uccidono i padroni, per dare un esempio a tutti gli altri. Lui sarà il prossimo esempio.

È Rabi a scuoterlo.

- Fuggiamo, Jean. Se riusciamo a raggiungere Jabal al-Jadid, siamo in salvo. Mio padre ti coprirà d’oro, ti adotterà come figlio. Jabal al-Jadid non è lontana: in tre giorni ci arriviamo.

Jean scuote la testa. Come fuggire? Uscire dalla casa non dovrebbe essere difficile: non è una fortezza controllata da guardie, c’è solo un custode e non si aspetta certo che qualcuno fugga la notte, visto che gli schiavi sono chiusi nelle loro stanze, a parte loro due che sono con il padrone. Ma come uscire dalla città, le cui porte si aprono solo il mattino? Domani mattina i servitori troveranno Roland di Chartres morto e si metteranno alla ricerca degli schiavi fuggitivi. Jean si dice che nessuno verrà a chiamare Roland tanto presto, forse c’è davvero il tempo di lasciare la città. In ogni caso, non avrebbe senso non provarci.

Jean riflette ancora un momento, poi incomincia ad agire.

Pulisce il sangue, poi trascina il corpo di Roland sul letto. Si potrebbe pensare che stia dormendo.

Poi Jean prende le chiavi che il padrone ha posato su una cassa. Incomincia a frugare, fino a che trova il denaro. Ce n’è parecchio: Roland stava per partire in viaggio e aveva preparato una grossa somma.

Ora bisogna trovare un vestito per Rabi e uno, più decente di quello che indossa, per Jean. Jean attende che passi un po’ di tempo, poi raggiunge il magazzino, dove si procura tutto il necessario.

Rimangono nella casa per buona parte della notte. Jean dice a Rabi di dormire: il ragazzo non vuole stendersi sul letto su cui giace il corpo del padrone, per cui si corica su una stuoia e si addormenta. Jean lo guarda riposare. Probabilmente moriranno entrambi, ma Rabi sarebbe comunque morto se lui non fosse intervenuto.

Un altro pensiero tormenta Jean. Sa che in ogni caso, anche se non venisse catturato e giustiziato, non potrà mai più rivedere Guillaume: non potrà più rimettere piede nei territori cristiani, dove lo cercheranno come assassino di Roland di Chartres. Fino a poche ore fa, poteva sperare di riuscire a mettersi in contatto con Guillaume attraverso un templare: magari se fossero stati i templari a chiederlo, il padrone avrebbe accettato di venderlo, rinunciando alla sua vendetta, e Guillaume lo avrebbe riscattato.

Se fosse da solo, Jean non cercherebbe di fuggire: aspetterebbe la morte. Di vivere non gli importa più nulla. Ma vorrebbe riuscire a salvare Rabi, che da solo non riuscirebbe a fuggire.

 

Prima dell’alba Jean e Rabi si allontanano. Con grande precauzione, percorrono le vie della città e raggiungono il quartiere ebraico, che è stato in parte distrutto poco tempo fa. Qui possono aspettare l’arrivo dell’alba e l’apertura delle porte, senza rischiare di essere scoperti. Tra coloro che lasciano la città, c’è un gruppo di templari. Jean pensa che se li avesse incontrati il giorno prima, avrebbe potuto rivolgersi a loro e chiedere di avvisare Guillaume di Hautlieu. Ora è troppo tardi.

Escono insieme ad altri. Nessuno li ferma: sembrano un giovane signore e il suo schiavo saraceno.

Quando uno dei servitori entra nella camera del padrone e, non ricevendo risposta ai suoi richiami, lo tocca sulla spalla e sente il freddo della morte, Jean e Rabi sono già lontani. Hanno lasciato presto la strada, per passare tra boschi e campi. In un grosso villaggio, Jean si mette alla ricerca di due cavalli: hanno bisogno di allontanarsi in fretta e, dato che anche Rabi sa cavalcare, è la soluzione migliore. Jean ha parecchio denaro e riesce a ottenere ciò che cerca senza fatica: paga i due animali assai più del loro valore, ma quello che conta è raggiungere i territori sotto controllo saraceno.

Mentre percorrono una pista che sale lungo il fianco di una collina, Jean vede un gruppo di cavalieri dirigersi verso il villaggio. Cercano loro, quasi sicuramente. Incominceranno a chiedere in villaggio e qualcuno di certo ricorderà di averli visti. Jean si dice che loro due hanno un discreto vantaggio e che dovrebbero riuscire a seminarli. Raggiunta la cresta, Jean si gira un’ultima volta. Lungo la pista non si vedono i cavalieri: non sono ancora partiti al loro inseguimento. Jean guarda oltre, verso San Giacomo d’Afrin che appare in lontananza. Vorrebbe poterla distruggere, darla tutta alle fiamme.

 

*

 

Guillaume rilegge il messaggio che ha ricevuto. Non gli sembra possibile, eppure è realtà: Jean Valbois era schiavo a San Giacomo d’Afrin ed è fuggito dopo aver assassinato il suo padrone. Guillaume è un uomo forte, che ha affrontato tante volte la morte, ma in questo momento gli sembra di non riuscire nemmeno a stare in piedi.

 

È quasi un anno che cerca Jean, da quando è tornato dalla campagna contro i saraceni. Al castello di San Michele, Jorge gli ha comunicato che due giorni dopo la partenza di Guillaume, Jean si era allontanato dal castello e il padre lo aveva portato nella valle del Nahr, dove tutti gli uomini erano stati catturati dai saraceni. Di loro non si sapeva più nulla. Ancora oggi Guillaume si chiede come sia potuto accadere: Jean non aveva nessun motivo per lasciare la sicurezza del castello. Parlando con due cavalieri, Guillaume ha avuto il sospetto che la responsabilità sia da attribuire a Jorge da Toledo.

Guillaume ha cercato di raccogliere informazioni tra i saraceni, attraverso spie e mercanti. Ha scoperto che Jean è stato venduto ad Aleppo, ma non ha mai potuto sapere a chi. E ora scopre che Jean era in territorio franco, a San Giacomo d’Afrin dove Guillaume si è recato ancora non più di due mesi fa. Dopo l’omicidio di Roland di Chartres, un ricco mercante della città, il suo nome è sulle bocche di tutti e qualcuno di quelli a cui Guillaume si era rivolto per avere notizie lo ha udito e glielo ha comunicato.

Guillaume è sconvolto. Jean è un assassino. Pare che abbia ucciso il suo padrone per rubargli del denaro e che sia poi fuggito insieme a un giovane schiavo musulmano verso i territori dei saraceni. A Guillaume sembra impossibile.

 

2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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